RASSEGNA STAMPA 12/10/2014 TAGLI RICERCA: GLI STATI HANNO SCELTO L'IGNORANZA" AGGANCIARE IL FINANZIAMENTO DELL'UNIVERSITÀ AL PIL SE SI TOGLIE LA DIGNITÀ AI DIPENDENTI PUBBLICI IL RITO DELLA LAUREA IN UN PAESE CHE CAMBIA LAUREARSI FA GUADAGNARE 10MILA EURO IN PIÙ. SQUINZI: UNIVERSITA’: MENO MATERIE, PIÙ VALUTAZIONE E MERITO UNISS: ORIENTAMENTO CON GLI ASINI SASSARI E IL SUO ATENEO LA STRATEGIA SARDA PER LE STARTUP NOBEL PER LA FISICA AGLI INVENTORI DEI “LED” STOCCOLMA NOBEL MEDICINA A 3 NEUROSCIENZIATI NOBEL: TUTTI D'ACCORDO CON GLI SVEDESI THE INDEPENDENT SUI GIGANTI, L’ISOLA AL CENTRO DELL’EUROPA LA BATTAGLIA DEI GIGANTI: MIBAC CONTRO UNICA & UNISS OGM:ALIMENTATI DA FALSE PAURE L'IMPORTANZA DI COLTIVARE IL DUBBIO DAVANTI AGLI OGM ========================================================= A COLPI DI TAR MEDICINA HA 5MILA MATRICOLE IN PIÙ MEDICINA: COME USCIRE DAI TEST TROPPE RIAMMISSIONI GLI ATENEI NON REGGONO SANITÀ, LA RIFORMA APPROVATA IN COMMISSIONE SCLEROSI MULTIPLA LA BATTAGLIA DELLA SARDEGNA UNA DIAGNOSI PRECOCE MIGLIORA LA VITA BUCHI NEI CONTI DELLE ASL DAI MAXI-RISARCIMENTI TUTTI GLI SPRECHI IN OSPEDALE AOB:QUANTO COSTA IL BROTZU AOB:ARRU: VERIFICARE IL RAPPORTO FRA QUALITÀ E PREZZI» AOB:REGIONE IL CASO UFFICIO TECNICO DEL BROTZU ASL4:LANUSEI: TRASFERTE SALATE IN CORSIA DAL BROTZU ASL1: SASSARI I DEBITI GONFIATI DELLA SANITÀ ASL7: TSUNAMI SULLE PROMOZIONI ASL: RECUPERARE I SOLDI NEURONI ARRUGGINITI, ECCO COME TENERLI IN FORMA «L'HASHISH È LA MIA CURA» CANNABIS, TUTTI I RISCHI PER LA SALUTE DEL CORPO E DEL CERVELLO LA “SPIRALETTA” CHE SI METTE E SI DIMENTICA GB. MELIS: DONNE SARDE PRIME IN ITALIA NELL’USO DELLA PILLOLA CAGLIARI: L’ALTEZZA IN ETÀ ADULTA DECISA DA QUATTROCENTO GENI CURE PEDIATRICHE, LA SANITÀ NON È UGUALE PER TUTTI. C'È UNA FORMA DI CONSAPEVOLEZZA DOPO LA MORTE" CENSIS, IL 40% DEI GENITORI FA SOLO I VACCINI OBBLIGATORI "RIPRESA TABAGISMO COLPA DELLA LOTTA ALLE SIGARETTE ELETTRONICHE" CHIARITO IL COLLEGAMENTO TRA OSSITOCINA E COMPORTAMENTO SESSUALE ANCHE IL SUCCESSO SCOLASTICO È (IN PARTE) EREDITABILE ========================================================= ____________________________________________________________ Repubblica 08 ott. ’14 RICERCA: GLI STATI HANNO SCELTO L'IGNORANZA" La denuncia di nove scienziati di diversi Paesi europei: un campanello dall'allarme per le "politiche distruttive" che concentrano molti fondi su pochi progetti destinati prevalemente alla ricerca applicata, e ignorano la ricerca di base, fonte da sempre delle grandi scoperte, la sola che porti conoscenza e benessere per tutti I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’UE hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all'economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un'infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza. Hanno scelto di ignorare che la ricerca non segue cicli politici; che a lungo termine, l'investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti potrebbero essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni per maturare; che, se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno avere gli strumenti per affrontare le sfide di domani. Invece, hanno seguito politiche cicliche d’investimento in R&S con un unico obiettivo in mente: abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul potenziale d'innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l'Europa. Hanno scelto di ignorare che l'investimento pubblico in R&S è un attrattore d’investimenti privati; che in uno “Stato innovatore” come gli Stati Uniti più della metà della crescita economica è avvenuta grazie all'innovazione, che ha radici nella ricerca di base finanziata dal governo federale. Invece, essi mantengono l'irrealistica aspettativa che l'aumento della spesa in R&S necessaria per raggiungere l'obiettivo della Strategia di Lisbona del 3% del PIL sarà raggiunto grazie al solo settore privato, mentre l'investimento pubblico in R&S viene ridotto. Una scelta in netto contrasto con il significativo calo del numero di aziende innovative in alcuni di questi paesi e con la prevalenza di aziende a dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, con senza alcuna capacità d’innovazione. Hanno scelto di ignorare il tempo e le risorse necessarie per formare ricercatori. Al contrario, facendosi schermo della direttiva europea mirante per la riduzione del personale nel settore pubblico, hanno imposto agli istituti di ricerca e alle università pubbliche drastici tagli nel reclutamento che, insieme alla mancanza di opportunità nel settore privato, stanno innescando una “fuga di cervelli” dal Sud al Nord dell'Europa e al di fuori del continente stesso. Questo si traduce in un’irreversibile perdita d’investimenti e aggrava il divario in R&S tra gli Stati membri. Scoraggiati dalla mancanza di opportunità e dall'incertezza derivante dalla concatenazione di contratti a breve termine, molti scienziati stanno pensando di abbandonare la ricerca, incamminandosi lungo quella che, per sua natura, è una via senza ritorno. Invece di diminuire il deficit, questo esodo contribuisce a crearne uno nuovo: un deficit nella tecnologia, nell'innovazione e nella scoperta scientifica a livello europeo. Hanno scelto di ignorare che la ricerca applicata non è altro che l'applicazione della ricerca di base e non è limitata a quelle ricerche con un impatto di mercato a breve termine, come alcuni politici sembrano credere. Invece, a livello nazionale ed europeo c'è una forte pressione per concentrarsi sui prodotti commercializzabili che non sono altro che i frutti che pendono dai rami più bassi dell’ intricato albero della ricerca: anche se alcuni dei suoi semi possono germinare in nuove scoperte fondamentali, affossando la ricerca di base si stanno lentamente uccidendone le radici. Hanno scelto di ignorare come funziona il processo scientifico; che la ricerca richiede sperimentazione e che non tutti gli esperimenti avranno successo; che l'eccellenza è la punta di un iceberg che galleggia solo grazie alla gran massa di ghiaccio sommerso. Invece, la politica scientifica a livello nazionale ed europeo si è spostata verso il finanziamento di un numero sempre più limitato di gruppi di ricerca ben affermati, rendendo impossibile la diversificazione di cui avremmo bisogno per affrontare le sfide della società di domani. Inoltre, questo approccio basato sull'eccellenza sta aumentando il divario nella R&S tra gli Stati membri, poiché un piccolo numero di istituti di ricerca ben finanziati sta sistematicamente reclutando questo piccolo e selezionato gruppo di vincitori di finanziamenti. Hanno scelto di ignorare la sinergia critica tra ricerca e istruzione. Anzi, hanno reciso il finanziamento della ricerca per le università pubbliche, abbassandone la qualità complessiva e minacciandone il ruolo di soggetti atti a favorire lo sviluppo di pari opportunità. E soprattutto, hanno scelto di ignorare il fatto che la ricerca non ha solo il compito di essere funzionale all'economia, ma anche di incrementare la conoscenza e il benessere sociale, anche per coloro che non hanno le risorse per pagarlo. Hanno scelto di ignorare tutto questo, ma noi siamo determinati a ricordarglielo perché la loro ignoranza può costare il nostro futuro. Come ricercatori e come cittadini, formiamo una rete internazionale per promuovere lo scambio d’informazioni e di proposte. Ci stiamo impegnando in una serie d’iniziative a livello nazionale ed europeo per opporci fermamente alla distruzione sistematica delle infrastrutture di R&S nazionali e per contribuire alla costruzione di un'Europa sociale costruita dal basso. Sollecitiamo gli scienziati e tutti i cittadini a difendere questa posizione con noi. Non c’è altra possibilità. Lo dobbiamo ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli. Questa lettera può essere firmata su openletter.euroscience.org Amaya Moro-Martín,Astrofisica, Istituto Space Telescope Science, Baltimore, (USA); Euroscience, Strasburgo; Investigación Digna (Spagna) Gilles Mirambeau, Viriologo, Universtà Sorbonne, UPMC Univ. Paris VI (Francia); IDIBAPS, Barcellona (Spagna); Euroscience Strasburgo Rosario Mauritti, Sociologa, ISCTE, CIES-IUL, Lisbona (Portogallo) Sebastian Raupach,Fisico, promotore del movimento degli scienziati "Perspektive statt Befristung" (Germania) Jennifer Rohn, Biologa, Divisione di Medicina, University College London, Londra (Regno Unito); Presidente di “Science is Vital” Francesco Sylos Labini, Fisico, Centro Enrico Fermi, Istituto dei Sistemi Complessi (ISC-CNR), Roma (Italia); Editore di Roars.it Varvara Trachana, Biologa, Facultà di Medicina, School of Health Sciences, Università di Thessaly, Larissa (Grecia). Alain Trautmann, Immunulogo, CNRS, IstitutoCochin, Parigi (Francia); promotore di "Sauvons la Recherche” Patrick Lemaire, Embriologo; CNRS, Centro di Recercs di Biochimica Macromolecolare, Università di Montpellier; promptore di “Sciences en Marche” (Francia). ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 12 ott. ’14 AGGANCIARE IL FINANZIAMENTO DELL'UNIVERSITÀ AL PIL Stefano Paleari Questa settimana l'Italia ha ospitato il Forum delle Università europee su come finanziare i sistemi educativi superiori. Sono state raccolte le esperienze dei vari Paesi in particolare dopo la crisi economica e delle finanze pubbliche degli ultimi anni. L'Europa si è divisa in due: chi ha visto l'Università come parte del problema e chi come parte della soluzione. Chi ha ridotto i finanziamenti pubblici per effetto della crisi e chi invece ha investito di più. Ma questa ormai è Storia. Purtroppo per l'Italia, che si è collocata in testa alla classifica di chi ha tagliato i fondi, insieme a Spagna e Grecia. Ora occorre guardare oltre. Semplici le cose che sono emerse. In primo luogo il primato delle scelte politiche. Occorre riconoscere alla politica la responsabilità delle scelte in materia di Università. Le Università risponderanno a quelle scelte per quanto è nelle loro possibilità e volontà. In secondo luogo, tutte le Università accettano un finanziamento pubblico legato alle performance e non a pioggia. Vogliono essere misurate, dove la misura è il mezzo per realizzare il fine, sia esso della singola Università sia del sistema come stabilito dal Governo. In terzo luogo c'è la consapevolezza della sfide globale, non solo europea ormai. E quindi la spinta verso il confronto e il miglioramento continuo. Che fare dopo queste considerazioni. L'Italia quest'anno alloca oltre il 30% delle risorse su base competitiva. Il prossimo anno il 50%, ampiamente sopra i livelli europei. Siamo in Europa sulla qualità dei finanziamenti, fuori sulla quantità. Alla vigilia della presentazione della Legge di Stabilità serve una svolta, la stessa che Matteo Renzi chiede al Paese. Ebbene il premier metta alla prova le Università italiane. Sottoscriva un accordo per i prossimi 3 anni con due obiettivi: a) agganci il finanziamento delle Università al Pil. Le Università scommettono insieme al Governo sul Paese e sulla sua ripresa b) lasci libere le Università di competere portando a termine la riforma verso i costi standard e la valutazione delle performance Serve coraggio. In passato le Università sono apparse alla politica chiuse e conservatrici. Oggi non siano i decisori a mostrarsi tali. Serve anche fare presto. L'ultimo treno per una nuova Europa è partito. L'Italia e le sue Università vogliono esserci come parte della soluzione e non del problema. L'autore è presidente della Conferenza dei rettori delle Università italiane ____________________________________________________________ Corriere della Sera 10 ott. ’14 SE SI TOGLIE LA DIGNITÀ AI DIPENDENTI PUBBLICI Caro direttore, la pubblica amministrazione sta morendo. E ne pagheranno le conseguenze i deboli, i privi di tutela, in una parola coloro che non hanno santi in Paradiso. Perché l’amministrazione non è una dispensatrice di stipendi ai suoi inutili dipendenti, ma un insieme di funzioni e servizi per i cittadini, e soprattutto per coloro che non possono permettersi di rivolgersi o di comprare i servizi altrove. Basta, quindi, con una rappresentazione della realtà negata dai numeri, e dunque sostanzialmente falsa. A parità di popolazione, la Gran Bretagna ha oltre 5 milioni di dipendenti pubblici, l’Italia poco sopra i tre. I nostri dipendenti risultano i più anziani in Europa (oltre il 50% ha più di 50 anni), e la media è alta perché non vi sono nuovi assunti ai quali i già occupati possano trasmettere competenze e buone prassi — in una parola insegnare il mestiere. L’amministrazione centrale dello Stato è al collasso e sempre più spesso si fonda sul senso di responsabilità di singoli. Nei ministeri vi è stato un progressivo prosciugamento: i ministeriali sono circa 160 mila (erano 274 mila nel 2000), e oggi scarseggiano il personale e le competenze tecniche indispensabili, i mezzi e le risorse finanziarie. Al contempo, è crollata la spesa per investimenti, che nel 2013 era pari, per l’intero settore pubblico, al 2,7% del Prodotto interno lordo. Stiamo distruggendo l’amministrazione pubblica. Forse non è un disegno consapevole, certo non è un bene. Non per i cittadini e per le imprese, che non ricevono più servizi adeguati o almeno decenti (menosanità, meno sicurezza, meno gestione infrastrutturale). Non è un bene per i giovani, perché non si assume, mentre la disoccupazione giovanile — con laurea e senza — aumenta. I cittadini reclamano più sicurezza, e mancano almeno 20 mila carabinieri e poliziotti. È indispensabile la lotta all’evasione, e mancano i finanzieri. Siamo il Paese con il più grande patrimonio artistico — una grande risorsa anche economica — e sono venti anni che non si assumono storici dell’arte. Negli uffici pubblici mancano ingegneri, chimici, biologi, medici, infermieri; mancano insegnanti che diano con serenità ad altri la formazione necessaria. Al tempo stesso i giovani sono disoccupati, e quella minoranza che nonostante tutto trova lavoro, spesso non adeguato al titolo di studio, ha dovuto sottostare a pressioni e ricatti. Vi è il rischio tangibile di diseducare all’etica del concorso, al principio che negli uffici pubblici si accede per merito e non per raccomandazione. Occorre cambiare mentalità e tendenza, rivitalizzare l’amministrazione senza negare l’esigenza di razionalizzare, di qualificare, di eliminare inutili complessità burocratiche, senza nascondere le negatività esistenti. Occorre dire basta al messaggio che tutto ciò che è pubblico è inutile e negativo. Occorre restituire la dignità. Basta con i dipendenti pubblici rappresentati, nel migliore dei casi come scansafatiche, nel peggiore come ladri. Perché non è così, e la mortificazione continua non aiuta. Alla politica delle assunzioni dettata solo dal puro contenimento della spesa deve sostituirsi una seria programmazione delle esigenze di una amministrazione moderna e tecnicamente qualificata. Concorsi, non assunzioni per raccomandazione. Impiego stabile e qualificato, non precariato intellettuale. Selezione della dirigenza con criteri concorsuali oggettivi e di merito, non come premio di fedeltà servili. Serve anche un’amministrazione professionale e rispettata perché il Paese possa uscire dalla sua crisi. Consigliere di Stato,Segretario generale della Giustizia Amministrativa ___________________________________________ Roma 07 Ott. ’14 IL RITO DELLA LAUREA IN UN PAESE CHE CAMBIA DI GIUSEPPE SCALERA Quanto conta più una laurea nel nostro Paese? Per le giovani generazioni, afflitte da un tasso di disoccupazione giovanile valutato intorno al 44,2 %, la risposta potrebbe essere scontata, poco o nulla. Al di là di qualche comparto! E segue a pagina 31 Il rito della laurea in un Paese che cambia che marcia ancora con una discreta efficacia, le speranze di un sicuro investimento culturale restano assai scarse ed alcune facoltà, oggi, appaiono semplicemente un binario morto. Ma non è così per tutti, soprattutto per gli ultracinquantenni. La cronaca ci offre, in queste ore, una radiografia illuminante, attraverso un'intervista rilasciata, come in un confessionale, da Oscar Giannino. Giannino è giornalista di sicuro spessore e, per chi non lo ricorda, nelle politiche del 2013, fu la sfortunata guida di un nuovo partito, denominato "Fare per fermare il declino", un'esperienza europeista e liberale sostanzialmente naufragata, a quanto sembra, per gli scandali che accompagnarono la sua leadership. Giannino, infatti, in quei giorni candidato premier, contrariamente a quanto pubblicato in rete, non si era mai laureato in Legge ed Economia, né, tantomeno, aveva mai frequentato un qualsiasi master presso la Chicago University. Uno scandalo che travolse prima il giornalista e poi l'intero partito che non superò al Senato lo 0,9 % e raccolse qualche inutile decimale in più alla Camera, non eleggendo, in pratica nessuno. Giannino si ritrovò, improvvisamente all' inferno. Carriera politica stroncata, fine di tutte le collaborazioni giornalistiche, gravi contraccolpi familiari e, come contorno, la rabbia di centinaia di migliaia di ascoltatori che ne avevano seguito le mosse via etere. Tutto per colpa di una laurea che, nel momento del dunque, non si era materializzata. Un perfetto assist per gli appassionati del dottorato a tutti i costi. Nonostante i paradossi della vita moderna. Ma è bastato un anno per rimettere ogni cosa al suo posto. Giannino è stato puntualmente richiamato da Panorama, dai giornali del gruppo Caltagirone, da Radio 24, ha ritrovato puntualmente tutte le sue collaborazioni, la polvere del tempo si è rivelata un balsamo straordinario e i depositari del rito della laurea inutile hanno ripreso nuovamente a far festa. Morale della favola: chi ha realmente qualcosa da esprimere, in tutti i settori, non resterà mai al palo. Non è la laurea, di questi tempi, l'unico, grande biglietto da visita. Ma, soprattutto, la propria competenza, la propria professionalità, l'originalità delle proprie intuizioni, la capacità di trasmetterle al mondo. E la paradossale esperienza di Oscar Giannino resta lo specchio distorto nel quale si muovono le contraddizioni del nostro Paese. GIUSEPPE SCALERA __________________________________________________________ Repubblica 06 ott. ’14 LAUREARSI FA GUADAGNARE 10MILA EURO IN PIÙ. Italia divisa tra Nord e Sud, privato e pubblico L'Osservatorio del calcolatore di Repubblica.it, JobPricing, permette di tracciare le remunerazioni degli ex studenti degli atenei tricolori. I privati possono far guadagnare il 20% in più del pubblico, ma costano quattro volte tanto. Ecco quando e dove conviene proseguire gli studi di RAFFAELE RICCIARDI MILANO- Conviene laurearsi? E in quale Università? In periodo di spending review generalizzata le famiglie e i ragazzi si trovano a fare i conti con il costo della formazione e le aspettative di remunerazione, una volta portato a termine il percorso di studi e - tutti si augurano in breve tempo - iniziato quello lavorativo. Un'indagine diJobPricing, l'Osservatorio sulle retribuzioni curato da Mario Vavassori, professore aggiunto al Mip - Politecnico di Milano, conRepubblica.itrisponde a queste domande. La sintesi della ricerca è che nell'universo dei lavoratori, i laureati in media guadagnano 10.700 euro in più di chi si è fermato prima negli studi. Le differenze sono però consistenti tra i vari gradi di specializzazione. Le Università private garantiscono assegni più pesanti del 20% circa rispetto a statali e Politecnici, e una grande differenza la fa la geografia: tra Nord e Sud "ballano" fino a 7mila euro di remunerazione. Quanto paga il titolo di studio. Il report di JobPricing mostra innanzitutto che la retribuzione globale lorda annua (parte fissa + variabile) passa da 42.182 euro per i non laureati a 52.912 euro per i laureati, analizzando i profili di dipendenti del settore privato compilati nel periodo tra giugno e agosto scorsi. Se si guarda alla progressione della carriera scolastica, si vede come sia cospicuo il salto tra le retribuzioni di chi si è fermato alla scuola dell'obbligo (31mila euro) e chi si è diplomato alle superiori (43mila). Il dottorato paga meno di un master, mentre la triennale non garantisce un livello retributivo superiore a quello dei diplomati. Visto però che la riforma del sistema universitario ha circa un decennio, in questa categoria di laureati rientrano solo persone giovani, quindi con meno "scatti retributivi di anzianità", a differenza degli altri livelli di istruzione che includono tutte le fasce d'età. QUANDO RENDE LA LAUREA. Andando più in profondità, si vede come la "forbice" tra laureati e non sia inizialmente minima, ma cresca per diventare sensibile al 35esimo anno d'età. Le differenze tutto sommato contenute nelle classi di età 15-24 e 25-34 sono riconducibili al fatto che i laureati entrano stabilmente nel mercato del lavoro non prima dei 25-26 anni, mentre chi ha un diploma o un titolo inferiore (scuola dell’obbligo o abilitazione professionale) al raggiungimento dei 24 anni ha già acquisito con tutta probabilità un certo numero di anni di lavoro, con conseguenti scatti retributivi e contrattuali. Il calcolatore JobPricing: il tuo stipendio è giusto? Come lo studio impatta sulla carriera. Se si guarda ai vari inquadramenti professionali, si scopre che all'interno delle singole classi (dirigenti, quadri, impiegati e operai) non ci sono grandi differenze di retribuzione tra laureati e non. Smentiamo allora i vantaggi fin qui elencati? Non proprio. JobPricing mostra che non bisogna tanto confrontare gli stipendi di laureati e diplomati all'interno dello stesso livello contrattuale, ma verificare la presenza di persone con titolo di studio più elevato nei livelli contrattuali di maggiore rilievo. Si vede allora che la percentuale di dirigenti e quadri è molto più elevata tra i laureati con almeno 5 anni di carriera universitaria, in tutti i casi sopra il 40% (minimo del 43% per i lavoratori con laurea magistrale), mentre tra i non laureati la percentuale di profili collocati come dirigenti e quadri non supera mai il 30% (massimo del 27% per i diplomati di scuola media superiore). PUBBLICO O PRIVATO? Dal confronto dei dati dei lavoratori provenienti dalle università statali con il maggior numero di iscritti (La Sapienza, Bologna, Napoli Federico II, Torino e Milano), dalle 3 Università private principali (Bocconi, Luiss e Cattolica) e dai 3 Politecnici (Torino, Milano e Bari) emerge che aver frequentato un'università privata (però con costi di iscrizione mediamente più elevati di quattro volte) dà un ritorno economico superiore del 21% rispetto all'aver frequentato un'università statale, e del 19% rispetto all’aver frequentato un Politecnico. DOVE STUDIARE. Grandi differenze si vedono anche dal punto di vista geografico: chi ha frequentato un'Università del Nord guadagna mediamente il 10% in più rispetto a chi ha frequentato un'Università con sede al Sud, mentre i valori sono più allineati al Centro. Da sottolineare poi il maggior legame degli atenei settentrionali con il mondo del lavoro: il 92% di chi ha studiato al Nord ha lì la sede del suo lavoro, contro un livello di corrispondenza tra la sede dell'Università e del lavoro che scende al 77% per il Centro e al 36% per il Sud. GLI ATENEI. Ed ecco infine la classifica degli atenei in base alla retribuzione "garantita". Si nota come nella fase iniziale della vita lavorativa le differenze non siano poi così marcate, con l'eccezione della Bocconi. Ma con il procedere delle carriere si aprono vere e proprie voragini. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 08 ott. ’14 SQUINZI: UNIVERSITA’: MENO MATERIE, PIÙ VALUTAZIONE E MERITO Le 100 proposte di Confindustria su scuola e università - Squinzi: fondamentali per modernizzare il Paese Claudio Tucci ROMA Rafforzamento della didattica per competenze e laboratoriale. Riduzione del numero di materie, e diffusione dell'insegnamento in lingua straniera di discipline curriculari già alle scuole primarie. Chiamata diretta dei docenti. Più collegamento con il mondo del lavoro (anche incentivando programmi di «Erasmus in azienda» e percorsi di laurea in apprendistato). Avvio di un rigoroso sistema di valutazione di istituti e personale scolastico, legando le carriere dei professori al merito e rimodulando l'accesso all'insegnamento. Confindustria ha messo nero su bianco 100 proposte per rilanciare scuola, università e formazione. Un pacchetto di misure articolato, e dettagliato, perché la questione dell'education, ha ricordato il numero uno degli industriali, Giorgio Squinzi, è di «assoluta e urgente importanza per la modernizzazione strutturale del Paese e per le sue possibilità di riprendere a crescere in modo virtuoso». Le imprese (che non sono il diavolo) spingono per un cambio di passo sull'istruzione, «una scossa educativa», ha sintetizzato il vice presidente di Confindustria, Ivan Lo Bello, aprendo ieri all'università Luiss di Roma la «Prima giornata dell'Education» alla presenza del ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini. Del resto, passano gli anni (e i governi) ma i ritardi del nostro sistema educativo sono sempre gli stessi: l'autonomia scolastica è, nei fatti, lettera morta; gli studenti sono poco orientati (e formati) per il lavoro; c'è poca cultura del merito e della valutazione; sono sempre meno gli iscritti all'università, c'è un alto tasso di abbandono, e il bilancio del Miur è quasi interamente dedicato al pagamento di stipendi (e ciò non lascia spazio a investimenti in didattica e ricerca). Di qui, ha incalzato Confindustria, bisogna affidare maggiori poteri e autonomia a presidi e atenei. Va ridotta di un anno la durata del curriculum scolastico (da 13 a 12 anni) e almeno il 25% dei corsi universitari vanno erogati in lingua inglese. Il punto è migliorare la didattica e «declinare l'innovazione nel mondo dell'Education perché questa è la strada per una maggiore competitività», ha spiegato il presidente di Assolombarda, Gianfelice Rocca. La sfida è quindi una maggiore contaminazione con il mondo delle imprese, rendendo obbligatoria l'alternanza negli istituti tecnici (il progetto del Governo va in questa direzione raddoppiando le ore di formazione on the job da circa 90 a 200 ore l'anno). Una scelta che va concretizzata. « Perché fino a pochi anni fa le aziende cercavano competenze standard – ha detto il presidente di Federmeccanica, Fabio Storchi –. Oggi invece c'è bisogno di specializzazione e per questo è fondamentale il dialogo tra scuole e imprese». ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 09 ott. ’14 UNISS: MEDIAZIONE E ORIENTAMENTO CON GLI ASINI Sabato prossimo in città il primo convegno nazionale dedicato al counseling e alla onoterapia di Mauro Tedde SASSARI L’ippoterapia è ormai una realtà diffusa e conosciuta. Adesso arriva sulla scena del counseling, attività di consulenza per l’orientamento professionale ma anche intervento di psicoterapia, la meno nota ma non per questo meno efficace onoterapia: rieducazione motoria simile all’ippoterapia ma praticata con gli asini. Se ne parlerà sabato prossimo, 18 ottobre, nella sala consiliare del dipartimento di Veterinaria, in via Vienna 2. alle 9.30 alle 19 c’è infatti in programma il primo convegno nazionale sul tema “Onocounseling e territorio - Attività di mediazione con l’asino”. L’evento è promosso dall’associazione culturale “Alta Formazione Counseling”, dalla Sico (la Società italiana di counseling) e dall’Università di Sassari, dipartimento di Medicina veterinaria. Al convegno, che sarà moderato da Francesco Cattari, direttore dei servizi socio-sanitari della Asl di Sassari e da Nicolina Malesa, referente Sico Sardegna, interverranno Gigliola Crocetti, amministratore delegato della Sico; Maria Tedde Marras, direttore della scuola “Alta formazione counseling”, Raffaella Cocco, ricercatrice del dipartimento di Veterinaria dell’Università; Lino Cavedon, direttore scientifico del centro I.A.A (interventi assistiti con animali); Maria Rita Piras, ricercatrice del dipartimento di Medicina Clinica dell’ateneo sassarese. Previsti interventi anche di Antonella Costa, psicoterapeuta della “Missione counseling”; Marina Borriello, counselor filosofico Sico; Raffaele Cherchi del dipartimento di Ricerca incremento ippico dell’Agris; Paola Nicolussi, direttore sanitario dell’Istituto zooprofilattico della Sardegna; Eugenio Milonis, psicoterapeuta e responsabile dell’accademia di onoterapia “Asinomania” e Alberico Di Meo, presidente dell’Università popolare del turismo. Gli interventi degli esperti verteranno su diversi temi quali l’attività dell’onocounselor come promotore del Ben-Essere, il benessere nei coterapeuti, gli interventi con la pet–therapy e con la terapia assistita dagli animali (come la riabilitazione cognitiva nell’Alzheimer), la cura con l’asino in una nuova relazione del bambino con la famiglia e l’altro, l’asino nella relazione d’aiuto, l’onocounseling e l’onotrekking come opportunità di marketing del territorio e di altro ancora. Seguirà (dalle 17 alle 19) un workshop sul tema: “Il counseling, l’onocounseling e le loro applicazioni”. L’evento è gratuito, ma gli organizzatori consigliano di prenotarsi ai numeri 335.6331293 e 328.6678700. Ai counselor iscritti al registro nazionale Sico saranno rilasciati 10 crediti di aggiornamento professionale. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 07 ott. ’14 SASSARI E IL SUO ATENEO Tra città e università un dialogo nuovo per crescere insieme di EUSEBIO TOLU, Delegato per i Rapporti con il Territorio Università di Sassari Parliamo di Università, come patrimonio dei cittadini sassaresi e dell’intera area del centro-nord Sardegna. A dire il vero si parla da tempo di Sassari città universitaria, una città universitaria incompiuta, frequentata da circa 14mila studenti, di cui circa 5.300 fuori sede, provenienti in gran parte dai territori del centro-nord della Sardegna. Malgrado gli studenti rappresentino circa 1/7 della popolazione residente, la città di Sassari non sembra aver percepito ancora nella sua interezza questa realtà. La città non sembra mostrare l’interesse dovuto nei confronti della "sua" Università, e forse la stessa Università, appagata da un eccesso di autoreferenzialità, non sembra lavorare in questa direzione. Anzi, a ben vedere le cose, la città appare spesso indifferente nei confronti della "sua" Università, e non si è mai posta concretamente il problema, tanto per fare un esempio, dell’accoglienza dei tanti giovani, soprattutto dei fuori sede, che scelgono di iscriversi all’Università di Sassari. In altri termini, poco ha fatto per rendere appetibile la scelta di questa Università e di questa città. L’emigrazione dei giovani verso altre sedi soltanto perché offrono più servizi è un fenomeno reale. È necessario fare di più. La città di Sassari accoglie un numero significativo di studenti fuori sede e di pendolari, ai quali non sempre viene concesso un minimo di cittadinanza riconosciuta, e anzi sono spesso vittime del meccanismo di rialzo del canone d’affitto. La proposta di realizzazione del "campus" universitario nella Caserma la Marmora, avanzata dal sindaco di Sassari, è di per se una buona nuova, di notevole significato politico. Infatti è la prima volta che il Comune di Sassari mostra un concreto interesse per l’accoglienza dei giovani e propone con autorevolezza e con senso della realtà la soluzione di uno dei problemi più antichi degli studenti fuori sede. Che siamo vicini a promuovere Sassari città universitaria? E sì, perché fino a oggi si era parlato delle residenze studentesche come strumento per rivitalizzare le aree degradate del centro storico o le periferie abbandonate. Come se fosse compito degli studenti fuori sede risolvere i problemi delle aree della città cronicamente disagiate. Parrebbe di no! La Caserma La Marmora può essere veramente la soluzione. La struttura è ubicata nel cuore della città, vicino al centro storico e a quell’area che viene a ragione definita il salotto di Sassari. Gli studenti con la loro presenza stimolerebbero il dialogo economico e sociale fra le due realtà, fra la città e l’università. Stiamo parlando, cioè, di integrazione degli studenti nella sede dell’ateneo che li ospita, al fine di giungere, con la dovuta gradualità, a forme di residenza e di cittadinanza che permettano agli studenti di partecipare alla vita sociale della città dove studiano. Questa è una città universitaria. Nella situazione attuale di crisi economica senza precedenti, da più parti si sente dire che bisogna rilanciare lo sviluppo del territorio utilizzando al meglio le risorse disponibili, sia di natura materiale che culturale. A ben vedere, questi due versanti del problema sono entrambi presenti nella città e nell’università di Sassari, anche se è necessario valorizzarli con intelligenza e lungimiranza. L’augurio è che l’Ersu, impelagato da anni in discutibili valutazioni di gare di appalto, prenda una decisione definitiva. Poiché è evidente che non utilizzare le risorse a disposizione, in un territorio devastato dalla crisi è puro autolesionismo. Anche la Regione Sardegna dovrebbe comprenderlo. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 06 ott. ’14 LA STRATEGIA SARDA PER LE STARTUP Il futuro nel parco dei super calcoli Potremmo definirla «Sardegna Startup» questa regione che tra grandi difficoltà ora guarda all’innovazione come alla vera opportunità per garantirsi un futuro. «In dieci anni sono ben 71 le startup avviate con il supporto di Sardegna Ricerche e otto di queste sono insediate nelle strutture del Parco scientifico e tecnologico Polaris che si sviluppa nelle sedi di Pula vicino a Cagliari e ad Alghero». Maria Paola Corona, presidente dell’ente regionale nato per aiutare a cambiare marcia al sistema economico e produttivo, ricorda con orgoglio i numeri capaci di radiografare il mutamento in atto e che ora segnano un’accelerazione. Il motore è proprio Sardegna Ricerche che ha creato un sistema in grado contemporaneamente di stimolare nuove iniziative e consolidare il rinnovamento di quelle che puntano ad essere tecnologicamente innovative. Infatti accanto alle nuove protagoniste, nel Parco vi sono anche 38 società già attive da tempo ma impegnate in questa ottica. «Alle startup garantiamo un finanziamento di 50 mila euro per due anni coprendo dal 40 all’85 per cento dell’investimento necessario – nota Corona -. Tuttavia oltre l’apporto finanziario assicuriamo dei contributi sotto forma di servizi che sono determinanti per materializzare lo sviluppo». Tra questi vi sono l’accesso ai fondi europei, la preparazione dei brevetti, varie consulenze dei laboratori tecnologici per far crescere le idee, oltre alla possibilità di lavorare con il centro di supercalcolo CRS4, uno strumento oggi insostituibile per arrivare a prodotti competitivi sul mercato. Proprio dal CRS4 sono nate startup come Paraimpu, una piattaforma sociale per l’«Internet degli oggetti» allo scopo di offrire uno strumento web semplice e potente che permetta agli utenti di gestire, condividere e connettere tra loro una moltitudine di oggetti fisici, sensori, servizi web, social network e altre applicazioni nel campo del monitoraggio ambientale e installazioni artistiche. Dal centro di calcolo è nata poi Karalit che ha già aperto due sedi in Usa e in Gran Bretagna producendo un software tridimensionale il quale simula il comportamento di un fluido utilissimo nel progettare dai compressori alle pale eoliche, dalle scocche delle auto da corsa alle ventole per i condizionatori domestici. E poi c’è Elianto, spin-off che progetta e commercializza impianti solari. Sono solo alcuni esempi perché l’elenco sarebbe lungo. Il CRS4 diretto da Luigi Filippini, un ingegnere proveniente dal mondo industriale, è un organismo di ricerca all’interno del Parco. Impiega 160 ricercatori ed è dotato di supercomputer con una potenza di calcolo tra le più elevate esistenti in Italia arrivando a 140 Teraflops (140 mila miliardi di operazioni al secondo). Ciò permette di realizzare studi genetici complessi, di generare immagini in 3D ad alta risoluzione capaci di ricostruire ad esempio manufatti archeologici facilitandone il restauro. Non solo. Trovano infatti sviluppo pure tecnologie dell’informazione, progetti di biomedicina, di prevenzione ambientale, sistemi informatici per il turismo e per i beni culturali in genere generando conoscenze che si tramutano talvolta in startup. «Perché ciò accada – nota la presidente dell’ente – abbiamo varato in settembre un’iniziativa aperta a 40 persone con un’idea per innovare. Dieci di loro saranno scelte e riceveranno un piccolo contributo di 7 mila euro per concretizzare il progetto aiutandole sino allo sviluppo del business model. Consapevoli che nel mondo il 90 per cento delle startup falliscono anche perché non vengono accompagnate nell’inserimento del mercato, il nostro obiettivo è proprio quello di facilitare e assistere questa fase pre-startup definendo dai potenziali clienti alle operazioni di marketing necessarie. Ciò aumenterà le possibilità di successo». È in questa logica che si è creato un collegamento anche dopo il biennio della fase di startup aprendo alle nuove società la possibilità di accesso al piano di aiuti all’innovazione alle imprese in generale con contributi fino a 150 mila euro coprendo al massimo il 75 per cento dell’investimento richiesto dai progetti. Tra queste si incontrano aziende come la Gexcel, spin-off dell’università di Brescia che ha trovato nel Parco e nel centro di calcolo il luogo adatto all’insediamento generando sistemi di rilevamento in 3D per il controllo degli edifici controllandone le deformazioni ed altri dedicati alle necessità forensi. «L’interesse ad essere attivi sul fronte dell’innovazione cresce nelle varie realtà culturali, politiche ed economiche dell’isola – conclude Maria Paola Corona – ed è per questo che Sardegna Ricerche sta intensificando lo sforzo per sostenere una volontà di cambiamento preziosa per l’intero Paese». ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 08 ott. ’14 NOBEL PER LA FISICA AGLI INVENTORI DEI “LED” la rivoluzione della luce Il Nobel per la fisica è andato ai “led” (Light Emitting Diode), i rivoluzionari dispositivi elettronici che sfruttano le proprietà ottiche di alcuni materiali per produrre la luce inmodopiù efficiente dal punto di vista energetico e rispettoso per l’ambiente. Il prestigioso premio è stato dunque assegnato ai giapponesi Isamu Akasaki (85 anni) e HiroshiAmano (55 anni), entrambi dell’università di Nagoya, e all’americano Shuji Nakamura (60 anni), che dal 1994 si è trasferito dall’università giapponese di Tokushima a quella californiana di Santa Barbara. L’invenzione dei “led”, rileva la Fondazione Nobel, è stata premiata «nello spirito di Alfred Nobel», che mirava a riconoscere il valore delle scoperte in grado di dare importanti benefici per l’umanità. I “led” sono infatti in grado di produrre la luce in modo nuovo. L’impatto di questa tecnologia potrebbe infatti essere confrontabile a quello della lampadina: «come le lampade a bulbo hanno illuminato il XX secolo, i “led” saranno le luci del XXI secolo», scrive la Fondazione. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 07 ott. ’14 STOCCOLMA NOBEL MEDICINA A 3 NEUROSCIENZIATI STOCCOLMA Il premio Nobel per la Medicina è stato assegnati a tre neuroscienziati: sono l’americano John O’Keefe e i coniugi norvegesi May- Britt ed Edvard Moser. Hanno scoperto le cellule nervose che costituiscono il sistema di posizionamento nel cervello: un sistema che ci permette di orientarci, come una sorta di «Gps biologico», avendo costantemente le coordinate spaziali del luogo in cui ci troviamo. Studi che hanno dimostrato l’esistenza di una base cellulare, organica, anche per le funzioni cognitive più elevate. May-Britt Moser ha saputo di essere stata premiata mentre si trovava nell’Università in cui lavora, a Trondheim in Norvegia. «Ha pianto per un minuto e ha parlato con il suo team» ha detto una portavoce dell’ateneo. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 12 ott. ’14 NOBEL: TUTTI D'ACCORDO CON GLI SVEDESI Sylvie Coyaud Quest'anno i premi Nobel per la scienza non hanno suscitato controversie sull'incompetenza o peggio di chi li assegna. La soddisfazione è stata generale, sempre che ne siano un buon metro di misura i commenti di scienziati anglofoni sui social media. Di John O'Keefe dello University College di Londra, May-Britt Moser e il marito Edvard dell'Università di Trondheim, i neuroscienziati parlano bene e segnalano quasi tutti che i due giovani – nel senso di cinquantenni – norvegesi sono stati post doc da O'Keefe, riconosciuto anche come uno dei "buoni maestri". Nei primi anni 70, O'Keefe aveva notato che nell'ippocampo dei topi, neuroni diversi – detti poi cellule di posizione – si attivavano quando gli animali erano in posti diversi come se nel cervello avessero una mappa del proprio territorio. Idea seducente, in fondo per muoverci dobbiamo sapere innanzitutto dove stiamo, purtroppo la posizione delle cellule non disegnava nulla che somigliasse a una gabbietta. Nel 2005, May-Britt e Edvard Moser hanno scoperto un altro sistema di localizzazione. Nella corteccia entorinale (connessa all'ippocampo) alcune cellule si attivano quando il topo supera gli angoli di una griglia esagonale e sono disposte come queste coordinate del suo, e del Gps mentale. Per la prima volta e per ora l'unica si è identificato un codice, nel senso informatico del termine, che collega direttamente l'attività cerebrale al comportamento e alla cognizione. Il codice resta in gran parte da decifrare, però il morbo di l'Alzheimer si manifesta inizialmente nella corteccia entorinale, con il disorientamento e la perdita di memoria. La motivazione ufficiale del premio non accenna allo Human Brain Project, il programma-bandiera europeo da 1,2 miliardi di euro criticato da mesi perché ne sono state escluse sia le ricerche cognitive che quelle sugli animali. È improbabile che ai ricercatori dell'Istituto Karolinska non sia venuto in mente nel votare per i vari candidati. L'Accademia delle scienze svedese ha scelto un'invenzione molto popolare nel dare il premio per la fisica ai "Blue's Brothers" come sono stati ribattezzati gli ingegneri Isamu Akasaki e Hiroshi Amano dell'Università di Nagoya e Shuji Nakamura, un tempo dipendente della Nichia. Hanno inventato il semi-conduttore "dopato" al nitruro di gallio che aggiunge il blu ai diodi in uso dagli anni 50. Emettevano solo luce verde e rossa, risparmiavano tanta elettricità, purtroppo creavano un ambiente spettrale e facevano sembrare i convitati di pietra o affetti da itterizia. Con i tre colori primari, la luce è decisamente più calda il che spiega come mai i led blu stanno sostituendo sia le lampadine a fluorescenza che quelle a filamenti. Inoltre la luce blu ha una lunghezza d'onda più corta, perfetta per lo schermo del computer, il lettore di dvd, lo smart phone e la serie crescente di oggetti high tech compatti; l'efficienza dei led riduce il consumo di energia e quindi le emissioni di gas serra e di altri inquinanti da parte delle centrali; incrementano la resa delle lampade solari che diventano convenienti per i poveri dei Paesi del terzo mondo, dove spesso non esiste neppure la rete elettrica. La fisica, fa capire il premio, non scopre solo il bosone di Higgs, bellissimo ma che non migliora esattamente la vita quotidiana. Dietro c'è anche una rivincita di cui ha parlato molto la stampa giapponese: la Nichia aveva pagato noccioline per il brevetto di Nakamura, che è ricorso ai tribunali per ottenere 8 milioni di dollari. Forse non è questa la storia edificante che Alfred Nobel aveva in mente quando voleva ricompensare le persone «che hanno beneficiato maggiormente l'umanità». Si sente spesso lamentare la suddivisione della scienza in una Torre di Babele di discipline anguste dai linguaggi diversi. Non è più così da almeno vent'anni soprattutto per chi osserva la natura nelle nanodimensioni. Il premio per la chimica dato ai fisici Eric Betzig, Stefan Hell e William Moerner non ha destato scandalo perché è un ringraziamento delle scienze della vita per un nuovo microscopio – ha meno di 8 anni! – che mostra quanto avviene in una cellula. Per più di un secolo i microscopi ottici hanno rispettato il limite di risoluzione decretato da Ernst Abbe nel 1873. Anche sotto il più potente e preciso dei microscopi un oggetto più piccolo di metà della lunghezza d'onda della luce visibile è una macchia indistinta. Non c'era verso di distinguere una molecola dall'altra se non erano separate da almeno 200 nanometri. Ma negli anni Novanta, Moerner ha scoperto come accendere e spegnere con un laser la fluorescenza verde emessa da una molecola e Betzig e Hell (seguiti a ruota dalla bravissima Xiaowei Zhuang) migliorarono la tecnica scattando istantanee fulminee da varie angolature. In realtà, il limite di Abbe resta valido, ma un computer è in grado di interpretare i blob per restituire la forma esatta di una rete di proteine o di neuroni e sinapsi, quelle immagini multicolori che ispirano anche collaborazioni tra scienziati e artisti. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 06 ott. ’14 THE INDEPENDENT SUI GIGANTI, L’ISOLA AL CENTRO DELL’EUROPA Nell’edizione domenicale del quotidiano londinese un articolo alle scoperte archeologiche e alla Sardegna di Simonetta Selloni ORISTANO L’attenzione sui Giganti di Mont’e Prama varca il mare e conquista una platea di assoluto prestigio internazionale. A loro, ai guerrieri, pugilatori e arcieri, è dedicato un lungo e approfondito articolo comparso sul quotidiano londinese The Independent. E se l’interesse legato ai Giganti ormai si è esteso oltre i confini del consesso accademico e sta coinvolgendo e richiamando visitatori da tutto il mondo, il reportage sull’Independent pone anche la Sardegna e la civiltà nuragica all’attenzione della stampa internazionale. Con una considerazione di assoluto rilievo, che emerge proprio dalle colonne del quotidiano britannico: “È l’unico gruppo di guerrieri scolpiti in pietra a dimensioni umane mai trovato in Europa. Seppure composto da un numero molto più piccolo di figure rispetto al famoso Esercito di terracotta Cinese, quello Sardo è di 500 anni più vecchio e fatto di pietra piuttosto che di ceramica”. The Independent, peraltro, con il titolo “Cyberuomini preistorici? I guerrieri perduti della Sardegna emergono dalla polvere”, compie alcuni interessanti riferimenti agli studi compiuti sul materiale umano rinvenuto a Mont‘e Prama, e che finora sono ancora inediti. In particolare, il quotidiano che sposa la tesi dei Giganti a guardia dei sepolcri attribuiti ai componenti l’elìte dominante dell’età del Ferro, parla espressamente di un clan, un gruppo “strettamente collegato, con persone imparentate tra di loro”. E lo fa citando un’indagine scientifica condotta in un laboratorio a Firenze, sui resti umani, dalla quale emergerebbe che “la maggior parte dei morti appartenessero ad appena due generazioni di un unico, esteso nucleo familiare”. Lo studio al quale si fa riferimento è quello dell’antropologa Ornella Fonzo, il cui gruppo ha lavorato sui reperti umani rinvenuti negli scavi del 1975 e del 1979; studio ancora inedito, perché in via di pubblicazione nel secondo volume, dei tre complessivi, dedicati a Mont‘e Prama dalle Soprintendenze di Cagliari, Oristano, Sassari e Nuoro. «Le analisi hanno evidenziato che i resti appartenevano a uomini che potevano, già allora, accedere a un nutrimento di prim’ordine, comprendente anche molluschi – sottolinea il professor Raimondo Zucca dell’Università di Sassari, archeologo impegnato negli scavi a Mont‘e Prama –. Dalle masse muscolari, ovviamente perdute, ma che si ricavano dalle strutture ossee, possono ricollegarsi ad attività nobili: arcieri, guerrieri, forse persino spadaccini». Proprio ieri il professor Zucca ha accolto, proveniente dal celeberrimo museo Nazionale preistorico etnografico Pigorini di Roma, centro di riferimento per la bioarcheologia, Claudio Cavazzuti, uno dei massimi esperti di questo tipo di indagine. Una presenza resa possibile dall’accordo sancito tra Università e Soprintendenza Speciale al Museo Pigorini. The Independent, senza mai citare direttamente Cabras, dimostra un altissimo interesse per queste statue e la loro straordinaria valenza storica e etnografica. E si sofferma sulla civiltà Nuragica, “una della civiltà antiche meno conosciute al mondo, eppure più impressionanti”, e sui nuraghi, “i più antichi castelli d’Europa”, raccontando come le oltre “7000 fortezze ancora dominino il paesaggio sardo, e alcune dozzine abbiano superato in modo eccezionale il test del tempo, fornendo una straordinaria immagine di cosa fosse l’architettura militari dell’Età del Bronzo”. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 ott. ’14 LA BATTAGLIA DEI GIGANTI: MIBAC CONTRO UNICA & UNISS Quale sarà il futuro della più grande ricchezza che l'Isola abbia mai avuto? Poveri Giganti di Mont'e Prama, protagonisti inconsapevoli di una battaglia contemporanea. Una lettera ultimativa spedita dalla direzione regionale del Mibact chiede quando gli studiosi delle Università di Cagliari e Sassari leveranno le tende dal cantiere e lasceranno campo libero «alla grande professionalità dei nostri funzionari» - come dice il sottosegretario ai Beni culturali. Che ha annunciato, d'ora in poi, «una gestione diretta del sito archeologico».
Cambio di rotta molto contestato. Nell'ambiente tutti sostengono: il ministero vuole “mettere il cappello” sul sito e far fuori l'Università. Francesca Barracciu la spiega in un altro modo: «Finora è stato fatto un ottimo lavoro, con la direzione scientifica delle Soprintendenze. Questo lavoro finirà a giorni, perché i fondi sono stati spesi interamente. Fondi che prevedevano anche la vigilanza, se poi qualcuno racconta di averla pagata di tasca, significa che il piano economico era sballato. Comunque, adesso che le risorse le metterà il ministero è stata fatta una gara pubblica, vinta da una ditta dell'Emilia Romagna che darà il via a un nuovo scavo e impiegherà solo personale altamente qualificato, sotto il nostro diretto controllo. Vedremo se ci sono le condizioni per un'eventuale collaborazione con le Università. Ma le polemiche preventive sono inutili e dannose». I team delle due Università non vogliono mollare. I soldi per andare avanti li avrebbero finiti (come sostiene la Barracciu) ma riceveranno un importante finanziamento dalla Fondazione Banco di Sardegna. Una riunione riservatissima con il presidente Antonello Cabras è stata fatta nei giorni scorsi. L'idea - che deve ancora passare al vaglio del comitato di indirizzo e del cda - è di realizzare un piano triennale (si ipotizza una cifra sui 200 mila euro l'anno) per proseguire con gli scavi e mettere finalmente in piedi un'operazione di marketing all'altezza dei Giganti (a casa loro). Sarebbe bello qualcosa di simile a quello fatto ai Fori Imperiali a Roma, con luci, proiezioni e riproduzioni in 3D. Per dire, lo show su Augusto, un viaggio multimediale in sei lingue, studiato da Piero Angela con l'approvazione e la guida scientifica della Sovrintendenza capitolina, ha fatto in cinque mesi oltre 75 mila spettatori e ha fatto già incassare una somma molto superiore all'investimento iniziale.
Il rettore di Sassari, Attilio Mastino, ammette di aver ricevuto la lettera di benservito che chiede la data di “chiusura” dello scavo. Ma non commenta. «Ho chiesto al sottosegretario Barracciu un incontro urgente. Le dirò che le Università hanno la forza, le competenze e i mezzi per prolungare la collaborazione. Vogliamo che questo continui ad essere un luogo di amicizia, di fraternità e di scienza, dove ogni divergenza possa essere superata e dove vengano valutate le ragioni di tutti». ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 12 ott. ’14 OGM:ALIMENTATI DA FALSE PAURE Roberto Defez riesce a chiarire con estrema precisione le vaghezze e le bugie interessate di chi parla di cibo in chiave ideologica Gilberto Corbellini «Combattere l'obesità facendo un uso attento della ragione – sia attraverso misure politiche sia attraverso l'educazione alla salute – è un grande progetto, che però fallirà, a meno che le idee di senso comune dell'obesità e delle forze che la creano siano comprese e analizzate». L'osservazione è tratta da uno dei saggi dedicati al ruolo dei media nella costruzione culturale dei disturbi dell'alimentazione e dell'obesità pubblicato a cura di un gruppo di antropologi di Oxford. Nel testo citato, Pino Donghi e Josephine Wannerholm illustrano le contraddizioni della comunicazione dei valori, etici, politici ed estetici, che incanalano i comportamenti alimentari nel mondo occidentale. Comportamenti che causano con relativa facilità un eccesso di peso o l'obesità, soprattutto nei bambini, o che possono evolvere, in soggetti predisposti, come veri e propri disturbi mentali. Ma quali sono queste idee e forze di senso comune, che non si riesce a mettere a fuoco, senza usare la ragione, per capire l'origine della pandemia di obesità e la diffusione dei disturbi da alimentazione incontrollata? Probabilmente, e in primo luogo, l'ingannevole credenza che siamo noi, individualmente o come comunità sociali, ad avere il controllo sul cibo. Mentre è vero il contrario. Basta uno sguardo anche superficiale alle programmazioni quotidiane rivolte al popolo teledipendente, largamente dedicate a cucine e prodotti alimentari, per capire quel che sta accadendo. Provando a uscire dal punto di vista antropocentrico, che istruisce il senso comune, la storia della specie umana negli ultimi diecimila anni si potrebbe leggere come un'evoluzione culturale che "ci" ha posti al servizio di alcune piante e animali, che "ci" hanno resi metabolicamente dipendenti, di modo che essi potessero diventare prevalenti sul pianeta. Il solito povero marziano che atterrasse oggi, non sarebbe forse legittimato a pensare che l'umanità si è moltiplicata per coltivare vaste estensioni terrestri con mais, riso, frumento, o per consentire ai maiali o ad alcuni volatili di riprodursi in modo largamente superiore a come sarebbe allo stato naturale? Certo, è solo un esperimento mentale. Ma se guardiamo al ruolo cruciale, da vero e assoluto direttore d'orchestra o dittatore del metabolismo, che l'insulina ha assunto nell'economia biochimica della nostra specie, la singolare prospettiva diventa meno inverosimile. Perché quest'ormone tiranno è in ballo dappertutto e se vogliamo una prova del fatto che il libero arbitrio è un'illusione, pensiamo solo a come i livelli di insulina determinano le nostre decisioni, le nostre capacità cognitive, i nostri stati emotivi, il nostro benessere e le malattie che ci aggrediscono come conseguenza dei deterioramenti fisiologici conseguenti a un'alimentazione innaturale. Perché chi crede che l'agricoltura sia un modo "naturale" di produrre cibo o che esistano alimenti più "biologici" di altri, sbaglia di grosso. L'agricoltura è stata una necessaria e formidabile invenzione umana, che ha prodotto però anche non pochi guai per la salute. Perché ha creato uno squilibrio drammatico nelle composizioni dei nutrienti accessibili e utilizzati come cibo. Negli ultimi diecimila anni è stato grazie all'intelligenza che siamo riusciti a trasformare una condizione a lungo incerta, cioè la produzione di quantità spesso insufficienti di alimenti innaturali e in parte deleteri rispetto alla dieta per cui ci siamo evoluti nel Paleolitico, in una realtà economica, politica e sanitaria più che decente. Ancora duecento anni fa, la condizione alimentare umana era tragicamente precaria. La malnutrizione e le carestie perseguitavano l'esistenza quotidiana di coloro che riuscivano a sopravvivere alle ondate pestilenziali causate da vaiolo, peste, morbillo, eccetera. Con l'invenzione e lo sviluppo della scienza, cioè di metodi validi per spiegare i fatti, sono stati risolti o quantomeno messi sotto controllo molti problemi alimentari. E non solo. L'accesso sicuro al cibo, grazie alla crescita economica, il controllo sulla sua qualità e una significativa longevità, non sono un merito dei metodi tradizionali di coltivazione. Sono state le conoscenze scientifiche, chimiche e biologiche, con le relative innovazioni tecnologiche a rendere l'economia agricola efficiente, quindi a garantire cibo sufficiente e di qualità adatta al nostro fabbisogno metabolico. Parallelamente all'eliminazione della malnutrizione, per larga parte del pianeta c'è stata la presa del controllo sulle principali malattie infettive: grazie sempre agli avanzamenti scientifici, alla potabilizzazione dell'acqua, all'invenzione dei vaccini, alla scoperta degli antibiotici, eccetera. Oggi, e per i prossimi decenni, la sfida è se si riuscirà a mantenere queste conquiste, e gestire i gravi disadattamenti, soprattutto le malattie cronico-degenerative dell'età avanzata, dovuti al fatto che la nostra alimentazione, in generale, è eccessivamente calorica e sbilanciata. È molto improbabile che queste minacce possano anche solo essere capite dal punto di vista di un'idea di senso comune. E allora è paradossale e irresponsabile, ma anche sintomatico degli autoinganni mentali di cui siamo facilmente preda, quel che è accaduto in un paese come l'Italia e in larga parte dell'occidente per quanto riguarda il tema degli ogm. Un paradosso di cui il libro di Roberto Defez ricostruisce le origini, la storia e le conseguenze. Le nuove generazioni, che non possono avere memoria delle durezze e sofferenze della vita contadina, si rappresentano un mondo bucolico di cui possono esistere certo alcuni esemplari, ma solo perché da qualche parte, fuori dall'Italia, si possono acquistare alimenti sicuri, a prezzi accessibili anche per chi vive con redditi da povertà. Siamo alla vigilia di Expo2015. Per tradizione secolare avrebbe dovuto essere una vetrina dei più avanzati strumenti dell'intelligenza umana per affrontare e sconfiggere le minacce di un problematico futuro alimentare e sanitario. Finora abbiamo ascoltato vaghe chiacchiere, o peggio interessate bugie su scenari alimentari e sanitari da medioevo, spacciati per sostenibilità. Quel che più stupisce è che a questi scenari crede una popolazione di cittadini che usa per comunicare tecnologie sofisticatissime e possibili solo grazie alla scienza. Chissà perché quando si sente parlare di scienza e tecnologia applicate all'agricoltura e al cibo, ci si spaventa e si sragiona? © RIPRODUZIONE RISERVATA Karin Eli e Stanley Ulijaszek (ed by), Obesity, Eating Disorders and the Media, Ashgate, Farnham, pagg.. 174, s.i.p. Roberto Defez, Il caso Ogm. Il dibattito sugli organismi geneticamente modificati, Carocci, Roma, pagg. 146, € 11,00 ____________________________________________________________ Repubblica 08 ott. ’14 L'IMPORTANZA DI COLTIVARE IL DUBBIO DAVANTI AGLI OGM di MICHELE SERRA L'AFFERMAZIONE "la scienza ha sempre ragione" non è scientifica. È ideologica. Lo è tanto quanto il pregiudizio reazionario per il quale ogni mutamento del modo di produrre, consumare, nutrirsi, avviene nel nome di interessi inconfessabili, e a scapito della salute della collettività umana. L'acceso dibattito sugli ogm (vedi gli interventi suRepubblicadiVandana Shiva,Elena Cattaneo,Carlo Petrini,Umberto Veronesi) fatica a mondarsi di queste opposte rigidità. E fa specie che nel campo "pro", che annovera valenti ricercatori e scienziati, pesi ancora come un macigno l'idea che il fronte degli oppositori sia un'accolita di mestatori che, in odio al progresso umano e alla libertà di ricerca, alimentano dicerie malevole e speculano sulla paura e l'emotività dell'opinione pubblica. Una volta esposte le ottime ragioni della ricerca scientifica e della sua necessaria libertà d'azione, perché evocare, tra i soggetti "antiscientifici" in qualche modo assimilabili agli oppositori degli ogm, anche i fattucchieri di Stamina? Allo stesso identico modo le frange più eccitabili del fronte anti-ogm possono immaginare che la ricerca genetica sulle piante sia nelle mani di squilibrati megalomani (alla dottor Frankenstein) o di avidi mercenari. Le forzature polemiche fanno parte del gioco, ma non aiutano a mettere meglio a fuoco gli argomenti. La più autorevole istituzione mondiale in tema di agricoltura e alimentazione, laFao, mette a disposizione di competenti e incompetenti (come me) una sintesi esauriente e comprensibile delle potenziali ricadute positive e negative delle coltivazioni ogm, con una breve analisi della loro verificabilità. Lo spazio di un articolo non permette di elencare tutti i punti (rimando i lettori al sito della Fao). Mi limito a dire che i "capi di accusa" sono divisi in tre gruppi: ricadute sull'ambiente agricolo e l'ecosistema; ricadute sulla salute umana; ricadute sull'assetto economico e sociale. Mi sembra interessante e molto rilevante che la Fao, sulla quasi totalità di questi punti critici, non esprima certezze. Non dice, cioè: questa critica è campata in aria oppure questa critica è corretta. Esprime dubbio. In larga parte dovuto alla tempistica medio- lunga che una verifica attendibile (scientifica!) richiederebbe. Il principio di cautela - che non vuol dire condanna né assoluzione: vuol dire umiltà di giudizio - dovrebbe e potrebbe dunque essere uno dei punti di partenza di una corretta discussione comune, ammesso che mai ci si arrivi. Certo confligge, questo principio di cautela, con la comprensibile fretta con la quale i finanziatori della ricerca, in grande parte nutrita con fondi privati, vorrebbero mettere a profitto le loro scoperte e i loro prodotti. È esattamente per questo che Vandana Shiva mette in guardia contro la coincidenza di ruolo tra ricerca e commercializzazione. Sono campi di interesse entrambi utili e legittimi: ma la loro ibridazione - per dirla con una battuta transgenica - può generare mostri. Una volta detto che la questione è molto complicata, coinvolge competenze scientifiche le più varie e non è archiviabile con un "sì" né con un "no", colpisce assai che di questi "rischi" il più sottaciuto sia quello che, al contrario, è il più nevralgico e coinvolgente: la ricaduta socio- economica. È anche questo, in fondo, un portato della crisi della politica: la rinuncia ormai quasi pregiudiziale a mettere in discussione, o anche solo a cogliere, le scelte strutturali, quelle che determinano gli assetti futuri. Quasi inutilmente, in tutti questi anni, Carlo Petrini e il vasto movimento mondiale che si rifà a Slow Food e a Terra Madre hanno rivendicato la natura squisitamente politica del loro lavoro e della loro battaglia. Chi oggi rivendica la "sovranità alimentare" delle comunità produttive (e dei consumatori) compie la stessa operazione politico- culturale dei nostri avi socialisti quando dicevano "la terra a chi la lavora". Si rivendica, né più né meno, l'autodeterminazione dei produttori, affidando ad essa la difesa delle biodiversità, della varietà delle colture, delle culture, delle identità locali. Ovviamente è del tutto lecito sostenere che l'agroindustria, con la sua potentissima opera di selezione delle specie (tutte brevettate) e di inevitabile omologazione della produzione agricola mondiale, è perfettamente compatibile con la biodiversità e con le piccole coltivazioni; o addirittura che è giusto e utile rimpiazzare del tutto le produzioni tradizionali con la produzione agroindustriale. Ma non è lecito fare finta che non sia questo (il modo di produzione, la struttura stessa delle società future) il punto nodale. Non sono in ballo solo il potenziale allergenico di un pomodoro, o il chilo di pesticida per ettaro in più o in meno. L'ordine del giorno non è solo "gli ogm fanno bene, gli ogm fanno male". È in discussione la vita stessa delle società rurali nel mondo (più della metà dei viventi), la ripartizione del potere, del reddito, delle conoscenze tra una rete infinita di piccole comunità e pochi, immensi e quasi sempre anonimi centri decisionali. Sono in discussione gli 87 milioni di ettari di suolo africano acquistati dal 2007 a oggi dalle multinazionali americane e cinesi e da fondi di investimento opachi e onnipotenti: è una superficie grande quasi come Italia e Francia messe insieme, e a nessuno può sfuggire che coltivare pezzi così ingenti di pianeta a soia ogm per produrre biocarburante oppure incrementare le produzioni locali (più della metà dell'agricoltura africana è vocata all'autosostentamento) è una scelta tanto importante, tanto strutturale quanto lo è, nel bene e nel male, ogni grande rivoluzione tecnologico- scientifica, industriale, sociale. E se l'Africa vi sembra lontana e comunque fuori portata, come può chi vive in Francia o in Italia non percepire che la straordinaria varietà delle colture, il legame strettissimo tra i luoghi e ciò che si coltiva, si mangia e si beve, insomma l'agricoltura plurale, "calda" e identitaria per la quale si battono i Petrini e si battevano i Veronelli, i Mario Soldati e i Gianni Brera, non è una frontiera del passato, è un caposaldo della nostra trama sociale, economica, culturale? Dunque è futuro allo stato puro? O dobbiamo dire "Italian style" solo parlando di borsette? La libertà della ricerca scientifica è preziosa e va difesa: specie in campo medico, le biotecnologie possono dare frutti vitali, e Cattaneo e Veronesi fanno benissimo a tenere fermo il punto. Ma non è solo di questo che si parla, quando si parla di ogm. E i critici degli ogm possono ben dire di avere sbagliato qualcosa di sostanziale, in termini di comunicazione, se ancora oggi ci si scanna sul ravanello transgenico (faccio per dire) e non si capisce che non è di lui, è di quasi quattro miliardi di contadini che si sta parlando, del loro e del nostro futuro, e della loro libertàdi scelta che è degna e importante quanto quella dei benemeriti ricercatori scientifici. Non è vero che "quando c'è la salute c'è tutto". Conta la libertà. Conta la dignità. Conta che il potere sia in pochissime mani o nelle mani di molti. ========================================================= ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 ott. ’14 A COLPI DI TAR MEDICINA HA 5MILA MATRICOLE IN PIÙ Gianni Trovati Qualche giorno fa il ministro dell'Università Stefania Giannini l'aveva detto, in un tweet come capita spesso nella politica di questi mesi: «Abolire il test d'ingresso a medicina, gli studenti non vanno valutati con 60 domande a risposta multipla». Al momento, però, le certezze finiscono qui: sul futuro, ma soprattutto sul presente, domina invece la nebbia. Ieri è arrivata al traguardo al Tar Lazio un'altra tranche del maxiricorso nata dalle prove dell'8 aprile, e si è conclusa come le precedenti: altre 2.500 matricole che erano state fermate dai test sono state riammesse dai giudici amministrativi per una serie di irregolarità nelle procedure di prova, e si vanno ad aggiungere ai 2mila "ripescati" a luglio e ai 500 di settembre. Totale: 5mila persone in più, che aumentano del 50% il contingente da 9.983 posti scritto nel decreto di marzo. Ammessi «con riserva», per ora, in attesa si un giudizio di merito che con un nuovo colpo di teatro potrebbe (ma è improbabile) ribaltare la situazione fra un po' di mesi. Tutto si può dire del numero dei nuovi aspiranti medici di quest'anno, insomma, tranne che sia «programmato» come recita la Gazzetta Ufficiale. Anche perché le battaglie giudiziarie non finiscono qui, altri due ricorsi sono aperti (c'è ancora qualche giorno di tempo per aderire) e le decisioni fotocopia del Tar aumentano di giorno in giorno. Le facoltà non sanno quanti iscritti avranno, a Palermo lunedì si ferma tutto in attesa di capire come gestire il quasi raddoppio delle immatricolazioni (ne erano previste 400, ne stanno arrivando 340 in più), ma ovviamente problemi identici si ripresentano da Nord a Sud. Lo stesso ministero, del resto, è andato in testacoda davanti alla valanga delle vittorie studentesche al Tar. In una prima circolare del 22 settembre, subito battezzata «blocca-ricorsi», è stato proposto un meccanismo acrobatico per cercare di limitare i danni, imponendo agli studenti riammessi dalle ordinanze di scegliere, fra gli atenei indicati nel test, quello «nel quale risulta minimo lo scarto tra il punteggio del primo in graduatoria in quella sede e il punteggio ottenuto da ricorrente». In pratica, a decidere la possibilità o meno di iscriversi in un ateneo sarebbe stata la performance raggiunta dallo studente più brillante nei quiz, con un meccanismo che avrebbe aperto le porte di università come Campobasso (voto massimo 50,7), Sassari (51,8) o Salerno (53,8), blindando invece le aule di Torino (voto massimo 80,5), Foggia (78,6), Milano (78,6) e a Palermo (72,2). L'idea ministeriale ha fatto arrabbiare i rettori e infuriare gli studenti, e per evitare di avvitarsi nei "ricorsi sul blocca-ricorsi" ha fatto marcia indietro con una nuova nota che permette di iscriversi nell'università preferita dallo studente. Da qui il disorientamento delle università, che in questo via-vai di regole decise e smentite non sanno quanti studenti avranno: con tanti saluti alla «programmazione», e ai «criteri di qualità» che sono indispensabili per accreditare i corsi e che si fondano anche sulle proporzioni fra il numero dei docenti e quello degli studenti. Questi ultimi parlano di «vittoria epocale», che secondo il coordinatore nazionale dell'Unione degli universitari Gianluca Scuccimarra «è destinata a cambiare completamente l'attuale sistema», ma il ministro sottolinea che vanno aboliti i quiz «ma non il numero programmato». Insomma, la battaglia continua con un unico dato che mette d'accordo tutti: a decidere i futuri medici non possono più essere né i test né i Tar. gianni.trovati@ilsole24ore.com _________________________________________________________ La Stampa 08 Ott. ’14 MEDICINA: COME USCIRE DAI TEST ANDREA GAVOSTO* I test di ingresso ai corsi di laurea di medicina continuano a essere al centro di infuocate polemiche. I quesiti - con qualche ragione - sono percepiti come astrusi, difficili, inadatti a cogliere le caratteristiche che dovrebbe avere un buon medico; i risultati come frutto principalmente del caso. Anche i miglioramenti apportati negli ultimi due anni, che hanno escluso il voto di maturità dal computo del punteggio del test (ricordate il pasticcio del bonus?) e stabilito un'unica graduatoria nazionale, non sono serviti a placare gli animi. Nella campagna elettorale per le Europee, il ministro Giannini ha cercato di cavalcare lo scontento dei candidati e delle loro famiglie, promettendo di abolire i test di accesso e proponendo un'altra soluzione, simile al modello francese: gli studenti di Medicina verrebbero selezionati al termine del primo anno, sulla base - si immagina - della media dei voti e del numero di crediti ottenuti dopo aver affrontato insegnamenti fondamentali (fisica, chimica, biologia) comuni a tutte le lauree scientifiche. Ancora recentemente, di fronte ai rettori che manifestavano perplessità, il ministro ha ribadito l'intenzione di procedere in tale direzione. La proposta è molto difficile e costosa da applicare. Nel 2014, oltre 60.000 candidati hanno fatto domanda per 10.000 posti disponibili per le matricole in tutta Italia; possiamo ipotizzare che, una volta liberalizzato l'ingresso, anche coloro che avevano preferito non affrontare i test si iscrivano a Medicina: diciamo che potremmo arrivare a 80.000 studenti al primo anno. Questo significa, rispetto alla situazione attuale, moltiplicare per otto aule, docenti e laboratori: un proposito irrealizzabile, visto che la riduzione dei finanzia- menti e del turnover impedi- sce in molti dipartimenti addirittura di sostituire chi va in pensione. Fra l'altro, tutte queste nuove strutture dal secondo anno sarebbero sottoutilizzate. Al di là degli aspetti pratici, la proposta solleva due ulteriori dubbi. In primo luogo, il modello francese prevede una selezione feroce per l'ingresso a Medicina al termine del primo anno, a cui sopravvive appena il 20% dei candidati, mentre gli esclusi continuano nelle altre discipline scientifiche: difficile pensare che l'Italia, patria dei ricorsi amministrativi, sia culturalmente pronta per questa ghigliottina. Il secondo dubbio riguarda l'omogeneità dei criteri di ammissione al secondo anno; venendo meno il test unico nazionale e ripristinando la discrezionalità di ciascun ateneo sulla selezione, si creerebbero facilmente delle iniquità, per cui in un'università verrebbero ammessi studenti meno capaci di quelli esclusi altrove. E anche all'interno di ciascuna di esse potrebbero aversi differenze di giudizio che l'anonimità del test non consente. Poiché questa strada non appare percorribile, come risolvere il problema dell'ammissione a Medicina? Una proposta, recentemente avanzata sul sito della Voce, è di modificare l'esame di maturità, introducendo moduli standardizzati per scegliere - secondo una graduatoria di merito redatta con criteri omogenei - gli studenti che proseguono nelle facoltà a numero chiuso: è, ad esempio, il sistema adottato fino a quest'anno in Spagna. L'opzione alternativa, più realistica, è mantenere l'attuale schema della graduatoria nazionale, che nel complesso ha dato buona prova di sé, migliorando sensibilmente qualità e adeguatezza dei test, oggi affidati a una società esterna. L'esperienza delle prove Invalsi nella scuola ci dimostra che, aprendosi alle critiche degli esperti, l'attendibilità dei test può crescere nel tempo, rendendoli uno strumento affidabile e con garanzie di equità superiori a quella di altre soluzioni. *Direttore Fondazione Agnelli ____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 ott. ’14 TROPPE RIAMMISSIONI GLI ATENEI NON REGGONO Bisognerà rileggere il «Manuale di progettazione di edilizia universitaria». Rifare i conti. E cercare di capire dove collocare gli studenti non previsti. Per evitare quello che sta succedendo a Palermo, dove l’ateneo ha deciso di sospendere le lezioni per una settimana in attesa di riorganizzare i corsi. Il Tribunale amministrativo regionale ha deciso di ammettere con riserva, in trentatréuniversitàitaliane, altri 2.500 ragazzi che avevano fatto ricorso dopo non aver superato l’ultimo test di Medicina, quello di aprile. Con le duemila riammissioni — sempre del Tar — di luglio e le altre 500 di queste settimane in Sicilia, le facoltà dovranno trovare posto per altri cinquemila studenti. Tradotto: il 47,4 per cento in più di quanto previsto quest’anno tra Medicina e Odontoiatria (10.551). Un aumento che, già da ora, fa saltare la programmazione di decine di rettori. Un caos accentuato anche dal ministero dell’Istruzione. Con una nota del 23 settembre il Miur aveva bloccato le immatricolazioni in sovrannumero nel tentativo di «smistare» i ragazzi: chi aveva vinto il ricorso — sosteneva il dicastero — doveva iscriversi nell’ateneo dove la differenza tra il proprio punteggio e quello punteggio del primo classificato fosse minore. Poi quel vincolo è caduto. E così ora da Milano a Bari, passando per Bologna, Roma e Napoli, nei prossimi giorni centinaia di aspiranti medici si presenteranno nelle segreterie per l’immatricolazione. Ma poi dove frequenteranno le lezioni? Le aule sono organizzate sulla base dei numeri programmati. Decine di studenti in più costringeranno gli atenei a dividere i corsi o utilizzare altri spazi, magari presi in affitto. Del resto non si possono ammassare i futuri dottori in pochi metri quadrati. Non lo chiede soltanto il buonsenso, ma anche lo standard minimo che prevede per ogni matricola almeno quattro metri cubi di «spazio» a disposizione. A cui si aggiunge l’«indice di affollamento»: nelle aule deve essere di 1,5 metri quadrati per ogni ragazzo. Leonard Berberi ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 ott. ’14 SANITÀ, LA RIFORMA APPROVATA IN COMMISSIONE La sesta Commissione del Consiglio regionale ha approvato la proposta di legge 71 sulla riforma del sistema sanitario. Presentata dal centrosinistra, primo firmatario Pietro Cocco, è passata nonostante il voto contrario della minoranza e due astensioni tra le fila della maggioranza (Roberto Desini del Centro Democratico e Augusto Cherchi del Partito dei Sardi). Il provvedimento introduce importanti novità nel sistema della salute pubblica: a) la creazione della Centrale regionale di committenza che consentirà di razionalizzare la spesa sanitaria e di standardizzare la domanda delle Asl nei confronti dei fornitori; b) l'istituzione dell'Agenzia regionale per le emergenze e le urgenze che avrà autonomia patrimoniale e gestionale e svolgerà i compiti attualmente in capo alle centrali operative del 118; c) la nuova disciplina dei distretti socio-sanitari che saranno ridisegnati tenendo conto della scomparsa delle province; d) il rafforzamento dei servizi nel territorio con la costituzione delle Case della salute (destinate a raccogliere in un unico spazio l'offerta extraospedaliera integrata con il servizio sociale) e gli Ospedali di comunità (per le cure ai pazienti che non abbiano necessità di ricovero in strutture per acuti). La proposta di legge dovrà ottenere adesso il via libera definitivo dal Consiglio regionale. Il testo entrerà in Aula nell'ultima decade di ottobre. Soddisfatto il presidente della Commissione Sanità Raimondo Perra (Psi): «Si tratta di un passo molto importante per ridisegnare il sistema sanitario isolano. C'è la necessità di razionalizzare la spesa, ormai fuori controllo, delle Asl. Il disavanzo, nell'ultimo biennio, è di circa mezzo miliardo di euro». «È una finta riforma, concepita per moltiplicare e occupare le poltrone», replica Pietro Pittalis, capogruppo di Forza Italia. «Dalla Commissione esce un flop, che moltiplica i centri di costo, che è stato criticato da tutte le parti sociali audite e che ha visto perfino l'astensione di due partiti della maggioranza. La maggioranza non va oltre una pseudoriforma, un costoso abito cucito su misura per i partiti e le correnti». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 ott. ’14 SCLEROSI MULTIPLA LA BATTAGLIA DELLA SARDEGNA La Sardegna è in prima linea nella battaglia contro la sclerosi multipla. E non potrebbe essere altrimenti visto che nell'Isola il numero dei casi è più che doppio rispetto alla media italiana. Alla vigilia del congresso nazionale dei Neurologi, in programma a Cagliari da domani al 14 ottobre, la professoressa Maria Giovanna Marrosu, ordinario di Neurologia dell'ateneo cagliaritano e direttore del Centro Sclerosi Multipla dell'ospedale Binaghi di Cagliari analizza i dati regionali e anticipa le strategie terapeutiche del futuro. «L'incidenza della sclerosi multipla in Sardegna è stimata fra 3,4 e 6,8 casi ogni anno per centomila abitanti - spiega la professoressa -, attualmente si stimano quindi fra 150 e 210 casi ogni centomila abitanti. La variabilità dei dati riflette soltanto le diverse epoche di studio e i differenti territori presi in esame». In assenza di una mappatura regionale completa, gli studiosi hanno notato un picco di casi in zone specifiche. «L'incidenza più elevata è stata riscontrata nel Sulcis Iglesiente - spiega ancora la neurologa -, in uno studio più dettagliato abbiamo anche evidenziato l'esistenza di aree circoscritte, più suscettibili di altre alla malattia, come quella del paese di Domusnovas, mentre nell'Isola di San Pietro l'incidenza è inferiore alle medie. Queste discrepanze ci hanno spinto a intraprendere uno studio in collaborazione con alcuni geologi per la ricerca di un'eventuale responsabilità degli inquinanti ambientali». Al di là dei casi particolari, tutta la Sardegna registra un'incidenza superiore alla media nazionale. Lo studio sui residenti potrebbe rivelarsi utile all'individuazione dei fattori scatenanti. «Le cause dell'elevata prevalenza della sclerosi multipla nella popolazione sarda non sono ancora chiare - conferma la specialista -, è certo tuttavia che il particolare assetto genetico dei sardi giochi un ruolo fondamentale. Dati recenti su altre popolazioni mostrano che la predisposizione è legata a una molteplicità di geni che tendono ad attivare le risposte del sistema immunitario nei confronti di stimoli esterni». Il Dna dei sardi si conferma unico. Nel bene e nel male. «La popolazione sarda è arricchita da numerose varianti genetiche - prosegue la Marrosu -, questo potrebbe essere il meccanismo chiave alla base della malattia. Non dobbiamo pensare a “geni cattivi”, ma a un'interconnessione fra questi e l'ambiente. Tra i fattori ambientali maggiormente studiati in questa interazione deleteria ci sono la vitamina D, la cui carenza sembra avere un ruolo importante nello scatenamento della patologia, il virus della mononucleosi, la dieta eccessivamente ricca di sale, il fumo o altri ossidanti naturali». Benché il traguardo di una cura definitiva sia lontano, il contributo della ricerca ha garantito nel frattempo ai pazienti una qualità di vita migliore del passato. «Molti dei farmaci che abbiamo a disposizione riescono, se utilizzati tempestivamente, a rallentare il decorso della malattia, con il risultato di allontanare nel tempo la disabilità neurologica conseguente al processo di degenerazione. Il nostro obiettivo rimane il trattamento precoce della patologia con il miglior farmaco possibile e con i minori effetti collaterali, fondamentali per la qualità di vita degli ammalati. Il sogno di una cura risolutiva esiste sempre nella mente di chi si impegna nelle ricerche sulla sclerosi multipla, ma ancora non siamo in grado di dire se e quando questa avverrà». Luca Mascia UNA DIAGNOSI PRECOCE MIGLIORA LA VITA Tutti uniti contro la sclerosi multipla. Al congresso nazionale dei neurologi di Cagliari si farà anche il punto sulla ricerca di una cura definitiva alla malattia autoimmune che colpisce il sistema nervoso centrale: nuovi protocolli e tecniche sperimentali arricchiscono l'armamentario terapeutico a disposizione degli specialisti. Il professore Gianluigi Mancardi, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Genova sottolinea il ruolo fondamentale di una diagnosi precoce. «Riconoscere i sintomi iniziali è importante nel trattare qualsiasi patologia - spiega Mancardi -, ma lo è ancora di più nella sclerosi multipla per la quale le cure dei casi più gravi e conclamati risultano ancora poco efficaci o inutili. Le tecniche diagnostiche sono invece di grande aiuto: le risonanze magnetiche spinale e cefalica ci aiutano ad avere valutazioni sempre più in anticipo e accurate». Ma in venti anni di studi i passi avanti sono stati molti. Il più importante è stato sicuramente fatto nella cultura dei cittadini, ora maggiormente consapevoli e preparati nel riconoscere e affrontare subito i sintomi. «L'Aism, l'associazione italiana sclerosi multipla, è tra le organizzazioni più affermate del Paese - spiega il professore -, la conoscenza e la tempestività nelle cure rimangono le nostre armi più utili». Leandro Provinciali, professore di Neurologia e direttore della Clinica Neurologica degli Ospedali Riuniti ad Ancona, sottolinea inoltre i risultati raggiunti dai farmaci iniettabili per via endovenosa. «È una terapia consolidata, ora anche meno traumatica per il paziente perché somministrabile a giorni alterni e non più quotidianamente. Arriviamo al congresso di Cagliari con più fiducia e speranza, consci che ci sia tanto lavoro da fare, ma consapevoli anche che la qualità di vita dei pazienti è stata significativamente migliorata grazie proprio al costante contributo di specialisti e ricercatori clinici». Agire in fretta è indispensabile, considerato anche la giovane età nella quale si manifesta più frequentemente la sclerosi. La media all'esordio è 31 anni, il 5 per cento ha un esordio prima dei 16 anni. Alcuni studi fatti proprio nell'Isola dividono i malati in 68 per cento donne e 32 uomini. «Siamo sulla strada giusta - sottolinea Mancardi - e oggi lo dimostrano le oltre dieci terapie a nostra disposizione». «Basta saperle sceglierle con consapevolezza - aggiunge Provinciali - tradizionali o nuove che siano, avendo ben presenti benefici ed effetti collaterali». (l.m.) ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 09 ott. ’14 BUCHI NEI CONTI DELLE ASL DAI MAXI-RISARCIMENTI Sanità. Studio Bocconi: analizzati i database di quattro broker Barbara Gobbi I costi dei risarcimenti in sanità esplodono vertiginosamente e il rischio-buco è in agguato per asl e ospedali. Per questo serve correre rapidamente ai ripari costituendo riserve su dati certi, rischi calcolati e prevedibili aumenti del contenzioso. Come oggi non avviene, o mai abbastanza. A svelare le minacce in agguato per i conti pubblici che arrivano dai mega risarcimenti per danni sanitari è l'indagine - che sarà presentata oggi a Milano - realizzata da Sda Bocconi e sponsorizzata da Aon, Marsh, Trust Risk Group e Willis, i principali broker internazionali coinvolti nella sanità italiana, che per la prima volta hanno messo a disposizione i propri database. Obiettivo dichiarato della ricerca, che ha preso in considerazione circa 40mila richieste di risarcimento rilevate su scala nazionale nel periodo 2001-2012 (concentrate per lo più in Lombardia, Liguria e Lazio), era di descrivere i trend dei sinistri nella sanità pubblica e proporre simulazioni statistiche sui possibili scenari futuri. Con una premessa: senza una valutazione ponderata dell'evoluzione dei risarcimenti – come oggi non avviene – le scelte assicurative delle singole regioni, come quella di «autoassicurarsi» - rischiano di far esplodere i bilanci. Che spesso non appostano le riserve necessarie. I dati parlano chiaro: per i decessi in area chirurgica, il trend stimato dei risarcimenti è esploso: si aggira sul 32% tra il 2012 e il 2014, passando da 469mila a 617mila euro, con una punta massima di oltre 2,3 milioni (+31%). Ma a dare l'allarme sono soprattutto i dati sugli importi liquidati: su un totale di 15.859 eventi risarciti, la cifra massima è stellare: oltre 5,3 milioni per le lesioni in area medica. Addirittura più che per le cause legate al parto, tradizionale evento critico. Mentre per la voce "decesso", l'importo massimo liquidato è stato di 1,3 milioni. Ce n'è abbastanza per alzare la guardia: soprattutto in tempi di spending review ininterrotta per la sanità, fare i conti anche per la Rca medica è ormai un passaggio obbligato. Spiega Luca Franzi, di Aon: «Mentre il richiamo mediatico sui costi crescenti del contenzioso e il conseguente impatto sulle strategie del mercato assicurativo è stato una costante degli ultimi anni, non si può dire altrettanto di una diretta correlazione tra la programmazione finanziaria e il maggior controllo, se non riduzione, dei costi connessi agli errori medici». Gli effetti di una situazione non governata sono duplici: da una parte si drenano (sprecano) risorse da destinare alla cura degli italiani, dall'altra si mette pericolosamente a rischio la tenuta dei bilanci delle aziende sanitarie. Per non dire dell'affanno dei broker nel coprire specifici rischi (il top dei contenziosi è in ortopedia, ostetricia e ginecologia), e delle logiche di breve respiro e prive di programmazione, che inducono regioni e aziende a ragionare in termini di cassa e non di competenza. Ma se le regioni fanno da sé e, in più, non accantonano abbastanza fondi, chi pagherà - chiedono i broker - per risarcire danni, anche potenzialmente catastrofici ma oggi del tutto sottovalutati? ____________________________________________________________ Corriere della Sera 06 ott. ’14 TUTTI GLI SPRECHI IN OSPEDALE Il Cardarelli di Napoli paga per i servizi di pulizia oltre il doppio del Sant’Orsola di Bologna Le disparità in un comparto che vale 50 miliardi all’anno. I risparmi possibili uniformando i costi Chissà se il Cardarelli di Napoli è davvero più pulito del Sant’Orsola di Bologna. Le camere dei pazienti, i bagni e i corridoi dovrebbero essere impeccabili. I costi per la pulizia dell’ospedale napoletano sono più del doppio rispetto a quelli emiliani e rappresentano il record a livello nazionale: 17.583 mila euro per posto letto contro i 6.518 del Sant’Orsola. La media è di 7.957 euro. Magari al De Lellis di Catanzaro salvano i malati per telefono, visto che la spesa per le utenze telefoniche è il triplo di altri ospedali italiani (2.782 euro contro 910 a posto letto). E com’è possibile che tra il Careggi di Firenze e il Niguarda di Milano — a parità di dimensioni — ci sia una differenza di dieci volte per l’elettricità (6.737 euro contro 604 a posto letto)? Dall’elaborazione degli ultimi dati disponibili del ministero della Salute pubblicati online sull’attività economico-sanitaria (2011) emerge una fotografia su possibili sprechi e inefficienze. Di quanti soldi ha bisogno ogni anno un ospedale per sopravvivere? Basta dividere i costi messi a bilancio con i posti letto per avere risultati sorprendenti. Le cure mediche offerte ai malati sono le stesse, ma la spesa è enormemente differente tra un ospedale e l’altro. All’Umberto I di Roma sono necessari più di 500 mila euro per ogni letto utilizzato, mentre al San Matteo di Pavia ne bastano 380 mila. Per la spesa di medici e infermieri (tra dipendenti, universitari e precari) il Policlinico Giaccone di Palermo sopporta un costo di 182 mila euro per ciascun letto contro i 130 mila dell’ospedale universitario di Parma. In gioco ci sono soldi pubblici. La spesa degli ospedali vale più di 50 miliardi l’anno (sui 112 complessivi). E sapere come vengono usati è fondamentale. Per il governo Renzi a caccia di 20 miliardi per la manovra 2015 i tagli alla Sanità sono l’obiettivo numero 1. Ma i governatori sono insorti dichiarando che si mette a rischio la tenuta del servizio sanitario nazionale e quindi la salute dei cittadini. Bloomberg sembra dargli ragione: per il network mondiale d’informazione finanziaria, l’Italia è il terzo sistema sanitario più efficiente al mondo (preceduta solo da Singapore e Hong Kong). Chi ha ragione? È possibile ridurre i costi senza intaccare la qualità delle cure? Tutti i numeri sono da prendere con le molle. L’obiettivo non è stilare classifiche (sempre opinabili) tra spendaccioni e virtuosi. Le enormi disparità di spesa fanno capire, però, che troppo spesso ci sono costi non collegati strettamente alla cura dei malati. Qui dentro si nasconde un tesoretto. I risparmi possibili. E le cifre in ballo sono da capogiro. La differenza tra ospedali obbliga a una riflessione. Se fosse possibile all’Umberto I spendere per posto letto quanto il San Matteo di Pavia (entrambi storici policlinici universitari) l’ospedale romano ridurrebbe le uscite di 137 milioni di euro l’anno (un quarto del bilancio). I dati sono stati analizzati con l’aiuto del Centro studi sanità pubblica dell’UniversitàBicocca di Milano, insieme al fondatore Giancarlo Cesana e al ricercatore Achille Lanzarini. Numeri, tabelle, statistiche. È un mare magnum.Anche i più consolidati luoghi comuni sull’efficienza del Nord vengono messi in dubbio. L’ospedale universitario di Udine (dov’è in corso un piano di tagli contro un buco da 10 milioni) costa 170 mila euro in più a posto letto rispetto al suo omologo di Messina. Nella stessa Sardegna il Brotzu di Cagliari spende per tecnici, amministrativi e, in generale, personale non sanitario il triplo a posto letto rispetto all’ospedale universitario di Sassari (34 mila euro contro 11 mila). Per medici e infermieri al San Giovanni/Addolorata di Roma la spesa per posto letto è di 172 mila euro contro i 140 mila di Padova, ma lo stipendio del personale pubblico è uguale in tutt’Italia. La differenza è spiegabile, dunque, solo con un diverso numero di lavoratori in corsia: ma ne ha troppi il San Giovanni/Addolorata o troppo pochi Padova? Un interrogativo simile nasce se si butta un occhio ai giorni di ricovero: nella Chirurgia generale del San Giovanni/Addolorata la degenza media è 11 giorni contro i 7 di Padova. Un caso? Una cosa è certa: i costi della sanità sono un caos. E per cambiare, forse, non servono tagli lineari che penalizzano tutti allo stesso modo, ma manager capaci di individuare le spese improduttive e di riorganizzare l’attività. Premiando i medici e gli infermieri più bravi. E senza investimenti è dura. I costi bassi dell’energia di Niguarda? Sono iniziati con un investimento lungimirante di 22 milioni per un cogeneratore. SimonaRavizza ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 07 ott. ’14 AOB: QUANTO COSTA IL BROTZU Spese per il personale sopra la media nazionale Spende più della media per il personale ma, in generale, il Brotzu è fra gli ospedali italiani virtuosi: un posto letto costa il 6 per cento in meno della media nazionale. I dati del ministero della Salute non sono recentissimi (2011); ricavati dai bilanci, elaborati dal Centro studi sanità pubblica dell'università Bicocca di Milano e pubblicati ieri dal Corriere della Sera , scattano una fotografia del caos contabile degli ospedali italiani. C'è chi per le pulizie spende fortune (il Cardarelli di Napoli: in un anno 17.583 euro a posto letto utilizzato) e chi pochissimo: il Brotzu è il più economico, con appena 3.504 euro a posto letto, meno della metà della media nazionale. Variazioni altrettanto clamorose sui capitoli più vari: dalle spese telefoniche a quelle per l'elettricità. Il più grande ospedale sardo ne esce, in generale, bene. Non solo per i soldi: anche la degenza media ordinaria in chirurgia è più bassa della media nazionale. Ma accanto ai dati positivi ce ne sono anche di negativi. Per esempio, il Brotzu spede per il personale sanitario 181.521 euro a posto letto utilizzato, l'11 per cento in più della media nazionale; le cliniche universitarie di Sassari, per dire, ne spendono solo 126.189. E tanto per alimentare confronti fra Capo di Sopra e Capo di Sotto, per il personale non sanitario (tecnici e amministrativi) Cagliari spende 34 mila euro, Sassari solo 11 mila. IL MANAGER L'accostamento non piace ad Antonio Garau, direttore generale del Brotzu: «I raffronti - dice - andrebbero fatti tra aziende omogenee: non è corretto raffrontare i costi di un'azienda ad alta specializzazione e di rilievo nazionale, come il Brotzu, con quelli di ospedali differenti. Noi non solo abbiamo il doppio del volume d'affari dell'azienda ospedaliero- universitaria di Sassari ma facciamo i trapianti e altre attività complesse. Se raffrontiamo i nostri costi con il Careggi (di Firenze, ndr) , che fa le nostre stesse attività, vedremo che noi spendiamo 370 mila euro all'anno a posto letto contro i loro 616 mila. Lo stesso discorso vale per l'Umberto I di Roma che costa circa 512 mila euro a posto letto. Quindi significa che stiamo lavorando bene: questo è un ospedale che funziona e ha costi inferiori a quelli di strutture affini. Anche per questo avrebbe bisogno di maggiore attenzione da parte della Regione». Come commenta, il general manager, il dato sui costi per il personale sanitario? «Spendiamo l'11 per cento in più della media - ammette - ma anche qui il raffronto andrebbe fatto con aziende affini. A mio avviso, però, su questo dato c'è un'incongruenza, perché il personale sanitario delle aziende universitarie è pagato in parte con fondi universitari (per l'attività di ricerca) e in parte dalla Regione (per l'attività ospedaliera). Secondo me nella ricerca in questione è stata considerata solo una di queste voci». IL SINDACALISTA Perplesso anche Attilio Carta (referente Cisl nell'ospedale): «I numeri, messi così, non evidenziano gli sprechi: bisogna vedere a che servizi corrispondono quei costi. Per esempio, il Brotzu spende poco per le pulizie, è vero, ma poi l'ospedale è pulito? Bisogna verificare voce per voce. Il costo del personale sanitario è più alto della media: vuol dire che c'è una migliore assistenza o un numero troppo elevato di dipendenti rispetto ai pazienti? Al Brotzu ci sono molte terapie intensive, dove il rapporto pazienti/personale dev'essere di uno a uno; in altri ospedali ce ne sono di meno. Resta la forte disparità di costi fra ospedali: l'idea di accorpare, creare una centrale unica per i costi, va nella direzione giusta». Marco Noce AOB: ARRU: VERIFICARE IL RAPPORTO FRA QUALITÀ E PREZZI» Luigi Arru, assessore regionale alla Sanità, ha visto i dati sugli ospedali. «Verificheremo i numeri», fa sapere. Che è giustappunto lo scopo del neonato Comitato permanente per il monitoraggio della spesa e dei servizi nella sanità, di cui faranno parte un delegato della Presidenza della Regione, uno dell'assessorato alla Programmazione e tre esperti di bilanci: «L'obiettivo della giunta regionale - spiega Arru - è di creare un sistema, una banca dati per confrontare le buone pratiche degli ospedali sardi. L'istituzione di un tavolo di monitoraggio non serve solo al raggiungimento dei Lea (livelli essenziali di assistenza, ndr) ma anche a tenere sotto controllo il rapporto fra la qualità e il prezzo delle prestazioni del sistema sanitario regionale. Avere i dati è un passo fondamentale per il buon governo della sanità basato su costi di gestione adeguati, senza dover sempre ragionare con la logica dei tagli». E però di tagli, in Regione, si parla. Qualche giorno fa, il presidente Francesco Pigliaru, ha detto che la giunta è interessata a ridurre «significativamente» il numero delle Aziende sanitarie locali. La proposta di riforma sanitaria è all'esame del Consiglio regionale, che potrebbe dare il via libera al commissariamento delle Asl attuali, Brotzu incluso. Su un altro piano si ipotizza la creazione di un'Agenzia dell'emergenza-urgenza, cui farebbe capo il 118 su tutta l'isola. Per livellare le spese (sanitarie, ma non solo) si pensa a una nuova piattaforma telematica per gli acquisti centralizzati di beni e servizi e degli appalti della pubblica amministrazione. (m. n.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 ott. ’14 AOB:IL CASO UFFICIO TECNICO DEL BROTZU L'assessore regionale alla Sanità blocchi immediatamente la delibera con cui il direttore generale del Brotzu Antonio Garau ha disposto che le manutenzioni dell'ospedale dovranno essere affidate a una ditta esterna anziché all'Ufficio tecnico: lo chiede, in un'interrogazione urgente, il consigliere regionale Lorenzo Cozzolino (Pd). L'interrogazione, che sarà depositata questa mattina, è indirizzata a Luigi Arru e chiede anche che Garau venga richiamato al rispetto delle disposizioni della Giunta regionale che, nell'attesa dell'approvazione della legge che dovrebbe sancire il commissariamento di tutte le Asl, ha intimato ai direttori generali di limitarsi all'ordinaria amministrazione. Cosa che al Brotzu non succederebbe: «Il direttore generale, sottraendo le manutenzioni all'Ufficio tecnico per esternalizzarle, sta prendendo decisioni che vanno ben al di là dell'ambito dell'ordinaria amministrazione», sostiene Cozzolino: «Il passo segue uno scientifico smantellamento, che ha portato l'organico da 80 a 42 persone attraverso una riqualificazione dei tecnici, trasformati in operatori socio-sanitari o anestesisti». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 ott. ’14 ASL4: LANUSEI: TRASFERTE SALATE IN CORSIA DAL BROTZU LANUSEI. Mancano medici: alla Asl i sostituti costano 870 euro ogni 12 ore Volano via 60 mila euro per gli anestesisti del Brotzu In mancanza di un medico titolare, all'ospedale di Lanusei arrivano i sostituti e non è un'operazione a basso costo. Per le trasferte estive degli anestesisti la Asl ha appena speso più di sessantamila euro. L'autorizzazione al pagamento degli undici medici che da maggio ad agosto hanno coperto i turni nel settore di anestesia e rianimazione del Nostra Signora della Mercede è arrivata con la delibera firmata lo scorso 3 ottobre. In quattro mesi i camici bianchi, provenienti dall'azienda ospedaliera Brotzu di Cagliari, hanno garantito consulenza sanitaria per 876 ore spalmate in 73 accessi. LE TARIFFE In base alla convenzione rinnovata il 29 maggio scorso, i compensi sono così stabiliti: ogni ora viene retribuita con sessanta euro e ogni accesso con altri 150. Vale a dire che se un medico del Brotzu copre il turno da dodici ore lavorando dalla otto di sera alle otto del mattino, la Asl dovrà pagare 870 euro. Il problema è comune ad altri reparti del presidio ospedaliero ogliastrino: Lanusei non piace ai medici in cerca di nuova occupazione. In molti casi i concorsi vanno deserti, qualora non fosse così, i professionisti accettano l'incarico e appena ne hanno la possibilità chiedono di essere trasferiti. MEDICI CON LA VALIGIA L'ultima pratica relativa alla mobilità di un anestesista assunto dal Nostra Signora della Mercede è di due settimane fa, direzione: Cagliari. La carenza d'organico davanti all'esigenza di garantire assistenza ai pazienti, però, non può essere tollerata. Ecco perché proprio come già capitato per i cardiologi, la Asl deve ricorrere ai dottori di altre aziende dell'Isola che sono disposti a lavorare qui, ma solo a condizione di poter ripartire alla fine del turno. Un'esperienza saltuaria e ben remunerata, nulla di più. SÌ AL BILANCIO 2013 La spesa incide non poco sul bilancio aziendale che, per il 2013 è andato in pareggio fermandosi a 93 milioni di euro. L'approvazione da parte della conferenza dei sindaci è arrivata martedì mattina, durante l'incontro che si svolto nella sala della Provincia a Lanusei. A illustrare i capitolati del bilancio e gli investimenti futuri è stato il manager Francesco Pintus. Tra gli obiettivi del piano aziendale c'è quello di realizzare il reparto oncologico, ristrutturare la Medicina, dare un primariato al Pronto soccorso e rivedere le destinazioni della case della salute che si trovano sul territorio. Il sì dei sindaci è arrivato all'unanimità. EMODINAMICA La sanità in Ogliastra sarà anche oggi al centro dell'attenzione. Questa mattina nell'assessorato regionale diretto da Luigi Arru verranno discussi i termini per l'apertura della sala di Emodinamica. All'incontro parteciperanno il consigliere regionale Pd Franco Sabatini, il primario di Chirurgia dell'ospedale di Lanusei, Carlo Balloi, e il primario del San Giovanni di Dio, Raimondo Pirisi, che dovrebbe coordinare l'équipe che lavorerà nella nuova sala. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 07 ott. ’14 ASL1: SASSARI I DEBITI GONFIATI DELLA SANITÀ di Gian Antonio Stella Un bilancio quasi sano? Ma per l’amor di Dio! Meglio un buco, una voragine, un abisso. Più profondo possibile. «Tanto paga la Regione» La direttrice dell’Asl cacciata perché non voleva truccare i conti Per i pm il commissario dell’Azienda di Sassari chiese di creare il buco La sua mail: «I soldi della Regione vanno a chi è in perdita, non in pareggio» Era questa, dice un’inchiesta della magistratura, la filosofia dell’Asl di Sassari. Una storia abnorme e paradossale. Che aiuta a capire perché la nostra Sanità, come spiegava ieri l’inchiesta di Simona Ravizza, sia sommersa dai debiti. Dice tutto una e-mail finita nelle tremila pagine del fascicolo giudiziario. Dove Marcello Giannico, messo lì come commissario dall’allora governatore berlusconiano Ugo Cappellacci, scrive al direttore amministrativo dell’Asl Angela Cavazzuti (che denuncerà tutto ai giudici) raccomandandole come priorità «l’approvazione del bilancio 2010 con le rettifiche che le ho suggerito. Le ricordo che in Regione ci sono 120 milioni LIQUIDI disponibili per ripianare le perdite del 2010 di tutte le Asl sarde. Le sottolineo che questi denari vanno alle Aziende che hanno prodotto perdite e non pareggi di bilancio». Traduzione: quel bilancio improntato al virtuoso contenimento dei costi non va bene perché è troppo poco in rosso. Ma come: il pareggio nei conti non è forse l’obiettivo di ogni buon amministratore dalla Patagonia alla Kamchatka? Il bilancio dell’Asl di Sassari, che serve 336.632 cittadini di 66 Comuni sparsi su un territorio grande come tutto il Molise, aveva chiuso quel 2010 con 877 mila euro di passivo su un «fatturato» di oltre mezzo miliardo: esattamente 528 milioni e 567 mila. Per capirci: uno sforamento dell’1,16%. Ventisei volte più basso di quello dell’anno prima. Oro colato, per la Sardegna che spende per la Sanità più o meno tre miliardi l’anno, la metà del proprio bilancio, e sfora ogni anno i budget di previsione di tre o quattrocento milioni. Buchi ripianati dalla Regione, per anni, senza troppe puzze sotto il naso. Il guaio è che, da qualche tempo, le nuove norme dicono che se i direttori generali ottengono un risultato peggiore rispetto all’anno prima, non possono essere confermati. Un problema serio, per il commissario Giannico arrivato nel gennaio 2011: come poteva far meglio del predecessore, esautorato secondo i più maliziosi perché politicamente poco «affidabile»? L’unica soluzione, accusa il sostituto procuratore Gianni Caria, che ha chiuso le indagini preliminari chiedendo il rinvio a giudizio di Marcello Giannico e dei quattro suoi collaboratori principali, era far figurare peggiore il bilancio 2010. Bilancio che, tra le proteste della direttrice amministrativa, fu riaperto (per legge doveva esser chiuso al massimo entro il 30 giugno 2011) e stravolto per arrivare, aggiungi questo e aggiungi quello (ad esempio 7 milioni di debiti nei confronti dei dipendenti mai reclamati né da loro né dai sindacati) a 11 milioni e mezzo di buco. Era il 3 novembre 2011. Macché, il «ritocco» non bastava. Cinque giorni dopo Giannico riceveva da Gian Michele Cappai, il responsabile del Servizio Programmazione preso infischiandosene delle contestazioni interne (un documento-oroscopo sindacale era arrivato a predire in anticipo le generalità dell’assunto: «le sue iniziali saranno G.M.C.»), una e-mail preoccupatissima: «Dal preconsuntivo 2011 emerge “una perdita tendenziale pesante”». Traduzione: il primo intervento per peggiorare il bilancio 2010 non bastava davanti al resoconto 2011 che si profilava. E che avrebbe visto un buco di 13 milioni. Che fare? I vertici dell’Asl sassarese decidono un nuovo intervento sul bilancio chiuso e riaperto. Il baratro nei conti 2010 viene inabissato fino a 18 milioni e mezzo. Ventuno volte più profondo del modesto «rosso» iniziale. In realtà, scriverà La Nuova Sardegna , «gonfiare i debiti» fu per la Procura «un gioco di prestigio contabile per consentire a Giannico di evitare la revoca dell’incarico. E siccome Angela Cavazzuti si era messa di traverso, ostacolando l’operazione, sempre secondo questa ipotesi accusatoria Marcello Giannico le creò prima il vuoto intorno e nel 2012 la licenziò in tronco». Di più: il licenziamento della dirigente che rifiutava di sottoscrivere i giochi di prestigio fu corredato dalla diffusione di motivazioni così «ingiuriose» da configurare, dice il magistrato, il reato di diffamazione aggravata. Col risultato che il commissario pidiellino rimasto al suo posto nonostante la vittoria del centrosinistra alle ultime regionali e nonostante le indagini sul bilancio, si ritrova con la richiesta di una imputazione in più. Come andrà a finire? Lo dirà, se ci sarà, il processo. E fino all’eventuale condanna, si capisce, Marcello Giannico e i suoi sodali (che grazie a quel lifting ai conti son riusciti a farsi dare l’anno dopo dalla Regione 40 milioni in più e addirittura 47 nel 2012 fino a far segnare un miracoloso sia pur minimo attivo di bilancio) sono innocentissimi. Auguri. Vada come vada, resta quella e-mail strabiliante che chiede alla funzionaria ribelle di ritoccare i numeri perché i soldi della Regione «vanno alle Aziende che hanno prodotto perdite e non pareggi di bilancio». Per non dire di una e-mail di Gianfranco Manca, responsabile del Bilancio, al commissario che l’aveva scelto: «Come sai le rettifiche non saranno prese bene dalla Cavazzuti che farà di tutto per crearmi problemi. Il fatto di non essere un esperto di bilancio non sarà certamente un vantaggio per l’espletamento dell’incarico». Confessione ribadita nell’interrogatorio giudiziario: «Non avevo prima esperienza nel settore bilancio...». L’avevano scelto apposta per gestire mezzo miliardo di euro l’anno... ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 ott. ’14 ASL7: TSUNAMI SULLE PROMOZIONI ASL: RECUPERARE I SOLDI Il manager: i rappresentanti sindacali ora si dimettano. Cgil, Cisl, Uil: nessun dialogo CARBONIA Lo sciopero incombe, eppure il prelievo dalle buste paga Asl sarebbe legittimo. A dirlo è il Tribunale di Cagliari, sezione lavoro, che ha respinto il ricorso presentato da 50 dipendenti contro la decisione della direzione generale della Sanità sulcitana di recuperare i soldi erogati per le cosiddette “promozioni orizzontali”. Giovedì 2 ottobre, il giudice monocratico Michela Coinu ha emesso la sentenza che, in sintesi, boccia gli accordi sindacali del 2005 e del 2008 («per violazione delle norme di legge e del contratto nazionale») e che fruttarono indennità ai dipendenti Asl per un totale di 8 milioni di euro in otto anni circa. Soldi che la stessa Corte dei conti ha detto devono rientrare. Non solo. Il Tribunale ha anche condannato i ricorrenti al rimborso delle spese legali: circa 260 euro per ognuno. IL MANAGER Per il manager Maurizio Calamida un importante risultato proprio mentre è in atto una vertenza sindacale accesissima che ha portato alla proclamazione di una giornata di sciopero. Mercoledì prossimo, infatti, dal prefetto di Cagliari si incontreranno direzione Asl e sindacati per trovare una soluzione e tentare di far rientrare la protesta. Missione impossibile. Così infatti il manager: «È auspicabile che ora i sindacati, di fronte a una sentenza di merito del Tribunale, desistano dal ritenere “indebite e illegittime” le decurtazioni dallo stipendio». Poi punta l'artiglieria pesante contro Cgil, Cisl e Uil «per le continue e ossessive richieste di dimissioni, licenziamento e decadenza» del management aziendale Asl. «Non sarà il caso, una volta tanto, che siano i rappresentanti sindacali a dimettersi dal loro ruolo, viste le responsabilità che hanno avuto nella vicenda e visti i risultati delle loro azioni di questi ultimi anni?». I SINDACATI Non proprio un viatico al raffreddamento dei conflitti. Efisio Aresti, segretario generale Uil ribadisce: «Quel ricorso riguarda un'azione privata fatta autonomamente da una cinquantina di dipendenti. Non tocca il sindacato». Poi al manager: «Per l'ennesima volta, dimostra di non aver a cuore le vicende dei lavoratori». Sugli accordi del 2005 e 2008 «si è proceduto come si è fatto in tutte le Asl dell'Isola. Ma evidentemente i lavoratori dell'Asl 7 sono di serie B». Così anche Antonio Congiu, Cgil: «Il manager non poteva arrogarsi il diritto di fare quello che ha fatto. Per il recupero delle somme si sarebbe dovuto rivolgere a un giudice». Spiega: «L'azione del sindacato non ha avuto aspetti negativi. La responsabilità sui due contratti del 2005 e 2008 sono da attribuire esclusivamente al management di quegli anni. Non per nulla - conclude - la Corte dei conti si è rivolta a loro e non al sindacato». Ma è sui rapporti con l'attuale direttore generale che Congiu punta il dito: «Con questo manager - conclude - nessun dialogo». Insomma il passaggio in Prefettura sarà poco meno di un atto formale. «Se fosse come dice Calamida - ribadisce - non si capisce come mai la Giustizia contabile chiede i soldi indietro alla direzione Asl, manager e dirigenti di quegli anni». E sull'attacco ai sindacati, Fallo taglia corto: «Questa nota certifica ancora una volta perché questo dirigente non può più stare qui». LA DISPUTA Il caso delle fasce di avanzamento (promozioni a pioggia) è scoppiato pesantemente ai primi mesi dello scorso anno. La Corte dei conti con in campo anche la Guardia di finanza ha ribadito che quel tesoretto di circa 8 milioni di euro va restituito allo Stato. Calamida a differenza dei suoi predecessori fu irremovibile: «Quei soldi vanno recuperati. Io di certo non li pago», dichiarò in varie occasioni. Al momento è rientrato meno di un milione di euro. Ne restano altri sette. Roberto Ripa _________________________________________________________ La Stampa 07 Ott. ’14 NEURONI ARRUGGINITI, ECCO COME TENERLI IN FORMA Gli studi sulle tecniche per testare la perdita della memoria VITTORIO SABADIN Raggiunta una certa età, si capisce in fretta che chiunque elogi la bellezza della vecchiaia non sa quello che dice. Le giunture del corpo scricchiolano sempre di più, la vista diminuisce e soprattutto si comincia a non ricordare dove si sono appena posati gli occhiali o le chiavi di casa. André Aleman, professore di neuropsichiatria cognitiva all'Università di Groningen, ha scritto un libro di grande successo («Our Ageing Brain», Il nostro stagionato cervello) per tranquillizzare tutti. La perdita di memoria non è irreversibile e si può combattere con facilità, Aleman, alle persone che al supermercato non ricordano più che cosa dovevano comprare o che non riescono a ritrovare la strada dove abita il loro migliore amico, comincia col dire qualcosa di tranquillizzante: non siete soli. Miliardi di altre persone al mondo hanno lo stesso problema e se la situazione sembra solo peggiorare è perché nessuno vi ha spiegato come affrontarla. Tanto per cominciare, non è vero che i neuroni del cervello deperiscono unicamente nelle persone anziane. Il processo di invecchiamento comincia già a vent'anni. Una volta si pensava che i neuroni morissero e non venissero sostituiti. Ora si è scoperto che invece si rimpiccioliscono, e che con il tempo hanno più difficoltà a comunicare e interagire. Questo processo comincia presto e va avanti per tutta la vita. Il volume del cervello, tra ì 30 e i 90 anni, si riduce del 15 per cento, anche se ogni giorno, a qualunque età, vengono prodotti migliaia di nuovi neuroni. Questa capacità di rinnovamento diminuisce però progressivamente e non garantisce più alla memoria di funzionare. Non è che le cose che dovremmo ricordare non siano più nel cervello, è che si fa più fatica a trovarle. Il professor Aleman cita esperimenti nei quali si è chiesto a un campione di persone giovani e anziane di ricordare qualcosa. I giovani hanno risposto subito, gli anziani no. Quando però agli anziani è stato lasciato un po' più di tempo per pensarci, quasi tutti sono riusciti a ricordare. Il problema non è che la memoria scompare, ma che le connessioni fra i vari neuroni, la cosiddetta materia grigia, sono un po' arrugginite e funzionano meno bene. Uno dei problemi delle persone nella terza età è la difficoltà a concentrarsi su qualcosa. Si è continuamente distratti dai rumori e da quello che fanno gli altri intorno, e questo spiega perché sembri così difficile venire a capo delle istruzioni di un nuovo elettrodomestico. Sono facilmente comprensibili, ma la mancanza di concentrazione fa dimenticare la connessione tra il puntole il punto 2 e bisogna rileggere tutto da capo. Così, se sempre più spesso non si sa dove sono le chiavi dell'auto o si dimenticano regolarmente il Pin del bancomat e la password del computer, bisogna fare qualcosa per evitare che il prossimo stadio sia quello di lasciare aperto il gas o di scordare di chiudere il rubinetto della vasca. Il processo di invecchiamento del cervello non è né irreversibile né ineluttabile. Aleman spiega che è anzi facile combatterlo, con un po' di fantasia e di allenamento. Ci sono tanti modi per ricordare le cose e bisogna considerare il cervello come un muscolo, che ha bisogno di ossigeno, buona alimentazione e quotidiani esercizi che lo tengano in forma e concentrato. E in ogni caso, a una certa età, il cervello umano è molto ricco di quella che in psicologia viene definita «intelligenza cristallizzata», la capacità di giudicare le cose di oggi in base alle informazioni del passato. Si chiama saggezza, ed è forse una delle poche cose davvero belle della vecchiaia. I consigli del neuropsichiatra 1. Portare l'orologio al contrario Allena il cervello a uscire da una situazione nota (le ore 12 in alto, le 6 in basso) e gli fa interpretare informazioni non familiare. 2. Spezzettare Un numero come, ad esempio, 349685421 può essere ricordato meglio dividendolo in 349-685-421. 3. Creare immagini Un Pin formato dalle cifre 2708 può essere ricordato pensando a un cigno (2) nel parco, dove alcuni ragazzi giocano con un boomerang (7) altri a pallone (0) intorno a un pupazzo di neve (8). 4. Usare gli acronimi I sette vizi capitali? Si ricordano con le lettera della parola valigia. Vanità (o superbia), Accidia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia, Avarizia. 5. Imparare parole nuove Con l'età, la capacità discorsiva deperisce. È importante imparare parole nuove ogni giorno e allenarsi a usarle nel contesto giusto. 6. Allenarsi alla concentrazione Fissare una candela per cinque minuti al giorno, dimenticando tutto il resto, aiuta a non perdere la capacità di concentrazione. 7. Stringere i pugni per 90 secondi Stringere il destro se si memorizza qualcosa e poi il sinistro (per altri 90 secondi) una volta memorizzata, aiuta a ricordarla. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 07 ott. ’14 «L'HASHISH È LA MIA CURA» Luciano Vacca: è illegale ma solo così riesco a dormire Ascolta la notizia «Undici anni fa ho scoperto di essere malato di sclerosi multipla. Ora mi rivolgo agli spacciatori per procurarmi la marijuana. La cannabis mi aiuta a dormire. Mi fa passare gli spasmi e i dolori alle gambe. In Italia usarla, per finalità terapeutiche, non è legale. Ho paura che qualche amico finisca nei guai per causa mia: spesso sono loro ad acquistare la marijuana per me». Luciano Vacca, 40 anni, imprenditore cagliaritano, dal divano osserva la sua compagna di ogni giorno: la sedia a rotelle. «Viviamo insieme dal 2009», dice. Nonostante la malattia («Di tipo progressivo primario, la più rara», precisa), Luciano sorride alla vita. Ha una bella famiglia e tanti amici. Lavora dal soggiorno di casa, riadattato a ufficio. Nel 2003 scopre di essere malato di sclerosi multipla. Le gambe non rispondono agli impulsi del cervello. In pochi mesi inizia a camminare male. Passano alcuni anni e perde l'uso delle gambe. La malattia aggredisce anche un braccio. Luciano sa bene di non poter guarire. Cortisone e interferone lo buttano giù. Chiede solo di trascorrere le giornate senza dolori e spasmi. E di poter dormire qualche ora di fila. Perché fa uso di marijuana? «Non esiste un medicinale che possa bloccare la mia malattia. Lo so. Ma esistono delle sostanze per alleviare i sintomi. La cannabis mi permette di dormire. Inoltre mi blocca gli spasmi e i dolori alle gambe». Sa che non è legale? «Sono costretto a recarmi nelle zone dello spaccio cagliaritano, come un qualsiasi drogato. Spesso la mia situazione fisica me lo impedisce. Così chiedo la cortesia a un amico. Ho sempre il timore che chi mi aiuta possa essere denunciato o arrestato». I suoi familiari e parenti come l'hanno presa? «Ci è voluto un po'. Poi hanno visto con i loro occhi gli effetti benefici: da quel momento sono dalla mia parte». Esistono dei medicinali a base di cannabis autorizzati? «Mi è stato prescritto uno spray a base di cannabinoidi, il Sativex. È a carico del servizio sanitario regionale: ma gli effetti collaterali sono devastanti. L'assessorato alla Sanità, un anno fa, mi ha autorizzato a comprare, a mie spese, il Bedrocan: infiorescenze essiccate di cannabis. Devo farlo arrivare dall'Olanda con tempi lunghi e costi esorbitanti. Così ho deciso di procurarmi la marijuana dagli spacciatori cagliaritani». Il ministero sembra intenzionato a far coltivare la marijuana per fini terapeutici. È fiducioso? «No. Ci sono troppi interessi delle case farmaceutiche». Che cosa chiede? «Nulla. Per questo coltiverò una piantina in casa». Matteo Vercelli ____________________________________________________________ Le Scienze 08 ott. ’14 CANNABIS, TUTTI I RISCHI PER LA SALUTE DEL CORPO E DEL CERVELLO Cannabis, tutti i rischi per la salute del corpo e del cervello Il consumo prolungato di cannabis espone a un maggior rischio di patologie psichiatriche, come la schizofrenia o la psicosi. Lo ha accertato uno studio che ha esaminato 20 anni di ricerche, rilevando inoltre un maggior tasso di bronchiti croniche e un aumento del rischio di infarto in età adulta e nei giovani con cardiopatie non diagnosticate. I soggetti più a rischio di dipendenza e di conseguenze sanitarie sono coloro che iniziano l'uso della sostanza nell'adolescenza. (red) Il consumo di cannabis ha avuto un incremento notevole negli ultimi 20 anni e attualmente la sua diffusione tra adolescenti e giovani adulti eguaglia quella del tabacco. Fortunatamente, anche la conoscenza degli effetti fisici e psichici di questa sostanza psicotropa è aumentata di pari passo. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Addiction” a firma di Wayne Hall, dell'Universita del Queensland, in Australia, traccia un quadro completo di queste conoscenze, grazie a una revisione di tutta la letteratura scientifica sull'argomento pubblicata tra il 1993 e il 2013. La prima distinzione in tema di effetti sanitari della cannabis è tra uso occasionale e uso prolungato nel tempo. Nel primo caso, le prove scientifiche indicano che la cannabis non provoca overdose fatali. La mortalità che può seguire al suo uso è legata soprattutto alla guida di veicoli: il rischio d'incidente infatti raddoppia se il guidatore è sotto l'effetto della droga, e aumenta ancora di più se si associa all'abuso di alcool. Nel caso di un uso regolare di cannabis, invece, uno dei rischi è di sviluppare dipendenza dalla sostanza, che secondo le statistiche riguarda un consumatore su 10. La percentuale sale però a uno su sei per chi inizia da adolescente. Inoltre, c'è una correlazione statistica con l'uso di altre sostanze, anche se non è stato stabilito il nesso causale tra i due tipi di abusi. Cannabis, tutti i rischi per la salute del corpo e del cervello Le prove scientifiche raccolte negli ultimi due decenni forniscono un quadro abbastanza preciso e completo dei molti problemi sanitari legati al consumo regolare di cannabis (© Curi Hyvrard/Corbis) Molti studi in passato hanno riguardato il rischio di sintomi o disturbi psichiatrici con l'uso regolare di cannabis, rischio che risulta notevolmente incrementato e riguarda in particolare soggetti con una storia familiare per questo tipo di disturbi: la sostanza, in pratica, può rendere manifesta una malattia già geneticamente presente in forma latente. I più esposti, ancora una volta, sono coloro che iniziano il consumo di cannabis nell'adolescenza: l'uso regolare in questa fase della vita raddoppia il rischio di una futura diagnosi di schizofrenia o di sviluppo di psicosi nell'età adulta. E anche in assenza di una vera e propria patologia psichiatrica, il consumo regolare di cannabis da ragazzi può determinare nella vita successiva un deficit cognitivo - il cui grado di reversibilità non è noto - ed è correlato statisticamente a un minor livello di scolarità, benché non sia dimostrato un rapporto di causa- effetto. Un altro legame studiato approfonditamente su migliaia di pazienti riguarda il consumo di cannabis e i disturbi cardiovascolari. In una ricerca durata quasi tre anni e condotta su circa 2000 pazienti, è stata riscontrata una proporzionalità diretta tra frequenza del consumo di cannabis e mortalità. In un altro studio su soggetti adulti colpiti da infarto del miocardio, è stato osservato che il rischio d'infarto quadruplica nell'ora successiva al consumo della sostanza. Un terzo risultato riguarda invece i soggetti in giovane età, in cui la cannabis può scatenare un infarto fatale in soggetti con problemi cardiaci fino a quel momento non riconosciuti. A soffrire è anche l'apparato respiratorio: è dimostrato infatti che i fumatori di cannabis hanno un maggior rischio di sviluppare una bronchite cronica, mentre non è chiaro se il maggior rischio di tumori polmonari, riscontrato in alcuni studi, debba essere attribuito al fumo o in parte anche alla cannabis. Un altro effetto significativo è emerso recentemente per alcune forme di tumore dei testicoli, anche se si attendono nuovi studi per ulteriori verifiche di questa correlazione. Per quanto riguarda infine il fumo di cannabis, anche occasionale, durante la gravidanza, è confermato che è associato statisticamente a una lieve riduzione del peso del bambino, ed è quindi fortemente sconsigliato. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 ott. ’14 Saggi Biografia del clinico cagliaritano: vicende personali e ricordi di illustri colleghi UGO CARCASSI, SESSANT'ANNI DI MEDICINA IN SARDEGNA Sin da giovanissimo l'aspirazione di Ugo Carcassi era diventare medico. In famiglia abbondavano musicisti, militari, bancari, ma lui sapeva che prima o poi avrebbe indossato il camice bianco. «Questa aspirazione derivava da un misto di sensazioni corporali e da precoci esigenze cognitive. Come molti adolescenti del tempo ero afflitto dalle varie malattie infettive... Successivamente anche dalla malaria. Avevo capito che le febbri che comparivano con forti brividi erano, quasi sempre, dovute alla puntura di zanzare che trasmettevano la malaria, mentre quelle che si accompagnavano a profuse e continue sudorazioni erano imputabili alla febbre maltese prodotta dall'infezione di un germe che io avevo contratto per aver bevuto latte di vacca non sterilizzato». BIOGRAFIA Queste riflessioni giovanili spingevano il ragazzo, negli anni Trenta studente del liceo Azuni di Sassari, ad alimentare una innata passione verso la medicina attraverso lo studio e la ricerca. Lo esaltava l'idea di scoprire le malattie, trovare le medicine e le terapie adatte, guarire i pazienti. Una passione che presto maturò negli studi universitari. Dopo la guerra combattuta in prima linea nel deserto libico con i carristi dell'Ariete, cominciò la professione con una carriera inarrestabile, faticosa, ma anche ricca di successi. Medico condotto nei paesi di una Sardegna ancora poverissima, reumatologo e internista, docente universitario, ha insegnato nelle facoltà di Siena, Roma La Sapienza e Cagliari dove per dieci anni è stato preside e anche direttore della Clinica medica, membro di numerose società internazionali delle varie specializzazioni. Oggi ad oltre novant'anni - non ama precisare l'età - Ugo Carcassi si rivede com'era a quei tempi e ripercorre passo passo le tappe di una vita sul filo dei ricordi. Una memoria di ferro e una lucidità impressionante che gli permettono di continuare a fare il medico, il ricercatore, il conferenziere e a scrivere saggi sui personaggi della storia. IL LIBRO A questo punto del lungo cammino ha pensato bene che era il momento di raccogliere e mettere ordine tra gli innumerevoli ricordi per raccontare la vita di “Un medico in Sardegna” in un volume di 185 pagine edito dall'amico sassarese Carlo Delfino. Un'autobiografia anomala perché in realtà non è solo la storia del cagliaritano Ugo Carcassi, dal sogno liceale alla consacrazione scientifica a livello internazionale, ma è anche il racconto di oltre sessant'anni di medicina nell'Isola. Un racconto in prima persona di chi ha vissuto da protagonista eccezionali scoperte (la lotta alla malaria, alla talassemia, a tante malattie rare ed endemiche). Di chi ha seguito le lezioni e gli insegnamenti di illustri maestri della medicina. Di chi poi, passando in cattedra, è diventato a suo volta caposcuola ed è stato lui pure un classico barone universitario. Nel libro Carcassi rende omaggio a tutti gli uomini che hanno fatto la storia della medicina nell'Isola (citati affettuosamente uno ad uno), dagli anni pionieristici del secondo dopoguerra sino agli allievi di allora che oggi, con qualche capello bianco, continuano a guidare cliniche e reparti. Carlo Figari ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 ott. ’14 LA “SPIRALETTA” CHE SI METTE E SI DIMENTICA È “smart”, grande appena 28 per 30 millimetri, è leggerissima, sicura e garantisce un alto livello protettivo. La novità in tema di contraccezione è una spirale che arriva direttamente dagli Stati Uniti: si chiama Jaydess, un sistema intrauterino che «si mette e poi si dimentica» ed è in grado di assicurare la maggiore efficacia rilasciando il minimo dosaggio di ormoni (progestinico), liberando la donna dalla routine contraccettiva. Particolare non secondario, non provoca un aumento di peso. Dopo che è stata inserita nell’utero dal ginecologo, con una semplice procedura, assicura un’altissima protezione fino a tre anni. Inoltre, si può rimuovere in qualsiasi momento. La novità è stata presentata pochi giorni fa a Cagliari in occasione del Congresso nazionale della Sigo, la società italiana di ginecologia e ostetricia. I vantaggi di Jaydess sono «innegabili e dimostrati», dicono gli esperti. «A differenza della spirale tradizionale, la nuova spiraletta è indicata anche per le donne più giovani, quelle che non hanno ancora affrontato una gravidanza», spiega Gian Battista Melis, direttore della Clinica ostetrica e ginecologica dell’Università di Cagliari. Ha un’efficacia contraccettiva immediata e superiore a quella degli estroprogestinici (pillola). Come funziona? Jaydess è composta da un tubicino flessibile a forma di T. Attraverso una membrana permeabile, rilascia direttamente nell’utero una bassa dose di ormone progestinico. Quando viene inserita crea all’interno dell’utero un ispessimento del muco cervicale, simile a quello sviluppato durante la gravidanza. E la barriera difende l’apparato riproduttivo femminile anche dal rischio di possibili infezioni. «Molte donne sono attratte dall’idea di usare un sistema contraccettivo a lunga azione. Al tempo stesso, però, hanno timore che un dispositivo intrauterino possa causare dolore, infiammazioni, difficoltà o fastidio durante i rapporti sessuali», spiega Melis. Non è così, naturalmente. Quattro donne su dieci, inoltre, sono ancora convinte, erroneamente, che la contraccezione ormonale comporti un aumento del peso corporeo. «Si tratta, invece, di un luogo comune, duro da sconfiggere», aggiunge Melis. «I nuovi sistemi, come Jaydess, garantiscono invece un’elevata efficacia e al tempo stesso rispettano le esigenze delle donne. Questo contraccettivo intrauterino smart agendo localmente è ben tollerato dall’organismo», dice ancora Melis. In questo modo, «le donne possono così vivere la propria sessualità in maniera libera e consapevole». Non solo. Dal momento che Jaydess riduce anche durata e volume mestruale, «la sua applicazione contribuisce ad abbattere anche il dolore e le anemie da emorragie». Dunque, Jaydess apre davvero nuovi scenari nella sessualità. Perché non c’è rischio di aumento di peso, ribadiscono gli esperti, e il ritorno alla fertilità è immediato dopo la rimozione. Infine, Jaydess costa meno della pillola, perché con 150 euro in tre anni (4 euro al mese, circa la metà rispetto ai 7 o 8 della pillola) ci si assicura una protezione sicura e duratura, senza pensieri. «La disponibilità di più metodi ad alta affidabilità è la condizione indispensabile per garantire la contraccezione più adatta a ciascuna donna», spiega ancora Melis. «Intendo dire che chi si trova bene con la pillola, e non avverte nessun tipo di problema, non deve necessariamente cambiare. Ma a quelle donne che si avvicinano per la prima volta alla contraccezione, invece, si può proporre in piena tranquillità Jaydess, che risulta essere altrettanto valida per la donna che, per motivi contingenti, desidera oppure è costretta a cambiare metodo contraccettivo». Mauro Madeddu ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 ott. ’14 L’analisi del prof. Melis, direttore di Ginecologia GB. MELIS: DONNE SARDE INFORMATE, PRIME IN ITALIA NELL’USO DELLA PILLOLA L a diffusione della contraccezione, si sa, dipende da molti fattori: dall’entità del rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale, dalla disponibilità dei sistemi più moderni, da quanto le donne sono seguite nella scelta ma, soprattutto, dalla conoscenza diffusa. In tema di contraccezione femminile la Sardegna è all’avanguardia: il 30% delle donne sarde, infatti, fa uso di contraccettivi in maniera corretta. «L’Isola detiene il primato nazionale di uso di sistemi ormonali come la pillola. Lo scorso anno abbiamo avuto “solo” 220 baby-mamme con meno di 19 anni e 2.157 interruzioni volontarie di gravidanza», spiega Gian Benedetto Melis, direttore della Clinica di ginecologia e ostetricia dell’Università di Cagliari. Un dato che rappresenta circa il 3 per mille del totale a livello nazionale e che colloca la Sardegna tra le regioni più virtuose d’Italia e paragonabile ai livelli del Giappone, il paese che registra il minor numero di interruzioni di gravidanza al mondo. Sono dunque abbastanza informate le donne sarde in tema di contraccezione. Ma di più si può e si deve fare. L’informazione su questo tema resta fondamentale. E questa passa anche attraverso l’educazione scolastica, ormai presente in quasi tutti i paesi dell’Unione europea ma non ancora nel nostro. Non a caso la Sigo, l’associazione italiana dei ginecologi e degli ostetrici, ha scelto il palcoscenico di Cagliari, dove si è da poco concluso l’ottantanovesimo congresso nazionale, per proporre al ministero dell’Istruzione un progetto scolastico di educazione riproduttiva, mirato alla prevenzione in tutte le sue declinazioni. I ginecologi hanno rilanciato anche le attività di “Scegli Tu”. «Da anni questo progetto, attraverso iniziative innovative, si pone l’obiettivo di educare i giovani a seguire comportamenti sessuali responsabili», afferma Paolo Scollo, presidente della Sigo. «Esiste un modello Sardegna», aggiunge il professor Melis. «Sulla preparazione dei medici, sul funzionamento dei consultori, sull’educazione in materia di contraccezione, l’Isola fa scuola in Italia». Certo, i problemi non mancano soprattutto nel caso dei più giovani. «Anche in Sardegna esiste ancora una percentuale di adolescenti che si affaccia per la prima volta all’attività sessuale senza avere le adeguate conoscenze, soprattutto quelle legate alle malattie». Ecco perché, conclude Melis, «il consiglio è sempre lo stesso: prima di iniziare l’attività sessuale, è bene rivolgersi a un consultorio o a un medico». (ma.mad.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 06 ott. ’14 CAGLIARI: L’ALTEZZA IN ETÀ ADULTA DECISA DA QUATTROCENTO GENI LO STUDIO. Contributo dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Cnr di Cagliari Alti come corazzieri o bassi come nani da giardino? A progettare la nostra statura nell’età adulta sono più di 400 geni “architetto”. Lo rivela l’analisi del Dna di oltre 250 mila persone condotta tra Europa, Stati Uniti e Australia da 450 esperti di 300 enti di ricerca riuniti nel consorzio internazionale “Giant” (Genetic Investigation of Anthropometric Traits). Tra loro anche molti italiani, come l’Università degli Studi di Milano, quella di Milano-Bicocca, l’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Cnr di Cagliari e l’Università di Pisa. Lo studio, pubblicato su Nature Genetics, dimostra che sono almeno 697 le varianti genetiche che determinano la nostra altezza: queste si concentrano in 423 regioni del genoma, ovvero oltre 400 geni che sono coinvolti per lo più nella formazione e nell’accrescimento di ossa e cartilagini. Nessuna caratteristica fisica o malattia era stata finora collegata ad un numero così elevato di geni. Questo risultato rappresenta un incredibile passo avanti nella “caccia” ai geni dell’altezza: ad inaugurarla, nel 2007, fu proprio il gruppo di ricerca di Timothy Frayling dell’università britannica di Exeter (che ora guida il consorzio Giant) con la scoperta del primo gene legato all’altezza, chiamato Hmga2. Da allora la ricerca è continuata, è il caso di dirlo, tra alti e bassi, fino all’annuncio nel 2010 della scoperta di oltre 180 varianti genetiche associate alla statura. «Quello studio», ricorda Giuseppe Novelli, genetista dell’università di Roma Tor Vergata, «si concludeva con l’auspicio di trovare l’eredità mancante, ovvero gli altri geni coinvolti, ritenendo erroneamente che forse ne avremmo trovati giusto qualche decina. E invece, sorpresa: lo studio attuale ne ha trovati più di 400. Un risultato incredibile, che ci ricorda come l’altezza sia un carattere estremamente complesso, determinato per l’80 per cento dalla genetica, e più precisamente da centinaia di geni i cui effetti vanno a sommarsi, proprio come accade per altri caratteri tipo l’olfatto (determinato da oltre 600 varianti genetiche), l’udito, ma anche la pressione arteriosa». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 06 ott. ’14 LA NOSTRA ALTEZZA? DIPENDE DA 400 GENI E DALL’AMBIENTE Alcune, poche, caratteristiche fisiche dipendono da un solo gene, altre da gruppi di due o tre geni, ma la stragrande maggioranza tra le caratteristiche fisiche che più ci stanno a cuore, dall’altezza, al peso, al battito cardiaco fino all’intelligenza, dipendono da molti geni. Nel caso particolare dell’intelligenza — qualunque cosa questo voglia dire — si pensa che nasca addirittura dalla cooperazione di migliaia di geni. Non sorprende quindi di sentire oggi che la componente genetica dell’altezza interessa non meno di 400 geni. Lo rivela l’analisi del Dna di oltre 250 mila persone condotta tra Europa, Stati Uniti e Australia da 450 esperti di 300 enti di ricerca riuniti nel Consorzio internazionale «Giant» ( Genetic Investigation of Anthropometric Traits ); tra loro molti italiani, come l’Universitàdi Milano Bicocca e l’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Cnr di Cagliari. Naturalmente stiamo parlando della componente genetica, perché oltre a questa c’è anche una forte componente ambientale che dipende da che cosa ciascuno di noi mangia, o da che malattie ha avuto da piccolo, oltre che dalle sollecitazioni dell’ambiente che ci circonda. È tanto vero che la componente genetica da sola non può fare tutto che l’aumento di altezza osservato in Occidente in tutte le popolazioni non è dovuto a un cambiamento genetico, ma è dovuto a un cambiamento delle abitudini alimentari, igieniche, alla ginnastica e a come si passa il tempo libero. Ciò nonostante, conoscere la componente genetica è sempre interessante perché può aprire la porta a uno studio più complessivo e consentirci di dare la caccia a eventuali patologie. Non stupisce quindi un genetista questa notizia, però immagino che molte persone saranno colpite. Il bello viene ora, perché l’altezza è tanto ma non è tutto, mentre altre doti che consideriamo importanti — come la resistenza allo stress, la volontà, l’intuizione — che determinano la fortuna o la poca prestanza di una persona, sono ancora ignote per quanto riguarda la loro componente genica. ____________________________________________________________ Repubblica 10 ott. ’14 CURE PEDIATRICHE, LA SANITÀ NON È UGUALE PER TUTTI. I medici Sip: "Inaccettabile diversità tra regioni" Un dossier fotografa le enormi differenze sul territorio nei servizi sanitari per i bambini, dagli screening neonatali alle cure palliative. A Napoli il rischio di mortalità neonatale è del 30% superiore rispetto a Milano. I pediatri: "Modificare la Costituzione per assicurare uguale trattamento a tutti senza limitare l'autonomia delle scelte regionali" di IRMA D'ARIA Lo leggo dopo Una visita pediatrica in un ambulatorio di MilanoROMA- Chi nasce a Napoli ha un rischio di mortalità più alto del 30% rispetto a un bambino che viene al mondo a Milano. È uno dei tanti dati di un dossier predisposto dal Comitato per la bioetica della Società italiana di pediatria (Sip) che testimonia come quello alla salute sia un diritto a contenuto altamente variabile, a seconda del luogo in cui si nasce e si vive. Ecco come cambia l'offerta sanitaria dal Nord al Sud e quali sono le principali differenze nel gap che separa le regioni. Gli screening neonatali- Il tasso di mortalità infantile in Italia è sensibilmente inferiore a quello medio europeo e quasi la metà rispetto a quello degli Stati Uniti. E tuttavia nelle regioni meridionali la mortalità infantile (rappresentata per il 70% dalla mortalità neonatale) rimane del 30% più elevata rispetto alle regioni settentrionali. Un bambino che viene al mondo in Toscana è sottoposto allo screening neonatale metabolico allargato, che consente di diagnosticare, e quindi trattare precocemente, più di 40 patologie rare, mentre un bambino che nasce in Campania viene monitorato solo per i tre test obbligatori per legge (ipotiroidismo congenito, fibrosi cistica e fenilchetonuria). INTERATTIVO La mappa delle disuguaglianze regionali Meningococco B, vaccino grati solo in 4 regioni- La tutela della salute dei bambini italiani è oggi un variegato mosaico di situazioni differenti, a volte persino all'interno della stessa regione. Prendiamo l'esempio dei vaccini. In Puglia, in Basilicata, in Veneto e da appena due giorni anche in Toscana da quest'anno i bambini saranno vaccinati gratis contro il temibile meningococco B, una tra le principali cause di meningite con esiti mortali e danni permanenti (ipoacusie, amputazioni, ecc.). Nelle altre regioni d'Italia i bambini non riceveranno l'immunizzazione gratuita, anche se alcune ASL, in base alle risorse economiche disponibili, hanno deciso di offrirla nel proprio ambito territoriale ai nuovi nati o ai soggetti a rischio. Trattamenti diversi, quindi, persino all'interno della stessa regione. E se in Italia circa 15 mila minori necessitano di cure palliative, sono solo 5 le regioni in cui è stata attivata la rete pediatrica di cure palliative prevista dalle legge 38/2010. Lea assicurati, solo il Veneto in regola- Insomma, dalla nascita alla morte, la regione in cui si vive segna il destino dei bambini. "Questa situazione è inaccettabile, sia guardando alla disomogeneità nella qualità del servizio offerto sia guardando alla confusione normativa che si è creata - denuncia il presidente della Sip, Giovanni Corsello - . I bambini italiani, oggi, non sono tutti uguali: programmi di vaccinazione, screening neonatali, rete punti nascita, assistenza oncologica e cure palliative rappresentano altrettante priorità di una politica sanitaria che non è stata capace di garantire i fondamentali principi di uguaglianza, universalità ed equità. E purtroppo nemmeno i livelli essenziali di assistenza. Come testimonia il Rapporto verifica adempimenti LEA 2012, una sola regione italiana, il Veneto, fra le 16 prese in esame, risulta in regola 'per tutti gli adempimenti oggetto di verifica' e sono purtroppo molte quelle che dimostrano di non saper assicurare neppure i livelli considerati appunto essenziali". L'appello della Sip- Partendo da questo quadro, la Società italiana di pediatria lancia un appello alle istituzioni. "Occorre un ripensamento radicale degli esiti della 'regionalizzazione' del sistema sanitario, fermando almeno la tendenza alla divaricazione fra le regioni e orientando la loro autonomia all'obiettivo di una crescente integrazione, perché questa è l'unica direzione coerente con l'articolo 32 della Costituzione", afferma Stefano Semplici, presidente del Comitato per la bioetica della Sip e presidente del Comitato internazionale di bioetica dell'Unesco. Ecco perché, approfittando del confronto in atto sul Titolo V della Costituzione, la Società italiana di pediatria propone la sostituzione della attuale lettera m dell'articolo 117 della Costituzione con il testo seguente, anziché quello uscito dal Senato: (...) lo Stato ha legislazione esclusiva rispetto alla "determinazione dei livelli appropriati e inderogabili di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, al fine di garantire una adeguata parità di trattamento su tutto il territorio nazionale; (alle) disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per la sicurezza alimentare e per la tutela e sicurezza del lavoro". "Una formulazione di questo tipo - conclude Semplici - salvaguarderebbe l'autonomia delle Regioni rispetto allaprogrammazione e organizzazione dei servizi, ma limiterebbe - attraverso l'utilizzo della misura di ciò che è appropriato/inderogabile e non semplicemente essenziale nel senso del minimo indispensabile - il disorientamento normativo e l'allargarsi della distanza fra chi ha di più e chi ha meno. Si rafforzerebbe anche la possibilità dello Stato di intervenire con decisione ed efficacia là dove le Regioni dimostrano di non saper svolgere il loro compito". ____________________________________________________________ Repubblica 07 ott. ’14 C'È UNA FORMA DI CONSAPEVOLEZZA DOPO LA MORTE" Gli scienziati britannici hanno analizzato migliaia casi di arresto cardiaco: il 40% dei sopravvissuti avevano "ricordi" nei minuti in cui erano clinicamente morti LONDRA- Da sempre si cerca la prova della vita oltre la morte. L'Università di Southamptonha affrontato in modo scientifico questa possibilità scoprendo che una qualche forma di "consapevolezza" può continuare anche dopo che il cervello ha cessato di funzionare del tutto. Si tratta di una teoria controversa che fino ad ora ha sollevato molto scetticismo, ricorda ilDaily Telegraph. Ma gli scienziati inglesi hanno passato gli ultimi quattro anni esaminando più di 2000 casi di persone che avevano sofferto un arresto cardiaco in 15 ospedali in Gran Bretagna, Usa e Austria, e ottenuto risultati molto interessanti. E' emerso che circa il 40% dei sopravvissuti avevano "ricordi" di quella esperienza nei minuti in cui erano clinicamente morti. Un 57enne di Southampton ha detto di aver vissuto una sorta di esperienza extracorporea, e di aver assistito alle azioni dei medici che cercavano di rianimarlo. "Sappiamo che il cervello non può funzionare quando il cuore smette di battere - ha detto Sam Parnia, ricercatore che ha guidato lo studio - Ma in questo caso la consapevolezza cosciente sembra essere rimasta attiva fino a tre minuti dopo che il cuore non funzionava più, anche se il cervello di solito "si spegne" dopo 20-30 secondi da quando il cuore si ferma". Sebbene molti dei sopravvissuti intervistati non ricordino dettagli specifici, ci sono comunque una serie di temi ricorrenti. Uno su cinque afferma di aver provato un grande senso di serenità mentre circa un terzo ha percepito una accelerazione o un rallentamento nello scorrere del tempo. Altri reputano di aver visto una forte luce o un sole che splendeva. Mentre per certi le sensazioni erano negative, simili all'annegamento o all'essere trascinati sott'acqua. Secondo Parnia, potrebbero essere molti di più i casi di esperienze dopo la morte ma molti non le ricordano a causa dei danni al cervello o ai sedativi che sono stati somministrati. La ricerca dell'Università di Southampton ha suscitato molto interesse in un settore che coinvolge diversi studiosi. "Ci sono alcune prove molto importanti in base alle quali queste esperienze sono veramente accadutedopo che le persone erano clinicamente morte", ha detto lo psicologo David Wilde, della Nottingham Trent University. Per Wilde ancora non è possibile dire cosa esattamente accade in quei momenti ma la "lente" della scienza sta indagando sempre più in profondità. ____________________________________________________________ Repubblica 07 ott. ’14 CENSIS, IL 40% DEI GENITORI FA SOLO I VACCINI OBBLIGATORI I genitori italiani non si fidano. Confusa e contrastante l'informazione sul web. Pediatri e medici di medicina generale le figure di riferimentodi MARIA PAOLA SALMI Lo leggo dopo IL PIANETA vaccinazioni è in forte trasformazione e c'è bisogno di consolidare la fiducia dei genitori. Da un lato l'obbligatorietà di alcuni vaccini, impone quasi una strada a senso unico, dall'altro la consapevolezza del problema e le scelte individuali, influenzate da un'informazione non sempre corretta e chiara. Tanto che, secondo i dati del Censis, il 40% dei genitori fa solo i vaccini obbligatori.Capire quanto i genitori italiani sanno e conoscono sul tema delle vaccinazioni, quali sono le fonti di informazione e qual è il giudizio sulle vaccinazioni, sono alcuni degli aspetti che ha tentato di esplorare lo studio "La cultura della vaccinazione in Italia, un'indagine sui genitori" condotta dal Censis con il supporto incondizionato di Sanofi Pasteur MSD, i cui dati sono stati presentati nella mattinata di oggi al Senato Roma. "I dati dell'indagine, e in particolare il gap informativo che ne emerge, richiamano l'attenzione e il ruolo chiave di una corretta informazione sulle vaccinazioni quali strumenti preventivi efficaci e sicuri a tutela della salute. Un'informazione estesa a tutta la popolazione, ma diretta ai genitori, in quanto fautori di scelte per sé e per i propri figli, e dei quali una percentuale ancora troppo bassa si fida molto o totalmente dei vaccini", dichiara Ketty Vaccaro, responsabile del settore Welfare e salute del Censis. Le vaccinazioni poco conosciute.L'indagine, realizzata tra genitori dai 18 ai 55 anni con figli da 0 a 15 anni età a cui fanno riferimento i principali calendari vaccinali, parte dal ruolo della conoscenza. Il 73% del campione intervistato dichiara di saperne molto o abbastanza di vaccinazioni in età pediatrica: il 79% sa cos'è un calendario vaccinale ma le cose cambiano quando si entra nel dettaglio, allora le conoscenze diventano incerte. Solo un 5,6% è al corrente che in Italia le vaccinazioni obbligatorie sono quattro: antidifterica, antitetanica, antipoliomielitica e antiepatitevirale B. La spiegazione di questa apparente incoerenza potrebbe essere legata alla modalità di somministrazione (vaccinazione polivalente) che crea problemi nella differenziazione tra vaccini obbligatori e vaccini solo raccomandati. Il 71% dei genitori è convinto che i nuovi vaccini siano più sicuri perché tecnologicamente più avanzati anche se in merito all'efficacia si dividono a metà tra chi afferma che le vaccinazioni non sono poi così utili nel proteggere dalle malattie e chi invece afferma il contrario. Un 62% teme addirittura che possano provocare malattie come l'autismo. "Si" dei genitori alle vaccinazioni. Incertezze a parte, quando si entra nella pratica quotidiana, è unanime il consenso verso le vaccinazioni. Decisamente orientata in maniera favorevole ai vaccini la scelta dei genitori: solo lo 0,5% dichiara di non aver vaccinato i propri figli. Il 40% dei genitori fa solo i vaccini obbligatori, mentre il 48% sceglie quelle obbligatorie e quelle raccomandate dal Ssn. L'11,2% dei genitori dice di aver fatto vaccinare i figli ma non sa quale vaccino sia stato somministrato. Informati ma in modo disomogeneo. L'esperienza vaccinale si correla direttamente alle informazioni ricevute: la percentuale di genitori che afferma di aver accesso a tutte le informazioni di cui ha bisogno decresce da Nord a Sud dal 72% del Nord - Ovest al 68% del Nord-est al 60% del Centro fino al 50% del Sud. E sempre da Nord a Sud aumenta la quota di chi avrebbe voluto sapere di più insieme a quelli che dicono di non essere stati informati sui rischi delle vaccinazioni. Le figure di riferimento e le fonti di informazione. Le fonti di informazione più gettonate sono il pediatra di libera scelta (55%) seguito dal servizio vaccinale della ASL di appartenenza (37,5%). Madri e padri si informano (40%) prima di far vaccinare i figli: dal medico di famiglia (71%) e dallo specialista (23,5%). Il 32% dei genitori va sul web. I siti istituzionali sono i più frequentati (41%) seguiti dai siti specializzati o scientifici (37%), dai forum e dai blog (27%). I social network meno (16%) e ancora meno i quotidiani online (12%). Secondo quanto affermano i genitori, le informazioni sui social networrk e in rete hanno un orientamento contrario alle vaccinazioni mentre le informazioni su internet sono focalizzate sui rischi dei vaccini (47%), il 27% ne evidenzia i vantaggi, il 21% ne da informazione scientifica e nel 20% offre storie di casi che hanno avuto effetti avversi dai vaccini. Identikit dei genitori.I genitori italiani sono rispettosi degli obblighi stabiliti dal SSN ma le informazioni ne influenzano gli atteggiamenti e i comportamenti. L'indagine evidenzia 4 gruppi distinti:I "timorosi", rappresentano il 36% dei genitori con un atteggiamento di cautela nei confronti della vaccinazione e della prevenzione in generale; i "ligi", il 33% con un atteggiamento positivo sui vaccini propenso più al rispetto degli obblighi del Ssn che al considerare la vaccinazione una vera e propria strategia di prevenzione della salute; i "favorevoli medicalizzati" pari al 23% del campione, hanno un atteggiamento di apertura e fiducia nei confronti delle vaccinazioni che non è dettato semplicemente dal rispetto degli obblighi ma fa leva sulla consapevolezza dell'importanza della vaccinazione come vera e prorpia strategia preventiva; infine, gli "olistici critici" che sono l'8% e hanno un atteggiamento critico e contrario alle vaccinazioni. In sintesi,quasi la totalità dei genitori vaccina i propri figli ma scende al 22,4% la quota dei genitori che dichiara di fidarsi totalmente o molto dei vaccini anche se man mano che l'età dei genitori cresce aumenta anche la fiducia. E' unanime il consenso sul ruolo strategico delle vaccinazioni nello sconfiggere malattie gravi e come funzione di difesa della collettività. Tuttavia l'informazione è ancora carente e incompleta lasciando aperti dubbi e perplessità. ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 11 ott. ’14 "RIPRESA TABAGISMO COLPA DELLA LOTTA ALLE SIGARETTE ELETTRONICHE" E-Cig. Cipolla, Polosa, Tirelli e Veronesi: I quattro scienziati, inuna lettera apertarivolta all'Iss, chiedono che venga riconsiderato l'approccio conservativo verso le e-cig, "improntato sull'applicazione acritica del principio di precauzione, puntando invece su norme equilibrate che facciano degli standard di qualità e sicurezza di questi prodotti il loro punto di forza”. 10 OTT- In Italia “la serrata guerra alla e-cig non ha prodotto l'auspicata riduzione del tabagismo, bensì una sua netta ripresa”. E’ l’amara constatazione contenuta in un appello sottoscritto da scienziati italiani (Carlo Cipolladell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano,Riccardo Polosadell’Università degli Studi di Catania,Umberto Tirellidell'Istituto Nazionale Tumori di Aviano eUmberto Veronesidell'Istituto Europeo di Oncologia di Milano) e rivolto a Roberta Pacifici, direttore dell'Osservatorio Fumo, Alcol e Drogadell'Istituto Superioredi Sanità. Gli scienziati sottolineano che l’allarmante ripresa del tabagismo è da attribuire “sia ai numerosi tentavi di delegittimazione dei prodotti a basso rischio espositivo, che hanno sistematicamente ignorato le evidenze scientifiche, sia a una politica nazionale che sembra difendere gli interessi economici e finanziari del tabacco e che mal si concilia con il fine primo ed ultimo delle Istituzioni sanitarie: l'interesse per la salute pubblica”. Il team di esperti osserva inoltre che in Francia ed Inghilterra, dove le sigarette elettroniche sono prodotti di libero consumo non soggetti a controproducenti restrizioni normative, “si stanno registrando modificazioni epocali sia in termini di riduzione della prevalenza di tabagismo, sia in termini di contrazione nel consumo di tabacco”. E, aggiungono, i più grandi esperti internazionali di salute pubblica “rilevano come l’ampia diffusione di questa alternativa a basso rischio espositivo stia determinando ricadute vantaggiose in termini di migliorate condizioni di salute per i fumatori e di riduzione dei costi per la sanità pubblica. Sarebbe più ragionevole lavorare nella direzione di migliorati standard di qualità e sicurezza”. L’adozione di una regolamentazione ad hoc per migliorare la qualità delle sigarette elettroniche e dei liquidi “sarebbe un primo grande passo per consentire a questi prodotti di concorrere ad un miglioramento della salute dei cittadini Italiani. Se le scelte del Governo italiano non saranno delineate in tempo, si subiranno riflessi negativi che difficilmente potranno essere recuperati e risolti”. Alla luce di questi elementi, gli scienziati lanciano un appello all’Iss affinché riconsideri “il suo approccio conservativo improntato sull'applicazione acritica del principio di precauzione, puntando invece su norme equilibrate che facciano degli standard di qualità e sicurezza di questi prodotti il loro punto di forza”. ____________________________________________________________ Le Scienze 10 ott. ’14 CHIARITO IL COLLEGAMENTO TRA OSSITOCINA E COMPORTAMENTO SESSUALE Le femmine di topo mostrano interesse per i maschi durante l'estro solo se una specifica popolazione neuronale è ricettiva all'ossitocina, l'"ormone dell'amore" che nei mammiferi regola molti comportamenti prosociali, dal legame di coppia alle cure dei piccoli. Lo dimostra un nuovo studio sperimentale che getta le basi per una migliore comprensione dei delicati meccanismi comportamentali umani in cui è coinvolta l'ossitocina(red) Sono situati nella corteccia prefrontale del cervello dei topi i neuroni necessari alla femmina per mostrare interesse nei confronti dei maschi durante l'estro, la fase ricettiva del ciclo sessuale. Queste stesse cellule sono sensibili all'azione dell'ossitocina, detta anche “ormone dell'amore” per il suo ruolo nei meccanismi che regolano il comportamento sociale, in particolare nella cura dei piccoli e nel legame di coppia. Lo ha scoperto unnuovo studio apparso sulla rivista “Cell”a firma di Miho Nakajima e colleghi della Rockfeller University. I neuroni sensibili all'ossitocina sono stati trovati in molte strutture cerebrali, a riprova di come questo ormone sia fondamentale per un'ampia gamma di comportamenti sociali, ma i particolari del meccanismo mediante cui l'ossitocina influenza i circuiti neurali non erano ancora stati chiariti. Nakajima e colleghi hanno focalizzato la loro attenzione sulla corteccia cerebrale, che nei mammiferi regola i comportamenti in risposta agli input sensoriali e allo stato interno dell'individuo grazie a un complesso sistema di elaborazione delle informazioni che coinvolge molte strutture corticali e subcosticali interconnesse tra loro. In particolare, i ricercatori hanno studiato una popolazione di neuroni della corteccia prefrontale mediale, ipotizzando che fossero dei bersagli privilegiati dell'ossitocina poiché esprimono sulla loro superficie recettori per questo ormone (i recettori possono essere pensati come le “serrature” in cui la “chiave” ossitocina può entrare in modo specifico per svolgere le sue funzioni). quando i neuroni sensibili all'ossitocina vengono silenziati, le femmine in estro non si interessano ai maschi (© C.M. Bahr/Corbis)In popolazioni di topi in cui l'attività di questi neuroni era stata soppressa artificialmente, le femmine hanno perso interesse per i maschi durante l'estro, mentre mantenevano un livello normale d'interazione con le altre femmine.Lo stesso tipo di silenziamento non ha invece prodotto alterazioni nelle interazioni delle femmine con i maschi oltre il periodo di estro, e nel comportamento sociale dei maschi. “Il nostro lavoro sottolinea l'importanza della corteccia prefrontale nei comportamenti sociali e sessuali e suggerisce che questa popolazione cellulare possa mediare anche altri aspetti del comportamento in risposta all'incremento delle concentrazioni dell'ossitocina che si verifica in un'ampia gamma di contesti differenti”, ha spiegato Nathaniel Heintz, autore senior dello studio. “I dati raccolti dimostrano che le interazioni sociali in grado di stimolare la produzione di ossitocina attivano questi circuiti cerebrali in modo da coordinare le complesse risposte comportamentali che l'individuo deve fornire nelle situazioni sociali in continua evoluzione che sperimentano tutti i mammiferi, compreso l'essere umano”. I risultati della ricerca serviranno ora per chiarire il ruolo dei meccanismi di regolazione dell'attività neuronale basati sull'ossitocina negli esseri umani, soprattutto nei casi in cui sono alterati, con possibili manifestazioni di gravi disturbi psichiatrici, come l'autismo o la schizofrenia. ____________________________________________________________ Le Scienze 09 ott. ’14 ANCHE IL SUCCESSO SCOLASTICO È (IN PARTE) EREDITABILE Il 62 per cento del nostro successo scolastico è legato a caratteristiche che abbiamo ereditato dai genitori. A pesare di più non è l'intelligenza, ma la personalità e la tendenza a manifestare problemi comportamentali. Questi tratti influiscono su quanto si trova facile e divertente studiare e imparare, e per questo l'insegnamento dovrebbe essere il più personalizzato possibile(red) • La capacità di ottenere un buon rendimento a scuola sarebbe legata a un'articolata serie di tratti geneticamente ereditabili. A questa conclusione, che farà certamente discutere, è giunto uno studio condotto da ricercatori del King’s College di Londra, che firmnoun articolo pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”. Il successo scolastico è generalmente considerato il prodotto di molteplici influenze ambientali, dal ceto sociale al “clima della classe”, al coinvolgimento dei genitori. Eva Krapohl e colleghi hanno cercato di stabilire quanto influissero alcuni tratti che sono noti per avere una componente geneticamente ereditabile: non solo l'intelligenza, cioè, ma anche caratteristiche come la personalità, i problemi di comportamento e il senso di autoefficacia (la tendenza ad avere convinzioni più o meno positive sulle proprie capacità di organizzare e portare a termine le azioni necessarie a raggiungere un obiettivo). I ricercatori hanno studiato 6653 coppie di gemelli, metà circa dei quali identici (monozigoti, cioè che hanno in comune il 100 per cento del patrimonio genetico) e metà non identici (eterozigoti). Dato che le coppie di gemelli condividono lo stesso ambiente (famiglia, scuole, insegnanti, ecc), mettendo a confronto gemelli identici e non identici, si può stimare il contributo relativo dei fattori genetici e ambientali. In pratica, se rispetto a un particolare tratto i gemelli identici sono più simili tra loro degli altri, le differenze tra i due gruppi sono dovute alla genetica più che all'ambiente. Krapohl e colleghi hanno sottoposto i loro soggetti a una serie di test che hanno permesso di valutare 83 tratti ragruppabili nelle nove categorie di intelligenza, autoefficacia, personalità,benessere, ambiente domestico, ambiente scolastico, salute, problemi di comportamento dei genitori e problemi di comportamento dei figli. Quindi hanno esaminato i punteggi ricevuti dai gemelli nel General Certificate of Secondary Education, che certifica i risultati scolastici di tutti i ragazzi britannici all'età di 16 anni. E' così emerso che il successo scolastico è ereditabile al 62 per cento, mentre i singoli tratti considerati sono ereditabili in una misura compresa fra il 35 e il 58 per cento, essendo l'intelligenza quello maggiormente ereditabile. Quanto al peso dei diversi caratteri sul successo scolastico, è risultato che a contare di più è la personalità seguita dai problemi comportamentali del figlio, da quelli dei genitori, dall'intelligenza, dall'autoefficacia e dal benessere. "E' importante sottolineare che l'ereditarietà non significa che tutto è scolpito nella pietra, ma semplicemente che i bambini si differenziano nella misura in cui trovano facile e divertente l'apprendimento, e che gran parte di queste differenze sono influenzate dalla genetica", dice Eva Krapoh. E conclude: “I nostri risultati suffragano l'idea che un approccio più personalizzato all'apprendimento può essere più efficace di uno uguale per tutti. Scoprire che il successo scolastico è ereditabile non significa che insegnanti, genitori e scuole non siano importanti. L'educazione è più di ciò che accade passivamente a un bambino; i bambini sono parte attiva nella selezione, nella modificazione e nella creazione di proprie esperienze, molte delle quali sono legate alla loro propensioni genetiche, un fenomeno noto in genetica come correlazione genotipo-ambiente”.