RASSEGNA STAMPA 20 MARZO 2016 PER UNA NUOVA PRIMAVERA DELLE UNIVERSITÀ UNIVERSITÀ: SERVE UN MILIARDO PER RILANCIARE IL SISTEMA TROPPI I TAGLI ALL'UNIVERSITÀ UNIVERSITÀ I SOMMERSI E I SALVATI CAGLIARITANA LA PRIMA STUDENTESSA ERASMUS A TEHERAN TITOLI DI STUDIO: OGLIASTRA SOTTO LA MEDIA REGIONALE E NAZIONALE SOLO UN DOCENTE SU DIECI BOICOTTA LA VALUTAZIONE PUGNO DI FERRO SUI FUORI CORSO AL POLITECNICO DI TORINO LA MIA STORIA DI FUORI CORSO DA 43 ANNI ISEE MENO RIGIDO PER L’UNIVERSITÀ MATRICOLE, SCATTA L’ORA DEI TEST UNIVERSITARI ITALIANI SUPER TECNOLOGICI MA TROPPO SEDENTARI SEPARARE SCIENZA E POLITICA LA REGOLA DI NOI FISICI: PREMIARE CHI SBAGLIA» LIBERA SCIENZA IN LIBERO WEB CON LE RIVISTE PERDIAMO TEMPO PERCHÉ CONDIVIDERE I DATI DELLE RICERCHE LA FALSA SCIENZA: IMPOSSIBILE VERIFICARE 2,5 MILIONI DI STUDI COSÌ FIUTO LE BUFALE DALLE LORO PAROLE POLITICA, LAVORO, ATENEI: PARITÀ DI GENERE ANCORA UN'ILLUSIONE LA STELE DI ROSETTA ELETTRONICA CHE AIUTA GLI SPECIALISTI HUAWEI: IL FUTURO DELLE CITTÀ NASCE A CAGLIARI UNICA ORIENTAMENTO: RAGAZZI CERCANO L'ISPIRAZIONE NEGLI STAND UNICA: CRYPTOWARE: UNA GUIDA ALL’INFERNO DEI BITCOIN UNICA: SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE: SITO AZZERATO DAGLI HACKER ========================================================= SANITÀ, SPESA IN CRESCITA ISOLA ANCORA MAGLIA NERA AOUSS: LO SCORPORO HA PORTATO LO SBANDO COMPLETO AOUSS: PRIMARI IN RIVOLTA INCONTRANO ARRU PRENOTAZIONE DELLE VISITE ONLINE ITALIANI «MAGLIA NERA» IN EUROPA FINALMENTE LA SIRINGA HA IL SUO COSTO UFFICIALE ECCO LA CLASSIFICA DELLA SANITÀ PRIVATA LE DIFFERENZE DI GENERE E LA MEDICINA SPECIALIZZANDI, 24 MILIONI AGLI ISCRITTI NEI CORSI DAL 1983 SANITÀ: NEL GIUDIZIO CIVILE NON SERVE LA CERTEZZA LE PROMESSE DI TRUMP SULLA SANITÀ AMERICANA ORMONI TIROIDEI SINTETICI SOSTITUISCONO QUELLI NATURALI? INFIAMMAZIONI E DOLORE QUANDO LA CURA È GLACIALE TEST CON ANIMALI CI SALVANO NEGARLO È UNA LEGGENDA METROPOLITANA TUMORE ALLA PROSTATA LA TATTICA «ATTENDISTA» BEVI IL CANNONAU , E CAMPI CENT’ANNI IL 60% DEI COSMETICI AL MONDO È ITALIANO IL COLESTEROLO "BUONO" NON PROTEGGE SEMPRE IL CUORE FARMACI ANTI-DOLORIFICI (FANS) NEMICI DEL CUORE. ========================================================= ________________________________________________________ UNICA 16 Mar. ’16 PER UNA NUOVA PRIMAVERA DELLE UNIVERSITÀ LUNEDI’ 21 MARZO L’UNIVERSITA’ DI CAGLIARI ADERISCE ALLA MANIFESTAZIONE INDETTA IN DIFESA DELL’ALTA FORMAZIONE E DELLA RICERCA: ECCO LE INIZIATIVE PREVISTE IN CITTA’ Cagliari, 16 marzo 2016 – Anche le RAPPRESENTANZE SINDACALI UNITARIE dell’Ateneo aderiscono all’iniziativa del 21 marzo l’Università di Cagliari è mobilitata per aderire alla manifestazione indetta in contemporanea in tutto il Paese dalla Conferenza dei Rettori italiani. L’ateneo del capoluogo è stato tra i primi a sollevare con forza il problema dei tagli lineari e progressivi agli Atenei italiani in atto dal 2008. Si tratta di una scelta politica trasversale che, in coincidenza con la drammatica crisi globale e l’adozione di una radicale riforma organizzativa, si è tradotta nella perdita di oltre 10mila posizioni di ruolo in tutta Italia solo tra quelle per docenti e ricercatori, con tagli superiori al 13% del totale quando la media nel settore pubblico è stata ad oggi del 5%. Per effetto di queste politiche, il Fondo di Finanziamento Ordinario dell’Università di Cagliari (i fondi trasferiti dallo Stato) ha subìto una drastica flessione di quasi il 10% negli ultimi due anni, in forza di indicatori profondamente iniqui più volte denunciati dal Rettore Del Zompo. Per questo l’Ateneo di Cagliari aderisce alla manifestazione nazionale indetta dalla Conferenza dei Rettori italiani: il 21 marzo in ogni sede delle università italiane si terranno incontri e dibattiti pubblici per riaffermare il ruolo strategico della ricerca e dell’alta formazione per il futuro del Paese. Verranno discusse e raccolte idee e proposte da consegnare al Governo in un documento di sintesi unitario redatto dalla Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI). Il programma predisposto dall’Università di Cagliari prevede, al mattino del 21 marzo, una” passeggiata” per le vie del centro della città, durante la quale docenti, studenti e personale incontreranno la cittadinanza e distribuiranno volantini che spiegano i motivi della protesta. La partenza del corteo è fissata alle 10.30 dal Palazzo del Rettorato (via Università 40) per giungere al Palazzo civico di via Roma, dove nella Sala del Consiglio comunale i partecipanti saranno accolti dal sindaco Massimo Zedda e dal presidente del Consiglio comunale Goffredo Depau. Previsti gli interventi del Rettore Maria Del Zompo, del decano del Senato accademico, Patrizia Mureddu e del rappresentante degli studenti Roberto Vacca. Alle 16 – nell’Aula Magna del Rettorato in via Università 40 – si aprirà la conferenza dal titolo “Per una nuova primavera dell’Università in difesa del diritto all’alta formazione e del ruolo strategico della ricerca pubblica”, moderata da Pietro Ciarlo, Prorettore per la semplificazione e l’innovazione amministrativa. Dopo i saluti istituzionali del Prorettore vicario, Francesco Mola, sono previste tre relazioni: “L’Università in declino” del prof. Gianfranco Viesti (Università degli Studi di Bari Aldo Moro), “La questione meridionale dell’Università: una vera emergenza!”, del prof. Mauro Fiorentino (Università degli Studi della Basilicata), e “Costruire un nuovo rapporto tra impresa ed Università per supportare innovazione, occupazione e sviluppo”, del Presidente di Confindustria Sardegna, Alberto Scanu. Quindi l’intervento del presidente del Consiglio degli Studenti, Giuseppe Esposito, e le conclusioni del Rettore Maria Del Zompo. ________________________________________________________ Avvenire 20 Mar. ’16 UNIVERSITÀ. «SERVE UN MILIARDO PER RILANCIARE IL SISTEMA» PAOLO FERRARIO MILANO Vogliono inaugurare una "nuova primavera" delle università italiane, ma snocciolano dati che ri- mandano al gelo dell'inverno. Per domani la Conferenza dei rettori (Crui) ha promosso manifestazioni in tutta Italia per rilanciare il ruolo della ricerca e il suo valore per lo sviluppo del Paese. Una funzione resa sempre più difficile e faticosa, che spinge i rettori a «lanciare un allarme sul rischio di perdita di competitività internazionale» del nostro sistema. L'Italia, si legge nei «dieci punti all'ordine del giorno» preparati dalla Crui per la Giomata di domani, ha il numero di laureati più basso d'Europa (il 17% rispetto alla media Ue del 32% e alla media Ocse del 33%) e investe meno di tutti in ricerca (appena 109 euro per abitante rispetto ai 303 della Francia e ai 304 della Germania). Inoltre, mentre negli ultimi sette anni i fondi pubblici sono diminuiti del 9,9%, in Francia sono aumentati del 3,6% e in Germania addirittura del 20%. A questo proposito, per il 2016, ha detto ien il ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Stefania Giannini, «abbiamo un più 0,7%, che assomiglia alla pur debole ma significativa ripresa del Pil, nel bilancio delle università. Quindi—ha aggiunto — abbiamo invertito la tendenza, anche se si può fare molto meglio». Tra le urgenze cui porre mano c'è, per esempio, la costante caduta delle immatricolazioni. Sempre la Crui ricorda che, negli ultimi cinque anni, su 1.700.000 studenti, ne abbiamo persi 130mila, mentre dal 2008 al 2015, su 60.500 tra docenti e ricercatori, se ne sono andati in 10mila, mentre 5mila sono stati i dottori di ricerca in meno negli ultimi 5 anni. «Alla luce di questa situazione—dice il segretario generale della Cui e rettore dell'Università di Udine, Alberto Felice De Toni, annunciando un documento unitario di sintesi delle proposte per il rilancio del sistema — la prima misura da prendere, con urgenza, è riportare almeno ai livelli del 2008 il Fondo di funzionamento ordinario, stanziando subito un miliardo in più. Inoltre — aggiunge De Toni — è necessario un piano straordinario per il reclutamento dei ricerca- tori, anche richiamando quelli che sono all'estero. Infine, chiediamo un progetto di didattica per le lauree professionalizzanti». Dal rilancio del sistema universitario, ricorda la Crui, dipende anche la ripresa dell'economia dei territori su cui sono insediati gli atenei. «La presenza di un'università genera territori più ricchi», si legge nel documento della Conferenza dei rettori. Per ogni euro investito, il territorio ne guadagna un altro in termini di trasferimento di tecnologia, contaminazione di conoscenza, divulgazione, sanità e servizi peri cittadini, posti di lavoro diretti e indiretti, consumi dei residenti temporanei e migliore qualità della vita culturale. Infine, sottolinea la Crui, «l'istruzione universitaria crea individui più liberi e più forti». La laurea, infatti, «aumentala possibilità di trovare occupazione e consente di guadagnare di più. «Fatto 100 lo stipendio di un diplomato — si legge ancora nel documento della Crui — quello di un laureato è pari a 143, mentre la disoccupazione è al 30% tra i diplomati e al 17,7% tra i laureati». Un motivo in più per investire nell'università. ________________________________________________________ Italia Oggi 16 Mar. ’16 TROPPI I TAGLI ALL'UNIVERSITÀ Del 13% quando il resto della p.a. ha subito solo il 5% DI CARLO VALENTINI L’elefante diventa gazzella? Le università ci provano e per la prima volta, il 21 marzo, si danno una mossa. Tutte insieme, con una catena di iniziative dal titolo #primaverauniversità. Niente di nuovo sotto il sole se si risolverà in una rivendicazione di maggiori contributi pubblici, un importante appuntamento se, al contrario, com'è nelle intenzioni, si approfondirà in che modo gli atenei possono mettersi al passo coi tempi e partecipare al rilancio del Paese. In ogni caso le università si muovono e già questo può (forse) fare scrollare di dosso un po' di polvere. L'appuntamento è stato fissato dal Crui, la Conferenza dei rettori, che proclama: «Il 21 marzo in ogni sede delle università italiane, statali e non statali ,si terranno incontri e dibattiti pubblici per riaffermare il ruolo strategico della ricerca e dell'alta formazione per il futuro del Paese. Verranno discusse e raccolte idee e proposte da consegnare al governo in un documento di sintesi». Dice Gaetano Manfredi, che guida la Federico II di Napoli ed è a capo del Crui: «Il valore e la competitività scientifica delle nostre università è rimasta forte. E uniche tra le amministrazioni pubbliche le università sono finanziate sulla base dei costi standard e degli esiti delle valutazioni scientifiche». Però c'è pure il cahier de doléances: «Dal 2008 il sistema universitario italiano - dice- è soggetto a tagli lineari e progressivi delle risorse. Una scelta politica trasversale che, in coincidenza con la drammatica crisi globale e l'adozione di una radicale riforma organizzativa, si è tradotta nella perdita di oltre 10 mila posizioni di ruolo solo tra quelle per docenti e ricercatori, ovvero tagli superiori al 13% del totale quando la media nel settore pubblico è stata ad oggi del 5%». Tutto vero, ma chissà se il 21 marzo ci sarà posto anche per un esame di coscienza: le università italiane funzionano al meglio? Riversano sul Paese, in valore aggiunto, ciò che ricevono? L'Italia è assai lontana dall'obiettivo dell'Europa di avere entro il 2020 il 40% di giovani laureati. Siamo fermi al 23,9%, ultimo posto tra i 28 Stati dell'Ue. La regione con il maggior numero di laureati è il Lazio (31,6%) e si colloca su livelli pari a quelli del Portogallo. La Sardegna ha una percentuale di giovani laureati (17,4%) superiore solo alla regione bulgara dello Severozàpad. Un'altra ricerca effettuata tra i post- laureati ha registrato che il 56% degli occupati all'estero ritiene molto efficace gli studi universitari effettuati, in Italia la soglia si abbassa al 43,3%. Inoltre si sta riducendo il numero degli immatricolati e tutto questo, secondo un Rapporto della Fondazione Res (Ricerca su economia e società) «rischia di generare un effetto boomerang per il futuro. In un sistema economico che richiederà sempre più mansioni lavorative differenziate e non ripetitive per lavori altamente qualificati e creativi, non avere abbastanza laureati potrebbe generare un vulnus per la competitività delle imprese». Tante le iniziative di #primaverauniversità. A Bologna parteciperanno, accanto ai rettori emiliani, il ministro Graziano Delrio e il presidente regionale di Confindustria, a Padova hanno scelto invece (anche) uno spettacolo della Banda Osiris, a Cagliari vi sarà una passeggiata-corteo dal palazzo civico al rettorato poi un convegno col presidente di Confindustria Sardegna, ad Alessandria parteciperanno due politici, con Enrico Borghi e il senatore Daniele Borioli, a Trieste il meeting sarà trasmesso via streaming, i rettori lombardi si ritroveranno alla Bicocca, quelli romani a Tor Vergara, a Pavia hanno ideato lo Speakers' Corner, dove studenti e docenti potranno illustrare (in 7 minuti) le loro proposte. I più arrabbiati sembrano i toscani, i rettori corregionali di Matteo Renzi hanno firmato un duro documento in cui si propone il "blocco di tutti gli atenei con uno sciopero generale da organizzare con la massima partecipazione e il coinvolgimento di tutte le componenti della comunità accademica come passo necessario verso una agitazione e una mobilitazione permanente finché non si verificherà una reale inversione di rotta da parte del governo». Anche negli atenei ci sono i duri-e-puri. Sarà interessante verificare i risultati di questa singolare giornata di primavera. Al tema fondamentale, aggiunge Manfredi - è rafforzare il sistema nazionale, sia aumentando la capacità di attrarre i giovani attraverso un sistema più efficiente di diritto allo studio, sia attraverso una maggiore offerta didattica che guardi in particolare alle lauree professionalizzanti, quelle maggiormente in grado di garantire un lavoro una volta terminati gli studi. E inoltre importante che le nostre università non siano solo centri di formazione e ricerca, ma agenti sociali ed economici, motori dello sviluppo e della trasformazione dei territori e della società. Per questo occorre favorire le potenzialità relazionali tra atenei e mondo economico». Dopo la cura dimagrante le università dovrebbero riposizionarsi sulla rampa di lancio. La crisi economica ha infatti inciso sugli atenei. I docenti sono scesi a 52.000 (erano 62 mila nel 2014), il personale tecnico amministrativo si è ridotto da 5.634 a 4.628. Sono diminuiti anche gli studenti immatricolati: 260 mila rispetto ai 326 mila del 2014. Un esempio di ripensamento del ruolo dell'università arriva da Urbino, dove l'università ha deciso di attivarsi rispetto al mercato del lavoro. Spiega Tonino Pencarelli, delegato del rettore all'orientamento e al tutorato: «Le università possono interagire con la rete di servizi per l'impiego con attività di job placement (accoglienza, informazione, orientamento ecc.) affiancando la ricerca e la formazione tradizionali. La nostra università Carlo Bo in particolare sta lavorando alla mediazione co:n il mercato del lavoro e si è iscritta all'albo informatico delle agenzie per il lavoro tramite il portale ClicLavoro, iniziativa che prevede il trasferimento dei curricula all'interno del portale». Che vi sia bisogno di un maggiore coordinamento tra università e mercato del lavoro emerge anche dai dati Eurostat, che indicano che hen il 28% degli occupati italiani classificati come manager ha completato tutt'al più la muoia dell'obbligo e la quota di manager italiani laureati è mento della metà della media europea: i manager laureati nell'Unione europea sono il 54%, mentre in Italia la percentuale è del 25%. ________________________________________________________ Il Giornale d’Italia 16 Mar. ’16 UNIVERSITÀ: LE MIGLIORI OXFORD, CAMBRIDGE E L'IMPERIAL COLLEGE DI LONDRA Le italiane non raggiungono il podio. La Normale di Pisa è al 50esimo gradino su 200 istituzioni I propri figli bisogna mandarli alle università inglesi, sono le migliori. A rilevarlo il "Times Higher Education World University Rankings che ha stilato una classifica per il 2016 in una lista di 200 istituzioni più ad alto livello per 22 Paesi. L’italiana Normale di Pisa si piazza, purtroppo al 50esimo gradino. Mentre sul podio ci sono: Oxford, Cambridge e l'Imperial College di Londra. Nella top 5 anche l'ETH di Zurigo e lo University College di Londra (UCL). La Germania è il secondo Paese più rappresentato con 36 università in classifica dopo la Gran Bretagna: 11 delle università tedesche sono nella top 50. La più accreditata è la Lmu di Monaco, al decimo posto. Per l'Italia sono state inserite nella classifica 19 università, ma soltanto la Normale rientra nelle prime 50 posizioni. Seguono la Scuola Superiore Sant'Anna al 90esimo posto, l'università di Trento (110), il Politecnico d i Milano, l'Università di Bologna, la Sapienza di Roma, l'università di Padova, l'Università di Trieste, l'Università di Milano, l'Università di Torino, la Federico II di Napoli, l'Università di Pavia, l'Università di Firenze, Milano-Bicocca, l'Università di Verona, il Politecnico di Torino, l'Università di Modena e Reggio Emilia, Roma II-Tor Vergata e Roma III. Tra gli altri Paesi top performer in Europa, la Scandinavia piazza 11 istituzioni svedesi e sei finlandesi nella classifica. Anche la Danimarca si piazza bene tra i Paesi di piccole dimensioni con sei università, la prima al 33esimo posto è quella di Copenhagen. Stesso discorso per l'Irlanda. La Russia ha soltanto cinque università nella top 200 e una nella top 100 (l'Università di stato Lomonosov di Mosca): con questo ranking risulta l'ultimo Paese nel rapporto tra popolazione e Pil. Anche la Spagna entra in classifica con soltanto cinque università: la prima è l'Università di Barcellona (70esimo posto). Le università vengono valutate in base all'ambiente di insegnamento, la ricerca, le citazioni (l'influenza della ricerca), introiti e prospettive internazionali. Elvira Mam ________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Mar. ‘16 UNIVERSITÀ I SOMMERSI E I SALVATI di Ernesto Galli della Loggia L’Italia che insegna e che studia, che ricerca e scrive libri cercando anche così di conservare al Paese il suo posto tra gli altri del mondo, non solo è sempre più povera (come si sa destiniamo all’istruzione superiore la cifra di gran lunga più bassa tra tutti i grandi Paesi europei), non solo appare sempre più divisa tra Nord e Sud, ma ormai vede aprirsi all’interno dell’istituzione universitaria una drammatica frattura tra ambiti culturali. Da un lato quelli destinati a restare importanti e centrali, dall’altro quelli destinati invece, se le cose continueranno così come oggi, a spegnersi più o meno rapidamente. Detto in breve, dall’insegnamento universitario — e quindi prima o poi anche dall’intero universo di capacità conoscitive e di studio degli italiani — dovrà scomparire innanzi tutto il passato. L’Italia non dovrà più interessarsi di alcun aspetto del mondo che abbiamo alle spalle, dei suoi eventi, delle sue idee, delle sue produzioni artistiche. Ma non solo. Dovrà farla finita anche con una buona parte di quei saperi astratti come la filosofia, la matematica, o con altre scienze esatte non sufficientemente utilizzate dall’apparato produttivo. Non sto scherzando. Sto semplicemente scorrendo i dati meritoriamente raccolti e ordinati da Andrea Zannini, un valente docente di Storia moderna dell’Università di Udine, e pubblicati sul sito Roars (Return on academic research). Dati che riguardano gli effetti che ha avuto sulle varie aree scientifiche il processo di contrazione del corpo docente accademico che si è verificato negli ultimi sette-otto anni. In complesso, nel periodo tra il 2008 e il 2015, tale contrazione è stata del 12 per cento (la maggiore, io credo, verificatasi nel pubblico impiego: da 62 mila a 54 mila persone circa) a causa di tre fattori soprattutto: il taglio generale dei fondi a tutto il sistema universitario, le nuove assunzioni limitate a una percentuale ridottissima rispetto al numero dei pensionamenti, il nuovo sistema di scorrimento delle carriere. Ma tale contrazione — ed è questo il punto — non è stata eguale per tutti. Al contrario. Essa ha diviso spietatamente i sommersi dai salvati, i settori disciplinari che hanno visto il numero dei propri effettivi diminuire percentualmente solo di poco, ovvero restare tali e quali e talvolta addirittura crescere; e quelli che viceversa sono stati ridimensionati in misura brutale fino alla prospettiva di una virtuale cancellazione entro un tempo non troppo lungo. Le discipline storiche sono state quelle più duramente colpite, seguite a ruota da quelle filosofiche. In neppure un decennio esse hanno visto i loro addetti diminuire rispettivamente del 27,8 e del 22,1 per cento (con punte di oltre il 32 per cento nel caso di «Storia moderna», «Storia della filosofia», «Storia delle religioni» e «Storia del cristianesimo», mentre «Storia medievale» è a meno 29,4 per cento e «Storia contemporanea» a meno 25,1). Ma messi assai male appaiono anche il settore geografico, con una decurtazione di oltre il 20 per cento e il raggruppamento letterario-artistico con un calo del 19,2 per cento. Anche tra le discipline in senso lato umanistiche vi sono però figli e figliastri. Di fronte alle discipline demo-etno-antropologiche, ad esempio, che perdono oltre il 25 per cento degli addetti si segnalano le materie pedagogiche che invece fanno segnare quasi tutte ottime performance con il record ottenuto da «Pedagogia sperimentale» con un bel più 25 per cento di aumento. Il raggruppamento disciplinare (comprendente più discipline) in assoluto più baciato dalla fortuna risulta comunque quello d’Ingegneria, che addirittura cresce del 2,1 per cento. Vengono subito dopo quelli delle materie economiche, sociologiche e giuridiche, tutti con diminuzioni poco significative. Non quello di Medicina — e forse qualcuno si stupirà — la cui consistenza esatta è peraltro difficile da calcolare per la commistione/sovrapposizione con il Servizio Sanitario Nazionale. Come si vede la divisione tra i sommersi e i salvati non è propriamente tra settori umanistici e settori scientifici. Prova ne sia che le discipline matematiche e informatiche, quelle fisiche, quelle biologiche e quelle geologiche, fanno segnare tutte decrementi tra il 12 e il 20,5 per cento. Ciò che fa la differenza è altro. È il potere che ogni raggruppamento disciplinare (cioè i suoi docenti) sono in grado di procacciarsi e di esprimere in relazione a tre parametri soprattutto: l’accesso a finanziamenti privati (che è quasi nullo per le scienze di base e per le discipline umanistiche mentre è massimo per le scienze applicate: vedi Ingegneria et similia), la contiguità-intrinsichezza con il potere politico-amministrativo (è il caso delle discipline pedagogiche divenute ormai una sorta di altra faccia del ministero dell’Istruzione), e infine la presenza negli organi di autogoverno dei singoli atenei. Qui soprattutto sta il punto forse più importante, dal momento che sono tali organi di autogoverno (Rettore, Consiglio d’amministrazione) quelli che in pratica gestiscono le risorse e la loro distribuzione tra i diversi raggruppamenti disciplinari, decidendo così delle nuove assunzioni da parte di ogni singola sede universitaria. Ebbene, in un numero crescente di atenei ormai da tempo il gruppo di comando è nelle mani di un blocco formato perlopiù intorno a un nucleo ingegneristico-medico-giuridico il quale — forte del peso costituito sia dalla propria entità numerica che dalle proprie specifiche competenze, certo più utili a governare di quelle di un filosofo o di un biologo — ha finito per monopolizzare di fatto il potere. Ed è incline a utilizzarlo, com’è inevitabile, per fare gli interessi innanzi tutto delle proprie discipline di appartenenza. È in questo modo che l’Italia decide del suo futuro culturale e della direzione che prenderanno i suoi studi; decide che cosa sarà delle sue non proprio indegne tradizioni in alcuni campi del sapere. Nella completa latitanza della politica, da tempo rappresentata da ministri dell’Istruzione politicamente insignificanti, perciò incerti e timorosi di tutto, sempre prigionieri dei più triti luoghi comuni, e dominati dalle corporazioni accademiche forti alle quali addirittura essi stessi per primi talvolta appartengono. ________________________________________________________ La Stampa 15 Mar. ’16 CAGLIARITANA LA PRIMA STUDENTESSA ERASMUS A TEHERAN TRA VELO, TÈ E KEBAB Valentina, cagliaritana: "Rimproveri solo per la maglietta corta" Ho scoperto un popolo caldo e accogliente, in un Paese vivo, in movimento: sono stata felicemente colpita da quanto tutti fossero interessati a me. Quando scoprivano che ero italiana rimanevano affascinati, anche perché ero una delle prime persone occidentali che incontravano: conoscono comunque il nostro Paese molto meglio di quanto noi conosciamo il loro». Occhi svegli e vivaci, lunghi e ribelli capelli castani faticosamente coperti da un colorato hijab, parole soppesate per non far travisare nessuna delle sfumature che l'hanno accompagnata in questi sei mesi: Valentina Simeone, 21 anni, studentessa di lingue dell'Università di Cagliari è la prima universitaria europea ad aver svolto l'Erasmus in Iran. Apripista Nessuna universitaria europea ha svolto l'Erasmus in Iran prima di Valentina Simone impatto, è andato tutto bene». L'inserimento Il velo in testa, il manto almeno fino alle ginocchia, i gomiti mai esposti: giorno dopo giorno Valentina prende confidenza con la nuova quotidianità. «Ogni tanto per strada qualcuno, soprattutto donne, mi rimproverava se avevo i capelli non totalmente nascosti o se la maglietta era troppo corta. Ma quando capivano che ero straniera quasi si scusavano. Poi spiegavano qual era l'abbigliamento più consono, in modo rispettoso. In altri ambiti sono stata più scanzonata: le ragazze, ad esempio, non rivolgono quasi mai la parola ai ragazzi. Io con i miei compagni di classe ho sempre chiacchierato senza problemi». Le ore di lezione e lo studio incessante per preparare gli esami. Né alcol né discoteca, ma tanti locali in cui bere tè o caffè e passare il tempo con giochi in scatola. Internet, ma non Facebook perché è bloccato. Scorpacciate di riso, pollo e kebab, con il saltuario tentativo di far assaggiare la pasta italiana alle coinquiline. Il giorno per giorno di Valentina è stato in stile Erasmus, in un continuo confronto tra usanze, consuetudini, ambizioni, reciproche confidenze e la testa protesa al futuro. «Ho avuto la fortuna di essere qui proprio quando è finito l'embargo. Il primo effetto è stato l'aumento repentino dei turisti. Per i giovani è stata un'iniezione di energia: hanno voglia di occidente, di partecipare, di conoscere, di essere protagonisti dello sviluppo dell'Iran». Oltre ad aver perfezionato la lingua, in questi sei mesi la cagliaritana si è chiarita le idee sulla sua tesi di laurea, sui rapporti tra Italia e Iran. Per poi avviarsi verso una carriera diplomatica. «Ho vissuto un'opportunità che mi ha dato l'occasione di riflettere su tanti aspetti. Come la fede, certa e incrollabile, di tutti questi giovani: non un fardello, ma un dono, che testimoniano con naturalezza in ogni loro gesto. Essere immersa in questa dimensione mi ha portato a rivalutare la religiosità e a capire più in profondità le mie origini e la mia identità». Pioniera Un'avventura pionieristica, non senza difficoltà, che la giovane sarda ha vissuto con entusiasmo e ostinazione, come ci racconta dalla sua camera nel dormitorio femminile di Teheran. «L'inizio, ammetto, è stato traumatico: conoscevo pochissime parole di persiano e non era facile incontrare persone in grado di parlare inglese. Era il primo scambio universitario, quindi nessuno sapeva come comportarsi con me: per fortuna la madre di una mia vecchia professoressa abitava in città e mi ha aiutato a orientarmi, a trovare un posto letto e a sistemare le varie burocrazie. Anche se pensavo proprio di non farcela a integrarmi: temevo che il mio abbigliamento e il comportamento potessero tenere lontani gli altri studenti. Invece, superato il primo ________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Mar. ‘16 LANUSEI. TITOLI DI STUDIO, L’OGLIASTRA È SOTTO LA MEDIA REGIONALE E NAZIONALE I laureati sono sempre meno, numeri dalla scuola lumaca Sono sempre i migliori a migrare verso altri lidi, specie quando si parla di istruzione. I dati Istat sulla popolazione residente, elaborati da un puntuale studio a cura dell’associazione Agugliastra, fanno emergere un quadro poco rassicurante della popolazione ogliastrina. La quota dei laureati residenti da più di sei anni è pari all’8 per cento, due punti percentuali in meno della media regionale, tre di quella nazionale. Nulla di cui essere orgogliosi. DIPLOMATI Dati di recente pubblicazione, disaggregati a livello comunale, offrono un quadro generale. I diplomati in Ogliastra sono il 22 per cento della popolazione a fronte di una media sarda pari al 26 per cento e nazionale del 31 per cento. In molti casi il percorso scolastico nella terra dei centenari si ferma alle scuole medie. L’Istat fissa al 38 per cento coloro che hanno raggiunto la licenza media. Valori più bassi sia nel resto dell’isola (35 per cento) che in Italia. In linea con i numeri regionali quelli sulla scolarizzazione primaria, intorno al 20 per cento. Gli ogliastrini alfabetizzati ma privi di titolo di studio sono l’11 per cento (più 3 rispetto alla media nazionale). I PAESI DOTTI La scala comunale cancella diffusi luoghi comuni sui paesi più “dotti”. Almeno per quanto riguarda i cervelli residenti. Primo posto per Lanusei (13 per cento), quota laureati superiore alla media nazionale, seguita da Jerzu (10,5), Villagrande (10,3) e Tortolì (9,9). In coda Triei (3 per cento, paese simbolo dell’emigrazione giovanile), Talana (3,3) e Gairo (3,8). Gairo e Triei chiudono anche la classifica per i diplomati con il 12,3 e il 15, 6. In testa Lanusei (27,4) e Tortolì (26, 7). ANALFABETI Le dolenti note sull’analfabetismo dicono che 15 comuni su 23 hanno valori superiori alle media regionale ferma all’1,3 per cento. Sul podio di questa speciale classifica si piazzano Urzulei (2,5), Loceri (2,4) e Triei (2 per cento). I valori migliori riferiscono tassi prossimi allo zero a Elini, Jerzu e Cardedu. Agugliastra osserva come manchino all’appello i dati disaggregati per classi di età, utili a porre la lente d’ingrandimento sulla delicata fascia di età di giovani dai 30 ai 34 anni. L’Europa pone come obiettivo per il 2020 il 40 per cento di laureati in questa fascia d’età. «Per affrontare qualsiasi sfida in tema di sviluppo - dicono da Agugliastra - non si può non partire dall’istruzione». Un invito da accogliere come un buon auspicio. Simone Loi ________________________________________________________ Il Secolo XIX 16 Mar. ’16 SOLO UN DOCENTE SU DIECI BOICOTTA LA VALUTAZIONE PRESTO LA CLASSIFICA DEGLI ATENEI SULLA RICERCA Quasi il 90 % si è sottoposto all'esame ministeriale per assegnare i fondi all'Università A DUE ANNI dalla sua prima edizione, la nuova Vqr, la valutazione della ricerca delle università italiane, si è chiusa ieri con un'adesione superiore alle aspettative. All'Università di Genova soltanto l'11% dei docenti ha scelto di non farsi valutare dall'Anvur, l'agenzia nazionale che ha il compito di coordinare la Vqr e di stilare una classifica degli atenei e dei dipartimenti per attribuire i fondi che premiano la ricerca di buon livello. L'11% di astenuti è una percentuale inferiore a quella preannunciata qualche mese fa, quando interi dipartimenti dell'ateneo genovese avevano manifestato la volontà di boicottare la valutazione. Non per negligenza, ma perché contrari ai criteri adottati dall'Anvur. L'agenzia misura la produttività e ad ogni docente chiede di presentare due lavori pubblicati negli ultimi quattro anni. Se uno ha pubblicato venti lavori, deve comunque presentarne due. In questo modo si rischia di perseguire una linea di mediocrità. Negli ultimi mesi sia il rettore, Paolo Comanducci, che i direttori di dipartimento hanno fatto molto per convincere i colleghi a partecipare alla Vqr, perché maggiori le astensioni minore il punteggio finale assegnato all'ateneo e, dunque, minore il finanziamento ministeriale. «Nel mio dipartimento», racconta il direttore di lingue, Michele Prandi, «alcuni mesi fa erano in sedici a dire di volersi astenere. Alla fine sono rimasti in cinque». La "moral suasion" ha funzionato. «Non capisco - dice Prandi - quelli che dicono che due pubblicazioni sono troppo poche. Dimenticano che questa non è una valutazione della qualità dei professori, ma del livello di produzione del dipartimento. Io stesso negli ultimi quattro anni ho pubblicato una ventina di lavori. Ma sarebbe impensabile, per una commissione nazionale che deve esaminare moltissimi casi, riuscire a valutare seriamente più di due lavori a persona». F. MAR ________________________________________________________ La Stampa 17 Mar. ’16 PUGNO DI FERRO SUI FUORI CORSO AL POLITECNICO DI TORINO: "Chi. non ha i crediti è fuori" I prof: incentiviamo il merito. Ma gli studenti: lo fanno per soldi Gli studenti verranno «espulsi» e si troveranno a dover ripetere il test d'ingresso, per contendersi il posto con chi è fresco di maturità. Una scelta di qualità, o al contrario un accanimento contro chi già fa più fatica? La ricetta draconiana è stata introdotta dal regolamento studenti appena approvato con il voto contrario proprio degli studenti. Novità all'insegna della «fine ricreazione». A far la differenza tra i sommersi e i salvati saranno il numero di crediti e la tempistica: un inasprimento che ha più di una causa e che si sta verificando in varie parti d'Italia, tanto che si parla di «guerra ai fuoricorso», con atenei che innalzano le tasse o lanciano ultimatum, come a Torino. Qui, peraltro, negli ultimi anni in controtendenza con buona parte del Paese, le matricole sono in costante aumento. Diecimila le domande l'anno scorso, per meno della metà dei posti. Il tasso di fuoricorso oscilla tra il 30 e il 40%. Pur sempre al di sotto della media italiana per le aree di ingegneria e architettura, al 47% secondo Almalaurea, ma in linea o leggermente superiore alla media del Nord Italia. Al politecnico torinese finora non c'erano limiti ai fuoricorso, se non restrizioni - anche queste contestate - all'accesso alla magistrale sulla base della media e del tempo con cui si finiva la triennale, e nessun diritto a riduzioni delle tasse. Dal prossimo anno accademico, chi si iscrive ha due anni di tempo per finire un semestre, ma la misura (pare dopo un braccio di ferro con gli studenti) non è «retroattiva»: per chi è già iscritto, la clessidra torna piena e il conteggio degli anni fuoricorso riparte da zero. Se le regole si applicassero agli attuali studenti, quanti verrebbero espulsi? Circa 400 solo nei primi due anni, più alcune migliaia degli altri anni. «Che senso ha restare parcheggiati qui per tanto tempo? - si domanda il rettore Marco Gilli -. Con queste nuove misure gli studenti capiscono se è una strada che fa per loro oppure no». C'è poi l'aspetto economico. Una parte dei fondi che arrivano dal ministero vengono assegnati sulla base solo del numero degli studenti «regolari». Mica briciole: «Nel 2015 il Miur ci ha dato circa 1500 euro per ognuno dei 20 mila studenti a posto con gli esami, per un totale di 30 milioni. Ma i fuoricorso sono circa 11 mila, tra questi ce ne sono addirittura 3200 del vecchio ordinamento, iscritti prima del 2006». Significa, occhio e croce, perdere ogni anno 15 milioni di euro dal ministero, se quegli studenti non fossero fuoricorso, e la cifra destinata ai regolari è destinata a salire nei prossimi anni. Ma per il rettore quello economico è solo uno degli aspetti, e neanche il più importante. «Abbiamo deciso di puntare su studenti di qualità - dice Gilli -. Perciò, sempre quest'anno, abbiamo introdotto una soglia minima per il test di ingresso. Portare gli studenti a non finire fuoricorso è un servizio al Paese, che ha bisogno di giovani laureati nei tempi giusti». L'obiezione dei rappresentanti degli studenti, della lista Alter Polis, è che «i fuoricorso non sono una zavorra da combattere, ma studenti in difficoltà da aiutare, con esami ad hoc, più formazione e tutoraggio individuale». E sul test di ingresso promettono battaglia: «Se il test ha la valenza di un concorso di ammissione, è insensato imporre a uno studente di ripetere nuovamente la stessa prova». Ma dall'ateneo replicano: «Abbiamo avuto il via libera dai nostri uffici legali». ________________________________________________________ La Stampa 18 Mar. ’16 LA MIA STORIA DI FUORI CORSO DA 43 ANNI ROCCO MOLITERNI Lo ammetto, non sono uno studente modello. Mi sono iscritto al corso di laurea in ingegneria mineraria del Politecnico di Torino nell'anno accademico 1972/1973 e non mi sono ancora laureato. In Italia le miniere non esistono più e neppure quel corso di laurea, ma io continuo a figurare fra gli iscritti all'ateneo torinese. Credo di essere uno dei fuoricorso più longevi dell'intero pianeta universitario italiano. Così ho preso come un fatto personale l'iniziativa del Poli (a Torino lo chiamiamo familiarmente così) di dare una stretta sui fuoricorso con l'intento di ridurne il numero se non di eliminarli perché mai? Io ho continuato a pagare le tasse e quindi non vedo perché dovrebbero eliminarmi. Anzi proprio per i miei contributi economici un tempo vagheggiavo che, come succede nelle cattedrali, in qualche aula o laboratorio mettessero una targhetta con su scritto «tecnigrafi (strumenti forse sconosciuti agli studenti di oggi: servivano per disegnare quando non c'erano ancora i computer) acquistati grazie alle tasse versate da Rocco Moliterni». Non ho mai fatto i conti esatti ma con 43 anni di versamenti (un tempo due o trecentomila lire l'anno, ora minimo 1400 euro se ho ben interpretato il sito della segreteria e ho alcuni anni arretrati da pagare) un po' di tecnigrafi o di computer si rimediano. Per altro in tutti questi anni ho visto più volte considerare i fuoricorso o gli studenti lavoratori ora figure da agevolare ora da eliminare Io non mi sono mai particolarmente preoccupato, prima che scadessero i sette anni canonici per la decadenza sostenevo un esame o cambiavo piano di studi. L'ultimo esame l'ho «dato» quattro anni fa e ora non dovrei più correre pericoli, perché per legge (statale) una volta che hai «dato» tutti gli esami puoi laurearti quando vuoi. «E allora cosa aspetti a farlo?» mi chiedono tutti. Certe decisioni vanno prese con cautela e poi devo ancora finire la tesi. La prima volta che ne ho depositato il titolo fu nel 1980. Allora si trattava di un lavoro sperimentale finanziato dalla Comunità Europea sulla possibilità di immagazzinare i gas provenienti dall'Algeria nelle miniere di sale siciliane. Ricordo un viaggio bellissimo nell'isola (non c'ero mai stato) in un luglio assolato, con l'arrivo a Palermo dal mare, perché agli studenti, a differenza dei docenti, la facoltà non pagava l'aereo, ma la nave sì. L'ultimo titolo l'ho depositato quattro anni fa, c'entra ancora il gas, ma questa volta si tratta di ripercorrerne l'immagine nelle pubblicità uscite sulla «Stampa» (en passant penso di cambiarlo ancora perché oggi mi sembra «più utile per la mia formazione» studiare gli archivi del Museo di fotografia industriale di Bologna). Quando mi sono iscritto alla facoltà di Ingegneria questa era un universo plumbeo e maschile al 99 per cento. Le ragazze al massimo aspettavano fuori dei cancelli (l'ingresso del Poli ricorda un po' quello di una fabbrica) l'uscita degli studenti dall'immancabile valigetta 24 ore, con la calcolatrice e i fogli di carta millimetrata. Oggi faccio fatica a capire se ci sono più ragazzi o più ragazze e sembra di essere, per i mille colori, nei corridoi di un liceo. Eppure la mia fu una partenza sprint: presa la maturità classica mi iscrissi a Scienze Politiche, dopo tre mesi decisi che con quegli studi non avrei mai trovato lavoro e passai a ingegneria. Allora i corsi erano organizzati in modo inverso a oggi: c'era prima un biennio comune a tutti gli indirizzi e poi il triennio di specializzazione (da ingegneria aeronautica a mineraria). Se non davi sette esami entro il biennio finivi fuoricorso. Ebbene io li diedi e ricordo ancora lo sconcerto e la sorpre- sa del docente di Analisi II che dovendo scrivermi il voto sul mitico libretto blu (lo conservo come una reliquia in un cassetto, anche se non è quello del '72 perché in una delle tante reiscrizioni me lo sostituirono) si accorse che non avevo ancora «passato» Analisi I. Poi nel triennio la passione per una fanciulla prima e per la politica e il giornalismo poi mi fecero perdere il ritmo. Al quart'anno non diedi Macchine esame allora fondamentale e di lì iniziò la catastrofe (o quasi). In compenso ricordo l'emozione di notti passate a disegnare un capannone industriale per l'esame di Tecnica delle costruzioni (che non sostenni mai) o uno svincolo autostradale per Costruzioni di strade, ferrovie ed aeroporti (presi 28). Ebbi il presagio che mi sarei occupato d'arte nella mia vita, superando (altro 28) l'esame di Arte Mineraria. Perciò vorrei dire ai big del Politecnico non cancellate un'emozione e permettete ai fuoricorso di esistere. Anche perché io sono in parola per fare la festa di laurea in un agriturismo all'interno d'una miniera dismessa. ________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Mar. ’16 ISEE MENO RIGIDO PER L’UNIVERSITÀ Istruzione. Dal prossimo anno accademico Arginare l’effetto del nuovo Isee che in quest’anno accademico sta escludendo dalla borsa di studio fino a oltre il 20% degli studenti dell’anno precedente. Questo l’obiettivo del decreto appena firmato dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini che di fatto alza per l’anno accademico 2016/2017 le soglie massime Isee e Ispe rispettivamente a 23mila e a 50mila euro (quest’anno sono a 21mila e 35mila). Dopo un lungo pressing degli studenti universitari che hanno criticato in più occasioni le nuove modalità di calcolo dell’indicatore del reddito e del patrimonio che hanno colpito molti beneficiari dell’anno passato il Miur ha deciso dunque di correre ai ripari: «Con questo decreto - avverte la Giannini - c’è un recupero notevole del calo di borse di studio che si attestava al 21%, secondo le nostre previsioni si arriverà a un recupero del 20%, quindi quasi tutto». Per ridurre l’impatto negativo di quest’anno del nuovo Isee sul diritto allo studio (se su media nazionale oltre il 20% degli studenti ha perso la borsa di studio nell’ultimo anno accademico, in Sicilia si è raggiunta una punta del 40%) alcune Regioni nei mesi scorsi hanno messo in campo interventi compensativi. «Sono d’accordo - ha ammesso il ministro - con quella parte degli studenti che costruttivamente dice che c’è stata una penalizzazione forte nell’applicazione di certi parametri: li abbiamo rivisitati venendo incontro alle loro richieste e facendo con il ministero del Lavoro la valutazione di quanto si recupera e di quanto si rimanga in un quadro di equità e di diagnosi di evasione fiscale». Cantano vittoria le associazioni studentesche, che nelle scorse settimane hanno portato avanti una battaglia su questo fronte chiedendo tra le altre cose l’abolizione dell’indicatore Ispe. «Questo decreto è importantissimo - avverte Andrea Fiorini, presidente del Consiglio nazionale degli studenti universitari - adesso la priorità è che le Regioni attestino la propria soglia Isee e Ispe il più vicino possibile alla soglia massima così come adeguata dal decreto appena firmato» Sempre ieri la commissione Cultura della Camera ha approvato all’unanimità la risoluzione che impegna il governo a rivedere la normativa Isee e Ispe per estendere la platea dei beneficiari del diritto allo studio universitario. «Con le nuove soglie si amplierà la platea degli idonei ai benefici del diritto allo studio, che aveva subito una contrazione significativa con le nuove modalità di calcolo dell’Isee e dell’Ispe sebbene non fossero intervenute modifiche nel reddito o patrimonio delle famiglie», avverte Manuela Ghizzoni (Pd). ________________________________________________________ Il Sole24Ore 14 Mar. ’16 MATRICOLE, SCATTA L’ORA DEI TEST Da economia a lingue, da ingegneria a medicina: il calendario delle prove selettive Per chi quest’anno sostiene la maturità è già tempo di prove di ammissione all’Università. E se per le lauree ad accesso programmato nazionale (medicina, veterinaria, architettura e professioni sanitarie) il calendario è stato fissato dal Miur - in date comprese tra il 6 e il 14 settembre - sono molti i corsi per i quali gli atenei hanno invece stabilito periodi diversi per i test che danno accesso all’anno accademico 2016/2017: le prime selezioni si sono già tenute a febbraio ma la maggior parte degli esami avrà luogo di qui alla fine di luglio. I test anticipati, nello specifico, riguardano le università private o i corsi di laurea di atenei pubblici il cui accesso è regolato in base al numero programmato locale. Si va dai percorsi in ingegneria a quelli in economia, fino all’offerta di poli come Bocconi o Luiss, che prevedono il numero chiuso per tutti i corsi proposti. I quiz sono quasi sempre a risposta multipla, sia online che scritti, e vi si accede versando una quota di iscrizione. Il gruppo più corposo di corsi di laurea con i test in pieno svolgimento è quello a cui si accede attraverso le prove online gestite dal Cisia, che riguardano principalmente Ingegneria ed Economia, ma anche altri corsi come Fisica, Chimica, Matematica, Biotecnologie o Scienze agrarie. Sono 34 gli atenei che si affidano al Consorzio sia per l'organizzazione di test cartacei (fissati a settembre) che online - detti Tolc -, i quali seguono un calendario molto fitto che si dipana da febbraio a ottobre: ciascun ateneo può di prevedere più prove al mese nel periodo indicato (esclusi agosto e lo “stop maturità”). Si tratta sopratutto di prove per la verifica delle conoscenze di ingresso, mentre sono 11 le Università che utilizzano il sistema per regolare l’accesso ai corsi a numero programmato locale: 6 per Economia (Ferrara, Messina, Napoli Federico II, Salerno, Modena/Reggio Emilia e Università della Calabria), 4 per Ingegneria (Cagliari, Palermo, Trento e Politecnico di Milano) e una - Bologna - per un’ampio ventaglio di corsi oltre a quelli economici e ingegneristici. La prossima data in programma sarà il 21 marzo e riguarderà tre Atenei (Bologna, Polimi, Siena). La Bocconi propone due sessioni: la prima si è svolta a febbraio, mentre la seconda avrà luogo il 29 aprile presso la sede a Milano, con iscrizioni aperte fino a dieci giorni prima della prova. Il test ha una durata di 90 minuti ed è composto da 100 quesiti a scelta multipla. Per i corsi biennali la prova è il 6 maggio (domande entro il 27 aprile). È fissato per il 14 aprile, invece, l’appuntamento con le selezioni per i corsi della Luiss, sia triennali (economia e management, scienze politiche) sia a ciclo unico (giurisprudenza); mentre per le magistrali le date sono 18 marzo e 14 luglio. Il test è unico, indipendentemente dal corso scelto, e prevede 70 domande in un’ora e mezza: le graduatorie vengono interamente determinate dal punteggio della prova. Per iscriversi a ingegneria al Politecnico di Milano, oltre al Tolc Cisia (per sessioni anticipate), è sempre possibile sostenere il test di ingresso dell’ateneo (Tol) in una quarantina di date sulle diverse sedi in Lombardia, tra 17 marzo e 12 luglio; prove di ammissione previste anche per i corsi in urbanistica e design. Scatteranno negli stessi giorni - 15 marzo, 20 aprile, 19 maggio e 20-21 luglio - le prove (Til) per i corsi ad accesso programmato del Politecnico di Torino: Ingegneria, Design e Comunicazione visiva, Pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistico-ambientale. Ad aprile e maggio anche i test per ingegneria (Tai) al Politecnico di Bari. Ad Economia della Cattolica gli elementi di valutazione per l’immatricolazione includono: curriculum scolastico; certificazioni extra-scolastiche e lavorative, prova scritta (27 maggio e 18 luglio a Milano, 1 aprile e 2 settembre a Roma). Il 31 marzo ci sarà invece il test per l’ammissione alle lauree in Medicina e Chirurgia ed Odontoiatria e protesi dentaria per il “Gemelli” di Roma. Prove anticipate - nei mesi di aprile, maggio e luglio - anche per i corsi in Scienze e tecniche psicologiche a Bologna, Milano Bicocca e San Raffaele, Cattolica (Milano e Brescia). È fissato il 23 aprile, infine, l’esame di accesso a Lingue, culture e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea del Ca’ Foscari di Venezia, dove nei due giorni precedenti (21 e 22) ci saranno i test per Economia e Commercio estero. ________________________________________________________ Il Giornale 16 Mar. ’16 GLI UNIVERSITARI ITALIANI SONO SUPER TECNOLOGICI, MA TROPPO SEDENTARI Gli universitari italiani rimandati in stili di vita, gli studenti vanno peggio delle studentesse. Solo 4 su 10 seguono le raccomandazioni nazionali per il corretto consumo quotidiano di frutta e solo 2 su 10 quelle relative all'assunzione delle giuste quantità di verdura. Sono troppi gli studenti sedentari, cioè ben 3 su 10 non svolgono attività fisica, mentre un numero consistente di universitari cedono alle lusinghe di tabacco e Bacco: 3 studenti su 10 hanno l'abitudine al fumo e 4 su 10 consumano settimanalmente vino e birra. Scarsa l'attenzione alla salute riproduttiva per 3 studentesse su 10, che dichiarano di non essersi mai sottoposte a controlli ginecologici. Altissima l'attitudine verso le nuove tecnologie, con rischio di abuso e dipendenza: tutti gli studenti (uomini e donne) hanno almeno un telefono cellulare e 7 su 10 usano smartphone per essere sempre connessi. Al di là di uno stile di vita non del tutto salutare la stragrande maggioranza degli universitari italiani - ben 8 su 10 - si sentono in buona o ottima salute. Questi, in sintesi, i risultati della ricerca, su comportamenti alimentari, attività fisica, abitudine al fumo, consumo di alcool e droghe, salute riproduttiva, attitudini verso l'apprendimento e le tecnologie, salute percepita e stato di benessere generale studiati dai ricercatori della facoltà di medicina e chirurgia dell'università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, in collaborazione con l'Istituto Superiore di Sanità (ISS) e resi noti dai risultati dell'indagine «Sportello Salute Giovan». La ricerca ha riguardato stili di vita e comportamenti di 8516 studenti di dieci università italiane, in età compresa tra 18 e 30 anni, con età media di 22,2 anni «Indagini come questa rappresentano un prezioso strumento per poter programmare la prevenzione primaria soprattutto in vista dell'aumento dell'aspettativa di vita», afferma Walter Ricciardi, presidente ISS. Questi dati ci impongono di prestare una maggiore attenzione in tutte le politiche, e non solo in quelle sanitarie, all'educazione agli stili di vita salutari. Il vantaggio è doppio, individuale e collettivo ________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 Mar. ‘16 SEPARARE SCIENZA E POLITICA I finanziamenti «top down» per il progetto milanese Human Technopole non rispecchiano le procedure seguite a livello internazionale La decisione del governo italiano di affidare il coordinamento del progetto Human Technopole (Ht) all’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova è stata definita un’operazione top-down anche dallo stesso direttore dell’Iit, Roberto Cingolani, per il quale è del tutto legittimo che sia così, perché nello stesso modo si procederebbe nel resto del mondo. Abbiamo ascoltato alcuni autorevolissimi scienziati italiani, coinvolti nel progetto, affermare che un’operazione come quella di Ht non si può fare se non utilizzando la modalità top-down. Proviamo a esaminare la natura del fatto e della correlata convinzione, e a riportare entrambi a un ambito internazionale. La procedura top-down cui si fa riferimento non riguarda la legittima decisione del governo di creare un polo scientifico-tecnologico sull’area ex Expo, ma l’assegnazione diretta di un finanziamento decennale di 1,5 miliardi di euro a un unico soggetto, Iit-Ht, senza nessuna competizione o procedura di peer review. Il governo, per vie non chiare né pubbliche, ha scelto un unico interlocutore (Iit) per approntare un piano scientifico per Ht, e lo stesso interlocutore è stato designato come beneficiario del relativo finanziamento decennale. Viene spontaneo confrontare questa iniziativa, considerate anche le ambizioni e la scala dei finanziamenti, a quella statunitense, conosciuta come Nni (National Nanotechnology Initiative) consultabile sul sito www.nano.gov. Varata nel febbraio del 2000 dal governo federale americano e finanziata inizialmente per una cifra pari a 500 milioni di dollari per tutti gli Stati Uniti, la creazione di Nni seguì ben altre procedure. Apparve come “report” (piano) pubblico firmato dall’Interagency Working Group on Nanoscience, Engineering and Technology Committee on Technology National Science and Technology Council, cui seguirono bandi pubblici per la presentazione e messa in opera di progetti che prevedevano la creazione di nuovi laboratori, network, centri di ricerca eccetera. L’iniziativa Nni, a oggi ancora finanziata, non conteneva in sé nessun elemento top-down come inteso dal direttore di Iit-Ht. Nessuno dei membri dei vari comitati e agenzie che avevano stilato il report presentava conflitto di interesse con Nni e nessuno dei membri era responsabile di laboratori o gruppi di ricerca che avrebbero partecipato alla competizione nella fase successiva alla pubblicazione dei bandi. Se si confrontano quindi le modalità seguite dal governo americano con quelle fin qui seguite in Italia per varare e finanziare l’iniziativa Iit-Ht, immediatamente appare chiaro come quest’ultima abbia seguito procedure inaccettabili in qualsiasi Paese moderno. L’entità del finanziamento erogato richiederebbe un ampio coinvolgimento della comunità scientifica nella discussione preventiva dei temi e degli obiettivi a medio e lungo termine, e procedure a bando pubblico che comportino una selezione terza, indipendente e competente dei contenuti e dei progetti migliori per Ht, nonché dei profili professionali necessari, a ogni livello, per realizzare l’iniziativa. In tutti i Paesi moderni e per qualsiasi iniziativa che riguardi la ricerca finanziata con risorse pubbliche si fa ricorso a metodi improntati al cosiddetto «Principio di Haldane». Proposto all’inizio del secolo scorso da sir John Burdon Sanderson Haldane, il principio raccomanda la «separazione assoluta fra politica e scienza, perché la corruzione si previene in questo modo. […] Mischiare politica e scienza è la ricetta del disastro». In altre parole, i processi di selezione della scienza pubblica non possono essere invasi dalla politica né essere decisi da un singolo ente. Pensiamo che gli sforzi fatti dagli scienziati italiani per adeguarsi e competere con successo sulla scena internazionale rischino di essere vanificati dal metodo con cui viene gestita l’iniziativa Iit-Ht per l’impossibilità, attuale e futura, che investirà tutti gli scienziati non coinvolti di competere adeguatamente con “i prescelti”, ovvero coloro che saranno invitati a partecipare, con progetti decisi senza alcuna competizione pubblica, al piano Iit-Ht. L’iniziativa Iit-Ht per come è oggi gestita è in pieno e completo conflitto con il Principio di Haldane, e riecheggia i disastrosi effetti causati dal connubio diretto tra politica e top management della Nasa, che ignorò le valutazioni della comunità scientifica sui rischi all’origine del disastro dello shuttle Challenger. In questi giorni cade il trentesimo anniversario di quel tragico evento e ripensare quella vicenda sarebbe istruttivo per i politici e i manager che vorrebbero ridurre la dialettica scientifica condivisa internazionalmente a una procedura top-down, che ha il sapore di “cartello” e di rendita di posizione, il cui effetto è quello di cancellare volutamente un’aperta competizione e una selezione meritocratica su base internazionale. Il premio Nobel Richard Feynman, che faceva parte della Commissione Rogers istituita per indagare le cause del disastro del Challenger, dovette battersi per far accettare alla Commissione stessa le prove che l’incidente fu causato dall’indifferenza del top management della Nasa agli avvertimenti che da anni gli studiosi del programma lanciavano circa l’inaffidabilità di alcuni materiali utilizzati. Feynman, che rimane uno degli scienziati più esemplari nell’interpretare i valori di integrità nella scienza, chiese e ottenne che fosse pubblicata in appendice al rapporto ufficiale della Commissione una sua relazione, nella quale si può leggere quanto segue: «Sembrerebbe che, qualsiasi ne fosse lo scopo, per obiettivi interni o esterni, il management della Nasa abbia esagerato l’affidabilità del suo prodotto elevandolo a un punto di pura fantasia». Ancora: «La Nasa deve ai cittadini, ai quali chiede il sostegno, di essere franca, onesta e informativa, in modo che questi cittadini possano prendere le decisioni più sagge per l’utilizzo delle loro risorse limitate. Per una tecnologia di successo, la realtà deve avere la precedenza sulle pubbliche relazioni, perché la Natura non può essere ingannata». Iit-Ht non manda uomini nello spazio ma promuove se stesso, di fatto svolgendo ruolo attivo di agenzia di finanziamento sui generis, dato che distribuisce arbitrariamente ingenti risorse pubbliche, negandone l’accesso su base competitiva a tutto il resto della comunità scientifica. Risorse che provengono dalle tasse dei cittadini italiani, i quali hanno diritto a franchezza e onestà di informazione da parte della comunità scientifica italiana e delle istituzioni di ricerca che, grazie ai loro contributi, esistono e operano. Il governo e una parte della comunità scientifica nazionale sembrano avere invece intrapreso una strada che nega i più basilari principi su cui la scienza moderna è ovunque fondata e finanziata, e grazie ai quali produce conoscenza verificabile. Noi non conosciamo altri criteri per avere successo, se non coltivando l’integrità degli scienziati attraverso la libera competizione delle loro idee, così da ottenere i migliori risultati e un rapporto onesto e trasparente con i cittadini finanziatori. – Paola Arlotta, Harvard University, Stati Uniti – Ennio Carbone, Karolinska Institute Stockholm, Svezia – Francesco Colucci, Cambridge University, Regno Unito – Daniele Daffonchio, Kaust, Arabia Saudita – Enzo Di Fabrizio, Kaust, Arabia Saudita – Antonio Giordano, Temple University, Stati Uniti – Daniela Pappalardo, Royal Institute of Technology, Svezia ________________________________________________________ Il Giornale 15 Mar. ’16 LA REGOLA DI NOI FISICI: PREMIARE CHI SBAGLIA» di Eleonora Barbieri Guido Tonelli è l'uomo del bosone». Quello con il caschetto giallo, giù nei sotterranei del Cern, dove ha guidato l'esperimento «Cms» per dare la caccia alla «primula rossa della fisica delle particelle». Cioè il bosone di Higgs. A capo dell'altro esperimento, «Atlas», c'era un'altra connazionale, Fabiola Gianotti (ora direttore del Cern): amici e rivali, due italiani ai vertici della ricerca che ha portato a individuare il bosone nel dicembre del 2011 e al Nobel per la fisica per i due teorizzatori della sua esistenza, Frarmis Englert e Peter Higgs, come Tonelli racconta nel suo libro La nascita imperfetta delle cose, da poco pubblicato da Rizzoli. Un'avventura cominciata sulle Apuane e proseguita a Spezia («mio padre era ferroviere, ogni cinque-sei anni cambiavamo un paese qui intorno, fino a che ci siamo trasferiti»), dove ora si trova: sta facendo la spola tra Pisa, dove insegna all'università e Ginevra, o meglio Ferney-Voltaire, dove vive con la moglie Luciana. E ora è in un bar di fronte al suo vecchio liceo classico, il Costa. Come si passa dal classico a fisica? «Mi piaceva studiare. L'insegnante di fisica era una tragedia, però quello di filosofia e storia era bravissimo: mi ha trasmesso la passione di chiedermi il perché delle cose. Poi, in realtà, avrei voluto iscrivermi a architettura a Firenze». E invece? «Un mio amico mi disse che c'era un sacco di lavoro da fare. Così scelsi fisica a Pisa: erano quattro anni e venti esami...». Come andò? «Il primo anno mi sentivo il più stupido, per me era arabo spinto. Però la formazione logica mi è servita a conquistare gli strumenti che mi mancavano. Ci sono stati anche un paio di prof, di quelli che ti illuminano un mondo. E poi tanta passione, oltre ad alcuni episodi, anche casuali, come la borsa di studio vinta a Pisa, quando non ci speravo più». E poi è arrivato al Cern? «A 27 anni l'ho visitato per la prima volta, era meraviglioso. Poi sono stato in America per qualche anno, al Fermilab di Chicago. Un'esperienza molto importante». Che cosa le è rimasto? «Negli Stati Uniti danno molta fiducia ai giovani. Magari fallisci, ma ti danno una chance di dimostrare quello che sei. Così, quando sono tornato ero pronto a prendermi delle responsabilità: erano gli anni in cui è cominciata l'avventura di Lhc». Si è trasferito subito a Ginevra? «No, fino al 2006 facevo avanti e indietro fra il Cern e Pisa. Poi ho avuto la responsabilità di "Cms", questo tracciatore che sembrava impossibile da costruire, e mi sono dovuto stabilire lì: dovevo dirigere l'intero progetto, ventiquattro ore al giorno». A capo dei due esperimenti eravate in due italiani... «Un miracolo. Fabiola e io siamo amici da tempo. Fra i due gruppi c'era una competizione dura, ma onesta. Sono stati anni fantastici, di paure e soddisfazioni incredibili». Paure? «La paura di sbagliare è la nostra compagna più costante. Certo nel lavoro dobbiamo essere freddi, razionali, ma siamo esseri umani e viviamo emozioni che sono come delle montagne russe, sei sempre sul baratro. Basta un dettaglio e puoi fallire e trascinare nel disastro anche i tuoi collaboratori». I due gruppi, «Cms» e «Atlas» hanno visto i segnali dell'esistenza del bosone nello stesso momento. Come lo spiega? «Un miracolo. Più ci ripenso, più mi meraviglia. Certo abbiamo spinto al massimo, e magari la fortuna ci ha aiutato. La prima volta che ho capito che si trattava di lui, del bosone, era il giorno del mio compleanno». Una coincidenza incredibile. «E poi, quando abbiamo dato il primo annuncio, era appena morto il mio papà. Il momento di soddisfazione massima accompagnato dalla massima disperazione. Pochi giorni dopo è nato il mio nipotino. Una lezione». Alla fine siete finiti a Stoccolma, alla cerimonia del Nobel con Englert e Higgs. Com'è stato? «Englert era venuto subito al Cern a vedere il nostro lavoro, io lo tenevo aggiornato; poi abbiamo fatto un patto e gli ho detto: se scopro il bosone che hai ipotizzato nel '64 a te danno il Nobel, ma mi inviti alla cerimonia... I due giovanotti, Englert e Higgs, comunque erano molto contenti». Perché il bosone è importante? «Un po' perché era cercato da 50 anni. E poi perché gioca un ruolo fondamentale, speciale, nell'universo: dà la massa a tutte le altre particelle. Se non ci fosse, il mondo così come lo conosciamo sparirebbe». Sparirebbe? «Ci sarebbero solo particelle libere, alla velocità della luce. Un mondo perfetto, ma tutto uguale, senza dinamica: è dalla rottura di questa simmetria perfetta che nasce il nostro mondo». E ora che l'avete trovato? «Ora viene il bello. Si aprono molte porte. Primo: una conferma del Modello Standard; secondo: ci può aiutare a capire di che cosa è fatta la materia oscura; terzo: da alcuni è ricondotto all'inflazione, il meccanismo da cui è nato il Big Bang». Il bosone avrebbe addirittura fatto nascere l'universo? «Secondo alcuni sì, ma è una tesi che scatena liti spaventose... Infine, ci può dire qualcosa su come finiremo. Prima si pensava che l'unico destino fosse il buio e freddo cosmico». Invece? «Invece il bosone ci dice che l'universo vive su un equilibrio instabile: basterebbe una piccola lacerazione a scatenare energie enormi. E allora tutto evaporerebbe in una bolla di luce e calore. Poi guardi, alla fine siamo ignoranti come capre». Detto da lei... «Il 96 per cento dell'universo ci è sconosciuto. La scienza ha fatto progressi grandiosi, ma non ha senso esaltarsi, siamo solo all'inizio». Come sono gli scienziati? «Dovrebbero essere coraggiosi, spingersi oltre il senso comune. Però siamo tutti un po' conservatori, perché ci esponiamo al rischio di sbagliare». Al Cern guidava un gruppo di tremila persone: come ha fatto? «Eh, già a una riunione di condominio, in venti, litighi... E poi non sono persone che obbediscono: è come avere una squadra di fuoriclasse. Contano la passione che ci divora e il discutere sulla base di fatti». Fisico sperimentale che vuol dire? «Lavoriamo con le mani, costruiamo gli strumenti per fare cose che non sono mai state fatte. Siamo una squadra, come fratelli, sul campo a soffrire, anche diciotto ore di fila. E c'è una regola: chi sbaglia viene premiato». Scherza? «Se uno sbaglia, e lo dice subito, viene elogiato pubblicamente. È il modo per evitare errori nascosti. C'era la corsa a fare il massimo, dovevo litigare per mandare la gente a casa a riposare. Sono stati anni magici». Poteva succedere solo al Cern? «Moltissimi erano italiani, che facevano avanti e indietro lavorando in Italia. Nella fisica delle alte energie il nostro Paese è all'avanguardia». Non c'è il problema dei fondi? «Non sono pochi. L'Italia ha un impegno serio al Cern, una presenza forte. È uno dei nostri campi di eccellenza: perciò andrebbe salvaguardato e esteso, anziché messo in difficoltà». I nostri pregi? «Se hanno la struttura che funziona, gli italiani non hanno paura di nessuno. Al Cern, quando c'è un problema o un imprevisto ci chiamano. Forse perché siamo abituati a stare nel caos. Mi diverto a mettere in crisi i giapponesi, gli svizzeri e perfino gli americani sull'efficienza». Siamo così bravi? «L'Italia non sfigura, anzi, gode di notevole prestigio. E l'Europa è leader nel mondo in questo settore». Più dell'America? «L'America sembra un po' rassegnata. Ora investono la Cina, il Giappone, la Corea del Sud. Io sono il responsabile italiano del progetto Fcc, un nuovo acceleratore europeo del futuro, di cento chilometri: ne parleremo in un congresso ad aprile a Roma». Che cosa deve fare l'Europa per mantenere questa leadership? «Manca un interlocutore politico: il Cern fa progetti di lungo periodo, poi ti trovi a dovere andare da ogni singolo governante, che ha tutt'altri problemi. Ma, per giocare un ruolo nel mondo, l'Europa ha bisogno di scienza e tecnologia: il benessere si gioca su questo». Il bosone ci aiuta a vivere meglio? «C'è sempre l'idea che la tecnologia arrivi nella quotidianità per miracolo, come se il telefonino lo facesse l'azienda produttrice. Ma lì, nel cellulare, c'è tutta la fisica degli ultimi 50 anni, inclusa la meccanica quantistica. Se visiti una fabbrica di microelettronica trovi dei mini-acceleratori». Quindi la fisica entra nel quotidiano? «Tutto nasce da scoperte di base che cambiano il mondo. E sono quelle della fisica. Che fra l'altro dal Cern escono gratis. Il nostro lavoro spinge l'innovazione tecnologica e le conoscenze: l'innovazione è il petrolio del secolo, e l'America l'ha capito. Noi dobbiamo fare innovazione, altrimenti per l'Europa sarà il declino». ________________________________________________________ Repubblica 18 Mar. ’16 LIBERA SCIENZA IN LIBERO WEB CON LE RIVISTE PERDIAMO TEMPO" Sempre più studiosi inviano le loro ricerche a piattaforme online Anche i Nobel è chi dibatte da decenni se la scienza debba essere pubblica o a pagamento. E chi, senza farsi troppi scrupoli, riversa 47 milioni di articoli protetti da copyright su un sito pirata gratuito. L'autrice di questa Wikileaks della scienza è la ricercatrice kazaka Alexandre Elbalcyan ( ora nascosta in Russia, sembra). «La distribuzione delle ricerche scientifiche è ristretta artificialmente dalle leggi del copyright», spiega da] suo sito. «Queste leggi rallentano lo sviluppo della scienza nella società umana». Nonostante le denunce delle riviste e le ingiunzioni dei giudici, il sito sci-hub.io resta online — e continua a crescere — perché non si sa bene quale paese dovrebbe fermarlo. Ma non si può nemmeno dire che l'impero delle riviste scientifiche — 30mila titoli, 2,5 milioni di articoli, 10 miliardi di budget ogni anno goda di vasto sostegno, né dentro né fuori la scienza. Nella maggior parte dei casi le testate si fanno infatti pagare sia dai ricercatori ( intorno ai mille euro ) che chiedono di pubblicare i loro studi sia dai lettori. I prezzi variano da poche decine di dollari per un articolo a varie migliaia per un abbonamento. Ecco perché — oltre ad alcune testate ad accesso gratuito — sempre più successo raccolgono i siti che permettono di pubblicare tutto e subito, senza pagare e senza passare per il filtro lungo e non sempre trasparente della "peer revíew", o "revisione fra pari" tipico delle riviste. Il precursore di queste biblioteche ordine — chiamate "pre-print" — è arXiv, inventato dalla comunità dei fisici. Dal 1991 a oggi il sito ha pubblicato più di un milione di studi, scritti da scienziati famosi o da perfetti sconosciuti. ll suo successo ha contagiato i biologi, che nel 2013 hanno fondato bioRxiv. Oggi, racconta il New York Times, sul portale delle scienze della vita ha pubblicato una sua scoperta anche la biologa premiata con il Nobel Carol Greider. È il terzo vincitore a farlo, dimostrando che la scienza resta ottima anche quando è diffusa gratis e via web. Pochi giorni fa, sempre su bioRxiv, anche Vincenza Colonna ha pubblicato il suo studio sul Dna delle popolazioni che vivono lungo la via della seta. La genetista del Cnr di Napoli, che ha lavorato insieme ai colleghi dell'Istituto Burlo Garofolo e dell'Università di Trieste, conosce bene l'odissea delle riviste scientifiche: «Lo studio che noi inviamo agli editor per la pubblicazione viene sottoposto al giudizio di alcuni esperti del settore, in genere tre». Sono i "peer reviewer" chiamati a giudicare la qualità del lavoro dei colleghi. «Noi non sappiamo chi sono, riceviamo i loro giudizi in forma anonima», spiega Colonna. «Se va bene passano 304 settimane. Ma a volte si arriva a un anno. E un problema, se c'è un gruppo con cui siamo in competizione. Può addirittura capitare che un lavoro finisca nelle mani dei nostri rivali, chiamati a scriverne la peer review». Di ragioni per sbrigarsi, accelerando le pubblicazioni dei gruppi concorrenti, i revisori non hanno troppa voglia. Anche perché il loro lavoro è gratuito. «Immaginiamo il caso dì un dottorando che debba aspettare la pubblicazione dell'esperimento per discutere la tesi. Rischia di buttare via un anno», continua la genetista. Se i giudizi dei tre revisori sono negativi la pubblicazione viene rifiutata. Se solo uno o due hanno sollevato obiezioni, l'articolo può essere emendato e riproposto ( facendo trascorrere altri mesi). «Tutto questo viene saltato a piè pari dai siti pre-print», sostiene Colonna. «Il ruolo delle riviste è prezioso. Ma lo è altrettanto la possibilità di leggere immediatamente i commenti dei colleghi su bioRxiv». ELENA DUSI ________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Mar. ‘16 PERCHÉ CONDIVIDERE I DATI DELLE RICERCHE di Danilo di Diodoro Quando un cittadino entra in una ricerca clinica (trial) si espone a possibili vantaggi e svantaggi in termini di salute. L’esito di una ricerca è infatti per definizione incerto, per cui quello del cittadino è un gesto di fiducia nei confronti dei ricercatori. Dei dati derivanti da ogni ricerca bisognerà quindi fare il miglior uso, proprio per rispetto di quel gesto di fiducia. E infatti ora l’ International Committee of Medical Journal Editors (ICMJE), l’unione internazionale degli editori di riviste mediche, ricorda che c’è un obbligo etico per i ricercatori a condividere quanto più possibile i dati delle ricerche, per utilizzarli pienamente ai fini dell’avanzamento delle conoscenze mediche. Gli anglosassoni lo chiamano “data sharing”, condivisione dei dati. Ne ha parlato di recente un editoriale del New England Journal of Medicine (NEJM) firmato dagli editor delle più importanti riviste mediche internazionali. I dati delle ricerche dovranno essere condivisi dopo essere stati resi anonimi per proteggere la privacy dei cittadini, ma per il resto saranno completi, in modo da consentire ad altri ricercatori di ripercorrere lo stesso percorso fatto da chi quei dati li ha raccolti sul campo. Solo così si potrà ripercorrere il cammino fatto da ogni ricercatore, dai dati ai risultati, alle conclusioni. Una garanzia contro le frodi scientifiche, ma anche verso la riproducibilità, elemento fondamentale del metodo scientifico. Così si eviteranno ripetizioni inutili nella ricerca, e si potranno svelare salti ingiustificati dai dati alle conclusioni. Molti ricercatori infatti alle volte “spremono” i dati per estrarne conclusioni di dubbia correttezza scientifica. L’ ICMJE propone anche che, nel momento in cui una ricerca, prima di essere iniziata, viene registrata, ad esempio nell’apposito sito ClinicalTrials.gov , sia esplicitato il piano di condivisione online suoi dati. Comitati Etici che approvano le ricerche e le riviste che le pubblicano dovranno controllare che il piano sia esplicitato. Quando questo virtuoso sistema sarà pienamente operante sarà forse più difficile proteggere i diritti di scoperta dei ricercatori, perché altri ricercatori potrebbero cogliere nei dati implicazioni sfuggite a chi ha effettuato la prima ricerca; così come potrebbero essere meno tutelati i diritti di eventuali sponsor della ricerca, interessati alle applicazioni commerciali e al ritorno economico. Ma quello che davvero conta è che la ricerca medica sarà diventata più affidabile di quanto sia oggi. ________________________________________________________ Repubblica 15 Mar. ’16 LA FALSA SCIENZA: IMPOSSIBILE VERIFICARE 2,5 MILIONI DI STUDI" L'allarme dei ricercatori dopo la truffa di Napoli I taroccamenti cresciuti dieci volte dal 2004 ELENA DUSI ROMA. Almeno la scienza sa correggere se stessa, si dice dopo la scoperta di una frode. Così è avvenuto dopo che un'équipe di chirurghi della Seconda università di Napoli ha falsificato l'esito di un intervento, scrivendo che il paziente (morto) stava bene. La rivista che ha pubblicato la descrizione dell'operazione International Journal of Surgery Case Reports - dovrebbe ora procedere a ritrattare l'articolo. Negli ultimi dieci anni le ritrattazioni nella scienza sono decuplicate, mentre il numero di articoli pubblicati è cresciuto del 44%. Colpa, in parte, dell'esplosione di riviste specializzate. L'editoria scientifica oggi ha le dimensioni di una piccola nazione: 10 miliardi di budget, 8 milioni di autori, 110mila dipendenti, 30mila riviste e 2,5 milioni di articoli ogni anno. Difficile che non spuntino mele marce. «L'1-2% dei ricercatori ammette di essersi macchiato di condotta scorretta» commenta Cinzia Caporale, coordinatrice della commissione di etica della ricerca e di bioetica del Cnr. «Una percentuale così piccola non toglie nulla al valore della scienza. Ma visti i numeri in gioco, gli articoli scorretti finiscono per essere molti». Secondo un'analisi del 2011 di Nature, nel 44% delle ritrattazioni c'è uno scienziato colpevole di condotta scorretta (1'11% ha inventato o falsificato i dati, il 17% ha copiato se stesso, il 16% ha plagiato dati altrui). Se l'ultimo decennio ha visto proliferare le immagini degli esperimenti truccati con Photoshop, la nuova frontiera oggi è quella dell'hackeraggio dei siti delle riviste. Tutte le testate più importanti, quando ricevono da uno scienziato la richiesta di pubblicare un articolo lo sottopongono alla valutazione di un team di esperti. Il metodo è chiamato peer review o valutazione tra pari. Ma varie centinaia di articoli, negli ultimi tre anni, sono stati ritrattati perché accompagnati da recensioni false: inviate alle riviste dagli stessi autori che si erano impossessati di indirizzi mail e password dei loro recensori. Soprattutto in Cina, sono nate anche agenzie che si occupano di vendere agli scienziati articoli già pronti e recensioni (favorevoli ma non troppo per non dare eccessivamente nell'occhio). Nel 2014 un giornalista di lingua cinese ha raccontato su Scientific American la sua trattativa con l'agenzia MedChina per comprare un articolo a circa 15mila euro. In quel caso la rivista si era accorta dell'inganno e aveva respinto la pubblicazione. Se le riviste più importanti possono contare su esperti anti-frode e software per smascherare gli inganni ( capaci di pescare i plagi online o di riconoscere le immagini che hanno subito una manipolazione), la periferia del mondo dell'editoria scientifica è spesso ridotta a uno stato desolante. Gli atti dei convegni dai titoli più improbabili non sempre infatti si riferiscono a incontri reali. E per smascherare la fragilità del sistema, decine di scienziati negli ultimi dieci anni si sono divertiti a generare testi falsi al computer: testi poi approvati dalle riviste nonostante fossero privi di sintassi. I pionieri di questo tipo di burla furono nel 2005 tre studenti del Massachusetts Institute of Technology. I ragazzi ammisero poi di essersi divertiti moltissimo e misero online gratis il loro software SciGen. Solo dieci anni più tardi la Springer, una delle case editrici più importanti, mise a punto il programma SciDetect per scovare i testi creati con SciGen. «Chi pubblica di più supera i concorsi, ottiene finanziamenti e riesce a stringere collaborazioni internazionali prestigiose» spiega la Caporale. «Il sistema publish or perish è in vigore più che mai nella scienza. A parte le storture, è un bene che sia così» Il Cnr è stato il primo ente italiano a dotarsi di linee guida per l'integrità della ricerca e di un comitato ad hoc per il controllo. Ma se è vero che la scienza sa correggere se stessa, non si capisce come mai le pubblicazioni ritrattate continuino a essere citate dopo la scoperta della truffa. «Spesso non si viene a sapere» spiega la Caporale. Ma lo scienziato coreano Hwanosc avuti a falsificare dati su clonazione umana e cellule staminali, ha visto nel frattempo diventare brevetto la sua scoperta ritrattata da Science, e ha aperto un lucroso centro di donazione per cani. ________________________________________________________ Repubblica 15 Mar. ’16 "COSÌ FIUTO LE BUFALE DALLE LORO PAROLE" GIULIANO ALUFFI LE FRODI scientifiche possono essere smascherate analizzando il linguaggio usato dagli scienziati nel proporle al pubblico? David Markowitz, ricercatore in comunicazione all'Università di Stanford, se lo chiede da quando, nel 2014, analizzando con un software i testi dello psicologo Diederik Stapel, il più celbre falsificatore della scienza contemporanea, notò che i suoi studi truffaldini erano scritti con un linguaggio diverso da quelli genuini. Oggi Markowitz estende la sua ricerca ai Pinocchi della biomedicina. Dall'archivio di PubMed lo studioso ha estratto 253 studi ritrattati per frode scientifica e 253 non ritrattati ( e quindi presumibilmente genuini ), presi dalle stesse riviste scientifiche e di argomento affine E li ha confrontati parola per parola. Il risultato è uno studio unico nel suo genere, pubblicato a fine 2015 sul Journal of Language and Soci al Psychology. Cosa contraddistingue gli studi fasulli? «In generale, hanno un maggior grado di offuscamento. Chi froda cerca di rendere più ostico, a chi legge, seguire il filo del discorso. Per esempio usa, rispetto agli studi genuini, più termini gergali: in media 60 in più per studio» Altri espedienti? « Sempre per ostacolarne la lettura, negli studi taroccati ci sono in media 3,5 citazioni di altri studi in più. Ognuna di queste è un costo cognitivo in più per chi legge, perché richiede di procurarsi anche lo studio citato. Inoltre citare più studi significa anche, in qualche modo, attingere all'autorevolezza degli scienziati nominati». Quali sono gli altri indizi rivelatori di malafede? «Negli studi fasulli c'è più astrazione. Questo perché alcuni esperimenti non sono portati a termine o sono inventati, e quindi gli autori non hanno i dettagli concreti che invece ottiene chi opera correttamente. Un altro indizio di probabile frode è un uso superiore alla media di termini causali (come "perché", "causato da", "risultante in" ): chi mente sapendo di mentire è più preoccupato di fornire motivazioni a supporto delle proprie affermazioni come succede anche nelle indagini di polizia. Negli studi ritrattati, poi, c'è minor frequenza di termini che esprimono emozioni positive. Chi sa che i propri dati sono falsi, non desidera che vengano visti come "troppo buoni per essere veri"». ________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 15 Mar. ’16 POLITICA, LAVORO, ATENEI: LA PARITÀ DI GENERE È ANCORA UN'ILLUSIONE VIRGINIA SALA I numeri possono ingannare, si possono gonfiare e sgonfiare a piacere per fare in modo che i conti tornino. È l'analisi del merito che mostra le magagne. Se, ad esempio, si leggono e analizzano i dati sulla partecipazione e la presenza femminile negli ambiti professionali e istituzionali, ci si trova di fronte a un bivio: quantitativamente sembra che il processo verso la parità di genere proceda spedito, qualitativamente ci si accorge che la strada è ancora lunga. DONNE E POLITICA. Partiamo da un dossier elaborato da Openpolis: "Se da un lato la presenza femminile nelle istituzioni è cresciuta negli ultimi anni, dall'altro l'accesso ai ruoli di maggiore responsabilità non può dirsi ancora paritario in nessuno degli ambiti investigati" si legge nel rapporto. E così, anche se questa legislatura pone l'Italia nella metà nella metà alta della classifica europea per donne in parlamento, sono molto pochi i casi in cui ricoprono ruoli di dirigenza come quello di presidente di commissione o gruppo. E si aggiunge il problema del dietro front. "Il governo in carica è nato come il primo della storia composto per il 50 per cento da donne - si legge nel testo - , ma la parità è durata il tempo di uno scatto fotografico, contraendosi con le successive nomine e rimpasti: oggi le donne costituiscono il 25,40 per cento dell'esecutivo". Non va meglio a livello territoriale. Aumentano le amministratrici comunali, ma i sindaci sono uomini nell'86 per cento dei casi. E in nessuna delle città più grandi d'Italia il primo cittadino è una donna. DONNE E LAVORO. Anche il Centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri ha elaborato uno studio "di genere". Si intitola Leadership al femminile e spiega che, nonostante i cambiamenti sociali, di mercato e la maggiore istruzione delle lavoratrici, l'equiparazione tra i sessi ancora non c'è. Anzi, spesso le donne risultano più istruite degli uomini "ma sono quasi sempre meno pagate, più a rischio di perdere il lavoro e meno libere di scegliere". E i ruoli? Anche in questo caso, pochi vertici aziendali sono occupati da donne. E non solo in Italia: il problema riguarda pure l'Europa. Torniamo però ai dati: il gender employment gap, la differenza tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile in Italia è tra i più alti d'Europa, pari al 19 per cento. C'è poi il gender pay gap, cioè l'indice che misura la differenza di retribuzione oraria, che è pari al 6 per cento. Anche in questo caso, tra i peggiori d'Europa. E il tasso di occupazione femminile è al 50,3 per cento, 13 punti sotto la media Ue. Se dal 2008 al 2015 il numero di donne nei board delle società quotate è passato da 170 a 621, oggi solo in 16 oggi ricoprono il ruolo di amministratore delegato. DONNE E ISTRUZIONE. Secondo un focus elaborato qualche mese fa dal servizio statistico del ministero dell'Istruzione, nel corso della formazione universitaria, in Italia, le donne rappresentano stabilmente ben oltre il 50 per cento della popolazione studentesca, dai corsi universitari ai dottorati di ricerca. Nel 2014, il 56,2 per cento degli iscritti ai corsi di laurea, il 59,2 dei laureati e 52,4 dei dottori di ricerca erano donne. Il passaggio dalla formazione alla carriera accademica, però, mostra che la presenza delle donne diminuisce man mano che si sale la scala gerarchica. In particolare, nel 2014, la percentuale di donne nelle diverse fasce accademiche si attesta intorno al 50 per cento per i titolari di assegni di ricerca, al 45,9 per cento per i ricercatori, al 35,6 per cento per i professori associati,21,4 percento per i professori ordinari. ________________________________________________________ La Stampa 20 Mar. ’16 LA STELE DI ROSETTA ELETTRONICA CHE AIUTA GLI SPECIALISTI Un software rivoluzionario potenzia l'analisi del testo e apre nuovi scenari sulla comprensione delle lingue ignote GABRIELE BECCARIA Gli algoritmi del XXI secolo e di fronte un insieme di saperi che si sono sedimentati nei 20 secoli precedenti. Così Andrea Bozzi sintetizza la sfida, che Clelia Piperno descrive come una «navicella spaziale». Che, partita alla scoperta del Talmud, è diretta verso altri obiettivi futuri. Forse anche alla scoperta della lingua perduta di Gesù. Bozzi è il responsabile scientifico del Progetto Talmud, Piperno il direttore. Hanno lavorato insieme a lungo e con loro un team di un centinaio di specialisti, dai traduttori agli informatici. Il risultato - spiegano adesso - è molto di più della traduzione in italiano degli antichi trattati contenuti nel Talmud Babilonese. «Siamo, infatti, davanti a un progetto di ricerca che ha al centro un nuovo software, chiamato "Traduco"», dice Bozzi, ex direttore dell'Istituto di Linguistica Computazionale «Antonio Zampolli» del Cnr. Quelli tradizionali non potevano funzionare con i termini e i contenuti di un corpus tanto labirintico. E allora i nuovi algoritmi hanno fatto la differenza. Modellati sulla linguistica e sulla filologia computazionali, hanno dato vita a uno strumento che si è rivelato «modulare, flessibile e incrementale». Tutto questo significa molte cose: per esempio la possibilità di «creare indici di forme e lemmi che uniformano e velocizzano la traduzione». E poi la chance di riutilizzare l'applicazione per altre lingue e, ancora, quella di «agganciare altri moduli»: dai commenti alle immagini. Un work in progress, che «mette a disposizione de- gli studiosi una serie di potenzialità per indagini altrimenti impossibili». «Già oggi, d'altra parte, è possibile inserire commenti a lemmi attestati in contesti specifici, soprattutto nei casi in cui compare una terminologia tecnica, dalla medicina alla farmacopea, fino alla giustizia. È una funzione - aggiunge Bozzi - che può essere espansa e codificata: così, in momenti successivi, arriveremo anche a tecniche di organizzazione semantica dei dati». Risultato: trasformare in realtà il sogno di esplorazioni concettuali. Esempio: «Sarà più facile individuare e confrontare i passi che trattano la cura di una determinata malattia, anche se le parole nei singoli contesti non sono le stesse». Intanto, mentre procedeva la traduzione, si è accumulato un prezioso database, capace di consigliare gli specialisti. Ogni volta il sistema prevedeva diverse ipotesi di traduzione, con livelli crescenti di accuratezza, da zero a cinque stelle. Gli algoritmi che alimentano la «macchina» spalancano quindi scenari sempre più sofisticati, fino a forme di Intelligenza Artificiale per ricerche che vengono definite «navigazioni ontologiche». Le navigazioni - sottolinea Piperno - riserveranno molte sorprese. Come quelle che scaturiranno dal software: simile a un'«opera aperta», potrebbe diventare uno strumento ideale per aiutare chi aggredisce i misteri di tante lingue antiche. Dall'etrusco a quella degli esseni. «È noto che Gesù apparteneva a questa setta, ma non sappiamo se l'esseno fosse un idioma vero e proprio o una forma di comunicazione criptica, per pochi eletti». Di certo, «Traduco» si trasforma in una nuova Stele di Rosetta digitale, l'equivalente della serie di iscrizioni che guidò Champollion nella decifrazione dei geroglifici. «Oggi Google non riesce a leggere le epigrafi latine, perché i suoi algoritmi non distinguono la u dalla v. Presto, invece, potremo leggerle in tempo reale: con l'app dello smartphone». ________________________________________________________ L’Unione Sarda 19 Mar. ’16 HUAWEI: IL FUTURO DELLE CITTÀ NASCE A CAGLIARI Tecnologie per le reti urbane: ricerca nell'Isola grazie all'accordo con Regione e Crs4 Decine di milioni di euro per disegnare una “città intelligente”, più moderna e con una migliore qualità della vita, partendo da Cagliari come laboratorio per produrre idee e progetti da esportare in Italia e nel mondo. Il colosso cinese Huawei ci crede davvero e investe nella Sardegna con un centro ad altissima tecnologia nel Parco di Pula in compagnia del Crs4 e col sostegno della Regione. L'accordo ha avuto una vetrina importante, la CeBit di Hannover, sancito da un “memorandum di intesa” che sarà definito nei dettagli molto presto e potrebbe aprire le porte dell'enorme e crescente mercato asiatico alle aziende hi tech dell'Isola. IL PROGETTO Il nuovo centro porterà avanti progetti di ricerca di “smart & safe city”. Le città, progettate e cresciute nei decenni, oggi devono stare al passo coi tempi con una pianificazione urbanistica che tenga conto delle nuove tecnologie - dalle telecomunicazioni alla mobilità, all'ambiente e all'energia - per erogare servizi più moderni ed efficienti ai propri abitanti. Il futuro passa da qui e si capisce perché le grandi aziende puntino molto su questo tipo di ricerca. «Grazie alle sue tecnologie innovative e alla profonda esperienza nell'Ict», dice Edward Chan, ceo di Huawei Italia, «abbiamo già supportato amministrazioni pubbliche e istituzioni internazionali nel loro processo di trasformazione digitale». L'accordo con Regione e Crs4 «conferma il nostro impegno a investire in Italia ed è un esempio di collaborazione virtuosa tra pubblico e privato». Con un obiettivo: «Favorire l'inclusione digitale degli italiani e trasformare le città in luoghi più intelligenti e sicuri». E «un impegno di lungo termine a investire in Sardegna e in Italia», assicurano i vertici di Huawei, «che offrirà un contributo concreto a favore della digitalizzazione della regione». SMART CAGLIARI Sono già stati tracciati i primi progetti di ricerca per il capoluogo sardo. Si parte dalla banda larga con una maggiore velocità di connessione alla rete che dovrà essere integrata con le infrastrutture già esistenti. Poi si passa al potenziamento dei sensori distribuiti in città e alla gestione dei dati rilevati, utili per controllare meglio, ad esempio, l'intensità del traffico o l'inquinamento dell'aria. Saranno anche sperimentati modelli di gestione del bene pubblico come le reti virtuali per la distribuzione di energia e servizi multimediali in rete per i beni culturali. Per questi e altri interventi saranno individuate una o più aree della città come “laboratori aperti” per testare e sviluppare le migliori soluzioni per una “smart city”. I risultati ottenuti potranno essere poi utilizzati per tutta la città o come modello per aree più vaste e metropoli. IL CRS4 «Huawei è pronta a lavorare con noi – spiega Luigi Filippini, presidente del Crs4 – e a fare dell'Isola un laboratorio per sviluppare progetti e replicarli in tutto il mondo». Un grande investimento per una multinazionale «che ha due grandi centri di ricerca in Italia. Il primo lo ha fatto a Segrate, il secondo in Sardegna da noi». Con buone notizie per il mercato del lavoro. «Fare ricerca – aggiunge Filippini – vuol dire anche assumere ingegneri, grafici, fisici». Decisivo per l'accordo, il ruolo della Regione, «che ha dato un impulso determinante. Il presidente Pigliaru ha dimostrato un grandissimo interesse e negli ultimi quattro mesi c'è stata un'accelerazione». Ora tempi stretti per far partire la macchina: «Nelle prossime settimane saranno qui ricercatori della Huawei, italiani e cinesi». E via a un progetto «che potrebbe avere sviluppi importanti anche per i rapporti con la Cina, un mercato importante per le aziende sarde». Alessandro Ledda DAGLI ANNI D'ORO DEL NOBEL RUBBIA AI PROGETTI WEB Dalla biomedicina alla biotecnologia, dalla società dell'informazione all'energia e all'ambiente. Il Crs4 (Centro di ricerca, sviluppo, studi superiori in Sardegna) porta avanti diversi progetti legati alle nuove tecnologie. Nato nel 1990, al vertice c'era il Nobel Carlo Rubbia, dal luglio del 2014 è guidato per la prima volta da un imprenditore (già ai vertici di Tiscali ed Energit), Luigi Filippini, affiancato da sei dirigenti alla ricerca e da un direttore amministrativo. La strada tracciata è quella di «studiare, sviluppare e applicare soluzioni innovative avvalendosi di competenze e conoscenze fortemente specializzate». Tra i progetti c'è anche “Netfficient” - con altri partner tra cui l'Università di Cagliari - approvato dalla Commissione europea, con un investimento di 11 milioni di euro in quattro anni per creare una “rete intelligente” della distribuzione elettrica nell'isola tedesca di Borkum. (a. le.) ________________________________________________________ L’Unione Sarda 19 Mar. ’16 SUL “PODIO” DELL'HI TECH DOPO APPLE E SAMSUNG La chiamano già “Shenzhen Valley” perché da questa città nel sud della Cina è partita la sfida di Huawei ai giganti dell'hi tech, un tempo arroccati nella Silicon Valley, Usa. A Shenzhen, fino a trent'anni fa un umile villaggio di pescatori poi trasformato nel motore della new economy grazie a un robusto piano di investimenti e agevolazioni fiscali, c'è il quartier generale di un'azienda ramificata in tutti i continenti diventata il terzo produttore di smartphone nel mondo dopo Samsung e Apple, facendo crescere con una velocità a banda larghissima le proprie quote di mercato. Ma quella dei telefoni di ultimissima generazione è solo una parte, forse quella più visibile, di tutto il business di una multinazionale che su ricerca e sviluppo, per dire, investe oltre sei miliardi di dollari l'anno, quasi il 15% del fatturato. Da tempo il colosso cinese ha puntato dritto su Europa e Italia. Sempre nel 2014 ha annunciato per il nostro Paese un piano di investimenti di oltre un miliardo di euro e 700 nuovi posti di lavoro nei successivi cinque anni. A Segrate, Milano, a fine 2011 ha inaugurato un centro globale di competenza, mettendoci dentro un centinaio di milioni e cento dipendenti, per le tecnologie microwave, le nuove applicazioni delle microonde. E ora tocca a Cagliari, insieme a Crs4 e con l'appoggio convinto della Regione, con un progetto che, come ha spiegato al Corriere il direttore Enterprise Business, Alessandro Cozzi, prevede «un investimento da diverse decine di milioni di euro e avrà certamente ricadute sul territorio». La Sardegna aspetta con fiducia. (a. le.) ________________________________________________________ L’Unione Sarda 19 Mar. ’16 UNICA: RAGAZZI DELLE QUINTE SUPERIORI CERCANO L'ISPIRAZIONE NEGLI STAND «ISCRIVETEVI, NE AVETE FACOLTÀ» Su chi siamo e da dove veniamo sono ferratissimi, i ragazzi all'ultimo anno delle superiori. È sul dove andiamo che la situazione si fa confusa, soprattutto nella scelta della facoltà cui iscriversi. Le Giornate dell'orientamento servono a questo. GLI STUDENTI Centinaia di ragazzi affollano in questi giorni la Cittadella universitaria di Monserrato, in occasione delle tre Giornate in cui l'Ateneo apre le porte ai futuri “clienti”. Pochissimi quelli accompagnati da mamma e papà, gli altri erano liberi di farsi affascinare da docenti, studenti e ricercatori dei vari Dipartimenti, imbonitori delle proprie discipline, che hanno organizzato anche laboratori. GLI STAND Soprattutto, però, c'era la borsa di tela contenente depliant e la Guida per lo studente, una specie di “bignamino” che descrive l'Ateneo, i suoi corsi di laurea e i servizi che offre agli studenti. Non si parla, in quel manuale, del fatto che in cassa non c'è un euro: d'altra parte, era l'appuntamento pensato per affascinare gli studenti che concludono le superiori. I fondi saranno invece l'argomento della passeggiata (di fatto un corteo, ma detto in maniera più leggera) che personale e studenti universitari faranno lunedì mattina dal Rettorato al Comune, per sensibilizzare il Governo e i cittadini sull'agonia finanziaria degli Atenei. Si svolgerà in contemporanea in tutta l'Italia. L'OFFERTA Pensate per chi ancora non ha deciso su quale facoltà buttarsi dopo il diploma, le Giornate dell'orientamento con i loro canti delle Sirene talvolta disorientano i ragazzi, ma tanto non devono decidere subito: c'è ancora tempo per riflettere. L'apprendistato, talvolta presso la stessa Università, è una seduzione in più: negli stand, passati in rassegna dalla rettrice Maria del Zompo, si punta molto sull'ingresso temporaneo degli studenti nelle aziende, il che significa imparare ma anche stabilire un contatto con imprese che, un domani, si potrebbero ricontattare. Le frasi di incoraggiamento, nelle Giornate dell'orientamento, si pescano ovunque: stavolta è toccato a Nelson Mandela, con la sua «A volte un vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato». L'ex presidente sudafricano parlava da esperto. LA DIVISA E poi, se proprio la voglia di studiare per laurearsi scarseggia, alla Cittadella non sono mancati gli stand dell'Esercito e della Guardia di finanza. Perché sarà anche la generazione degli smartphone, ma se nemmeno con le Giornate si riesce a orientarsi, basta ripescare la vecchia tradizione di arruolarsi e non pensarci più. Luigi Almiento ________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Mar. ’16 CRYPTOWARE: UNA GUIDA ALL’INFERNO DEI BITCOIN Giampaolo Mele Voi forse non sapete cosa sono i bitcoin. Meglio così. E se siete deboli di cuore non continuate a leggere. Questa è la storia di Bachis, un ricercatore sardo vittima di un odioso sequestro post-moderno. Quale? Quello che ti risucchia nelle spire del web (che vuol dire: ragnatela). Provate a immaginarvi se una notte d’inverno il viaggiatore Bachis - navigando nell’oceano delle biblioteche internazionali del web - precipitasse in un thriller internazionale agghiacciante. Due settimane e mezzo di passione (in piena quaresima). Causa? Un diabolico algoritmo che sequestra i computer, infiltrandosi con un programma in esecuzione (più spesso con allegati di e-mail "amiche"). Massima disdetta: Bachis aveva appena fatto il backup: salvataggio del disco fisso in un disco esterno… rimasto collegato! Perso quindi tutto: disco fisso, sua copia e pennina. Il sequestratore è un cryptoware: cripta i dati e chiede il riscatto, ed è tra i più sofisticati. Denunciare? Inutile. Decifrare l’algoritmo? Utopia. Il riscatto si paga in bitcoin, la valuta del web ultra oscillante: 1 bitcoin vale circa 270 euro. Riscatto chiesto a Bachis: 4 bitcoin. Ma va acceso un conto speciale: i bitcoin non li trovi dal tabaccaio Passano i giorni, il riscatto si raddoppia. Con minaccia: «La data X distruggeremo i dati». Bachis paga (un liceo piemontese, impossibilitato a farlo, ha perso l’archivio digitale). Nessuna garanzia del rilascio dell’ostaggio: 193GB di dati, venti anni di lavoro (e non solo). Il mondo - Sardegna inclusa - è subissato da riscatti di computer: un solo attacco può fruttare 30/40 milioni di dollari. Ma torniamo al ricattato. Dopo il pagamento arriva - non era automatico - la chiave di decifrazione. Coi ringraziamenti («thank you»)… Bachis spara “frastimos”, esulta per i dati recuperati, e si auto-consola: «In Cina i criminali scoperti vengono decapitati». Bachis è diventato filocinese. Anzi. È contro la decapitazione dei criminali informatici: troppo poco. Va bene sì un taglio della testa, ma - per essere più cinesi dei cinesi - da eseguirsi lentamente con un seghetto (arrugginito), in due settimane e mezzo di passione (Bachis oggi è lontano dai sentimenti della Pasqua. E forse lo capite anche voi. Non è solo questione di 4 miserabili bitcoin). ________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Mar. ’16 SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE: SITO AZZERATO DAGLI HACKER Sito bloccato, proprio come i corsi on line frequentati da circa trecento studenti. Ieri sera gli hacker di Anon+ Anonymous hanno forzato il sito Internet della facoltà di Scienze della comunicazione dell'Università cittadina. Al posto dell'home page, gli studenti hanno trovato il manifesto dell'organizzazione che ha fatto molte vittime nei siti Internet di tutto il mondo. L'emergenza è scattata immediatamente: per tutta la notte i tecnici della Direzione reti hanno lavorato per ripristinare il server caduto sotto i colpi degli hacker, nella speranza di ripristinarlo per stamattina. Ovviamente, di quel sito si fa continuamente una copia di backup ed è sempre possibile reinserire i dati. «Avevamo già avuto avvisaglie in passato», sospira Elisabetta Gola, coordinatrice del corso di laurea, «ci avevano fatto cadere il server. Un attacco di questa portata è invece una novità. Siamo una facoltà universitaria, non facciamo politica, partecipiamo gratis alle iniziative del territorio: continuo a chiedermi perché siamo entrati nel mirino di Anon+ Anonymous, ma non trovo la risposta». Luigi Almiento ========================================================= ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 Mar. ‘16 SANITÀ, SPESA IN CRESCITA ISOLA ANCORA MAGLIA NERA CAGLIARI Camici d’oro. La spesa sanitaria nell’isola non smette di crescere. La cifra monstre da 3,2 miliardi di euro continua la sua corsa inarrestabile. Alimentare la macchina della Salute costa oltre la metà del bilancio della Regione. Perché l’isola si paga da sola le spese per ospedali e assistenza. Una scelta che si potrebbe rivelare vincente solo se si tagliassero gli sprechi e si riducesse la spesa sanitaria. In questi mesi la Regione ha varato una serie di misure taglia-costi. Per ora il risultato è sconfortante. Almeno secondo la classifica di Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato. La Sardegna è tra le regioni sprecone. In particolare l’indagine mette in evidenza due opere. La prima i letti dell’ospedale Marino di Cagliari. Costati 5 milioni di euro, ma troppo grandi per entrare negli ascensori dell’ospedale. L’altro nodo messo in evidenza nella ricerca è il reparto di Emodinamica dell’ospedale di Lanusei. Una struttura all’avanguardia, ma mai aperta. Ottimismo. In realtà la giunta Pigliaru ha ereditato dal passato queste due emergenze. Ma sarebbe riduttivo pensare che tutte le difficoltà si riducano a due situazioni complicate. Il gigante sanità ha bisogno di un’azione profonda di revisione. La Regione ci lavora su diversi piani. Da una parte porta avanti una complicata rivoluzione della rete ospedaliera che nelle intenzioni dell’assessorato dovrebbe ridurre i costi e migliorare il servizio. Dall’altro ha messo rigidi tetti di spesa a tutte le Asl. La Commissione. Ma in consiglio c’è anche una commissione d’inchiesta ad hoc il cui ruolo è proprio sfidare l’impossibile: ridurre la spesa sanitaria. Il suo compito è studiare il sistema e cercare di capire dove sono gli sprechi e quali sono le spese. Perché in tutti questi anni la macchina sanitaria si è complicata tanto da rendere impossibile capire quante e dove sono le uscite. Un mostro ingovernabile. La spesa. Per comprendere quanto sia complicato gestire la macchina basta leggere i dati che arrivano dalle spese delle Asl. L’ultimo anno disponibile è il 2014. L’Azienda di Nuoro ha accresciuto la sua spesa di oltre il 6%. È passata da 305 milioni a 324 milioni di euro. Inseguita da quella di Sassari che ha visto crescere sia i costi di gestione dell’Asl, da 568 a 588 milioni, più 3,5%. Sia con l’Aou con la spesa cresciuta del 4,8%. Tutte le altre Asl hanno incrementato la spesa intorno all’uno per cento rispetto all’anno prima. Le uniche due Asl virtuose sono quelle di Sanluri -0,2 e Carbonia -1,7. Effetto dieta. Il tetto imposto alla spesa non è bastato ad arginare l’emorragia. Nel 2014 il costo della macchina sanitaria è aumentato di 57 milioni di euro. Con molta probabilità gli effetti delle scelte della giunta Pigliaru si potranno vedere solo tra un paio di anni, se la Regione riuscirà a portare a termine il doppio processo di riforma. La centralizzazione della spesa e la riforma della rete ospedaliera. Ma in questo caso il percorso sembra molto accidentato perché si scontra con la difesa dei presidi nei territori. In molti Comuni l’ospedale è rimasto l’ultimo baluardo, l’ultimo segno di identità in un’isola sempre più abbandonata. (l.roj) ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 20 Mar. ‘16 AOUSS: LO SCORPORO HA PORTATO LO SBANDO COMPLETO Organici ridotti all’osso, blocco delle assunzioni, orari insostenibili, liste d’attesa infinite e strana gestione dell’intramoenia i segretari territoriali Siamo allo sbando, si naviga a vista in mezzo alle inefficienze: sapevamo bene che lo scorporo avrebbe portato a questa situazione SASSARI La sanità sassarese sta attraversando una fase cruciale. Alla fibrillazione dei primari Asl e dei direttori delle cliniche, si aggiunge anche il fermento dei sindacati. Per tutti l’analisi è impietosa: «È sotto gli occhi di tutti che l'incorporazione tra ospedale e Aou ha determinato un caos gestionale ed organizzativo». I rappresentanti di categoria e i segretari territoriali Cuccuru (Uil), Terrosu (Cgil), Monni (Cisl), Pileri (Nursind), Ruzzu (Nursing), Dettori (Fials), Campus (Fsi) e Canalis (Asl) e Pischedda (Aou) hanno scritto un documento dove mettono a fuoco le criticità più macroscopiche del comparto. «La sanità è allo sbando, si "naviga a vista" verso non si sa quale direzione. I problemi e le inefficienze hanno raggiunto livelli di guardia, la sicurezza sui posti di lavoro è pressoché inesistente». Le carenze sono insostenibili: «Prima fra tutte quella del personale nelle corsie ospedaliere, soprattutto Infermieri ed Operatori socio sanitari. Una turnistica improponibile, con carichi di lavoro spesso in violazione delle più elementari norme di legge e di sicurezza, rinunciando ai riposi e alle ferie, il tutto a causa dell'incapacità delle Direzioni aziendali e dei Dirigenti che continuano a non fornire le piante organiche, e non fanno chiarezza sulle reali necessità di organico». A questo disagio contribuisce anche la delibera regionale sul blocco delle assunzioni che impedisce le sostituzioni delle assenze del personale. «E quando nei rari casi si procede in tal senso, non si capisce come mai si attinge dalle graduatorie di altre ASL o addirittura dalle agenzie interinali». C’è anche la questione delle liste di attesa: «Prenotare una visita specialistica significa aspettare in media da sei mesi ad un anno. Invece con l’intramoenia, ovvero con una tipologia di prestazioni a pagamento erogate in "libera professione" nelle medesime strutture ambulatoriali e diagnostiche ospedaliere, come per magia il cittadino potrà sottoporsi a visita nell'immediato. L'attuale gestione dell'intramoenia apre una questione di trasparenza, e aumenta di fatto le conflittualità tra comparto e dirigenza. Soprattutto non ha sortito l'effetto della riduzione delle liste d'attesa». Il discorso poi si allarga alla logistica: «La vetustà delle strutture ospedaliere, sia quelle di degenza che dei servizi e delle sale operatorie, gli arredi, strumenti ed ausili appaiono come un quadro antico, in barba al concetto di confort e di sicurezza che invece dovrebbe essere il primo requisito di un ospedale moderno ed efficiente: vedi ad esempio la situazione degli ospedali di Alghero e di Ozieri, nonché le lungodegenze di Ittiri e Thiesi». E ancora: «Pazienti stipati nei corridoi delle sale di attesa (se così le volgiamo chiamare), nei casi più gravi sistemati su barelle obsolete e pericolose anche per gli ausiliari impegnati nella movimentazione ed accompagnamento». E infine: «Altro tassello di rivendicazione riguarda il rapporto istituzionale tra le parti, ovvero le relazioni sindacali, anche qui non si muove foglia, dopo aver firmato alcuni accordi sindacali, peraltro disattesi nella loro applicazione, si è segnato il passo, non si parla più di organizzazione e miglioramento delle condizioni lavorative, di programmazione ed iniziative volte alla verifica della produttività delle strutture, di azioni e processi finalizzati al contenimento ed al risparmio della spesa, di esternalizzazioni dei servizi. Insomma un atteggiamento di coloro i quali governano il sistema sanità inaccettabile». (lu.so.) ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 16 Mar. ’16 AOUSS: PRIMARI IN RIVOLTA INCONTRANO ARRU di Luigi Soriga SASSARI C’è aria di rivolta tra i primari dell’ospedale Santissima Annunziata. L’incorporazione con l’Aou sta complicando ulteriormente la gestione dell’assistenza e il livello delle prestazioni sta ulteriormente degradando. Nei giorni scorsi erano pronti a mettere nero su bianco la loro diagnosi impietosa sulla sanità di Sassari e del territorio, ma prima di scrivere il documento hanno voluto approfittare della presenza dell’assessore Arru in città. Così ieri pomeriggio, dalle 15 alle 16,30 lo hanno incontrato nella sala riunioni del pronto soccorso, in un faccia a faccia molto schietto e senza fronzoli. Hanno presenziato almeno 20 primari ed erano rappresentati tutti i reparti e i servizi ospedalieri. Se ognuno fosse sceso nei dettagli, per compilare l’elenco delle carenze e delle criticità non sarebbe bastata una maratona di 12 ore. Invece i primari si sono soffermati sulle grandi falle che inceppano la macchina organizzativa dell’assistenza. Prima di tutto la carenza di personale. E a detta degli ospedalieri la fusione con l’Azienda Ospedaliera Universitaria non solo non ha migliorato le cose, ma le ha ulteriormente peggiorate. In pratica la gestione da separati in casa rende tutto più complicato. Da parte degli universitari permane una reticenza fisiologica a prendersi in carico i ricoveri: «Noi abbiamo i reparti saturi – si lamentano i primari – basterebbe citare le condizioni in cui deve lavorare Geriatria per capire lo squilibrio che esiste. Mentre alle Cliniche ci sono letti vuoti. I numeri del Pronto Soccorso d’altronde inquadrano perfettamente il rapporto: su 800 ricoveri solo 70 fanno capo all’Aou. Il resto è tutto Asl». E ora, secondo i primari, i vecchi alibi non reggono più: «Prima c’era la scusante della ricerca. La priorità dell’Università non doveva essere certamente l’assistenza. Ma con l’incorporazione le cose sono cambiate e siamo tutti sulla stessa barca. Invece viaggiamo ancora a velocità troppo diverse e tutta l’assistenza è caricata sulle nostre spalle». Ma nonostante questo, ai tavoli decisionali, dove si firmano i protocolli di intesa e si definisce l’organizzazione della sanità, gli ospedalieri non sono rappresentanti: «Al tavolo siede l’assessore, il presidente della Regione e il Rettore. Ma noi non ci sentiamo rappresentati dal rettore Carpinelli, e vogliamo partecipare attivamente alle scelte discutendole con un nostro esponente. Anche perché un posto pensiamo ci spetti visti i numeri: più del 70 per cento del personale complessivo della sanità sassarese proviene dal comparto Asl». E per le soluzioni i primari hanno chiesto tempi stretti: «Non possiamo permetterci di aspettare i tavoli tecnici, perché le cose che non funzionano sono troppe e molto urgenti». C’è il problema delle sale operatorie: poche rispetto alla richiesta, alcune delle quali tuttora realizzate ma inutilizzabili. C’è la questione della carenza di farmaci. Per ragioni di budget l’Asl è stata costretta ad operare una serie di tagli e alcuni reparti ora si trovano sguarditi di medicine e presidi. All’assessore è stato fatto un esempio molto esplicativo: i chirurghi che da poco hanno effettuato delle biopsie sono stati costretti ad operare senza guanti perché la fornitura era esaurita. ________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Mar. ‘16 PRENOTAZIONE DELLE VISITE ONLINE ITALIANI «MAGLIA NERA» IN EUROPA la digitalizzazione in sanità in Italia è in ritardo pur essendo, secondo esperti e addetti ai lavori, un importante strumento per contrastare la corruzione. Solo il 6% degli italiani prenota visite online, contro un terzo di finlandesi e danesi e il 27% degli spagnoli. E solo il 31% dei medici utilizza le reti digitali per lo scambio dei dati sui pazienti con altri operatori sanitari, mentre in Danimarca si arriva al 92%, in Spagna al 64%, nel Regno Unito al 53%. Sono i dati elaborati dai partner del progetto «Curiamo la corruzione» (www.curiamolacorruzione.it) che promuove una maggiore trasparenza in sanità. Veneto, Lazio e Trentino Alto Adige, le regioni più virtuose. «Maglia nera» la Puglia, dove meno dell’1% dei cittadini prenota visite online. Eppure, per il 18,8% degli italiani un utilizzo più intenso di internet nella pubblica amministrazione renderebbe le procedure più trasparenti. ________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Mar. ‘16 FINALMENTE LA SIRINGA HA IL SUO COSTO UFFICIALE di Riccardo Renzi Ok, finalmente sappiamo qual è il giusto prezzo. Raffaele Cantone, capo dell’Anticorruzione, mentre si sta occupando delle finanze di Roma capitale, ha trovato il tempo di firmare una delibera che stabilisce il costo di riferimento per siringhe, cerotti e cotone (in totale 39 dispositivi medici), diventati il simbolo degli sprechi in Sanità. Ora sappiamo che una siringa costa da 0,23 a a 2,12 euro (ce ne sono 25 tipi) e l’ovatta da 0,99 a 3,2 euro al chilo. Ci si aspetta un risparmio complessivo del 15-20% all’anno. Certo è una ben strana “lista della spesa”. Immagino uno storico, tra qualche secolo, di fronte a questo documento. Le “liste della spesa” sono importanti per gli storici, che siano di un monastero del Medioevo o di un mercante del ‘500, perché permettono di ricostruire vita quotidiana e comportamenti dell’epoca. Avrà probabilmente difficoltà ad afferrare il concetto di siringa, chissà se conoscerà ancora il cotone. Ma soprattutto, riuscirà a capire il senso, per noi evidente, di quell’elenco? Che serviva cioè a evitare che qualcuno ci facesse troppo la cresta? ________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Mar. ’16 ECCO LA CLASSIFICA DELLA SANITÀ PRIVATA Mediobanca: l’Humanitas di Rocca primo per redditività, al gruppo San Donato la leadership dei ricavi Se gestita con criteri di efficienza, anche la sanità è un’”industria” che può rendere. Lo si ricava dal rapporto R&S-Mediobanca che analizza i dati dei primi 10 gruppi ospedialieri privati italiani, che realizzano 3,9 miliardi di ricavi aggregati e contano su 28.940 dipendenti. Così il gruppo Humanitas della famiglia Rocca è il primo in Italia per performance economiche con un risultato netto cumulato nel periodo 2010- 2014 pari a 149,7 milioni e dividendi distribuiti per 53,6 milioni. Leader per fatturato dellasanità privata, con un fatturato di 1,4 miliardi, è invece il gruppo San Donato, che fa capo a Papiniano, holding della famiglia Rotelli e che ha realizzato utili complessivi nel quinquennio pari a 27,6 milioni, nonostante la perdita di 53 milioni del 2012 in relazione all’acquisto del San Raffaele. Dispongono poi della struttura finanziaria più solida, con debiti assenti, Humanitas e Ieo- Istituto europeo di oncologia (che ha come soci principali Mediobanca, UnipolSai e Unicredit). Dal rapporto emerge inoltre che è in calo la quota di fatturato che riguarda le prestazioni in convenzione con il Servizio sanitario nazionale: per San Donato la percentuale di ricavi per conto delle Asl è scesa fra il 2010 e il 2014 dall’83,3 al 76,9%, mentre per Humanitas è passata dal 77,4 al 70,6%. Molto più bassa la quota per Ieo, scesa dal 20,2 al 17,7%. Il pubblico, soprattutto in Lombardia, è pagatore sollecito: 63 giorni per il gruppo dei Rotelli, 98 per i Rocca. I fornitori vengono pagati con tempi più lunghi. Sergio Bocconi ________________________________________________________ Il Tempo 14 Mar. ’16 LE DIFFERENZE DI GENERE E LA MEDICINA In «La sperimentazione clinica e le differenze di genere» (Dike Giuridica Editrice e Bibliografica Giuridica Ciampi) Alessia Amore, avvocato e dottore di ricerca, ci spiega la ricerca clinica, di cosa si occupano la medicina e la farmacologia di genere e perché le donne sono state per lungo tempo escluse dagli studi clinici. L'autrice ha saputo ben documentare i temi e i problemi sulla sperimentazione clinica, forte della scuola di bioetica che ha visto il suo maestro nel prof. Antonio Spagnolo e poi la sua pratica presso il Clinical Trial Center della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, vicino ad un altro mentore, il dott. Antonino Amato. Al libro hanno partecipato alcuni nomi dell'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e l'Ordinario di Farmacologia Prof. Pierluigi Navarra. La Dike Giuridica ha sostenuto l'idea di Ale s- sia Amore di completare l'opera con un prototipo di opuscolo informativo, vera novità, da poter veicolare in ospedali e ambienti sanitari, per fare chiarezza su queste tematiche centrali per la salute di tutti e, così, permettere di partecipare, attraverso l'informazione, con consapevolezza. Un'opera che serve anche come sollecitazione alle Istituzioni per avere una sempre maggiore attenzione al riconoscimento giuridico della medicina di genere, attraverso l'approvazione di un intervento normativo sul piano nazionale. ________________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Mar. ’16 SPECIALIZZANDI, 24 MILIONI AGLI ISCRITTI NEI CORSI DAL 1983 Corte appello Roma. Medici e direttive Ue Roma Ennesima condanna dello Stato per i mancati rimborsi agli ex medici specializzandi. L’ultimo verdetto con cui la Corte d’appello di Roma (sentenza 6942/2015) dà ragione ai camici bianchi, stabilisce un “indennizzo” di 24 milioni di euro a 667 ricorrenti che si sono specializzati nel decennio 1983-1993. Il motivo è quello comune agli ex- specializzandi: la mancata corresponsione delle borse di studio previste da direttive europee (75/362, 82/76 e 93/16) fin dal 1983 per garantire a questi medici un’adeguata retribuzione. Lo Stato italiano non le ha rispettate, fino al 2006. La sentenza 6942 risparmia ai ricorrenti anche l’onere di dimostrare che nel periodo in cui si sono specializzati non hanno svolto altre attività retribuite: «In ordine alla prova circa l’esclusività e la continuità dei corsi di specializzazione frequentati dagli appellanti - si legge nella sentenza - si rileva che trattasi di circostanza cui gli istanti non sono in grado di rispondere a causa dell’inadempienza dello Stato e che del resto a causa di tale inadempienza...sono stati costretti a seguire i corsi di specializzazione privi delle regole previste nelle direttive Cee». La pronuncia di Roma arriva dopo quella con cui il Tribunale di Bologna (sentenza 3063 del 27 ottobre 2015) aveva allargato i risarcimenti agli immatricolati alle scuole prima dell’83, inserendo nei rimborsi gli anni dal ’78, malgrado solo per i corsi successivi ci fosse un obbligo di adempiere alle direttive. Alla base della tesi che allarga i risarcimenti, c’è una supposta disparità di trattamento per chi si trovava nelle medesime condizioni. Sul punto si dovranno però esprimere le Sezioni unite della Cassazione, chiamate in causa con l’ordinanza interlocutoria del 18 novembre scorso (n.23652, si veda Il Sole 24 Ore del 19 novembre 2015). Le Sezioni unite dovrà appianare i contrasti sorti all’interno della stessa Cassazione sul diritto “retroattivo” o meno. Secondo la sezione remittente, l’esclusione non sarebbe discriminatoria, considerando che per gli iscritti ante ’83 le regole da applicare erano quelle esistenti al momento di avvio del corso per l’intera sua durata. I giudici remittenti non trascurano neppure le esigenze di finanza pubblica «che hanno consentito l’evidente gradualità temporale nel complessivo adeguamento dell’ordinamento nazionale alla normativa comunitaria». In effetti, la partita che si gioca non è di poco conto. Secondo gli Ordini, i medici specializzandi, iscritti tra il 1983 e il 2006 sono 160 mila. Il rischio di esborso per lo Stato, calcolato oggi in 4 miliardi, potrebbe lievitare. Un’ipotesi che ha indotto 21 senatori a presentare una mozione (1-00498) per chiedere un impegno del Governo per una soluzione che preveda un congruo indennizzo in modo da porre fine all’enorme contenzioso. In questa direzione vanno anche le raccomandazioni di Consulcesi, il pool di avvocati che rappresenta la maggior parte dei ricorrenti (402 milioni di risarcimenti sui circa 500 riconosciuti). Per il presidente, Massimo Tortorella, il Governo di trova a un bivio: continuare a pagare i medici o trovare un accordo con loro. Martedì prossimo Consulcesi sarà a Torino per la restituzione di assegni per circa 9 milioni di euro riconosciuti a seguito di altri contenziosi, mentre promette di lanciare una nuova class action a breve. © RIPRODUZIONE RISERVATA Patrizia Maciocchi ________________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Mar. ’16 SANITÀ. NEL GIUDIZIO CIVILE NON SERVE LA CERTEZZA Basta la probabilità per costringere l’Asl a «pagare» il danno Nel giudizio civile, per accertare la responsabilità di un sanitario o di una struttura ospedalieria, non è necessaria la certezza, ma basta l’elevata probabilità. Lo ribadisce il Tribunale di Taranto nella sentenza del 4 gennaio 2016 che ha condannato un’azienda sanitaria locale a risarcire il danno patito da un minore per la degenerazione di un’appendicite acuta non tempestivamente diagnostica. I genitori del minore, che accusava forti dolori addominali con vomito, lo avevano accompagnato al pronto soccorso; dopo una consulenza pediatrica e una chirurgica, il ragazzo era stato dimesso con un antidolorifico. A distanza di alcune ore, i sintomi si erano riacutizzati e il minore era stato portato di nuovo in pronto soccorso. Era stato ricoverato e tenuto in osservazione per cinque giorni, finché per il manifestarsi di una peritonite acuta diffusa, era stato operato d’urgenza. I genitori avevano quindi chiesto all’azienda sanitaria il risarcimento dei danni derivanti dall’invalidità permanente e temporanea patita dal figlio, che ritenevano causati dal ritardo nella diagnosi. Il Tribunale di Taranto, avvalendosi di una consulenza medico legale, aveva accertato che già al momento del primo ingresso in pronto soccorso dagli esami ematici erano emersi dati significativi di un importante stato infettivo (in particolare un numero assai elevato di globuli bianchi); dati che erano stati trascurati, limitandosi i sanitari a somministrare una terapia analgesica. Al secondo accesso al pronto soccorso, la febbre e l’anoressia avrebbero già consentito la formulazione di una diagnosi di appendicite da approfondire tempestivamente con una ecografia addominale. Omissioni e trascuratezze avevano invece consentito la degenerazione di un’appendicite acuta in un processo di gangrena appendicolare con peritonite e accesso pelvico che aveva impedito il trattamento laparoscopico e aveva reso urgente un intervento chirurgico con accesso laparotomico, da cui era derivata una sindrome aderenziale con la complicazione di una cicatrice addominale diastasata. Il problema era stabilire se questi effetti invalidanti potessero dirsi casualmente connessi con il ritardo nella diagnosi e se vi fosse prova certa che una tempestiva diagnosi li avrebbe evitati. Secondo il Tribunale tarantino il nesso tra ritardata diagnosi ed effetti lesivi poteva dirsi se non certo, comunque altamente probabile. E ciò è bastato per condannare l’azienda. Difatti, come affermato dalle sezioni unite della Cassazione (sentenze 576 e 581 del 2008), in sede civile la causalità va valutata secondo la regola «del più probabile che non». Per ricollegare quindi un evento lesivo ad un atto medico colposo occorre che sussista un nesso causale non in termini di certezza (”oltre ogni ragionevole dubbio”, come in sede penale) né di mera possibilità, ma di rilevante probabilità, nel senso che l’azione o l’omissione del singolo sanitario o della struttura deve aver causato il danno lamentato dal paziente con un grado di efficienza causale così alto da rendere più che plausibile l’esclusione di altri fattori concomitanti o addirittura assorbenti. © RIPRODUZIONE RISERVATA Giovanbattista Tona ________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Mar. ’16 LE PROMESSE DI TRUMP SULLA SANITÀ AMERICANA di Massimo Gaggi Nel suo diluvio di sortite xenofobe, autoritarie, protezioniste o semplicemente in conflitto con elementari diritti civili e con le regole del diritto internazionale, Donald Trump ha tirato fuori anche verità economiche scomode per il partito repubblicano. Più tasse per i ricchi per ridurre le diseguaglianze, più Stato nelle opere pubbliche per rilanciare infrastrutture oggi fatiscenti: bestemmie per i conservatori. Ma un campo nel quale il trionfatore delle primarie dice cose molto efficaci nei comizi è quello della sanità che negli Usa è avanzata sul piano della ricerca e delle scoperte scientifiche, ma volutamente primitiva in quanto a erogazione dei servizi: medici costosi, tariffe ospedaliere che sono multipli di quelle degli altri Paesi avanzati, farmaci e qualunque esame di laboratorio che possono facilmente costare cinque volte il prezzo in Europa. Le cause sono tante: dai medici che devono rimborsare debiti di studio di 2-300 mila dollari al farmacista che confeziona a mano i medicinali. E poi le case farmaceutiche che, in assenza di regole, impongono prezzi altissimi mentre le farmacie applicano, per ogni prodotto, prezzi diversi a seconda dell’assicurazione sanitaria del cliente. Chi compra senza avere la mutua paga molto di più. E, nell’era digitale che consente di trovare con un click l’offerta più conveniente di un volo o un hotel, per sapere quanto costa un antidolorifico bisogna arrivare alla cassa della farmacia. Le cause sono tante ma se — nonostante la riforma di Obama che ha esteso il servizio ai non abbienti, ma non ne ha modificato i meccanismi — la sanità Usa è così costosa e arretrata, ciò dipende in gran parte dalle pressioni delle potenti lobby dei farmaci e di altre organizzazioni sanitarie che finanziano la politica ottenendo la rinuncia a introdurre controlli, calmieri e meccanismi di concorrenza internazionale. Qui la denuncia di Trump è giusta. Ma la promessa di scardinare questi meccanismi una volta alla Casa Bianca, lascia perplessi. La memoria va alle liberalizzazioni promesse e mai attuate da noi dal liberale Berlusconi. E poi c’è sempre lo scoglio del Congresso «lobbyzzato», ormai abituato a ignorare le richieste dei presidenti. Per adesso i pazienti americani ripongono più fiducia in siti come «GoodRx» e «Blink Health», i primi che cominciano a comparare i prezzi di farmaci a livello nazionale, trovando e consegnando a domicilio quelli più scontati. ________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Mar. ‘16 GLI ORMONI TIROIDEI SINTETICI RIESCONO DAVVERO A SOSTITUIRE QUELLI NATURALI? Ho 19 anni, peso 56,6 kg, sono alta 165 centimetri. Sono stata sottoposta a un intervento di tiroidectomia totale per gozzo multinodulare con un nodulo di 5,5 centimetri e altri tre nodulini. Il nodulo era cresciuto di mezzo centimetro nel giro di 6 mesi e, sottoposto ad agoaspirato, è risultato essere un TIR 3B e dunque, di natura dubbia. Mi hanno spiegato che c’era una probabilità del 15-30 per cento che fosse a rischio di malignità. Anche su consiglio del medico ho pertanto deciso di sottopormi all’operazione. A oggi posso dire di stare benissimo, ma ho un dubbio: la terapia sostitutiva che dovrò fare per tutta la vita davvero sostituisce completamente il lavoro che svolge(va) la mia tiroide? Gli ormoni che assumo attraverso le pastiglie di levotiroxina, o attraverso la soluzione orale, sono esattamente uguali a quelli che produceva prima la mia tiroide e sono sufficienti? Inoltre ho un altro dubbio: so che a 19 anni la crescita normalmente è già terminata, però non vorrei che, non facendo la terapia corretta, mi fosse preclusa la possibilità di guadagnare ancora qualche centimetro . Lei solleva un problema davvero importante e si fa voce delle lamentele di svariati pazienti che mal si adattano alla terapia ormonale sostitutiva con L-tiroxina, la sola approvata, a tutt’oggi, dalle principali Linee guida internazionali per la terapia dell’ipotiroidismo. Per capire meglio occorrono brevi nozioni di fisiologia della tiroide che spero di riuscire a spiegare in maniera comprensibile: la ghiandola tiroide produce tutta la tiroxina (o T4) che circola nel nostro sangue, ma solo una quota minore della triiodotironina (o T3) circolante (20-30 per cento, a seconda dell’apporto iodico alimentare). La T3 viene infatti prodotta prevalentemente a livello di diversi tessuti periferici (soprattutto fegato, rene, muscolo ma anche cute, cervello, cuore, intestino) grazie all’azione delle desiodasi , un gruppo di enzimi che staccano un atomo di iodio dalla T4 trasformandola in T3; la T3 è circa 10 volte biologicamente più potente della T4. Il soggetto che non ha più la tiroide, non potendo più produrre ormoni tiroidei deve necessariamente assumerli dall’esterno e per tutta la vita. La terapia è effettuata mediante la somministrazione della T4, poiché si ritiene che la T3 sia adeguatamente generata, grazie all’azione degli enzimi desiodasici, a livello dei tessuti periferici. In realtà questo meccanismo di conversione, in alcuni soggetti e, soprattutto, in presenza di fattori interferenti sia fisiologici sia patologici (come, ad esempio, altre patologie concomitanti o l’assunzione di altri farmaci) potrebbe non essere ottimale e non riuscire a fornire adeguatamente gli ormoni tiroidei, soprattutto la T3 che realmente ci serve. In tali casi, quindi, potrebbe essere utile aggiungere alla tradizionale terapia a base di T4 anche una supplementazione con T3. Tale ipotesi è correntemente oggetto di studi sia a livello di ricerca di base che di trial clinici (uno sta per iniziare anche da noi, in Italia, proprio in questi giorni) e in commercio sono state introdotte, sempre di recente, preparazioni farmacologiche a base di T3. Il problema è che, a causa della breve emivita biologica, per essere efficace la T3 deve essere somministrata almeno due volte al giorno (meglio tre). Ciò rende più problematica la sua assunzione visto che il farmaco deve essere assunto per tutta la vita e potrebbero insorgere problemi di scarsa aderenza alla terapia. Per ovviare a questo problema l’industria farmaceutica sta sperimentando delle preparazioni a lento rilascio della T3 che eviterebbero la necessità di assumere l’ormone più volte al giorno.Vedremo se i risultati di questi studi e ricerche consentiranno di modificare le Linee guida sulla terapia ormonale sostitutiva con ormoni tiroidei e, conseguentemente, la terapia che ogni paziente dovrà effettuare. Allo stato attuale, tuttavia, non posso che suggerirle di continuare la terapia che sta già effettuando, a base di sola tiroxina.Quanto alla speranza di crescere, mi rincresce doverle dire che, in una donna, a 19 anni, tale possibilità è davvero esigua. E, conseguentemente, è poco rilevante la modalità con cui viene effettuata la supplementazione ormonale tiroidea. Ma perché chiedere più di 165 centimetri in altezza? L’altezza media di una donna italiana è oggi di circa 162 centimetri, quindi lei è già sopra la media. ________________________________________________________ Tst 16 Mar. ’16 I TEST CON GLI ANIMALI CI SALVANO NEGARLO È UNA LEGGENDA METROPOLITANA Le associazioni scientifiche replicano alla campagna della Lav FISIOLOGIA FIORENZO CONTI UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLE MARCHE Il filosofo Peter Singer è un riconosciuto riferimento intellettuale di gran parte dell'attivismo animalista. Il suo «Animai Liberation» del 1975, nel quale difendeva uno statuto morale di fatto egualitario per gli animali, ha rappresentato un passaggio nel dibatto contemporaneo sul rapporto con gli animali. Che si sia o no d'accordo con le posizioni espresse da Singer nel suo libro e con alcune sue estremizzazioni, non si può non coglierne l'originalità, frutto di una mente non banale e di una riflessione coerente. Tipu Aziz, un neurochirurgo d'origine bengalese che lavora ad Oxford, è stato uno dei pionieri della stimolazione cerebrale profonda, una tecnica basata sulla stimolazione elettrica di alcune strutture cerebrali attraverso sottili microelettrodi per eliminare sintomi o segni in pazienti affetti da malattie neurologiche, soprattutto il morbo di Parkinson. Il 27 novembre 2006 i due partecipavano ad una trasmissione tv della Bbc2 dal titolo «Monkeys, Rats and Me: Animai Testing». Aziz spiegava a Singer che, all'epoca, 40 mila persone erano state sottoposte a quell'intervento con grande giovamento delle loro condizioni neurologiche. Raccontava anche che, per verificare la tecnica prima di impiegarla nell'uomo, lui e altri colleghi in diversi laboratori avevano utilizzato un centinaio di scimmie. Il commento del filosofo, così come anticipato da «The Sunday Times» il 26 novembre, fu che in un caso del genere l'esperimento era «giustificabile», aggiungendo che il neurochirurgo non doveva rimproverarsi di averlo fatto, posto che non ci fossero stati altri mezzi per sviluppare quella tecnica e che le scimmie fossero state trattate bene. In seguito alle polemiche sollevate dagli animalisti Singer modificò leggermente la sua posizione, senza modificarne sostanzialmente il concetto. L'impiego degli animali nella ricerca biomedica è un tema complesso che può essere affrontato da moltissimi punti di vista (filosofico, religioso, affettivo), ma da qualunque punto si parta nell'analisi del problema alla fine, inevitabilmente, si arriva alla questione nodale, che troppo spesso, ipocritamente, si cerca di occultare: la ricerca per la conoscenza delle cause delle malattie e per lo sviluppo di terapie efficaci deve continuare o no? Anche se a prima vista sembrerebbero esserci diverse soluzioni, di fatto, ce ne sono due: sì o no. Possiamo decidere per l'una o per l'altra soluzione, ma cerchiamo di farlo avendo studiato il problema ed essendo consapevoli delle nostre decisioni. In questa prospettiva assumono grande importanza le questioni della trasferibilità all'uomo dei risultati degli studi sugli animali e delle «metodiche alternative». Sulla prima rimanderei ai dati riportati dal farmacologo Gaetano Di Chiara: cita uno studio che dimostra come i meccanismi neuro- biologici della dipendenza siano simili nel ratto e nell'uomo. Aggiungendo che nei nostri personali studi sulla localizzazione di molecole che regolano la funzione sinaptica (e sono ormai molti) non abbiamo mai riscontrato significative differenze tra i dati ottenuti nella corteccia cerebrale del ratto e in quella dell'uomo. E, in ogni caso, anche se non tutto quello che impariamo dai ratti o dalle scimmie è direttamente traslabile all'uomo, è comunque un'utilissima indicazione. Sulla seconda questione siamo d'accordo: usiamo metodi alternativi all'impiego degli animali. Il problema nasce quando si cerca di capire quali siano i metodi alternativi e si scopre che per non pochi campi di ricerca, con la parziale eccezione delle colture cellulari e dell'uso di metodi statistici più raffinati, questi semplicemente non esistono e, quando esistono, non risolvono il problema, essendo al massimo un aiuto (e quindi, allo stato attuale delle conoscenze, sono metodi complementari). Questo succede, per esempio, nelle neuroscienze. La sola corteccia cerebrale, il mantello che ricopre il resto del cervello, contiene 30 miliardi di neuroni (le cellule principali), che possono formare un milione di miliardi di sinapsi (i punti di contatto e trasferimento d'informazioni tra un neurone e l'altro) e sostenere un numero incredibile di circuiti (10, seguito da un milione di 0): questi mediano le funzioni cerebrali, in- eluse quelle superiori, e in questi vanno anche ricercate le cause di tutte le malattie neuropsichiatriche. A queste cellule vanno poi aggiunti gli astro- citi, circa 10 volte più numerosi dei neuroni, e un numero immenso di altre cellule, chiamate oligodendrociti e microglia. Di fronte a questi numeri impressionanti (il cervello è la struttura più complessa dell'Universo!) una semplice considerazione: le funzioni cerebrali sono determinate dall'interazione simultanea di milioni di neuroni e le disfunzioni, quando non sono determinate da cause grossolane (come tumori o emorragie...), sono la conseguenza di perturbazioni di queste interazioni. È evidente che le colture cellulari non possono far capire come funziona e come non funziona il nostro cervello. Senza dubbio, possono contribuire a comprendere come funziona una singola sinapsi, anche se, per la complessità di questi processi, non sappiamo ancora quanto singole sinapsi siano uguali o diverse tra loro (sulla base delle molecole contenute). Per comprendere come funziona e come s'ammala il cervello è ancora necessario il cervello vivo e intero, come aveva compreso Singer. Affermare l'esistenza di metodiche alternative nelle neuroscienze - per esempio la mitica simulazione al computer (come possiamo simulare se non sappiamo cosa inserire nel simulatore?) o l'acquisizione delle reti nervose - è quindi del tutto prematuro e, oggi, senza senso. Significa alimentare una leggenda metropolitana, vendere fumo e burlare la gente. Quando le nostre conoscenze saranno cambiate, questa affermazione sarà automaticamente cambiata ________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Mar. ‘16 INFIAMMAZIONI E DOLORE QUANDO LA CURA È GLACIALE La crioterapia si propone come trattamento per malattie croniche e autoimmuni Prospettive interessanti ma prove da confermare Tre minuti al massimo, ad una temperatura di meno 130 gradi: in questo consiste la crioterapia sistemica (Whole Body Cryotherapy - WBC), un trattamento che aspira ad uscire dall’ambito di applicazione sportivo ed estetico dove finora è rimasto confinato per conquistare definitivamente lo status di terapia medica a tutti gli effetti. Certo l’idea di assaporare il brivido di un tuffo in un lago ghiacciato, pratica comune nei Paesi nordici e dell’ Est europeo, per curarsi può sembrare un tantino da masochisti. Eppure proprio quella pratica, in Polonia soprattutto, da 30 anni è riconosciuta come una cura vera e propria rimborsata dal Servizio sanitario nazionale. In Italia la crioterapia sistemica è ancora poco nota e applicata. «È un trattamento medico efficace per diversi sintomi e patologie, come dimostra la letteratura scientifica in materia — spiega il professor Giuseppe Banfi, direttore generale della Fondazione Centro San Raffaele di Milano che ha organizzato il primo convegno sul tema, chiamando diversi esperti a confrontarsi —. Il trattamento si basa sulla terapia del freddo e, semplificando, non è altro che un potentissimo antinfiammatorio senza effetti collaterali. È facile da attuare e sicura se effettuata in sedi autorizzate da personale qualificato, sotto controllo medico. Non ha controindicazioni, se non ad esempio per casi di ipersensibilità al freddo, specifici problemi cardiovascolari o claustrofobia». Pratica antichissima,questa, se lo stesso Ippocrate padre della medicina prescriveva il trattamento con acqua fredda per il dolore e le infiammazioni. A distanza di due millenni, è curioso registrare - come ha fatto una revisione della letteratura del 2007, pubblicata su Emergency Medicine Journal - che in effetti l’80% dei medici prescrive la crioterapia per il trattamento sintomatico di traumi e di patologie dei tessuti molli. Ma lo fa per lo più in base all’esperienza (50% dei casi) o al senso comune (30%) e solo nel 17% dei casi fondando la scelta su un ragionamento scientifico. Gli studi scientifici ci sono, certo, ma siamo ancora lontani dall’avere raggiunto prove solide di efficacia. Per una serie di motivi: «Non esistono trial clinici randomizzati — evidenzia Giovanni Lombardi, responsabile del laboratorio di Biochimica sperimentale e Biologia molecolare all’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano — . È un punto essenziale, perché solo questi trial ci permettono di raggiungere quella che viene chiamata medicina basata sulle prove. Manca poi una standardizzazione dei protocolli di crioterapia e abbiamo un’eterogeneità troppo grande nelle caratteristiche antropometriche dei pazienti analizzati nei vari studi». Ma, tiene a sottolineare Lombardi, «dal punto di vista clinico invece l’evidenza c’è: la crioterapia riduce il dolore e lo status pro-infiammatorio, migliora la qualità della vita dei pazienti in una serie di patologie, fino a 6-8 mesi dalla conclusione del trattamento». Secondo il professor Antonio La Torre, della Scuola di Scienze Motorie dell’Università degli Studi di Milano, i limiti della crioterapia «sono relativi alla scarsa presenza ancora di studi randomizzati, perché prima di tutto è una scienza giovane e poi occorrono i fondi» . Lo spettro di trattamento è ampio. «Le indicazioni variano moltissimo — sottolinea ancora Lombardi — : dal dolore articolare o al back pain o al dolore a livello di colonna da artrosi o da rigidità muscolare, alle patologie infiammatorie, ai traumi o al sovraccarico muscolare e tendineo e poi tutta una serie di patologie infiammatorie, auto-infiammatorie e autoimmuni. Giusto per citarne qualcuna,la psoriasi e l’artropatia psoriasica, le poliartriti, le paresi e le contratture spastiche, la fibromialgia, la dermatite atopica, fino alla sclerosi multipla». Cosa succede al corpo in una condizione così estrema? Il meccanismo di difesa innescato per contrastare il freddo, stimola la circolazione sanguigna, il sistema endocrino, il sistema immunitario e il sistema nervoso centrale con proprietà antinfiammatorie, analgesiche, antidolorifiche, anti-metaboliche e antidepressive. «Il freddo determina il rilascio di acetilcolina e noradrenalina dai neuroni del sistema simpatico che vanno a inibire a livello di sistema immunitario il fattore di trascrizione NF-kB, cioè il centro dell’infiammazione — entra nel dettaglio Lombardi —. Così vengono bloccati anche i mediatori infiammatori “a valle” e la produzione di radicali liberi e di molecole di adesione (le proteine collocate sulla superficie cellulare, ndr) che attivano la fuoriuscita dei globuli bianchi nei tessuti e quindi la produzione in loco dello stimolo infiammatorio. Inoltre il freddo provoca una vasocostrizione e quindi limita l’infiammazione e inibisce direttamente gli enzimi coinvolti nella distruzione dei tessuti, fenomeno comune a tutti i processi infiammatori». Se i meccanismi fisiologici del freddo dunque sono noti, la strada per ottenere un riconoscimento della crioterapia sistemica a livello di Servizio sanitario nazionale presenta ancora parecchie incognite. Le strutture, pubbliche o private, dove è possibile provare la crioterapia, sono una decina, quasi tutte al nord. Il servizio non è convenzionato e il costo va dai 60 ai 100 euro a seduta. «In Polonia — racconta la professoressa Anna Lubkowska della Pomeranian Medical University di Szczeczin — funzionano 150 criocamere e il servizio sanitario rimborsa circa 100 euro l’anno che garantiscono la copertura di un intero ciclo di 10-15 sedute». Ruggiero Corcella ________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Mar. ‘16 TUMORE ALLA PROSTATA LA TATTICA «ATTENDISTA» Un attento controllo senza interventi immediati dà migliori risultati di una strategia aggressiva quando la malattia è a basso rischio di progressione Una filosofia nata per l’eccesso di diagnosi A partire dagli anni 90 la grande diffusione del test del PSA (Antigene Prostatico Specifico) e l’aumento del numero delle biopsie hanno provocato una crescita delle diagnosi di carcinoma prostatico prima che compaiano sintomi. Ciò ha portato a scoprire anche molti tumori indolenti , che crescono lentamente e raramente saranno un problema per gli interessati. «Si è verificato un eccesso di diagnosi e di conseguenti trattamenti inutili — dice Michele Gallucci, responsabile dell’Urologia all’Istituto Tumori Regina Elena di Roma —. Per ovviare al problema all’inizio degli anni Duemila è stata introdotta la sorveglianza attiva , un atteggiamento riservato a pazienti selezionati. Gli uomini con una neoplasia «a basso rischio», come suggerisce il termine stesso, hanno infatti alte probabilità che il loro tumore resti fermo nel tempo, non cresca, non dia metastasi». Scegliere di tenere sotto attento monitoraggio la malattia invece di sottoporsi immediatamente a un trattamento si traduce in una migliore qualità di vita per gli uomini con un tumore alla prostata a basso rischio di progressione. Secondo uno studio appena presentato al congresso dell’Associazione Europea di Urologia (EAU) la vita degli uomini che decidono di non fare subito un intervento chirurgico o una radioterapia resta pressoché uguale a quella dei coetanei che non hanno avuto una diagnosi di cancro. Per la loro indagine ricercatori olandesi dell’ Erasumus University Medical Center di Rotterdam hanno seguito per un lungo periodo di tempo (fra 5 e 10 anni dal momento della diagnosi) 427 uomini in media 70enni, ai quali hanno fatto compilare dettagliati questionari nei quali si chiedevano informazioni su numerosi parametri: stato di salute generale, percezione del proprio benessere, eventuale stato di ansia sofferto, preoccupazione per l’andamento del tumore, funzionalità urinaria e sessuale. Gli stessi test sono stati eseguiti da altri tre gruppi di persone: uomini sani, pazienti con carcinoma prostatico sottoposti prostatectomia radicale (l’asportazione totale della prostata) e malati curati con radioterapia. «Questo è il primo studio a fare un simile paragone sul lungo periodo in quattro differenti categorie di uomini — ha spiegato, durante la sua presentazione all’EAU di Monaco, Lionne Venderbos, la ricercatrice olandese prima autrice dell’indagine —. I risultati indicano chiaramente che i partecipanti arruolati all’interno del protocollo di sorveglianza attiva ( ovvero la strategia che prevede, in determinati casi, di tenere il tumore sotto controllo senza intervenire, ndr) , vivono meglio rispetto a quelli operati o trattati con radioterapia: hanno una migliore funzionalità urinaria e sessuale, soffrono meno di incontinenza e la loro qualità di vita risulta molto simile a quella di chi non è malato». Un’informazione, quest’ultima, che non è affatto di poco conto perché spesso si ritiene che il solo monitoraggio possa essere fonte di grande stress per i pazienti. «La ricerca olandese, invece, conferma quello che mostra anche la nostra esperienza su centinaia di pazienti seguiti da anni in Istituto — commenta Riccardo Valdagni, direttore del Programma Prostata dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, pioniere della sorveglianza attiva in Italia —. Certo non è semplice accettare l’idea di non “eliminare” subito il cancro, è una questione psicologica e culturale. Ma, se ben informati e attentamente seguiti, malati e familiari vivono serenamente e gestiscono al meglio le loro preoccupazioni, come indica il dato sui bassi livelli di ansia degli appartenenti al gruppo seguito con la sorveglianza attiva». In Italia nel 2015 sono state 35 mila le nuove diagnosi di tumore alla prostata: secondo le statistiche circa il 40 per cento (14 mila) sono forme cosiddette indolenti o a basso rischio di progressione. Si tratta, in pratica, di lesioni di piccole dimensioni e non aggressive, caratterizzate da una crescita che può essere molto lenta. «Per questi pazienti è possibile adottare una strategia osservazionale come appunto la sorveglianza attiva — spiega Valdagni, che è anche presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO) —, tenendo sotto stretto controllo nel tempo il comportamento e l’evoluzione del tumore, riservando un eventuale trattamento solo a chi ne abbia in futuro bisogno. Ovvero si interviene con una terapia soltanto se e quando la malattia cambia atteggiamento e intanto si risparmiano agli uomini i possibili effetti collaterali delle cure, incontinenza e disfunzione erettile primi fra tutti. Ma, ad oggi, la maggior parte di quei 14 mila candidati alla sorveglianza finisce invece per fare una terapia». Il “sorvegliato speciale” viene sottoposto a controlli periodici e programmati del PSA (ogni tre mesi), a viste cliniche con esplorazione rettale (ogni sei mesi) a biopsie di riclassificazione (dopo uno, quattro, sette e dieci anni dalla diagnosi). Esami aggiuntivi vengono poi proposti sulla base di eventuali segnali dubbi per stabilire come procedere. Oltre agli esami e alle visite è poi indispensabile che si parli con i pazienti, li si aiuti a superare le eventuali difficoltà psicologiche, come l’ansia, e che si instauri con loro un dialogo basato sulla fiducia e su tutte le informazioni di cui necessitano per vivere serenamente. «Gli esiti di questo studio confermano che la sorveglianza attiva è ben accettata dai pazienti, oltre a essere un approccio sicuro in casi selezionati — dice Alberto Briganti, urologo del San Raffaele di Milano e membro del comitato scientifico dell’EAU —. È importante inoltre che tutti i malati candidabili alla sorveglianza vengano correttamente informati sia della necessità dei controlli periodici sia dell’impatto sulla qualità di vita che potrebbero avere gli effetti collaterali delle terapie». «La sorveglianza attiva è una strategia scientifica vera e propria che deve rispettare precisi criteri — conclude Valdagni —. È fondamentale che i pazienti siano inseriti in un protocollo strutturato con percorsi e procedure condivise tra le diverse figure professionali coinvolte, evitando così la sorveglianza “fai da te”. Se i pazienti non si presentano alle visite devono essere richiamati e fra i nostri assistiti solo lo 0,1 per cento dei partecipanti è da considerarsi perso al follow up ( controlli nel tempo, ndr )». Vera Martinella ________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Mar. ’16 BEVI IL CANNONAU , E CAMPI CENT’ANNI In Sardegna la famiglia Argiolas ha dedicato una nuova etichetta (e un libro) agli ultra longevi dell’isola di Luciano Ferraro Quando Adolfino, 102 anni e quattro pecore che ogni giorno porta al pascolo, ha visto arrivare la fotografa Daniela Zedda, l’ha invitata al bar e ha iniziato a corteggiarla. Adolfino Puddu è uno degli 11 ultracentenari sardi che animano il libro Senes, parola palindroma (dal latino senex, anziano). Senes è anche il nome di un nuovo vino, un Cannonau Riserva della famiglia Argiolas. Le foto del libro diventeranno una mostra, dal 24 marzo, al circolo Marras (quello dello stilista Antonio, in via Cola di Rienzo 8) di Milano. Assieme alle immagini si svelerà il vino. Ci sono voluti tre anni di lavoro per questo viaggio nelle radici e nell’umanità della Sardegna. Tutto è iniziato con gli studi dell’Università di Sassari e con la volontà degli Argiolas di rendere omaggio al patriarca Antonio, fondatore della cantina, morto a 102 anni. Perché la Sardegna ha la più alta densità al mondo di longevi? Nel progetto «AKeA» (acronimo di «A cent’anni», il saluto sardo per i brindisi), sono stati censiti 373 centenari, 22 ogni centomila abitanti. Tre vivono a Serdiana, paese degli Argiolas, 2.700 abitanti. I ricercatori, dall’inizio dello studio, hanno intervistato più di tremila super longevi e hanno scoperto che la maggioranza era abituata a bere con moderazione vino, spesso il Cannonau, un rosso carico di polifenoli, antiossidanti naturali. «Nonno Antonio — racconta la nipote Valentina — beveva un bicchiere di Cannonau a giorno, assieme alla minestra vegetale. Si arrabbiava se qualcuno lo chiamava vecchio. Rispondeva: sto solo diventando grande». Alla sua morte, gli Argiolas, una famiglia solida e unita che ha portato il vino sardo d’eccellenza nel mondo (grazie anche all’enologo Giacomo Tachis che ideò il celebre Turriga), ha pensato di realizzare il sogno di Antonio: formare con altri centenari sardi una squadra, 11 come nel calcio, con lui stesso idealmente alla guida, il capitano. Così è nato il progetto Senes. Daniela Zedda ha ritratto uomini e donne, la giornalista Manuela Arca e lo scrittore Marcello Fois li hanno raccontati. «Ognuno nel luogo d’elezione — racconta Valentina — in un bosco o tra le reti da pesca». Ecco Filomena Marongiu, 111 anni, un filo di perle sull’abito blu, concentrata nella lettura di un libro. Ecco Giulio Podda in sella a una Graziella, con cui, a 102 anni, pedala per 7 chilometri al giorno. E Giacobba Lepori, di Villagrande Strisaili, matriarca del paese con il primato della longevità maschile: 103 anni trascorsi con una dieta a base di verdure e di latte di capra. Nel labirinto delle 11 vite Fois ha cercato la formula della lunga vita. E l’ha decifrata con una parola per ogni volto, spesso un sentimento o un’attitudine: inventiva, movimento, unione, ottimismo, serenità. E poi la natura, il mare e il vino. Il progetto Senes ha infine preso la forma di 12 mila bottiglie (costo 20 euro), grazie ai vigneti di Siurgus Donigala, nelle Tenute di Sisini, a una trentina di chilometri da Cagliari. ________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Mar. ’16 IL 60% DEI COSMETICI AL MONDO È ITALIANO Il settore vale nel complesso 14 miliardi di euro Un mercato da 14 miliardi. Questo il valore del settore cosmetico italiano, che è leader a livello globale con la produzione del 60% del make-up distribuito a livello mondiale. Un mercato in continua crescita che dopo aver raggiunto i 10 miliardi di prodotto nel 2015 con un incremento del 4,1% sull'anno precedente, continuerà a crescere anche quest'anno. Le stime sono per un incremento del fatturato di un altro 4%. Alla produzione si sommano altre due voci: i macchinari che hanno un fatturato di 200 milioni di euro e l'imballaggio altri 3 miliardi di euro. Nel complesso, quindi, il comparto, da oggi in mostra al Cosmoprof di Bologna, vale per l'Italia poco più 14 miliardi di euro l'anno. Lo studio sul settore di Unipro ha sottolineato come nonostante la stabilizzazione del mercato domestico, è comunque ancora la compoinente estera della domanda a incidere significativamente sulla crescita del fatturato: le esportazioni nel 2015 hanno infatti registrato un incremento del 14,3% solo in riferimento ai prodotti finiti, esclude quindi le materie prime. Il valore è stato di circa 3,8 miliardi di euro. E anche per l'anno in corso il contributo dell'export è considerato rilevante: la domanda estera dovrebbe crescere del 9% a fronte di un ben più modesto +0,9% del mercato italiano L'industria ad oggi conta 35mila diretti, che diventano 200mila con l'indotto e le donne impiegate nel settore rappresentano il 54% (circa 19.000), mentre la media dell'industria manifatturiera è ferma al 28%. Nello spaccato per competenze, i laureati rappresentano l'11% degli occupati, contro una media nazionale del 6% e le donne laureate sono circa 1.700, il 45% dei laureati nel settore. Oltre agli specializzati in chimica farmaceutica e cosmetologia, sono numerosi gli addetti specializzati in particolare in economia e marketing di canale. Il comparto è, inoltre, all'avanguardia per la ricerca e l'innovazione. A livello finanziario il valore degli investimenti per l'innovazione e la tecnologia, la ricerca e lo sviluppo le imprese della cosmesi in Italia investono circa il 7% del fatturato, contro una media nazionale stimata attorno al 3%. Effervescente il mercato delle startup, che prendono avvio soprattutto dalle materie prime naturali che l'Italia offre. Proprio per questo il costo delle materie prime riesce ad essere contenuto: per il 67% degli intervistati da Unipro le materie prime hanno un costo sotto il 3%, per il 10% degli intervistati i costi sono oltre il 6%, mentre il restante 23% ha costi compresi tra 3 e 6%. Per l'anno in corso, però, ci si attende un aumento per il 35% degli intervistati. Se si guarda ai mercati di sbocco dell'industria cosmetica italiana la Francia resta il primo importatore con un peso in aumento del 5% nel 2015 da 191 a 213 milioni di euro, seguita dalla Germania stabile a 181 milioni e Stati Uniti con 141 milioni (+21,3%). Particolarmente interessante l'incremento registrato da Hong Kong (+30,7%) e Emirati Arabi Uniti (+33,9%) con valori attorno ai 70 milioni l'anno. L'innovazione viene anche dai driver si maggior rilievo per i consumatori nel triennio 2015-2017: al primo posto l'e-commerce (20%), seguito dalle vendite del multicanale (14%). Ma fanno la loro comparsa anche i social media (+13%) . E non è un caso che personaggi come Clio Make Up possano contare oltre 2 milioni di fan su Facebook e oltre 175mila followers su Twitter. startup@ilsole24ore.com © RIPRODUZIONE RISERVATA Monica D’Ascenzo ________________________________________________________ Le Scienze 15 Mar. ’16 IL COLESTEROLO "BUONO" NON PROTEGGE SEMPRE IL CUORE Una mutazione a carico del gene SCARB1 determina livelli insolitamente alti di colesterolo HDL, considerato protettivo per il cuore, ma rende anche inattivo il suo recettore cellulare, rendendo impossibile il suo assorbimento. Lo ha scoperto un nuovo studio che richiama l'attenzione sul rapporto tra concentrazione sanguigna dei diversi tipi di colesterolo e salute cardiovascolare(red) Il colesterolo “buono” potrebbe non essere così buono. Da un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Science” da Paolo Zanoni dell'Università della Pennsylvania e colleghi di una collaborazione internazionale, è emerso infatti che una specifica mutazione genetica che determina un aumento dei livelli di questo tipo di colesterolo avrebbe effetti negativi sulla salute. Il colesterolo è una molecola fondamentale per la fisiologia degli animali, e viene trasportato nel sangue aggregato in lipoproteine. Una notevole quantità di prove scientifiche ha dimostrato che, se presenti in quantità eccessiva, queste lipoproteine sono un rischio per la salute, perché predispongono alla formazione di placche aterosclerotiche che ostruiscono i vasi sanguigni e possono provocare un infarto cardiaco. Negli ultimi decenni, la ricerca biomedica ha chiarito nei particolari i differenti effetti sanitari dei diversi tipi di lipoproteine esistenti: la distinzione principale è tra lipoproteine a bassa densità (LDL), che hanno un effetto nocivo sul sistema cardiovascolare, e lipoproteine ad alta densità (HDL) che viceversa hanno un effetto protettivo. Per questo, l'LDL è conosciuto anche come colesterolo “cattivo”, mentre l'HDL è noto come colesterolo “buono”. Questa dicotomia è stata recentemente messa in discussione da alcuni studi clinici che hanno mostrato come, utilizzando farmaci per elevare i livelli di colesterolo HDL, non si ottengano praticamente effetti. In quest'ultimo studio invece invece è stato studiato il problema dal punto di vista genetico. Zanoni e colleghi hanno sequenziato le regioni del DNA responsabili del profilo lipidico in 328 soggetti con HDL molto elevato per identificare la causa genetica di questa condizione. Uno dei geni individuati è lo SCARB1, che codifica per il principale recettore dell'HDL posto sulla superficie delle cellule. Uno dei soggetti considerati nello studio aveva una mutazione su entrambe le copie del gene SCARB1 che rendeva il recettore non funzionale, impedendo l'assorbimento dell'HDL. Per questo motivo lo stesso soggetto aveva livelli di HDL eccezionalmente alti. La stessa condizione ma meno grave è stata poi riscontrata in soggetti con una mutazione a carico di una sola delle due copie del gene. In sostanza, livelli molto elevati di HDL sono presenti in soggetti che non possono assorbirlo, e quindi paradossalmente questi livelli elevati non sono affatto indicativi di un'azione protettiva nei confronti del sistema cardiovascolare. “Questa è la prima dimostrazione dell'esistenza di una mutazione genetica che aumenta l'HDL ma incrementa il rischio di malattia cardiaca: il risultato dimostra che gli effetti protettivi dell'HDL dipendono più da come funziona che dalle quantità presenti”, ha spiegato Daniel Rader, che ha coordinato la ricerca. “Abbiamo ancora molto da imparare dalla relazione tra la funzione dell'HDL e il rischio cardiovascolare”. ________________________________________________________ Quotidiano Sanità 18 Mar. ’16 FARMACI ANTI-DOLORIFICI (FANS) NEMICI DEL CUORE. Il position paper della Società Europea di Cardiologia li mette tutti sotto accusa Dopo il clamore suscitato negli anni passati dal ritiro dal mercato di alcuni ‘coxib’ si conoscono i rischi cardiovascolari inerenti all’impiego di questi anti-dolorifici di nuova generazione. Ma adesso, un’ampia revisione di tutti i lavori pubblicati sui vecchi e classici farmaci anti flogistici non steroidei (Fans), dal diclofenac al naprossene, evidenzia come anch’essi siano molto pericolosi per la salute del cuore 19 MAR - I farmaci anti-flogistici non steroidei (FANS, Farmaci Antiflogistici Non Steroidei o NSAID, Nonsteroidal Anti-Inflammatory Drugs), diversi dall’aspirina sono impiegati nella pratica clinica da oltre un secolo e sono tra i farmaci di più largo consumo in tutto il mondo per trattare dolore, febbre, stati infiammatori. Ma non è tutto oro quel che luccica. Da molti anni infatti si sa che questi farmaci possono causare ritenzione idrica e innalzare i livelli pressori, due condizioni che aumentano il rischio cardiovascolare nei soggetti con scompenso cardiaco. Poi sono arrivati i COX-2 inibitori (o ‘coxib’), farmaci dotati di proprietà analgesiche e anti-infiammatorie senza però il carico degli effetti collaterali gastro-intestinali dei FANS. Al vaglio dei mega-trial dell’età moderna si è scoperto tuttavia che rofecoxib, celecoxib, valdecoxib e parecoxib aumentano il rischio di complicanze cardiovascolari. E questo ha naturalmente molto ristretto le indicazioni all’uso di questi farmaci. “Paradossalmente però fanno notare Morten Schmidt e colleghi dell’Università di Aarhus, Danimarca – il vecchio diclofenac, un COX-2 inibitore relativamente selettivo, continua ad essere uno dei farmaci più utilizzati nel mondo, e in molti Paesi è addirittura venduto come OTC”. Di ampio utilizzo anche gli inibitori selettivi COX-1 e COX-2, quali ibuprofene e naprossene, considerati chissà in base a quale criterio, del tutto sicuri. Partendo da queste considerazioni i ricercatori dell’Università di Aarhus, in collaborazione con altre università, hanno riassunto in una review le evidenze finora derivate dagli studi randomizzati e osservazionali sullasafety cardiovascolare degli NSAID. Il lavoro comprende anche un position paper sul loro impiego. Il messaggio di fondo è che i coxib, così spesso usati e (abusati) soprattutto nei pazienti con condizioni reumatiche, sono particolarmente pericolosi per i pazienti cardiopatici; ma altrettanto pericolosi per il cuore sono i vecchi NSAID. “E’ noto ormai da diversi anni che i COX-2 inibitori aumentano il rischio di infarto. Per questo motivo – ricorda Morten Schimdt dell’Università di Aarhus, coordinatore della ricerca pubblicata su European Heart Journal - un certo numero di coxib sono stati ritirati dal mercato. Ma oggi sappiamo che l’impiego di alcuni dei vecchi NSAID, in particolare il diclofenac, si associa ad un aumentato rischio di infarto. Un rischio che è di entità sovrapponibile a quello attribuito ai vari coxib ritirati dal mercato. E tutto ciò è molto preoccupante, visto che questi vecchi farmaci sono usati frequentemente in tutto il mondo occidentale e disponibili in alcuni paesi anche senza prescrizione”. Nei Paesi occidentali ogni anno almeno il 15% della popolazione si fa prescrivere un FANS e la percentuale è naturalmente molto più elevata tra gli anziani. I pazienti cardiopatici non fanno eccezione a questa regola. Studi condotti in passato in Danimarca ad esempio dimostrano che questi farmaci vengono prescritti nel 40% dei pazienti con scompenso cardiaco o pregresso infarto. Lo studio pubblicato su European Heart Journal è stato condotto in collaborazione con altre 14 università europee; racchiude tutto lo scibile ad oggi sull’uso di NSAID nei pazienti cardiopatici. E questo ha consentito alla Società Europea di Cardiologia, per la prima volta, di formulare una serie di raccomandazioni che i medici dovrebbero tenere in considerazione prima di prescrivere un antidolorifico ai loro pazienti. “Quando un medico prescrive un FANS – ammonisce un altro autore dello studio, Christian Torp-Pedersen, professore di cardiologia, Aalborg University (Danimarca) - deve tener presente, caso per caso, il rischio di complicanze cardiache e di emorragie. Questi farmaci andrebbero venduti come OTC solo indicando chiaramente i rischi cardiovascolari associati al loro impiego. In generale, questa categoria di farmaci non andrebbe utilizzata nei pazienti affetti o ad alto rischio di patologie cardiovascolari.” “Molti Paesi europei – afferma Morten Schmidt – hanno un elevatissimo consumo di questi farmaci. Questo va ridotto, magari sostituendoli con paracetamolo, fisioterapia, oppioidi deboli e altri tipi di NSAID con minor rischi per la salute del cuore. Naturalmente, le raccomandazioni introdotte sulla scia del nostro studio e la revisione dei rischi cardiovascolari effettuata rappresentano un enorme passo in avanti nella giusta direzione in relazione alla safety del paziente”. Maria Rita Montebelli