RASSEGNA STAMPA 12/10/2014
TAGLI RICERCA: GLI STATI HANNO SCELTO L'IGNORANZA"
AGGANCIARE IL FINANZIAMENTO DELL'UNIVERSITÀ AL PIL
SE SI TOGLIE LA DIGNITÀ AI DIPENDENTI PUBBLICI
IL RITO DELLA LAUREA IN UN PAESE CHE CAMBIA
LAUREARSI FA GUADAGNARE 10MILA EURO IN PIÙ.
SQUINZI: UNIVERSITA’: MENO MATERIE, PIÙ VALUTAZIONE E MERITO
UNISS: ORIENTAMENTO CON GLI ASINI
SASSARI E IL SUO ATENEO
LA STRATEGIA SARDA PER LE STARTUP
NOBEL PER LA FISICA AGLI INVENTORI DEI “LED”
STOCCOLMA NOBEL MEDICINA A 3 NEUROSCIENZIATI
NOBEL: TUTTI D'ACCORDO CON GLI SVEDESI
THE INDEPENDENT SUI GIGANTI, L’ISOLA AL CENTRO DELL’EUROPA
LA BATTAGLIA DEI GIGANTI: MIBAC CONTRO UNICA & UNISS
OGM:ALIMENTATI DA FALSE PAURE
L'IMPORTANZA DI COLTIVARE IL DUBBIO DAVANTI AGLI OGM
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A COLPI DI TAR MEDICINA HA 5MILA MATRICOLE IN PIÙ
MEDICINA: COME USCIRE DAI TEST
TROPPE RIAMMISSIONI GLI ATENEI NON REGGONO
SANITÀ, LA RIFORMA APPROVATA IN COMMISSIONE
SCLEROSI MULTIPLA LA BATTAGLIA DELLA SARDEGNA
UNA DIAGNOSI PRECOCE MIGLIORA LA VITA
BUCHI NEI CONTI DELLE ASL DAI MAXI-RISARCIMENTI
TUTTI GLI SPRECHI IN OSPEDALE
AOB:QUANTO COSTA IL BROTZU
AOB:ARRU: VERIFICARE IL RAPPORTO FRA QUALITÀ E PREZZI»
AOB:REGIONE IL CASO UFFICIO TECNICO DEL BROTZU
ASL4:LANUSEI: TRASFERTE SALATE IN CORSIA DAL BROTZU
ASL1: SASSARI I DEBITI GONFIATI DELLA SANITÀ
ASL7: TSUNAMI SULLE PROMOZIONI ASL: RECUPERARE I SOLDI
NEURONI ARRUGGINITI, ECCO COME TENERLI IN FORMA
«L'HASHISH È LA MIA CURA»
CANNABIS, TUTTI I RISCHI PER LA SALUTE DEL CORPO E DEL CERVELLO
LA “SPIRALETTA” CHE SI METTE E SI DIMENTICA
GB. MELIS: DONNE SARDE PRIME IN ITALIA NELL’USO DELLA PILLOLA
CAGLIARI: L’ALTEZZA IN ETÀ ADULTA DECISA DA QUATTROCENTO GENI
CURE PEDIATRICHE, LA SANITÀ NON È UGUALE PER TUTTI.
C'È UNA FORMA DI CONSAPEVOLEZZA DOPO LA MORTE"
CENSIS, IL 40% DEI GENITORI FA SOLO I VACCINI OBBLIGATORI
"RIPRESA TABAGISMO COLPA DELLA LOTTA ALLE SIGARETTE ELETTRONICHE"
CHIARITO IL COLLEGAMENTO TRA OSSITOCINA E COMPORTAMENTO SESSUALE
ANCHE IL SUCCESSO SCOLASTICO È (IN PARTE) EREDITABILE
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Repubblica 08 ott. ’14
RICERCA: GLI STATI HANNO SCELTO L'IGNORANZA"
La denuncia di nove scienziati di diversi Paesi europei: un campanello
dall'allarme per le "politiche distruttive" che concentrano molti fondi
su pochi progetti destinati prevalemente alla ricerca applicata, e
ignorano la ricerca di base, fonte da sempre delle grandi scoperte, la
sola che porti conoscenza e benessere per tutti
I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati
membri dell’UE hanno completamente perso contatto con la reale situazione
della ricerca scientifica in Europa.
Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore
della ricerca può dare all'economia, contributo particolarmente
necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al
contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per
Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio
e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo
sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del
rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del
mantenimento e del miglioramento di un'infrastruttura di R&S, che possa
servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più
robusto, basato sulla produzione di conoscenza.
Hanno scelto di ignorare che la ricerca non segue cicli politici; che a
lungo termine, l'investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la
scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti
potrebbero essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni
per maturare; che, se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno
avere gli strumenti per affrontare le sfide di domani. Invece, hanno
seguito politiche cicliche d’investimento in R&S con un unico obiettivo
in mente: abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto
dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i
devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul
potenziale d'innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l'Europa.
Hanno scelto di ignorare che l'investimento pubblico in R&S è un
attrattore d’investimenti privati; che in uno “Stato innovatore” come gli
Stati Uniti più della metà della crescita economica è avvenuta grazie
all'innovazione, che ha radici nella ricerca di base finanziata dal
governo federale. Invece, essi mantengono l'irrealistica aspettativa che
l'aumento della spesa in R&S necessaria per raggiungere l'obiettivo della
Strategia di Lisbona del 3% del PIL sarà raggiunto grazie al solo settore
privato, mentre l'investimento pubblico in R&S viene ridotto. Una scelta
in netto contrasto con il significativo calo del numero di aziende
innovative in alcuni di questi paesi e con la prevalenza di aziende a
dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, con senza alcuna
capacità d’innovazione.
Hanno scelto di ignorare il tempo e le risorse necessarie per formare
ricercatori. Al contrario, facendosi schermo della direttiva europea
mirante per la riduzione del personale nel settore pubblico, hanno
imposto agli istituti di ricerca e alle università pubbliche drastici
tagli nel reclutamento che, insieme alla mancanza di opportunità nel
settore privato, stanno innescando una “fuga di cervelli” dal Sud al Nord
dell'Europa e al di fuori del continente stesso. Questo si traduce in
un’irreversibile perdita d’investimenti e aggrava il divario in R&S tra
gli Stati membri. Scoraggiati dalla mancanza di opportunità e
dall'incertezza derivante dalla concatenazione di contratti a breve
termine, molti scienziati stanno pensando di abbandonare la ricerca,
incamminandosi lungo quella che, per sua natura, è una via senza ritorno.
Invece di diminuire il deficit, questo esodo contribuisce a crearne uno
nuovo: un deficit nella tecnologia, nell'innovazione e nella scoperta
scientifica a livello europeo.
Hanno scelto di ignorare che la ricerca applicata non è altro che
l'applicazione della ricerca di base e non è limitata a quelle ricerche
con un impatto di mercato a breve termine, come alcuni politici sembrano
credere. Invece, a livello nazionale ed europeo c'è una forte pressione
per concentrarsi sui prodotti commercializzabili che non sono altro che i
frutti che pendono dai rami più bassi dell’ intricato albero della
ricerca: anche se alcuni dei suoi semi possono germinare in nuove
scoperte fondamentali, affossando la ricerca di base si stanno lentamente
uccidendone le radici.
Hanno scelto di ignorare come funziona il processo scientifico; che la
ricerca richiede sperimentazione e che non tutti gli esperimenti avranno
successo; che l'eccellenza è la punta di un iceberg che galleggia solo
grazie alla gran massa di ghiaccio sommerso. Invece, la politica
scientifica a livello nazionale ed europeo si è spostata verso il
finanziamento di un numero sempre più limitato di gruppi di ricerca ben
affermati, rendendo impossibile la diversificazione di cui avremmo
bisogno per affrontare le sfide della società di domani. Inoltre, questo
approccio basato sull'eccellenza sta aumentando il divario nella R&S tra
gli Stati membri, poiché un piccolo numero di istituti di ricerca ben
finanziati sta sistematicamente reclutando questo piccolo e selezionato
gruppo di vincitori di finanziamenti.
Hanno scelto di ignorare la sinergia critica tra ricerca e istruzione.
Anzi, hanno reciso il finanziamento della ricerca per le università
pubbliche, abbassandone la qualità complessiva e minacciandone il ruolo
di soggetti atti a favorire lo sviluppo di pari opportunità. E
soprattutto, hanno scelto di ignorare il fatto che la ricerca non ha solo
il compito di essere funzionale all'economia, ma anche di incrementare la
conoscenza e il benessere sociale, anche per coloro che non hanno le
risorse per pagarlo.
Hanno scelto di ignorare tutto questo, ma noi siamo determinati a
ricordarglielo perché la loro ignoranza può costare il nostro futuro.
Come ricercatori e come cittadini, formiamo una rete internazionale per
promuovere lo scambio d’informazioni e di proposte. Ci stiamo impegnando
in una serie d’iniziative a livello nazionale ed europeo per opporci
fermamente alla distruzione sistematica delle infrastrutture di R&S
nazionali e per contribuire alla costruzione di un'Europa sociale
costruita dal basso. Sollecitiamo gli scienziati e tutti i cittadini a
difendere questa posizione con noi. Non c’è altra possibilità. Lo
dobbiamo ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli.
Questa lettera può essere firmata su openletter.euroscience.org
Amaya Moro-Martín,Astrofisica, Istituto Space Telescope Science,
Baltimore, (USA); Euroscience, Strasburgo; Investigación Digna (Spagna)
Gilles Mirambeau, Viriologo, Universtà Sorbonne, UPMC Univ. Paris VI
(Francia); IDIBAPS, Barcellona (Spagna); Euroscience Strasburgo
Rosario Mauritti, Sociologa, ISCTE, CIES-IUL, Lisbona (Portogallo)
Sebastian Raupach,Fisico, promotore del movimento degli scienziati
"Perspektive statt Befristung" (Germania)
Jennifer Rohn, Biologa, Divisione di Medicina, University College London,
Londra (Regno Unito); Presidente di “Science is Vital”
Francesco Sylos Labini, Fisico, Centro Enrico Fermi, Istituto dei Sistemi
Complessi (ISC-CNR), Roma (Italia); Editore di Roars.it
Varvara Trachana, Biologa, Facultà di Medicina, School of Health
Sciences, Università di Thessaly, Larissa (Grecia).
Alain Trautmann, Immunulogo, CNRS, IstitutoCochin, Parigi (Francia);
promotore di "Sauvons la Recherche”
Patrick Lemaire, Embriologo; CNRS, Centro di Recercs di Biochimica
Macromolecolare, Università di Montpellier; promptore di “Sciences en
Marche” (Francia).
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Il Sole24Ore 12 ott. ’14
AGGANCIARE IL FINANZIAMENTO DELL'UNIVERSITÀ AL PIL
Stefano Paleari
Questa settimana l'Italia ha ospitato il Forum delle Università europee
su come finanziare i sistemi educativi superiori. Sono state raccolte le
esperienze dei vari Paesi in particolare dopo la crisi economica e delle
finanze pubbliche degli ultimi anni. L'Europa si è divisa in due: chi ha
visto l'Università come parte del problema e chi come parte della
soluzione. Chi ha ridotto i finanziamenti pubblici per effetto della
crisi e chi invece ha investito di più. Ma questa ormai è Storia.
Purtroppo per l'Italia, che si è collocata in testa alla classifica di
chi ha tagliato i fondi, insieme a Spagna e Grecia. Ora occorre guardare
oltre. Semplici le cose che sono emerse.
In primo luogo il primato delle scelte politiche. Occorre riconoscere
alla politica la responsabilità delle scelte in materia di Università. Le
Università risponderanno a quelle scelte per quanto è nelle loro
possibilità e volontà.
In secondo luogo, tutte le Università accettano un finanziamento pubblico
legato alle performance e non a pioggia. Vogliono essere misurate, dove
la misura è il mezzo per realizzare il fine, sia esso della singola
Università sia del sistema come stabilito dal Governo.
In terzo luogo c'è la consapevolezza della sfide globale, non solo
europea ormai. E quindi la spinta verso il confronto e il miglioramento
continuo.
Che fare dopo queste considerazioni. L'Italia quest'anno alloca oltre il
30% delle risorse su base competitiva. Il prossimo anno il 50%,
ampiamente sopra i livelli europei. Siamo in Europa sulla qualità dei
finanziamenti, fuori sulla quantità. Alla vigilia della presentazione
della Legge di Stabilità serve una svolta, la stessa che Matteo Renzi
chiede al Paese. Ebbene il premier metta alla prova le Università
italiane. Sottoscriva un accordo per i prossimi 3 anni con due obiettivi:
a) agganci il finanziamento delle Università al Pil. Le Università
scommettono insieme al Governo sul Paese e sulla sua ripresa
b) lasci libere le Università di competere portando a termine la riforma
verso i costi standard e la valutazione delle performance
Serve coraggio. In passato le Università sono apparse alla politica
chiuse e conservatrici. Oggi non siano i decisori a mostrarsi tali. Serve
anche fare presto. L'ultimo treno per una nuova Europa è partito.
L'Italia e le sue Università vogliono esserci come parte della soluzione
e non del problema.
L'autore è presidente della Conferenza dei rettori
delle Università italiane
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Corriere della Sera 10 ott. ’14
SE SI TOGLIE LA DIGNITÀ AI DIPENDENTI PUBBLICI
Caro direttore, la pubblica amministrazione sta morendo.
E ne pagheranno le conseguenze i deboli, i privi di tutela, in una parola
coloro che non hanno santi in Paradiso.
Perché l’amministrazione non è una dispensatrice di stipendi ai suoi
inutili dipendenti, ma un insieme di funzioni e servizi per i cittadini,
e soprattutto per coloro che non possono permettersi di rivolgersi o di
comprare i servizi altrove.
Basta, quindi, con una rappresentazione della realtà negata dai numeri, e
dunque sostanzialmente falsa.
A parità di popolazione, la Gran Bretagna ha oltre 5 milioni di
dipendenti pubblici, l’Italia poco sopra i tre. I nostri dipendenti
risultano i più anziani in Europa (oltre il 50% ha più di 50 anni), e la
media è alta perché non vi sono nuovi assunti ai quali i già occupati
possano trasmettere competenze e buone prassi — in una parola insegnare
il mestiere.
L’amministrazione centrale dello Stato è al collasso e sempre più spesso
si fonda sul senso di responsabilità di singoli. Nei ministeri vi è stato
un progressivo prosciugamento: i ministeriali sono circa 160 mila (erano
274 mila nel 2000), e oggi scarseggiano il personale e le competenze
tecniche indispensabili, i mezzi e le risorse finanziarie.
Al contempo, è crollata la spesa per investimenti, che nel 2013 era pari,
per l’intero settore pubblico, al 2,7% del Prodotto interno lordo.
Stiamo distruggendo l’amministrazione pubblica. Forse non è un disegno
consapevole, certo non è un bene. Non per i cittadini e per le imprese,
che non ricevono più servizi adeguati o almeno decenti (menosanità, meno
sicurezza, meno gestione infrastrutturale).
Non è un bene per i giovani, perché non si assume, mentre la
disoccupazione giovanile — con laurea e senza — aumenta.
I cittadini reclamano più sicurezza, e mancano almeno 20 mila carabinieri
e poliziotti. È indispensabile la lotta all’evasione, e mancano i
finanzieri. Siamo il Paese con il più grande patrimonio artistico — una
grande risorsa anche economica — e sono venti anni che non si assumono
storici dell’arte.
Negli uffici pubblici mancano ingegneri, chimici, biologi, medici,
infermieri; mancano insegnanti che diano con serenità ad altri la
formazione necessaria.
Al tempo stesso i giovani sono disoccupati, e quella minoranza che
nonostante tutto trova lavoro, spesso non adeguato al titolo di studio,
ha dovuto sottostare a pressioni e ricatti. Vi è il rischio tangibile di
diseducare all’etica del concorso, al principio che negli uffici pubblici
si accede per merito e non per raccomandazione.
Occorre cambiare mentalità e tendenza, rivitalizzare l’amministrazione
senza negare l’esigenza di razionalizzare, di qualificare, di eliminare
inutili complessità burocratiche, senza nascondere le negatività
esistenti.
Occorre dire basta al messaggio che tutto ciò che è pubblico è inutile e
negativo.
Occorre restituire la dignità.
Basta con i dipendenti pubblici rappresentati, nel migliore dei casi come
scansafatiche, nel peggiore come ladri. Perché non è così, e la
mortificazione continua non aiuta.
Alla politica delle assunzioni dettata solo dal puro contenimento della
spesa deve sostituirsi una seria programmazione delle esigenze di una
amministrazione moderna e tecnicamente qualificata. Concorsi, non
assunzioni per raccomandazione. Impiego stabile e qualificato, non
precariato intellettuale. Selezione della dirigenza con criteri
concorsuali oggettivi e di merito, non come premio di fedeltà servili.
Serve anche un’amministrazione professionale e rispettata perché il Paese
possa uscire dalla sua crisi. Consigliere di Stato,Segretario generale
della Giustizia Amministrativa
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Roma 07 Ott. ’14
IL RITO DELLA LAUREA IN UN PAESE CHE CAMBIA
DI GIUSEPPE SCALERA
Quanto conta più una laurea nel nostro Paese? Per le giovani generazioni,
afflitte da un tasso di disoccupazione giovanile valutato intorno al 44,2
%, la risposta potrebbe essere scontata, poco o nulla. Al di là di
qualche comparto! E segue a pagina 31 Il rito della laurea in un
Paese che cambia che marcia ancora con una discreta efficacia, le
speranze di un sicuro investimento culturale restano assai scarse ed
alcune facoltà, oggi, appaiono semplicemente un binario morto.
Ma non è così per tutti, soprattutto per gli ultracinquantenni. La
cronaca ci offre, in queste ore, una radiografia illuminante, attraverso
un'intervista rilasciata, come in un confessionale, da Oscar Giannino.
Giannino è giornalista di sicuro spessore e, per chi non lo ricorda,
nelle politiche del 2013, fu la sfortunata guida di un nuovo partito,
denominato "Fare per fermare il declino", un'esperienza europeista e
liberale sostanzialmente naufragata, a quanto sembra, per gli scandali
che accompagnarono la sua leadership. Giannino, infatti, in quei giorni
candidato premier, contrariamente a quanto pubblicato in rete, non si era
mai laureato in Legge ed Economia, né, tantomeno, aveva mai frequentato
un qualsiasi master presso la Chicago University. Uno scandalo che
travolse prima il giornalista e poi l'intero partito che non superò al
Senato lo 0,9 % e raccolse qualche inutile decimale in più alla Camera,
non eleggendo, in pratica nessuno.
Giannino si ritrovò, improvvisamente all' inferno. Carriera politica
stroncata, fine di tutte le collaborazioni giornalistiche, gravi
contraccolpi familiari e, come contorno, la rabbia di centinaia di
migliaia di ascoltatori che ne avevano seguito le mosse via etere.
Tutto per colpa di una laurea che, nel momento del dunque, non si era
materializzata. Un perfetto assist per gli appassionati del dottorato a
tutti i costi. Nonostante i paradossi della vita moderna.
Ma è bastato un anno per rimettere ogni cosa al suo posto. Giannino è
stato puntualmente richiamato da Panorama, dai giornali del gruppo
Caltagirone, da Radio 24, ha ritrovato puntualmente tutte le sue
collaborazioni, la polvere del tempo si è rivelata un balsamo
straordinario e i depositari del rito della laurea inutile hanno ripreso
nuovamente a far festa. Morale della favola: chi ha realmente qualcosa da
esprimere, in tutti i settori, non resterà mai al palo. Non è la laurea,
di questi tempi, l'unico, grande biglietto da visita. Ma, soprattutto, la
propria competenza, la propria professionalità, l'originalità delle
proprie intuizioni, la capacità di trasmetterle al mondo. E la
paradossale esperienza di Oscar Giannino resta lo specchio distorto nel
quale si muovono le contraddizioni del nostro Paese.
GIUSEPPE SCALERA
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Repubblica 06 ott. ’14
LAUREARSI FA GUADAGNARE 10MILA EURO IN PIÙ.
Italia divisa tra Nord e Sud, privato e pubblico
L'Osservatorio del calcolatore di Repubblica.it, JobPricing, permette di
tracciare le remunerazioni degli ex studenti degli atenei tricolori. I
privati possono far guadagnare il 20% in più del pubblico, ma costano
quattro volte tanto. Ecco quando e dove conviene proseguire gli studi
di RAFFAELE RICCIARDI
MILANO- Conviene laurearsi? E in quale Università? In periodo di spending
review generalizzata le famiglie e i ragazzi si trovano a fare i conti
con il costo della formazione e le aspettative di remunerazione, una
volta portato a termine il percorso di studi e - tutti si augurano in
breve tempo - iniziato quello lavorativo. Un'indagine diJobPricing,
l'Osservatorio sulle retribuzioni curato da Mario Vavassori, professore
aggiunto al Mip - Politecnico di Milano, conRepubblica.itrisponde a
queste domande. La sintesi della ricerca è che nell'universo dei
lavoratori, i laureati in media guadagnano 10.700 euro in più di chi si è
fermato prima negli studi. Le differenze sono però consistenti tra i vari
gradi di specializzazione. Le Università private garantiscono assegni più
pesanti del 20% circa rispetto a statali e Politecnici, e una grande
differenza la fa la geografia: tra Nord e Sud "ballano" fino a 7mila euro
di remunerazione.
Quanto paga il titolo di studio. Il report di JobPricing mostra
innanzitutto che la retribuzione globale lorda annua (parte fissa +
variabile) passa da 42.182 euro per i non laureati a 52.912 euro per i
laureati, analizzando i profili di dipendenti del settore privato
compilati nel periodo tra giugno e agosto scorsi. Se si guarda alla
progressione della carriera scolastica, si vede come sia cospicuo il
salto tra le retribuzioni di chi si è fermato alla scuola dell'obbligo
(31mila euro) e chi si è diplomato alle superiori (43mila). Il dottorato
paga meno di un master, mentre la triennale non garantisce un livello
retributivo superiore a quello dei diplomati. Visto però che la riforma
del sistema universitario ha circa un decennio, in questa categoria di
laureati rientrano solo persone giovani, quindi con meno "scatti
retributivi di anzianità", a differenza degli altri livelli di istruzione
che includono tutte le fasce d'età.
QUANDO RENDE LA LAUREA. Andando più in profondità, si vede come la
"forbice" tra laureati e non sia inizialmente minima, ma cresca per
diventare sensibile al 35esimo anno d'età. Le differenze tutto sommato
contenute nelle classi di età 15-24 e 25-34 sono riconducibili al fatto
che i laureati entrano stabilmente nel mercato del lavoro non prima dei
25-26 anni, mentre chi ha un diploma o un titolo inferiore (scuola
dell’obbligo o abilitazione professionale) al raggiungimento dei 24 anni
ha già acquisito con tutta probabilità un certo numero di anni di lavoro,
con conseguenti scatti retributivi e contrattuali.
Il calcolatore JobPricing: il tuo stipendio è giusto?
Come lo studio impatta sulla carriera. Se si guarda ai vari inquadramenti
professionali, si scopre che all'interno delle singole classi (dirigenti,
quadri, impiegati e operai) non ci sono grandi differenze di retribuzione
tra laureati e non. Smentiamo allora i vantaggi fin qui elencati? Non
proprio. JobPricing mostra che non bisogna tanto confrontare gli stipendi
di laureati e diplomati all'interno dello stesso livello contrattuale, ma
verificare la presenza di persone con titolo di studio più elevato nei
livelli contrattuali di maggiore rilievo. Si vede allora che la
percentuale di dirigenti e quadri è molto più elevata tra i laureati con
almeno 5 anni di carriera universitaria, in tutti i casi sopra il 40%
(minimo del 43% per i lavoratori con laurea magistrale), mentre tra i non
laureati la percentuale di profili collocati come dirigenti e quadri non
supera mai il 30% (massimo del 27% per i diplomati di scuola media
superiore).
PUBBLICO O PRIVATO? Dal confronto dei dati dei lavoratori provenienti
dalle università statali con il maggior numero di iscritti (La Sapienza,
Bologna, Napoli Federico II, Torino e Milano), dalle 3 Università private
principali (Bocconi, Luiss e Cattolica) e dai 3 Politecnici (Torino,
Milano e Bari) emerge che aver frequentato un'università privata (però
con costi di iscrizione mediamente più elevati di quattro volte) dà un
ritorno economico superiore del 21% rispetto all'aver frequentato
un'università statale, e del 19% rispetto all’aver frequentato un
Politecnico.
DOVE STUDIARE. Grandi differenze si vedono anche dal punto di vista
geografico: chi ha frequentato un'Università del Nord guadagna mediamente
il 10% in più rispetto a chi ha frequentato un'Università con sede al
Sud, mentre i valori sono più allineati al Centro. Da sottolineare poi il
maggior legame degli atenei settentrionali con il mondo del lavoro: il
92% di chi ha studiato al Nord ha lì la sede del suo lavoro, contro un
livello di corrispondenza tra la sede dell'Università e del lavoro che
scende al 77% per il Centro e al 36% per il Sud.
GLI ATENEI. Ed ecco infine la classifica degli atenei in base alla
retribuzione "garantita". Si nota come nella fase iniziale della vita
lavorativa le differenze non siano poi così marcate, con l'eccezione
della Bocconi. Ma con il procedere delle carriere si aprono vere e
proprie voragini.
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Il Sole24Ore 08 ott. ’14
SQUINZI: UNIVERSITA’: MENO MATERIE, PIÙ VALUTAZIONE E MERITO
Le 100 proposte di Confindustria su scuola e università - Squinzi:
fondamentali per modernizzare il Paese
Claudio Tucci
ROMA
Rafforzamento della didattica per competenze e laboratoriale. Riduzione
del numero di materie, e diffusione dell'insegnamento in lingua straniera
di discipline curriculari già alle scuole primarie. Chiamata diretta dei
docenti. Più collegamento con il mondo del lavoro (anche incentivando
programmi di «Erasmus in azienda» e percorsi di laurea in apprendistato).
Avvio di un rigoroso sistema di valutazione di istituti e personale
scolastico, legando le carriere dei professori al merito e rimodulando
l'accesso all'insegnamento.
Confindustria ha messo nero su bianco 100 proposte per rilanciare scuola,
università e formazione. Un pacchetto di misure articolato, e
dettagliato, perché la questione dell'education, ha ricordato il numero
uno degli industriali, Giorgio Squinzi, è di «assoluta e urgente
importanza per la modernizzazione strutturale del Paese e per le sue
possibilità di riprendere a crescere in modo virtuoso».
Le imprese (che non sono il diavolo) spingono per un cambio di passo
sull'istruzione, «una scossa educativa», ha sintetizzato il vice
presidente di Confindustria, Ivan Lo Bello, aprendo ieri all'università
Luiss di Roma la «Prima giornata dell'Education» alla presenza del
ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini.
Del resto, passano gli anni (e i governi) ma i ritardi del nostro sistema
educativo sono sempre gli stessi: l'autonomia scolastica è, nei fatti,
lettera morta; gli studenti sono poco orientati (e formati) per il
lavoro; c'è poca cultura del merito e della valutazione; sono sempre meno
gli iscritti all'università, c'è un alto tasso di abbandono, e il
bilancio del Miur è quasi interamente dedicato al pagamento di stipendi
(e ciò non lascia spazio a investimenti in didattica e ricerca). Di qui,
ha incalzato Confindustria, bisogna affidare maggiori poteri e autonomia
a presidi e atenei. Va ridotta di un anno la durata del curriculum
scolastico (da 13 a 12 anni) e almeno il 25% dei corsi universitari vanno
erogati in lingua inglese. Il punto è migliorare la didattica e
«declinare l'innovazione nel mondo dell'Education perché questa è la
strada per una maggiore competitività», ha spiegato il presidente di
Assolombarda, Gianfelice Rocca. La sfida è quindi una maggiore
contaminazione con il mondo delle imprese, rendendo obbligatoria
l'alternanza negli istituti tecnici (il progetto del Governo va in questa
direzione raddoppiando le ore di formazione on the job da circa 90 a 200
ore l'anno). Una scelta che va concretizzata. « Perché fino a pochi anni
fa le aziende cercavano competenze standard – ha detto il presidente di
Federmeccanica, Fabio Storchi –. Oggi invece c'è bisogno di
specializzazione e per questo è fondamentale il dialogo tra scuole e
imprese».
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La Nuova Sardegna 09 ott. ’14
UNISS: MEDIAZIONE E ORIENTAMENTO CON GLI ASINI
Sabato prossimo in città il primo convegno nazionale dedicato al
counseling e alla onoterapia
di Mauro Tedde
SASSARI L’ippoterapia è ormai una realtà diffusa e conosciuta. Adesso
arriva sulla scena del counseling, attività di consulenza per
l’orientamento professionale ma anche intervento di psicoterapia, la meno
nota ma non per questo meno efficace onoterapia: rieducazione motoria
simile all’ippoterapia ma praticata con gli asini. Se ne parlerà sabato
prossimo, 18 ottobre, nella sala consiliare del dipartimento di
Veterinaria, in via Vienna 2. alle 9.30 alle 19 c’è infatti in programma
il primo convegno nazionale sul tema “Onocounseling e territorio -
Attività di mediazione con l’asino”. L’evento è promosso
dall’associazione culturale “Alta Formazione Counseling”, dalla Sico (la
Società italiana di counseling) e dall’Università di Sassari,
dipartimento di Medicina veterinaria. Al convegno, che sarà moderato da
Francesco Cattari, direttore dei servizi socio-sanitari della Asl di
Sassari e da Nicolina Malesa, referente Sico Sardegna, interverranno
Gigliola Crocetti, amministratore delegato della Sico; Maria Tedde
Marras, direttore della scuola “Alta formazione counseling”, Raffaella
Cocco, ricercatrice del dipartimento di Veterinaria dell’Università; Lino
Cavedon, direttore scientifico del centro I.A.A (interventi assistiti con
animali); Maria Rita Piras, ricercatrice del dipartimento di Medicina
Clinica dell’ateneo sassarese. Previsti interventi anche di Antonella
Costa, psicoterapeuta della “Missione counseling”; Marina Borriello,
counselor filosofico Sico; Raffaele Cherchi del dipartimento di Ricerca
incremento ippico dell’Agris; Paola Nicolussi, direttore sanitario
dell’Istituto zooprofilattico della Sardegna; Eugenio Milonis,
psicoterapeuta e responsabile dell’accademia di onoterapia “Asinomania” e
Alberico Di Meo, presidente dell’Università popolare del turismo. Gli
interventi degli esperti verteranno su diversi temi quali l’attività
dell’onocounselor come promotore del Ben-Essere, il benessere nei
coterapeuti, gli interventi con la pet–therapy e con la terapia assistita
dagli animali (come la riabilitazione cognitiva nell’Alzheimer), la cura
con l’asino in una nuova relazione del bambino con la famiglia e l’altro,
l’asino nella relazione d’aiuto, l’onocounseling e l’onotrekking come
opportunità di marketing del territorio e di altro ancora. Seguirà (dalle
17 alle 19) un workshop sul tema: “Il counseling, l’onocounseling e le
loro applicazioni”. L’evento è gratuito, ma gli organizzatori consigliano
di prenotarsi ai numeri 335.6331293 e 328.6678700. Ai counselor iscritti
al registro nazionale Sico saranno rilasciati 10 crediti di aggiornamento
professionale.
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La Nuova Sardegna 07 ott. ’14
SASSARI E IL SUO ATENEO
Tra città e università un dialogo nuovo per crescere insieme
di EUSEBIO TOLU, Delegato per i Rapporti con il Territorio Università di
Sassari
Parliamo di Università, come patrimonio dei cittadini sassaresi e
dell’intera area del centro-nord Sardegna. A dire il vero si parla da
tempo di Sassari città universitaria, una città universitaria incompiuta,
frequentata da circa 14mila studenti, di cui circa 5.300 fuori sede,
provenienti in gran parte dai territori del centro-nord della Sardegna.
Malgrado gli studenti rappresentino circa 1/7 della popolazione
residente, la città di Sassari non sembra aver percepito ancora nella sua
interezza questa realtà. La città non sembra mostrare l’interesse dovuto
nei confronti della "sua" Università, e forse la stessa Università,
appagata da un eccesso di autoreferenzialità, non sembra lavorare in
questa direzione. Anzi, a ben vedere le cose, la città appare spesso
indifferente nei confronti della "sua" Università, e non si è mai posta
concretamente il problema, tanto per fare un esempio, dell’accoglienza
dei tanti giovani, soprattutto dei fuori sede, che scelgono di iscriversi
all’Università di Sassari. In altri termini, poco ha fatto per rendere
appetibile la scelta di questa Università e di questa città.
L’emigrazione dei giovani verso altre sedi soltanto perché offrono più
servizi è un fenomeno reale. È necessario fare di più. La città di
Sassari accoglie un numero significativo di studenti fuori sede e di
pendolari, ai quali non sempre viene concesso un minimo di cittadinanza
riconosciuta, e anzi sono spesso vittime del meccanismo di rialzo del
canone d’affitto. La proposta di realizzazione del "campus" universitario
nella Caserma la Marmora, avanzata dal sindaco di Sassari, è di per se
una buona nuova, di notevole significato politico. Infatti è la prima
volta che il Comune di Sassari mostra un concreto interesse per
l’accoglienza dei giovani e propone con autorevolezza e con senso della
realtà la soluzione di uno dei problemi più antichi degli studenti fuori
sede. Che siamo vicini a promuovere Sassari città universitaria? E sì,
perché fino a oggi si era parlato delle residenze studentesche come
strumento per rivitalizzare le aree degradate del centro storico o le
periferie abbandonate. Come se fosse compito degli studenti fuori sede
risolvere i problemi delle aree della città cronicamente disagiate.
Parrebbe di no! La Caserma La Marmora può essere veramente la soluzione.
La struttura è ubicata nel cuore della città, vicino al centro storico e
a quell’area che viene a ragione definita il salotto di Sassari. Gli
studenti con la loro presenza stimolerebbero il dialogo economico e
sociale fra le due realtà, fra la città e l’università. Stiamo parlando,
cioè, di integrazione degli studenti nella sede dell’ateneo che li
ospita, al fine di giungere, con la dovuta gradualità, a forme di
residenza e di cittadinanza che permettano agli studenti di partecipare
alla vita sociale della città dove studiano. Questa è una città
universitaria. Nella situazione attuale di crisi economica senza
precedenti, da più parti si sente dire che bisogna rilanciare lo sviluppo
del territorio utilizzando al meglio le risorse disponibili, sia di
natura materiale che culturale. A ben vedere, questi due versanti del
problema sono entrambi presenti nella città e nell’università di Sassari,
anche se è necessario valorizzarli con intelligenza e lungimiranza.
L’augurio è che l’Ersu, impelagato da anni in discutibili valutazioni di
gare di appalto, prenda una decisione definitiva. Poiché è evidente che
non utilizzare le risorse a disposizione, in un territorio devastato
dalla crisi è puro autolesionismo. Anche la Regione Sardegna dovrebbe
comprenderlo.
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Corriere della Sera 06 ott. ’14
LA STRATEGIA SARDA PER LE STARTUP
Il futuro nel parco dei super calcoli
Potremmo definirla «Sardegna Startup» questa regione che tra grandi
difficoltà ora guarda all’innovazione come alla vera opportunità per
garantirsi un futuro. «In dieci anni sono ben 71 le startup avviate con
il supporto di Sardegna Ricerche e otto di queste sono insediate nelle
strutture del Parco scientifico e tecnologico Polaris che si sviluppa
nelle sedi di Pula vicino a Cagliari e ad Alghero». Maria Paola Corona,
presidente dell’ente regionale nato per aiutare a cambiare marcia al
sistema economico e produttivo, ricorda con orgoglio i numeri capaci di
radiografare il mutamento in atto e che ora segnano un’accelerazione.
Il motore è proprio Sardegna Ricerche che ha creato un sistema in grado
contemporaneamente di stimolare nuove iniziative e consolidare il
rinnovamento di quelle che puntano ad essere tecnologicamente innovative.
Infatti accanto alle nuove protagoniste, nel Parco vi sono anche 38
società già attive da tempo ma impegnate in questa ottica.
«Alle startup garantiamo un finanziamento di 50 mila euro per due anni
coprendo dal 40 all’85 per cento dell’investimento necessario – nota
Corona -. Tuttavia oltre l’apporto finanziario assicuriamo dei contributi
sotto forma di servizi che sono determinanti per materializzare lo
sviluppo». Tra questi vi sono l’accesso ai fondi europei, la preparazione
dei brevetti, varie consulenze dei laboratori tecnologici per far
crescere le idee, oltre alla possibilità di lavorare con il centro di
supercalcolo CRS4, uno strumento oggi insostituibile per arrivare a
prodotti competitivi sul mercato.
Proprio dal CRS4 sono nate startup come Paraimpu, una piattaforma sociale
per l’«Internet degli oggetti» allo scopo di offrire uno strumento web
semplice e potente che permetta agli utenti di gestire, condividere e
connettere tra loro una moltitudine di oggetti fisici, sensori, servizi
web, social network e altre applicazioni nel campo del monitoraggio
ambientale e installazioni artistiche. Dal centro di calcolo è nata poi
Karalit che ha già aperto due sedi in Usa e in Gran Bretagna producendo
un software tridimensionale il quale simula il comportamento di un fluido
utilissimo nel progettare dai compressori alle pale eoliche, dalle
scocche delle auto da corsa alle ventole per i condizionatori domestici.
E poi c’è Elianto, spin-off che progetta e commercializza impianti
solari. Sono solo alcuni esempi perché l’elenco sarebbe lungo.
Il CRS4 diretto da Luigi Filippini, un ingegnere proveniente dal mondo
industriale, è un organismo di ricerca all’interno del Parco. Impiega 160
ricercatori ed è dotato di supercomputer con una potenza di calcolo tra
le più elevate esistenti in Italia arrivando a 140 Teraflops (140 mila
miliardi di operazioni al secondo). Ciò permette di realizzare studi
genetici complessi, di generare immagini in 3D ad alta risoluzione capaci
di ricostruire ad esempio manufatti archeologici facilitandone il
restauro. Non solo. Trovano infatti sviluppo pure tecnologie
dell’informazione, progetti di biomedicina, di prevenzione ambientale,
sistemi informatici per il turismo e per i beni culturali in genere
generando conoscenze che si tramutano talvolta in startup.
«Perché ciò accada – nota la presidente dell’ente – abbiamo varato in
settembre un’iniziativa aperta a 40 persone con un’idea per innovare.
Dieci di loro saranno scelte e riceveranno un piccolo contributo di 7
mila euro per concretizzare il progetto aiutandole sino allo sviluppo del
business model. Consapevoli che nel mondo il 90 per cento delle startup
falliscono anche perché non vengono accompagnate nell’inserimento del
mercato, il nostro obiettivo è proprio quello di facilitare e assistere
questa fase pre-startup definendo dai potenziali clienti alle operazioni
di marketing necessarie. Ciò aumenterà le possibilità di successo».
È in questa logica che si è creato un collegamento anche dopo il biennio
della fase di startup aprendo alle nuove società la possibilità di
accesso al piano di aiuti all’innovazione alle imprese in generale con
contributi fino a 150 mila euro coprendo al massimo il 75 per cento
dell’investimento richiesto dai progetti.
Tra queste si incontrano aziende come la Gexcel, spin-off dell’università
di Brescia che ha trovato nel Parco e nel centro di calcolo il luogo
adatto all’insediamento generando sistemi di rilevamento in 3D per il
controllo degli edifici controllandone le deformazioni ed altri dedicati
alle necessità forensi.
«L’interesse ad essere attivi sul fronte dell’innovazione cresce nelle
varie realtà culturali, politiche ed economiche dell’isola – conclude
Maria Paola Corona – ed è per questo che Sardegna Ricerche sta
intensificando lo sforzo per sostenere una volontà di cambiamento
preziosa per l’intero Paese».
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La Nuova Sardegna 08 ott. ’14
NOBEL PER LA FISICA AGLI INVENTORI DEI “LED”
la rivoluzione della luce
Il Nobel per la fisica è andato ai “led” (Light Emitting Diode), i
rivoluzionari dispositivi elettronici che sfruttano le proprietà ottiche
di alcuni materiali per produrre la luce inmodopiù efficiente dal punto
di vista energetico e rispettoso per l’ambiente. Il prestigioso premio è
stato dunque assegnato ai giapponesi Isamu Akasaki (85 anni) e
HiroshiAmano (55 anni), entrambi dell’università di Nagoya, e
all’americano Shuji Nakamura (60 anni), che dal 1994 si è trasferito
dall’università giapponese di Tokushima a quella californiana di Santa
Barbara. L’invenzione dei “led”, rileva la Fondazione Nobel, è stata
premiata «nello spirito di Alfred Nobel», che mirava a riconoscere il
valore delle scoperte in grado di dare importanti benefici per l’umanità.
I “led” sono infatti in grado di produrre la luce in modo nuovo.
L’impatto di questa tecnologia potrebbe infatti essere confrontabile a
quello della lampadina: «come le lampade a bulbo hanno illuminato il XX
secolo, i “led” saranno le luci del XXI secolo», scrive la Fondazione.
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L’Unione Sarda 07 ott. ’14
STOCCOLMA NOBEL MEDICINA A 3 NEUROSCIENZIATI
STOCCOLMA Il premio Nobel per la Medicina è stato assegnati a tre
neuroscienziati: sono l’americano John O’Keefe e i coniugi norvegesi May-
Britt ed Edvard Moser. Hanno scoperto le cellule nervose che
costituiscono il sistema di posizionamento nel cervello: un sistema che
ci permette di orientarci, come una sorta di «Gps biologico», avendo
costantemente le coordinate spaziali del luogo in cui ci troviamo. Studi
che hanno dimostrato l’esistenza di una base cellulare, organica, anche
per le funzioni cognitive più elevate.
May-Britt Moser ha saputo di essere stata premiata mentre si trovava
nell’Università in cui lavora, a Trondheim in Norvegia. «Ha pianto per un
minuto e ha parlato con il suo team» ha detto una portavoce dell’ateneo.
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Il Sole24Ore 12 ott. ’14
NOBEL: TUTTI D'ACCORDO CON GLI SVEDESI
Sylvie Coyaud
Quest'anno i premi Nobel per la scienza non hanno suscitato controversie
sull'incompetenza o peggio di chi li assegna. La soddisfazione è stata
generale, sempre che ne siano un buon metro di misura i commenti di
scienziati anglofoni sui social media. Di John O'Keefe dello University
College di Londra, May-Britt Moser e il marito Edvard dell'Università di
Trondheim, i neuroscienziati parlano bene e segnalano quasi tutti che i
due giovani – nel senso di cinquantenni – norvegesi sono stati post doc
da O'Keefe, riconosciuto anche come uno dei "buoni maestri". Nei primi
anni 70, O'Keefe aveva notato che nell'ippocampo dei topi, neuroni
diversi – detti poi cellule di posizione – si attivavano quando gli
animali erano in posti diversi come se nel cervello avessero una mappa
del proprio territorio. Idea seducente, in fondo per muoverci dobbiamo
sapere innanzitutto dove stiamo, purtroppo la posizione delle cellule non
disegnava nulla che somigliasse a una gabbietta. Nel 2005, May-Britt e
Edvard Moser hanno scoperto un altro sistema di localizzazione. Nella
corteccia entorinale (connessa all'ippocampo) alcune cellule si attivano
quando il topo supera gli angoli di una griglia esagonale e sono disposte
come queste coordinate del suo, e del Gps mentale. Per la prima volta e
per ora l'unica si è identificato un codice, nel senso informatico del
termine, che collega direttamente l'attività cerebrale al comportamento e
alla cognizione. Il codice resta in gran parte da decifrare, però il
morbo di l'Alzheimer si manifesta inizialmente nella corteccia
entorinale, con il disorientamento e la perdita di memoria. La
motivazione ufficiale del premio non accenna allo Human Brain Project, il
programma-bandiera europeo da 1,2 miliardi di euro criticato da mesi
perché ne sono state escluse sia le ricerche cognitive che quelle sugli
animali. È improbabile che ai ricercatori dell'Istituto Karolinska non
sia venuto in mente nel votare per i vari candidati.
L'Accademia delle scienze svedese ha scelto un'invenzione molto popolare
nel dare il premio per la fisica ai "Blue's Brothers" come sono stati
ribattezzati gli ingegneri Isamu Akasaki e Hiroshi Amano dell'Università
di Nagoya e Shuji Nakamura, un tempo dipendente della Nichia. Hanno
inventato il semi-conduttore "dopato" al nitruro di gallio che aggiunge
il blu ai diodi in uso dagli anni 50. Emettevano solo luce verde e rossa,
risparmiavano tanta elettricità, purtroppo creavano un ambiente spettrale
e facevano sembrare i convitati di pietra o affetti da itterizia. Con i
tre colori primari, la luce è decisamente più calda il che spiega come
mai i led blu stanno sostituendo sia le lampadine a fluorescenza che
quelle a filamenti. Inoltre la luce blu ha una lunghezza d'onda più
corta, perfetta per lo schermo del computer, il lettore di dvd, lo smart
phone e la serie crescente di oggetti high tech compatti; l'efficienza
dei led riduce il consumo di energia e quindi le emissioni di gas serra e
di altri inquinanti da parte delle centrali; incrementano la resa delle
lampade solari che diventano convenienti per i poveri dei Paesi del terzo
mondo, dove spesso non esiste neppure la rete elettrica. La fisica, fa
capire il premio, non scopre solo il bosone di Higgs, bellissimo ma che
non migliora esattamente la vita quotidiana. Dietro c'è anche una
rivincita di cui ha parlato molto la stampa giapponese: la Nichia aveva
pagato noccioline per il brevetto di Nakamura, che è ricorso ai tribunali
per ottenere 8 milioni di dollari. Forse non è questa la storia
edificante che Alfred Nobel aveva in mente quando voleva ricompensare le
persone «che hanno beneficiato maggiormente l'umanità».
Si sente spesso lamentare la suddivisione della scienza in una Torre di
Babele di discipline anguste dai linguaggi diversi. Non è più così da
almeno vent'anni soprattutto per chi osserva la natura nelle
nanodimensioni. Il premio per la chimica dato ai fisici Eric Betzig,
Stefan Hell e William Moerner non ha destato scandalo perché è un
ringraziamento delle scienze della vita per un nuovo microscopio – ha
meno di 8 anni! – che mostra quanto avviene in una cellula. Per più di un
secolo i microscopi ottici hanno rispettato il limite di risoluzione
decretato da Ernst Abbe nel 1873. Anche sotto il più potente e preciso
dei microscopi un oggetto più piccolo di metà della lunghezza d'onda
della luce visibile è una macchia indistinta. Non c'era verso di
distinguere una molecola dall'altra se non erano separate da almeno 200
nanometri. Ma negli anni Novanta, Moerner ha scoperto come accendere e
spegnere con un laser la fluorescenza verde emessa da una molecola e
Betzig e Hell (seguiti a ruota dalla bravissima Xiaowei Zhuang)
migliorarono la tecnica scattando istantanee fulminee da varie
angolature. In realtà, il limite di Abbe resta valido, ma un computer è
in grado di interpretare i blob per restituire la forma esatta di una
rete di proteine o di neuroni e sinapsi, quelle immagini multicolori che
ispirano anche collaborazioni tra scienziati e artisti.
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La Nuova Sardegna 06 ott. ’14
THE INDEPENDENT SUI GIGANTI, L’ISOLA AL CENTRO DELL’EUROPA
Nell’edizione domenicale del quotidiano londinese un articolo alle
scoperte archeologiche e alla Sardegna
di Simonetta Selloni
ORISTANO L’attenzione sui Giganti di Mont’e Prama varca il mare e
conquista una platea di assoluto prestigio internazionale. A loro, ai
guerrieri, pugilatori e arcieri, è dedicato un lungo e approfondito
articolo comparso sul quotidiano londinese The Independent. E se
l’interesse legato ai Giganti ormai si è esteso oltre i confini del
consesso accademico e sta coinvolgendo e richiamando visitatori da tutto
il mondo, il reportage sull’Independent pone anche la Sardegna e la
civiltà nuragica all’attenzione della stampa internazionale. Con una
considerazione di assoluto rilievo, che emerge proprio dalle colonne del
quotidiano britannico: “È l’unico gruppo di guerrieri scolpiti in pietra
a dimensioni umane mai trovato in Europa. Seppure composto da un numero
molto più piccolo di figure rispetto al famoso Esercito di terracotta
Cinese, quello Sardo è di 500 anni più vecchio e fatto di pietra
piuttosto che di ceramica”. The Independent, peraltro, con il titolo
“Cyberuomini preistorici? I guerrieri perduti della Sardegna emergono
dalla polvere”, compie alcuni interessanti riferimenti agli studi
compiuti sul materiale umano rinvenuto a Mont‘e Prama, e che finora sono
ancora inediti. In particolare, il quotidiano che sposa la tesi dei
Giganti a guardia dei sepolcri attribuiti ai componenti l’elìte dominante
dell’età del Ferro, parla espressamente di un clan, un gruppo
“strettamente collegato, con persone imparentate tra di loro”. E lo fa
citando un’indagine scientifica condotta in un laboratorio a Firenze, sui
resti umani, dalla quale emergerebbe che “la maggior parte dei morti
appartenessero ad appena due generazioni di un unico, esteso nucleo
familiare”. Lo studio al quale si fa riferimento è quello
dell’antropologa Ornella Fonzo, il cui gruppo ha lavorato sui reperti
umani rinvenuti negli scavi del 1975 e del 1979; studio ancora inedito,
perché in via di pubblicazione nel secondo volume, dei tre complessivi,
dedicati a Mont‘e Prama dalle Soprintendenze di Cagliari, Oristano,
Sassari e Nuoro. «Le analisi hanno evidenziato che i resti appartenevano
a uomini che potevano, già allora, accedere a un nutrimento di
prim’ordine, comprendente anche molluschi – sottolinea il professor
Raimondo Zucca dell’Università di Sassari, archeologo impegnato negli
scavi a Mont‘e Prama –. Dalle masse muscolari, ovviamente perdute, ma che
si ricavano dalle strutture ossee, possono ricollegarsi ad attività
nobili: arcieri, guerrieri, forse persino spadaccini». Proprio ieri il
professor Zucca ha accolto, proveniente dal celeberrimo museo Nazionale
preistorico etnografico Pigorini di Roma, centro di riferimento per la
bioarcheologia, Claudio Cavazzuti, uno dei massimi esperti di questo tipo
di indagine. Una presenza resa possibile dall’accordo sancito tra
Università e Soprintendenza Speciale al Museo Pigorini. The Independent,
senza mai citare direttamente Cabras, dimostra un altissimo interesse per
queste statue e la loro straordinaria valenza storica e etnografica. E si
sofferma sulla civiltà Nuragica, “una della civiltà antiche meno
conosciute al mondo, eppure più impressionanti”, e sui nuraghi, “i più
antichi castelli d’Europa”, raccontando come le oltre “7000 fortezze
ancora dominino il paesaggio sardo, e alcune dozzine abbiano superato in
modo eccezionale il test del tempo, fornendo una straordinaria immagine
di cosa fosse l’architettura militari dell’Età del Bronzo”.
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L’Unione Sarda 12 ott. ’14
LA BATTAGLIA DEI GIGANTI: MIBAC CONTRO UNICA & UNISS
Quale sarà il futuro della più grande ricchezza che l'Isola abbia mai
avuto? Poveri Giganti di Mont'e Prama, protagonisti inconsapevoli di una
battaglia contemporanea. Una lettera ultimativa spedita dalla direzione
regionale del Mibact chiede quando gli studiosi delle Università di
Cagliari e Sassari leveranno le tende dal cantiere e lasceranno campo
libero «alla grande professionalità dei nostri funzionari» - come dice il
sottosegretario ai Beni culturali. Che ha annunciato, d'ora in poi, «una
gestione diretta del sito archeologico».
Cambio di rotta molto
contestato. Nell'ambiente tutti sostengono: il ministero vuole “mettere
il cappello” sul sito e far fuori l'Università. Francesca Barracciu la
spiega in un altro modo: «Finora è stato fatto un ottimo lavoro, con la
direzione scientifica delle Soprintendenze. Questo lavoro finirà a
giorni, perché i fondi sono stati spesi interamente. Fondi che
prevedevano anche la vigilanza, se poi qualcuno racconta di averla pagata
di tasca, significa che il piano economico era sballato. Comunque, adesso
che le risorse le metterà il ministero è stata fatta una gara pubblica,
vinta da una ditta dell'Emilia Romagna che darà il via a un nuovo scavo e
impiegherà solo personale altamente qualificato, sotto il nostro diretto
controllo. Vedremo se ci sono le condizioni per un'eventuale
collaborazione con le Università. Ma le polemiche preventive sono inutili
e dannose». I team delle due Università non vogliono mollare. I soldi per
andare avanti li avrebbero finiti (come sostiene la Barracciu) ma
riceveranno un importante finanziamento dalla Fondazione Banco di
Sardegna. Una riunione riservatissima con il presidente Antonello Cabras
è stata fatta nei giorni scorsi. L'idea - che deve ancora passare al
vaglio del comitato di indirizzo e del cda - è di realizzare un piano
triennale (si ipotizza una cifra sui 200 mila euro l'anno) per proseguire
con gli scavi e mettere finalmente in piedi un'operazione di marketing
all'altezza dei Giganti (a casa loro). Sarebbe bello qualcosa di simile a
quello fatto ai Fori Imperiali a Roma, con luci, proiezioni e
riproduzioni in 3D. Per dire, lo show su Augusto, un viaggio
multimediale in sei lingue, studiato da Piero Angela con l'approvazione e
la guida scientifica della Sovrintendenza capitolina, ha fatto in cinque
mesi oltre 75 mila spettatori e ha fatto già incassare una somma molto
superiore all'investimento iniziale.
Il rettore di Sassari, Attilio
Mastino, ammette di aver ricevuto la lettera di benservito che chiede la
data di “chiusura” dello scavo. Ma non commenta. «Ho chiesto al
sottosegretario Barracciu un incontro urgente. Le dirò che le Università
hanno la forza, le competenze e i mezzi per prolungare la collaborazione.
Vogliamo che questo continui ad essere un luogo di amicizia, di
fraternità e di scienza, dove ogni divergenza possa essere superata e
dove vengano valutate le ragioni di tutti».
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Il Sole24Ore 12 ott. ’14
OGM:ALIMENTATI DA FALSE PAURE
Roberto Defez riesce a chiarire con estrema precisione le vaghezze e le
bugie interessate di chi parla di cibo in chiave ideologica
Gilberto Corbellini
«Combattere l'obesità facendo un uso attento della ragione – sia
attraverso misure politiche sia attraverso l'educazione alla salute – è
un grande progetto, che però fallirà, a meno che le idee di senso comune
dell'obesità e delle forze che la creano siano comprese e analizzate».
L'osservazione è tratta da uno dei saggi dedicati al ruolo dei media
nella costruzione culturale dei disturbi dell'alimentazione e
dell'obesità pubblicato a cura di un gruppo di antropologi di Oxford. Nel
testo citato, Pino Donghi e Josephine Wannerholm illustrano le
contraddizioni della comunicazione dei valori, etici, politici ed
estetici, che incanalano i comportamenti alimentari nel mondo
occidentale. Comportamenti che causano con relativa facilità un eccesso
di peso o l'obesità, soprattutto nei bambini, o che possono evolvere, in
soggetti predisposti, come veri e propri disturbi mentali.
Ma quali sono queste idee e forze di senso comune, che non si riesce a
mettere a fuoco, senza usare la ragione, per capire l'origine della
pandemia di obesità e la diffusione dei disturbi da alimentazione
incontrollata? Probabilmente, e in primo luogo, l'ingannevole credenza
che siamo noi, individualmente o come comunità sociali, ad avere il
controllo sul cibo. Mentre è vero il contrario. Basta uno sguardo anche
superficiale alle programmazioni quotidiane rivolte al popolo
teledipendente, largamente dedicate a cucine e prodotti alimentari, per
capire quel che sta accadendo.
Provando a uscire dal punto di vista antropocentrico, che istruisce il
senso comune, la storia della specie umana negli ultimi diecimila anni si
potrebbe leggere come un'evoluzione culturale che "ci" ha posti al
servizio di alcune piante e animali, che "ci" hanno resi metabolicamente
dipendenti, di modo che essi potessero diventare prevalenti sul pianeta.
Il solito povero marziano che atterrasse oggi, non sarebbe forse
legittimato a pensare che l'umanità si è moltiplicata per coltivare vaste
estensioni terrestri con mais, riso, frumento, o per consentire ai maiali
o ad alcuni volatili di riprodursi in modo largamente superiore a come
sarebbe allo stato naturale?
Certo, è solo un esperimento mentale. Ma se guardiamo al ruolo cruciale,
da vero e assoluto direttore d'orchestra o dittatore del metabolismo, che
l'insulina ha assunto nell'economia biochimica della nostra specie, la
singolare prospettiva diventa meno inverosimile. Perché quest'ormone
tiranno è in ballo dappertutto e se vogliamo una prova del fatto che il
libero arbitrio è un'illusione, pensiamo solo a come i livelli di
insulina determinano le nostre decisioni, le nostre capacità cognitive, i
nostri stati emotivi, il nostro benessere e le malattie che ci
aggrediscono come conseguenza dei deterioramenti fisiologici conseguenti
a un'alimentazione innaturale.
Perché chi crede che l'agricoltura sia un modo "naturale" di produrre
cibo o che esistano alimenti più "biologici" di altri, sbaglia di grosso.
L'agricoltura è stata una necessaria e formidabile invenzione umana, che
ha prodotto però anche non pochi guai per la salute. Perché ha creato uno
squilibrio drammatico nelle composizioni dei nutrienti accessibili e
utilizzati come cibo. Negli ultimi diecimila anni è stato grazie
all'intelligenza che siamo riusciti a trasformare una condizione a lungo
incerta, cioè la produzione di quantità spesso insufficienti di alimenti
innaturali e in parte deleteri rispetto alla dieta per cui ci siamo
evoluti nel Paleolitico, in una realtà economica, politica e sanitaria
più che decente. Ancora duecento anni fa, la condizione alimentare umana
era tragicamente precaria. La malnutrizione e le carestie perseguitavano
l'esistenza quotidiana di coloro che riuscivano a sopravvivere alle
ondate pestilenziali causate da vaiolo, peste, morbillo, eccetera.
Con l'invenzione e lo sviluppo della scienza, cioè di metodi validi per
spiegare i fatti, sono stati risolti o quantomeno messi sotto controllo
molti problemi alimentari. E non solo. L'accesso sicuro al cibo, grazie
alla crescita economica, il controllo sulla sua qualità e una
significativa longevità, non sono un merito dei metodi tradizionali di
coltivazione. Sono state le conoscenze scientifiche, chimiche e
biologiche, con le relative innovazioni tecnologiche a rendere l'economia
agricola efficiente, quindi a garantire cibo sufficiente e di qualità
adatta al nostro fabbisogno metabolico.
Parallelamente all'eliminazione della malnutrizione, per larga parte del
pianeta c'è stata la presa del controllo sulle principali malattie
infettive: grazie sempre agli avanzamenti scientifici, alla
potabilizzazione dell'acqua, all'invenzione dei vaccini, alla scoperta
degli antibiotici, eccetera. Oggi, e per i prossimi decenni, la sfida è
se si riuscirà a mantenere queste conquiste, e gestire i gravi
disadattamenti, soprattutto le malattie cronico-degenerative dell'età
avanzata, dovuti al fatto che la nostra alimentazione, in generale, è
eccessivamente calorica e sbilanciata. È molto improbabile che queste
minacce possano anche solo essere capite dal punto di vista di un'idea di
senso comune.
E allora è paradossale e irresponsabile, ma anche sintomatico degli
autoinganni mentali di cui siamo facilmente preda, quel che è accaduto in
un paese come l'Italia e in larga parte dell'occidente per quanto
riguarda il tema degli ogm. Un paradosso di cui il libro di Roberto Defez
ricostruisce le origini, la storia e le conseguenze. Le nuove
generazioni, che non possono avere memoria delle durezze e sofferenze
della vita contadina, si rappresentano un mondo bucolico di cui possono
esistere certo alcuni esemplari, ma solo perché da qualche parte, fuori
dall'Italia, si possono acquistare alimenti sicuri, a prezzi accessibili
anche per chi vive con redditi da povertà.
Siamo alla vigilia di Expo2015. Per tradizione secolare avrebbe dovuto
essere una vetrina dei più avanzati strumenti dell'intelligenza umana per
affrontare e sconfiggere le minacce di un problematico futuro alimentare
e sanitario. Finora abbiamo ascoltato vaghe chiacchiere, o peggio
interessate bugie su scenari alimentari e sanitari da medioevo, spacciati
per sostenibilità. Quel che più stupisce è che a questi scenari crede una
popolazione di cittadini che usa per comunicare tecnologie
sofisticatissime e possibili solo grazie alla scienza. Chissà perché
quando si sente parlare di scienza e tecnologia applicate all'agricoltura
e al cibo, ci si spaventa e si sragiona?
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Karin Eli e Stanley Ulijaszek (ed by), Obesity, Eating Disorders and the
Media, Ashgate, Farnham, pagg.. 174, s.i.p.
Roberto Defez, Il caso Ogm. Il dibattito sugli organismi geneticamente
modificati, Carocci, Roma, pagg. 146, € 11,00
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Repubblica 08 ott. ’14
L'IMPORTANZA DI COLTIVARE IL DUBBIO DAVANTI AGLI OGM
di MICHELE SERRA
L'AFFERMAZIONE "la scienza ha sempre ragione" non è scientifica. È
ideologica. Lo è tanto quanto il pregiudizio reazionario per il quale
ogni mutamento del modo di produrre, consumare, nutrirsi, avviene nel
nome di interessi inconfessabili, e a scapito della salute della
collettività umana. L'acceso dibattito sugli ogm (vedi gli interventi
suRepubblicadiVandana Shiva,Elena Cattaneo,Carlo Petrini,Umberto
Veronesi) fatica a mondarsi di queste opposte rigidità. E fa specie che
nel campo "pro", che annovera valenti ricercatori e scienziati, pesi
ancora come un macigno l'idea che il fronte degli oppositori sia
un'accolita di mestatori che, in odio al progresso umano e alla libertà
di ricerca, alimentano dicerie malevole e speculano sulla paura e
l'emotività dell'opinione pubblica. Una volta esposte le ottime ragioni
della ricerca scientifica e della sua necessaria libertà d'azione, perché
evocare, tra i soggetti "antiscientifici" in qualche modo assimilabili
agli oppositori degli ogm, anche i fattucchieri di Stamina? Allo stesso
identico modo le frange più eccitabili del fronte anti-ogm possono
immaginare che la ricerca genetica sulle piante sia nelle mani di
squilibrati megalomani (alla dottor Frankenstein) o di avidi mercenari.
Le forzature polemiche fanno parte del gioco, ma non aiutano a mettere
meglio a fuoco gli argomenti. La più autorevole istituzione mondiale in
tema di agricoltura e alimentazione, laFao, mette a disposizione di
competenti e incompetenti (come me) una sintesi esauriente e
comprensibile delle potenziali ricadute positive e negative delle
coltivazioni ogm, con una breve analisi della loro verificabilità.
Lo spazio di un articolo non permette di elencare tutti i punti (rimando
i lettori al sito della Fao). Mi limito a dire che i "capi di accusa"
sono divisi in tre gruppi: ricadute sull'ambiente agricolo e
l'ecosistema; ricadute sulla salute umana; ricadute sull'assetto
economico e sociale. Mi sembra interessante e molto rilevante che la Fao,
sulla quasi totalità di questi punti critici, non esprima certezze. Non
dice, cioè: questa critica è campata in aria oppure questa critica è
corretta. Esprime dubbio. In larga parte dovuto alla tempistica medio-
lunga che una verifica attendibile (scientifica!) richiederebbe.
Il principio di cautela - che non vuol dire condanna né assoluzione: vuol
dire umiltà di giudizio - dovrebbe e potrebbe dunque essere uno dei punti
di partenza di una corretta discussione comune, ammesso che mai ci si
arrivi. Certo confligge, questo principio di cautela, con la
comprensibile fretta con la quale i finanziatori della ricerca, in grande
parte nutrita con fondi privati, vorrebbero mettere a profitto le loro
scoperte e i loro prodotti. È esattamente per questo che Vandana Shiva
mette in guardia contro la coincidenza di ruolo tra ricerca e
commercializzazione. Sono campi di interesse entrambi utili e legittimi:
ma la loro ibridazione - per dirla con una battuta transgenica - può
generare mostri.
Una volta detto che la questione è molto complicata, coinvolge competenze
scientifiche le più varie e non è archiviabile con un "sì" né con un
"no", colpisce assai che di questi "rischi" il più sottaciuto sia quello
che, al contrario, è il più nevralgico e coinvolgente: la ricaduta socio-
economica. È anche questo, in fondo, un portato della crisi della
politica: la rinuncia ormai quasi pregiudiziale a mettere in discussione,
o anche solo a cogliere, le scelte strutturali, quelle che determinano
gli assetti futuri.
Quasi inutilmente, in tutti questi anni, Carlo Petrini e il vasto
movimento mondiale che si rifà a Slow Food e a Terra Madre hanno
rivendicato la natura squisitamente politica del loro lavoro e della loro
battaglia. Chi oggi rivendica la "sovranità alimentare" delle comunità
produttive (e dei consumatori) compie la stessa operazione politico-
culturale dei nostri avi socialisti quando dicevano "la terra a chi la
lavora". Si rivendica, né più né meno, l'autodeterminazione dei
produttori, affidando ad essa la difesa delle biodiversità, della varietà
delle colture, delle culture, delle identità locali.
Ovviamente è del tutto lecito sostenere che l'agroindustria, con la sua
potentissima opera di selezione delle specie (tutte brevettate) e di
inevitabile omologazione della produzione agricola mondiale, è
perfettamente compatibile con la biodiversità e con le piccole
coltivazioni; o addirittura che è giusto e utile rimpiazzare del tutto le
produzioni tradizionali con la produzione agroindustriale. Ma non è
lecito fare finta che non sia questo (il modo di produzione, la struttura
stessa delle società future) il punto nodale. Non sono in ballo solo il
potenziale allergenico di un pomodoro, o il chilo di pesticida per ettaro
in più o in meno. L'ordine del giorno non è solo "gli ogm fanno bene, gli
ogm fanno male".
È in discussione la vita stessa delle società rurali nel mondo (più della
metà dei viventi), la ripartizione del potere, del reddito, delle
conoscenze tra una rete infinita di piccole comunità e pochi, immensi e
quasi sempre anonimi centri decisionali. Sono in discussione gli 87
milioni di ettari di suolo africano acquistati dal 2007 a oggi dalle
multinazionali americane e cinesi e da fondi di investimento opachi e
onnipotenti: è una superficie grande quasi come Italia e Francia messe
insieme, e a nessuno può sfuggire che coltivare pezzi così ingenti di
pianeta a soia ogm per produrre biocarburante oppure incrementare le
produzioni locali (più della metà dell'agricoltura africana è vocata
all'autosostentamento) è una scelta tanto importante, tanto strutturale
quanto lo è, nel bene e nel male, ogni grande rivoluzione tecnologico-
scientifica, industriale, sociale.
E se l'Africa vi sembra lontana e comunque fuori portata, come può chi
vive in Francia o in Italia non percepire che la straordinaria varietà
delle colture, il legame strettissimo tra i luoghi e ciò che si coltiva,
si mangia e si beve, insomma l'agricoltura plurale, "calda" e identitaria
per la quale si battono i Petrini e si battevano i Veronelli, i Mario
Soldati e i Gianni Brera, non è una frontiera del passato, è un caposaldo
della nostra trama sociale, economica, culturale? Dunque è futuro allo
stato puro? O dobbiamo dire "Italian style" solo parlando di borsette?
La libertà della ricerca scientifica è preziosa e va difesa: specie in
campo medico, le biotecnologie possono dare frutti vitali, e Cattaneo e
Veronesi fanno benissimo a tenere fermo il punto. Ma non è solo di questo
che si parla, quando si parla di ogm. E i critici degli ogm possono ben
dire di avere sbagliato qualcosa di sostanziale, in termini di
comunicazione, se ancora oggi ci si scanna sul ravanello transgenico
(faccio per dire) e non si capisce che non è di lui, è di quasi quattro
miliardi di contadini che si sta parlando, del loro e del nostro futuro,
e della loro libertàdi scelta che è degna e importante quanto quella dei
benemeriti ricercatori scientifici. Non è vero che "quando c'è la salute
c'è tutto". Conta la libertà. Conta la dignità. Conta che il potere sia
in pochissime mani o nelle mani di molti.
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Il Sole24Ore 11 ott. ’14
A COLPI DI TAR MEDICINA HA 5MILA MATRICOLE IN PIÙ
Gianni Trovati
Qualche giorno fa il ministro dell'Università Stefania Giannini l'aveva
detto, in un tweet come capita spesso nella politica di questi mesi:
«Abolire il test d'ingresso a medicina, gli studenti non vanno valutati
con 60 domande a risposta multipla». Al momento, però, le certezze
finiscono qui: sul futuro, ma soprattutto sul presente, domina invece la
nebbia. Ieri è arrivata al traguardo al Tar Lazio un'altra tranche del
maxiricorso nata dalle prove dell'8 aprile, e si è conclusa come le
precedenti: altre 2.500 matricole che erano state fermate dai test sono
state riammesse dai giudici amministrativi per una serie di irregolarità
nelle procedure di prova, e si vanno ad aggiungere ai 2mila "ripescati" a
luglio e ai 500 di settembre. Totale: 5mila persone in più, che aumentano
del 50% il contingente da 9.983 posti scritto nel decreto di marzo.
Ammessi «con riserva», per ora, in attesa si un giudizio di merito che
con un nuovo colpo di teatro potrebbe (ma è improbabile) ribaltare la
situazione fra un po' di mesi.
Tutto si può dire del numero dei nuovi aspiranti medici di quest'anno,
insomma, tranne che sia «programmato» come recita la Gazzetta Ufficiale.
Anche perché le battaglie giudiziarie non finiscono qui, altri due
ricorsi sono aperti (c'è ancora qualche giorno di tempo per aderire) e le
decisioni fotocopia del Tar aumentano di giorno in giorno. Le facoltà non
sanno quanti iscritti avranno, a Palermo lunedì si ferma tutto in attesa
di capire come gestire il quasi raddoppio delle immatricolazioni (ne
erano previste 400, ne stanno arrivando 340 in più), ma ovviamente
problemi identici si ripresentano da Nord a Sud.
Lo stesso ministero, del resto, è andato in testacoda davanti alla
valanga delle vittorie studentesche al Tar. In una prima circolare del 22
settembre, subito battezzata «blocca-ricorsi», è stato proposto un
meccanismo acrobatico per cercare di limitare i danni, imponendo agli
studenti riammessi dalle ordinanze di scegliere, fra gli atenei indicati
nel test, quello «nel quale risulta minimo lo scarto tra il punteggio del
primo in graduatoria in quella sede e il punteggio ottenuto da
ricorrente». In pratica, a decidere la possibilità o meno di iscriversi
in un ateneo sarebbe stata la performance raggiunta dallo studente più
brillante nei quiz, con un meccanismo che avrebbe aperto le porte di
università come Campobasso (voto massimo 50,7), Sassari (51,8) o Salerno
(53,8), blindando invece le aule di Torino (voto massimo 80,5), Foggia
(78,6), Milano (78,6) e a Palermo (72,2). L'idea ministeriale ha fatto
arrabbiare i rettori e infuriare gli studenti, e per evitare di avvitarsi
nei "ricorsi sul blocca-ricorsi" ha fatto marcia indietro con una nuova
nota che permette di iscriversi nell'università preferita dallo studente.
Da qui il disorientamento delle università, che in questo via-vai di
regole decise e smentite non sanno quanti studenti avranno: con tanti
saluti alla «programmazione», e ai «criteri di qualità» che sono
indispensabili per accreditare i corsi e che si fondano anche sulle
proporzioni fra il numero dei docenti e quello degli studenti. Questi
ultimi parlano di «vittoria epocale», che secondo il coordinatore
nazionale dell'Unione degli universitari Gianluca Scuccimarra «è
destinata a cambiare completamente l'attuale sistema», ma il ministro
sottolinea che vanno aboliti i quiz «ma non il numero programmato».
Insomma, la battaglia continua con un unico dato che mette d'accordo
tutti: a decidere i futuri medici non possono più essere né i test né i
Tar.
gianni.trovati@ilsole24ore.com
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La Stampa 08 Ott. ’14
MEDICINA: COME USCIRE DAI TEST
ANDREA GAVOSTO*
I test di ingresso ai corsi di laurea di medicina continuano a essere al
centro di
infuocate polemiche. I quesiti - con qualche ragione - sono percepiti
come astrusi, difficili, inadatti a cogliere le caratteristiche che
dovrebbe avere un buon medico; i risultati come frutto principalmente del
caso. Anche i miglioramenti apportati negli ultimi due anni, che hanno
escluso il voto di maturità dal computo del punteggio del test (ricordate
il pasticcio del bonus?) e stabilito un'unica graduatoria nazionale, non
sono serviti a placare gli animi. Nella campagna elettorale per le
Europee, il ministro Giannini ha cercato di cavalcare lo scontento dei
candidati e delle loro famiglie, promettendo di abolire i test di accesso
e proponendo un'altra soluzione, simile al modello francese: gli studenti
di Medicina verrebbero selezionati al termine del primo anno, sulla base
- si immagina - della media dei voti e del numero di crediti ottenuti
dopo aver affrontato insegnamenti fondamentali (fisica, chimica,
biologia) comuni a tutte le lauree scientifiche. Ancora recentemente, di
fronte ai rettori che manifestavano perplessità, il ministro ha ribadito
l'intenzione di procedere in tale direzione.
La proposta è molto difficile e costosa da applicare. Nel 2014, oltre
60.000 candidati hanno fatto domanda per 10.000 posti disponibili per le
matricole in tutta Italia; possiamo ipotizzare che, una volta
liberalizzato l'ingresso, anche coloro che avevano preferito non
affrontare i test si iscrivano a Medicina: diciamo che potremmo arrivare
a 80.000 studenti al primo anno. Questo significa, rispetto alla
situazione attuale, moltiplicare per otto aule, docenti e laboratori: un
proposito irrealizzabile, visto che la riduzione dei finanzia- menti e
del turnover impedi-
sce in molti dipartimenti addirittura di sostituire chi va in pensione.
Fra l'altro, tutte queste nuove strutture dal secondo anno sarebbero
sottoutilizzate. Al di là degli aspetti pratici, la proposta solleva due
ulteriori dubbi. In primo luogo, il modello francese prevede una
selezione feroce per l'ingresso a Medicina al termine del primo anno, a
cui sopravvive appena il 20% dei candidati, mentre gli esclusi continuano
nelle altre discipline scientifiche: difficile pensare che l'Italia,
patria dei ricorsi amministrativi, sia culturalmente pronta per questa
ghigliottina. Il secondo dubbio riguarda l'omogeneità dei criteri di
ammissione al secondo anno; venendo meno il test unico nazionale e
ripristinando la discrezionalità di ciascun ateneo sulla selezione, si
creerebbero facilmente delle iniquità, per cui in un'università
verrebbero ammessi studenti meno capaci di quelli esclusi altrove. E
anche all'interno di ciascuna di esse potrebbero aversi differenze di
giudizio che l'anonimità del test non consente.
Poiché questa strada non appare percorribile, come risolvere il
problema dell'ammissione a Medicina? Una proposta, recentemente avanzata
sul sito della Voce, è di modificare l'esame di maturità, introducendo
moduli standardizzati per scegliere - secondo una graduatoria di merito
redatta con criteri omogenei - gli studenti che proseguono nelle facoltà
a numero chiuso: è, ad esempio, il sistema adottato fino a quest'anno in
Spagna. L'opzione alternativa, più realistica, è mantenere l'attuale
schema della graduatoria nazionale, che nel complesso ha dato buona prova
di sé, migliorando sensibilmente qualità e adeguatezza dei test, oggi
affidati a una società esterna. L'esperienza delle prove Invalsi nella
scuola ci dimostra che, aprendosi alle critiche degli esperti,
l'attendibilità dei test può crescere nel tempo, rendendoli uno strumento
affidabile e con garanzie di equità superiori a quella di altre
soluzioni.
*Direttore Fondazione Agnelli
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Corriere della Sera 12 ott. ’14
TROPPE RIAMMISSIONI GLI ATENEI NON REGGONO
Bisognerà rileggere il «Manuale di progettazione di edilizia
universitaria». Rifare i conti. E cercare di capire dove collocare gli
studenti non previsti. Per evitare quello che sta succedendo a Palermo,
dove l’ateneo ha deciso di sospendere le lezioni per una settimana in
attesa di riorganizzare i corsi.
Il Tribunale amministrativo regionale ha deciso di ammettere con riserva,
in trentatréuniversitàitaliane, altri 2.500 ragazzi che avevano fatto
ricorso dopo non aver superato l’ultimo test di Medicina, quello di
aprile. Con le duemila riammissioni — sempre del Tar — di luglio e le
altre 500 di queste settimane in Sicilia, le facoltà dovranno trovare
posto per altri cinquemila studenti. Tradotto: il 47,4 per cento in più
di quanto previsto quest’anno tra Medicina e Odontoiatria (10.551). Un
aumento che, già da ora, fa saltare la programmazione di decine di
rettori.
Un caos accentuato anche dal ministero dell’Istruzione. Con una nota del
23 settembre il Miur aveva bloccato le immatricolazioni in sovrannumero
nel tentativo di «smistare» i ragazzi: chi aveva vinto il ricorso —
sosteneva il dicastero — doveva iscriversi nell’ateneo dove la differenza
tra il proprio punteggio e quello punteggio del primo classificato fosse
minore. Poi quel vincolo è caduto.
E così ora da Milano a Bari, passando per Bologna, Roma e Napoli, nei
prossimi giorni centinaia di aspiranti medici si presenteranno nelle
segreterie per l’immatricolazione. Ma poi dove frequenteranno le lezioni?
Le aule sono organizzate sulla base dei numeri programmati. Decine di
studenti in più costringeranno gli atenei a dividere i corsi o utilizzare
altri spazi, magari presi in affitto.
Del resto non si possono ammassare i futuri dottori in pochi metri
quadrati. Non lo chiede soltanto il buonsenso, ma anche lo standard
minimo che prevede per ogni matricola almeno quattro metri cubi di
«spazio» a disposizione. A cui si aggiunge l’«indice di affollamento»:
nelle aule deve essere di 1,5 metri quadrati per ogni ragazzo.
Leonard Berberi
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L’Unione Sarda 10 ott. ’14
SANITÀ, LA RIFORMA APPROVATA IN COMMISSIONE
La sesta Commissione del Consiglio regionale ha approvato la proposta di
legge 71 sulla riforma del sistema sanitario. Presentata dal
centrosinistra, primo firmatario Pietro Cocco, è passata nonostante il
voto contrario della minoranza e due astensioni tra le fila della
maggioranza (Roberto Desini del Centro Democratico e Augusto Cherchi del
Partito dei Sardi). Il provvedimento introduce importanti novità nel
sistema della salute pubblica: a) la creazione della Centrale regionale
di committenza che consentirà di razionalizzare la spesa sanitaria e di
standardizzare la domanda delle Asl nei confronti dei fornitori; b)
l'istituzione dell'Agenzia regionale per le emergenze e le urgenze che
avrà autonomia patrimoniale e gestionale e svolgerà i compiti attualmente
in capo alle centrali operative del 118; c) la nuova disciplina dei
distretti socio-sanitari che saranno ridisegnati tenendo conto della
scomparsa delle province; d) il rafforzamento dei servizi nel territorio
con la costituzione delle Case della salute (destinate a raccogliere in
un unico spazio l'offerta extraospedaliera integrata con il servizio
sociale) e gli Ospedali di comunità (per le cure ai pazienti che non
abbiano necessità di ricovero in strutture per acuti). La proposta di
legge dovrà ottenere adesso il via libera definitivo dal Consiglio
regionale. Il testo entrerà in Aula nell'ultima decade di ottobre.
Soddisfatto il presidente della Commissione Sanità Raimondo Perra (Psi):
«Si tratta di un passo molto importante per ridisegnare il sistema
sanitario isolano. C'è la necessità di razionalizzare la spesa, ormai
fuori controllo, delle Asl. Il disavanzo, nell'ultimo biennio, è di circa
mezzo miliardo di euro». «È una finta riforma, concepita per moltiplicare
e occupare le poltrone», replica Pietro Pittalis, capogruppo di Forza
Italia. «Dalla Commissione esce un flop, che moltiplica i centri di
costo, che è stato criticato da tutte le parti sociali audite e che ha
visto perfino l'astensione di due partiti della maggioranza. La
maggioranza non va oltre una pseudoriforma, un costoso abito cucito su
misura per i partiti e le correnti».
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L’Unione Sarda 10 ott. ’14
SCLEROSI MULTIPLA LA BATTAGLIA DELLA SARDEGNA
La Sardegna è in prima linea nella battaglia contro la sclerosi multipla.
E non potrebbe essere altrimenti visto che nell'Isola il numero dei casi
è più che doppio rispetto alla media italiana. Alla vigilia del congresso
nazionale dei Neurologi, in programma a Cagliari da domani al 14 ottobre,
la professoressa Maria Giovanna Marrosu, ordinario di Neurologia
dell'ateneo cagliaritano e direttore del Centro Sclerosi Multipla
dell'ospedale Binaghi di Cagliari analizza i dati regionali e anticipa le
strategie terapeutiche del futuro. «L'incidenza della sclerosi multipla
in Sardegna è stimata fra 3,4 e 6,8 casi ogni anno per centomila abitanti
- spiega la professoressa -, attualmente si stimano quindi fra 150 e 210
casi ogni centomila abitanti. La variabilità dei dati riflette soltanto
le diverse epoche di studio e i differenti territori presi in esame». In
assenza di una mappatura regionale completa, gli studiosi hanno notato un
picco di casi in zone specifiche. «L'incidenza più elevata è stata
riscontrata nel Sulcis Iglesiente - spiega ancora la neurologa -, in uno
studio più dettagliato abbiamo anche evidenziato l'esistenza di aree
circoscritte, più suscettibili di altre alla malattia, come quella del
paese di Domusnovas, mentre nell'Isola di San Pietro l'incidenza è
inferiore alle medie. Queste discrepanze ci hanno spinto a intraprendere
uno studio in collaborazione con alcuni geologi per la ricerca di
un'eventuale responsabilità degli inquinanti ambientali». Al di là dei
casi particolari, tutta la Sardegna registra un'incidenza superiore alla
media nazionale. Lo studio sui residenti potrebbe rivelarsi utile
all'individuazione dei fattori scatenanti. «Le cause dell'elevata
prevalenza della sclerosi multipla nella popolazione sarda non sono
ancora chiare - conferma la specialista -, è certo tuttavia che il
particolare assetto genetico dei sardi giochi un ruolo fondamentale. Dati
recenti su altre popolazioni mostrano che la predisposizione è legata a
una molteplicità di geni che tendono ad attivare le risposte del sistema
immunitario nei confronti di stimoli esterni». Il Dna dei sardi si
conferma unico. Nel bene e nel male. «La popolazione sarda è arricchita
da numerose varianti genetiche - prosegue la Marrosu -, questo potrebbe
essere il meccanismo chiave alla base della malattia. Non dobbiamo
pensare a “geni cattivi”, ma a un'interconnessione fra questi e
l'ambiente. Tra i fattori ambientali maggiormente studiati in questa
interazione deleteria ci sono la vitamina D, la cui carenza sembra avere
un ruolo importante nello scatenamento della patologia, il virus della
mononucleosi, la dieta eccessivamente ricca di sale, il fumo o altri
ossidanti naturali». Benché il traguardo di una cura definitiva sia
lontano, il contributo della ricerca ha garantito nel frattempo ai
pazienti una qualità di vita migliore del passato. «Molti dei farmaci che
abbiamo a disposizione riescono, se utilizzati tempestivamente, a
rallentare il decorso della malattia, con il risultato di allontanare nel
tempo la disabilità neurologica conseguente al processo di degenerazione.
Il nostro obiettivo rimane il trattamento precoce della patologia con il
miglior farmaco possibile e con i minori effetti collaterali,
fondamentali per la qualità di vita degli ammalati. Il sogno di una cura
risolutiva esiste sempre nella mente di chi si impegna nelle ricerche
sulla sclerosi multipla, ma ancora non siamo in grado di dire se e quando
questa avverrà». Luca Mascia
UNA DIAGNOSI PRECOCE MIGLIORA LA VITA
Tutti uniti contro la sclerosi multipla. Al congresso nazionale dei
neurologi di Cagliari si farà anche il punto sulla ricerca di una cura
definitiva alla malattia autoimmune che colpisce il sistema nervoso
centrale: nuovi protocolli e tecniche sperimentali arricchiscono
l'armamentario terapeutico a disposizione degli specialisti. Il
professore Gianluigi Mancardi, direttore del Dipartimento di Neuroscienze
dell'Università di Genova sottolinea il ruolo fondamentale di una
diagnosi precoce. «Riconoscere i sintomi iniziali è importante nel
trattare qualsiasi patologia - spiega Mancardi -, ma lo è ancora di più
nella sclerosi multipla per la quale le cure dei casi più gravi e
conclamati risultano ancora poco efficaci o inutili. Le tecniche
diagnostiche sono invece di grande aiuto: le risonanze magnetiche spinale
e cefalica ci aiutano ad avere valutazioni sempre più in anticipo e
accurate». Ma in venti anni di studi i passi avanti sono stati molti. Il
più importante è stato sicuramente fatto nella cultura dei cittadini, ora
maggiormente consapevoli e preparati nel riconoscere e affrontare subito
i sintomi. «L'Aism, l'associazione italiana sclerosi multipla, è tra le
organizzazioni più affermate del Paese - spiega il professore -, la
conoscenza e la tempestività nelle cure rimangono le nostre armi più
utili». Leandro Provinciali, professore di Neurologia e direttore della
Clinica Neurologica degli Ospedali Riuniti ad Ancona, sottolinea inoltre
i risultati raggiunti dai farmaci iniettabili per via endovenosa. «È una
terapia consolidata, ora anche meno traumatica per il paziente perché
somministrabile a giorni alterni e non più quotidianamente. Arriviamo al
congresso di Cagliari con più fiducia e speranza, consci che ci sia tanto
lavoro da fare, ma consapevoli anche che la qualità di vita dei pazienti
è stata significativamente migliorata grazie proprio al costante
contributo di specialisti e ricercatori clinici». Agire in fretta è
indispensabile, considerato anche la giovane età nella quale si manifesta
più frequentemente la sclerosi. La media all'esordio è 31 anni, il 5 per
cento ha un esordio prima dei 16 anni. Alcuni studi fatti proprio
nell'Isola dividono i malati in 68 per cento donne e 32 uomini. «Siamo
sulla strada giusta - sottolinea Mancardi - e oggi lo dimostrano le oltre
dieci terapie a nostra disposizione». «Basta saperle sceglierle con
consapevolezza - aggiunge Provinciali - tradizionali o nuove che siano,
avendo ben presenti benefici ed effetti collaterali». (l.m.)
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Il Sole24Ore 09 ott. ’14
BUCHI NEI CONTI DELLE ASL DAI MAXI-RISARCIMENTI
Sanità. Studio Bocconi: analizzati i database di quattro broker
Barbara Gobbi
I costi dei risarcimenti in sanità esplodono vertiginosamente e il
rischio-buco è in agguato per asl e ospedali. Per questo serve correre
rapidamente ai ripari costituendo riserve su dati certi, rischi calcolati
e prevedibili aumenti del contenzioso. Come oggi non avviene, o mai
abbastanza.
A svelare le minacce in agguato per i conti pubblici che arrivano dai
mega risarcimenti per danni sanitari è l'indagine - che sarà presentata
oggi a Milano - realizzata da Sda Bocconi e sponsorizzata da Aon, Marsh,
Trust Risk Group e Willis, i principali broker internazionali coinvolti
nella sanità italiana, che per la prima volta hanno messo a disposizione
i propri database. Obiettivo dichiarato della ricerca, che ha preso in
considerazione circa 40mila richieste di risarcimento rilevate su scala
nazionale nel periodo 2001-2012 (concentrate per lo più in Lombardia,
Liguria e Lazio), era di descrivere i trend dei sinistri nella sanità
pubblica e proporre simulazioni statistiche sui possibili scenari futuri.
Con una premessa: senza una valutazione ponderata dell'evoluzione dei
risarcimenti – come oggi non avviene – le scelte assicurative delle
singole regioni, come quella di «autoassicurarsi» - rischiano di far
esplodere i bilanci. Che spesso non appostano le riserve necessarie.
I dati parlano chiaro: per i decessi in area chirurgica, il trend stimato
dei risarcimenti è esploso: si aggira sul 32% tra il 2012 e il 2014,
passando da 469mila a 617mila euro, con una punta massima di oltre 2,3
milioni (+31%). Ma a dare l'allarme sono soprattutto i dati sugli importi
liquidati: su un totale di 15.859 eventi risarciti, la cifra massima è
stellare: oltre 5,3 milioni per le lesioni in area medica. Addirittura
più che per le cause legate al parto, tradizionale evento critico. Mentre
per la voce "decesso", l'importo massimo liquidato è stato di 1,3
milioni.
Ce n'è abbastanza per alzare la guardia: soprattutto in tempi di spending
review ininterrotta per la sanità, fare i conti anche per la Rca medica è
ormai un passaggio obbligato. Spiega Luca Franzi, di Aon: «Mentre il
richiamo mediatico sui costi crescenti del contenzioso e il conseguente
impatto sulle strategie del mercato assicurativo è stato una costante
degli ultimi anni, non si può dire altrettanto di una diretta
correlazione tra la programmazione finanziaria e il maggior controllo, se
non riduzione, dei costi connessi agli errori medici».
Gli effetti di una situazione non governata sono duplici: da una parte si
drenano (sprecano) risorse da destinare alla cura degli italiani,
dall'altra si mette pericolosamente a rischio la tenuta dei bilanci delle
aziende sanitarie. Per non dire dell'affanno dei broker nel coprire
specifici rischi (il top dei contenziosi è in ortopedia, ostetricia e
ginecologia), e delle logiche di breve respiro e prive di programmazione,
che inducono regioni e aziende a ragionare in termini di cassa e non di
competenza. Ma se le regioni fanno da sé e, in più, non accantonano
abbastanza fondi, chi pagherà - chiedono i broker - per risarcire danni,
anche potenzialmente catastrofici ma oggi del tutto sottovalutati?
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Corriere della Sera 06 ott. ’14
TUTTI GLI SPRECHI IN OSPEDALE
Il Cardarelli di Napoli paga per i servizi di pulizia oltre il doppio del
Sant’Orsola di Bologna Le disparità in un comparto che vale 50 miliardi
all’anno. I risparmi possibili uniformando i costi
Chissà se il Cardarelli di Napoli è davvero più pulito del Sant’Orsola di
Bologna. Le camere dei pazienti, i bagni e i corridoi dovrebbero essere
impeccabili. I costi per la pulizia dell’ospedale napoletano sono più del
doppio rispetto a quelli emiliani e rappresentano il record a livello
nazionale: 17.583 mila euro per posto letto contro i 6.518 del
Sant’Orsola. La media è di 7.957 euro. Magari al De Lellis di Catanzaro
salvano i malati per telefono, visto che la spesa per le utenze
telefoniche è il triplo di altri ospedali italiani (2.782 euro contro 910
a posto letto). E com’è possibile che tra il Careggi di Firenze e il
Niguarda di Milano — a parità di dimensioni — ci sia una differenza di
dieci volte per l’elettricità (6.737 euro contro 604 a posto letto)?
Dall’elaborazione degli ultimi dati disponibili del ministero della
Salute pubblicati online sull’attività economico-sanitaria (2011) emerge
una fotografia su possibili sprechi e inefficienze. Di quanti soldi ha
bisogno ogni anno un ospedale per sopravvivere? Basta dividere i costi
messi a bilancio con i posti letto per avere risultati sorprendenti. Le
cure mediche offerte ai malati sono le stesse, ma la spesa è enormemente
differente tra un ospedale e l’altro. All’Umberto I di Roma sono
necessari più di 500 mila euro per ogni letto utilizzato, mentre al San
Matteo di Pavia ne bastano 380 mila. Per la spesa di medici e infermieri
(tra dipendenti, universitari e precari) il Policlinico Giaccone di
Palermo sopporta un costo di 182 mila euro per ciascun letto contro i 130
mila dell’ospedale universitario di Parma.
In gioco ci sono soldi pubblici. La spesa degli ospedali vale più di 50
miliardi l’anno (sui 112 complessivi). E sapere come vengono usati è
fondamentale. Per il governo Renzi a caccia di 20 miliardi per la manovra
2015 i tagli alla Sanità sono l’obiettivo numero 1. Ma i governatori sono
insorti dichiarando che si mette a rischio la tenuta del servizio
sanitario nazionale e quindi la salute dei cittadini. Bloomberg sembra
dargli ragione: per il network mondiale d’informazione finanziaria,
l’Italia è il terzo sistema sanitario più efficiente al mondo (preceduta
solo da Singapore e Hong Kong). Chi ha ragione? È possibile ridurre i
costi senza intaccare la qualità delle cure?
Tutti i numeri sono da prendere con le molle. L’obiettivo non è stilare
classifiche (sempre opinabili) tra spendaccioni e virtuosi. Le enormi
disparità di spesa fanno capire, però, che troppo spesso ci sono costi
non collegati strettamente alla cura dei malati. Qui dentro si nasconde
un tesoretto. I risparmi possibili. E le cifre in ballo sono da capogiro.
La differenza tra ospedali obbliga a una riflessione. Se fosse possibile
all’Umberto I spendere per posto letto quanto il San Matteo di Pavia
(entrambi storici policlinici universitari) l’ospedale romano ridurrebbe
le uscite di 137 milioni di euro l’anno (un quarto del bilancio).
I dati sono stati analizzati con l’aiuto del Centro studi sanità pubblica
dell’UniversitàBicocca di Milano, insieme al fondatore Giancarlo Cesana e
al ricercatore Achille Lanzarini. Numeri, tabelle, statistiche. È un mare
magnum.Anche i più consolidati luoghi comuni sull’efficienza del Nord
vengono messi in dubbio. L’ospedale universitario di Udine (dov’è in
corso un piano di tagli contro un buco da 10 milioni) costa 170 mila euro
in più a posto letto rispetto al suo omologo di Messina. Nella stessa
Sardegna il Brotzu di Cagliari spende per tecnici, amministrativi e, in
generale, personale non sanitario il triplo a posto letto rispetto
all’ospedale universitario di Sassari (34 mila euro contro 11 mila). Per
medici e infermieri al San Giovanni/Addolorata di Roma la spesa per posto
letto è di 172 mila euro contro i 140 mila di Padova, ma lo stipendio del
personale pubblico è uguale in tutt’Italia. La differenza è spiegabile,
dunque, solo con un diverso numero di lavoratori in corsia: ma ne ha
troppi il San Giovanni/Addolorata o troppo pochi Padova? Un interrogativo
simile nasce se si butta un occhio ai giorni di ricovero: nella Chirurgia
generale del San Giovanni/Addolorata la degenza media è 11 giorni contro
i 7 di Padova. Un caso?
Una cosa è certa: i costi della sanità sono un caos. E per cambiare,
forse, non servono tagli lineari che penalizzano tutti allo stesso modo,
ma manager capaci di individuare le spese improduttive e di riorganizzare
l’attività. Premiando i medici e gli infermieri più bravi. E senza
investimenti è dura. I costi bassi dell’energia di Niguarda? Sono
iniziati con un investimento lungimirante di 22 milioni per un
cogeneratore.
SimonaRavizza
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L’Unione Sarda 07 ott. ’14
AOB: QUANTO COSTA IL BROTZU
Spese per il personale sopra la media nazionale
Spende più della media per il personale ma, in generale, il Brotzu è fra
gli ospedali italiani virtuosi: un posto letto costa il 6 per cento in
meno della media nazionale. I dati del ministero della Salute non sono
recentissimi (2011); ricavati dai bilanci, elaborati dal Centro studi
sanità pubblica dell'università Bicocca di Milano e pubblicati ieri dal
Corriere della Sera , scattano una fotografia del caos contabile degli
ospedali italiani. C'è chi per le pulizie spende fortune (il Cardarelli
di Napoli: in un anno 17.583 euro a posto letto utilizzato) e chi
pochissimo: il Brotzu è il più economico, con appena 3.504 euro a posto
letto, meno della metà della media nazionale. Variazioni altrettanto
clamorose sui capitoli più vari: dalle spese telefoniche a quelle per
l'elettricità. Il più grande ospedale sardo ne esce, in generale, bene.
Non solo per i soldi: anche la degenza media ordinaria in chirurgia è più
bassa della media nazionale. Ma accanto ai dati positivi ce ne sono anche
di negativi. Per esempio, il Brotzu spede per il personale sanitario
181.521 euro a posto letto utilizzato, l'11 per cento in più della media
nazionale; le cliniche universitarie di Sassari, per dire, ne spendono
solo 126.189. E tanto per alimentare confronti fra Capo di Sopra e Capo
di Sotto, per il personale non sanitario (tecnici e amministrativi)
Cagliari spende 34 mila euro, Sassari solo 11 mila. IL MANAGER
L'accostamento non piace ad Antonio Garau, direttore generale del Brotzu:
«I raffronti - dice - andrebbero fatti tra aziende omogenee: non è
corretto raffrontare i costi di un'azienda ad alta specializzazione e di
rilievo nazionale, come il Brotzu, con quelli di ospedali differenti. Noi
non solo abbiamo il doppio del volume d'affari dell'azienda ospedaliero-
universitaria di Sassari ma facciamo i trapianti e altre attività
complesse. Se raffrontiamo i nostri costi con il Careggi (di Firenze,
ndr) , che fa le nostre stesse attività, vedremo che noi spendiamo 370
mila euro all'anno a posto letto contro i loro 616 mila. Lo stesso
discorso vale per l'Umberto I di Roma che costa circa 512 mila euro a
posto letto. Quindi significa che stiamo lavorando bene: questo è un
ospedale che funziona e ha costi inferiori a quelli di strutture affini.
Anche per questo avrebbe bisogno di maggiore attenzione da parte della
Regione». Come commenta, il general manager, il dato sui costi per il
personale sanitario? «Spendiamo l'11 per cento in più della media -
ammette - ma anche qui il raffronto andrebbe fatto con aziende affini. A
mio avviso, però, su questo dato c'è un'incongruenza, perché il personale
sanitario delle aziende universitarie è pagato in parte con fondi
universitari (per l'attività di ricerca) e in parte dalla Regione (per
l'attività ospedaliera). Secondo me nella ricerca in questione è stata
considerata solo una di queste voci». IL SINDACALISTA Perplesso anche
Attilio Carta (referente Cisl nell'ospedale): «I numeri, messi così, non
evidenziano gli sprechi: bisogna vedere a che servizi corrispondono quei
costi. Per esempio, il Brotzu spende poco per le pulizie, è vero, ma poi
l'ospedale è pulito? Bisogna verificare voce per voce. Il costo del
personale sanitario è più alto della media: vuol dire che c'è una
migliore assistenza o un numero troppo elevato di dipendenti rispetto ai
pazienti? Al Brotzu ci sono molte terapie intensive, dove il rapporto
pazienti/personale dev'essere di uno a uno; in altri ospedali ce ne sono
di meno. Resta la forte disparità di costi fra ospedali: l'idea di
accorpare, creare una centrale unica per i costi, va nella direzione
giusta». Marco Noce
AOB: ARRU: VERIFICARE IL RAPPORTO FRA QUALITÀ E PREZZI»
Luigi Arru, assessore regionale alla Sanità, ha visto i dati sugli
ospedali. «Verificheremo i numeri», fa sapere. Che è giustappunto lo
scopo del neonato Comitato permanente per il monitoraggio della spesa e
dei servizi nella sanità, di cui faranno parte un delegato della
Presidenza della Regione, uno dell'assessorato alla Programmazione e tre
esperti di bilanci: «L'obiettivo della giunta regionale - spiega Arru - è
di creare un sistema, una banca dati per confrontare le buone pratiche
degli ospedali sardi. L'istituzione di un tavolo di monitoraggio non
serve solo al raggiungimento dei Lea (livelli essenziali di assistenza,
ndr) ma anche a tenere sotto controllo il rapporto fra la qualità e il
prezzo delle prestazioni del sistema sanitario regionale. Avere i dati è
un passo fondamentale per il buon governo della sanità basato su costi di
gestione adeguati, senza dover sempre ragionare con la logica dei tagli».
E però di tagli, in Regione, si parla. Qualche giorno fa, il presidente
Francesco Pigliaru, ha detto che la giunta è interessata a ridurre
«significativamente» il numero delle Aziende sanitarie locali. La
proposta di riforma sanitaria è all'esame del Consiglio regionale, che
potrebbe dare il via libera al commissariamento delle Asl attuali, Brotzu
incluso. Su un altro piano si ipotizza la creazione di un'Agenzia
dell'emergenza-urgenza, cui farebbe capo il 118 su tutta l'isola. Per
livellare le spese (sanitarie, ma non solo) si pensa a una nuova
piattaforma telematica per gli acquisti centralizzati di beni e servizi e
degli appalti della pubblica amministrazione. (m. n.)
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L’Unione Sarda 09 ott. ’14
AOB:IL CASO UFFICIO TECNICO DEL BROTZU
L'assessore regionale alla Sanità blocchi immediatamente la delibera con
cui il direttore generale del Brotzu Antonio Garau ha disposto che le
manutenzioni dell'ospedale dovranno essere affidate a una ditta esterna
anziché all'Ufficio tecnico: lo chiede, in un'interrogazione urgente, il
consigliere regionale Lorenzo Cozzolino (Pd). L'interrogazione, che sarà
depositata questa mattina, è indirizzata a Luigi Arru e chiede anche che
Garau venga richiamato al rispetto delle disposizioni della Giunta
regionale che, nell'attesa dell'approvazione della legge che dovrebbe
sancire il commissariamento di tutte le Asl, ha intimato ai direttori
generali di limitarsi all'ordinaria amministrazione. Cosa che al Brotzu
non succederebbe: «Il direttore generale, sottraendo le manutenzioni
all'Ufficio tecnico per esternalizzarle, sta prendendo decisioni che
vanno ben al di là dell'ambito dell'ordinaria amministrazione», sostiene
Cozzolino: «Il passo segue uno scientifico smantellamento, che ha portato
l'organico da 80 a 42 persone attraverso una riqualificazione dei
tecnici, trasformati in operatori socio-sanitari o anestesisti».
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L’Unione Sarda 09 ott. ’14
ASL4: LANUSEI: TRASFERTE SALATE IN CORSIA DAL BROTZU
LANUSEI. Mancano medici: alla Asl i sostituti costano 870 euro ogni 12
ore Volano via 60 mila euro per gli anestesisti del Brotzu In mancanza di
un medico titolare, all'ospedale di Lanusei arrivano i sostituti e non è
un'operazione a basso costo. Per le trasferte estive degli anestesisti la
Asl ha appena speso più di sessantamila euro. L'autorizzazione al
pagamento degli undici medici che da maggio ad agosto hanno coperto i
turni nel settore di anestesia e rianimazione del Nostra Signora della
Mercede è arrivata con la delibera firmata lo scorso 3 ottobre. In
quattro mesi i camici bianchi, provenienti dall'azienda ospedaliera
Brotzu di Cagliari, hanno garantito consulenza sanitaria per 876 ore
spalmate in 73 accessi. LE TARIFFE In base alla convenzione rinnovata il
29 maggio scorso, i compensi sono così stabiliti: ogni ora viene
retribuita con sessanta euro e ogni accesso con altri 150. Vale a dire
che se un medico del Brotzu copre il turno da dodici ore lavorando dalla
otto di sera alle otto del mattino, la Asl dovrà pagare 870 euro. Il
problema è comune ad altri reparti del presidio ospedaliero ogliastrino:
Lanusei non piace ai medici in cerca di nuova occupazione. In molti casi
i concorsi vanno deserti, qualora non fosse così, i professionisti
accettano l'incarico e appena ne hanno la possibilità chiedono di essere
trasferiti. MEDICI CON LA VALIGIA L'ultima pratica relativa alla mobilità
di un anestesista assunto dal Nostra Signora della Mercede è di due
settimane fa, direzione: Cagliari. La carenza d'organico davanti
all'esigenza di garantire assistenza ai pazienti, però, non può essere
tollerata. Ecco perché proprio come già capitato per i cardiologi, la Asl
deve ricorrere ai dottori di altre aziende dell'Isola che sono disposti a
lavorare qui, ma solo a condizione di poter ripartire alla fine del
turno. Un'esperienza saltuaria e ben remunerata, nulla di più. SÌ AL
BILANCIO 2013 La spesa incide non poco sul bilancio aziendale che, per il
2013 è andato in pareggio fermandosi a 93 milioni di euro. L'approvazione
da parte della conferenza dei sindaci è arrivata martedì mattina, durante
l'incontro che si svolto nella sala della Provincia a Lanusei. A
illustrare i capitolati del bilancio e gli investimenti futuri è stato il
manager Francesco Pintus. Tra gli obiettivi del piano aziendale c'è
quello di realizzare il reparto oncologico, ristrutturare la Medicina,
dare un primariato al Pronto soccorso e rivedere le destinazioni della
case della salute che si trovano sul territorio. Il sì dei sindaci è
arrivato all'unanimità. EMODINAMICA La sanità in Ogliastra sarà anche
oggi al centro dell'attenzione. Questa mattina nell'assessorato regionale
diretto da Luigi Arru verranno discussi i termini per l'apertura della
sala di Emodinamica. All'incontro parteciperanno il consigliere regionale
Pd Franco Sabatini, il primario di Chirurgia dell'ospedale di Lanusei,
Carlo Balloi, e il primario del San Giovanni di Dio, Raimondo Pirisi, che
dovrebbe coordinare l'équipe che lavorerà nella nuova sala.
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Corriere della Sera 07 ott. ’14
ASL1: SASSARI I DEBITI GONFIATI DELLA SANITÀ
di Gian Antonio Stella
Un bilancio quasi sano? Ma per l’amor di Dio! Meglio un buco, una
voragine, un abisso. Più profondo possibile. «Tanto paga la Regione»
La direttrice dell’Asl cacciata perché non voleva truccare i conti Per i
pm il commissario dell’Azienda di Sassari chiese di creare il buco La sua
mail: «I soldi della Regione vanno a chi è in perdita, non in pareggio»
Era questa, dice un’inchiesta della magistratura, la filosofia dell’Asl
di Sassari. Una storia abnorme e paradossale. Che aiuta a capire perché
la nostra Sanità, come spiegava ieri l’inchiesta di Simona Ravizza, sia
sommersa dai debiti. Dice tutto una e-mail finita nelle tremila pagine
del fascicolo giudiziario. Dove Marcello Giannico, messo lì come
commissario dall’allora governatore berlusconiano Ugo Cappellacci, scrive
al direttore amministrativo dell’Asl Angela Cavazzuti (che denuncerà
tutto ai giudici) raccomandandole come priorità «l’approvazione del
bilancio 2010 con le rettifiche che le ho suggerito. Le ricordo che in
Regione ci sono 120 milioni LIQUIDI disponibili per ripianare le perdite
del 2010 di tutte le Asl sarde. Le sottolineo che questi denari vanno
alle Aziende che hanno prodotto perdite e non pareggi di bilancio».
Traduzione: quel bilancio improntato al virtuoso contenimento dei costi
non va bene perché è troppo poco in rosso.
Ma come: il pareggio nei conti non è forse l’obiettivo di ogni buon
amministratore dalla Patagonia alla Kamchatka? Il bilancio dell’Asl di
Sassari, che serve 336.632 cittadini di 66 Comuni sparsi su un territorio
grande come tutto il Molise, aveva chiuso quel 2010 con 877 mila euro di
passivo su un «fatturato» di oltre mezzo miliardo: esattamente 528
milioni e 567 mila. Per capirci: uno sforamento dell’1,16%. Ventisei
volte più basso di quello dell’anno prima. Oro colato, per la Sardegna
che spende per la Sanità più o meno tre miliardi l’anno, la metà del
proprio bilancio, e sfora ogni anno i budget di previsione di tre o
quattrocento milioni. Buchi ripianati dalla Regione, per anni, senza
troppe puzze sotto il naso.
Il guaio è che, da qualche tempo, le nuove norme dicono che se i
direttori generali ottengono un risultato peggiore rispetto all’anno
prima, non possono essere confermati. Un problema serio, per il
commissario Giannico arrivato nel gennaio 2011: come poteva far meglio
del predecessore, esautorato secondo i più maliziosi perché politicamente
poco «affidabile»? L’unica soluzione, accusa il sostituto procuratore
Gianni Caria, che ha chiuso le indagini preliminari chiedendo il rinvio a
giudizio di Marcello Giannico e dei quattro suoi collaboratori
principali, era far figurare peggiore il bilancio 2010.
Bilancio che, tra le proteste della direttrice amministrativa, fu
riaperto (per legge doveva esser chiuso al massimo entro il 30 giugno
2011) e stravolto per arrivare, aggiungi questo e aggiungi quello (ad
esempio 7 milioni di debiti nei confronti dei dipendenti mai reclamati né
da loro né dai sindacati) a 11 milioni e mezzo di buco. Era il 3 novembre
2011.
Macché, il «ritocco» non bastava. Cinque giorni dopo Giannico riceveva da
Gian Michele Cappai, il responsabile del Servizio Programmazione preso
infischiandosene delle contestazioni interne (un documento-oroscopo
sindacale era arrivato a predire in anticipo le generalità dell’assunto:
«le sue iniziali saranno G.M.C.»), una e-mail preoccupatissima: «Dal
preconsuntivo 2011 emerge “una perdita tendenziale pesante”». Traduzione:
il primo intervento per peggiorare il bilancio 2010 non bastava davanti
al resoconto 2011 che si profilava. E che avrebbe visto un buco di 13
milioni.
Che fare? I vertici dell’Asl sassarese decidono un nuovo intervento sul
bilancio chiuso e riaperto. Il baratro nei conti 2010 viene inabissato
fino a 18 milioni e mezzo. Ventuno volte più profondo del modesto «rosso»
iniziale. In realtà, scriverà La Nuova Sardegna , «gonfiare i debiti» fu
per la Procura «un gioco di prestigio contabile per consentire a Giannico
di evitare la revoca dell’incarico. E siccome Angela Cavazzuti si era
messa di traverso, ostacolando l’operazione, sempre secondo questa
ipotesi accusatoria Marcello Giannico le creò prima il vuoto intorno e
nel 2012 la licenziò in tronco».
Di più: il licenziamento della dirigente che rifiutava di sottoscrivere i
giochi di prestigio fu corredato dalla diffusione di motivazioni così
«ingiuriose» da configurare, dice il magistrato, il reato di diffamazione
aggravata. Col risultato che il commissario pidiellino rimasto al suo
posto nonostante la vittoria del centrosinistra alle ultime regionali e
nonostante le indagini sul bilancio, si ritrova con la richiesta di una
imputazione in più.
Come andrà a finire? Lo dirà, se ci sarà, il processo. E fino
all’eventuale condanna, si capisce, Marcello Giannico e i suoi sodali
(che grazie a quel lifting ai conti son riusciti a farsi dare l’anno dopo
dalla Regione 40 milioni in più e addirittura 47 nel 2012 fino a far
segnare un miracoloso sia pur minimo attivo di bilancio) sono
innocentissimi. Auguri.
Vada come vada, resta quella e-mail strabiliante che chiede alla
funzionaria ribelle di ritoccare i numeri perché i soldi della Regione
«vanno alle Aziende che hanno prodotto perdite e non pareggi di
bilancio». Per non dire di una e-mail di Gianfranco Manca, responsabile
del Bilancio, al commissario che l’aveva scelto: «Come sai le rettifiche
non saranno prese bene dalla Cavazzuti che farà di tutto per crearmi
problemi. Il fatto di non essere un esperto di bilancio non sarà
certamente un vantaggio per l’espletamento dell’incarico». Confessione
ribadita nell’interrogatorio giudiziario: «Non avevo prima esperienza nel
settore bilancio...». L’avevano scelto apposta per gestire mezzo miliardo
di euro l’anno...
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L’Unione Sarda 11 ott. ’14
ASL7: TSUNAMI SULLE PROMOZIONI ASL: RECUPERARE I SOLDI
Il manager: i rappresentanti sindacali ora si dimettano. Cgil, Cisl, Uil:
nessun dialogo
CARBONIA Lo sciopero incombe, eppure il prelievo dalle buste paga Asl
sarebbe legittimo. A dirlo è il Tribunale di Cagliari, sezione lavoro,
che ha respinto il ricorso presentato da 50 dipendenti contro la
decisione della direzione generale della Sanità sulcitana di recuperare i
soldi erogati per le cosiddette “promozioni orizzontali”. Giovedì 2
ottobre, il giudice monocratico Michela Coinu ha emesso la sentenza che,
in sintesi, boccia gli accordi sindacali del 2005 e del 2008 («per
violazione delle norme di legge e del contratto nazionale») e che
fruttarono indennità ai dipendenti Asl per un totale di 8 milioni di euro
in otto anni circa. Soldi che la stessa Corte dei conti ha detto devono
rientrare. Non solo. Il Tribunale ha anche condannato i ricorrenti al
rimborso delle spese legali: circa 260 euro per ognuno. IL MANAGER Per
il manager Maurizio Calamida un importante risultato proprio mentre è in
atto una vertenza sindacale accesissima che ha portato alla proclamazione
di una giornata di sciopero. Mercoledì prossimo, infatti, dal prefetto di
Cagliari si incontreranno direzione Asl e sindacati per trovare una
soluzione e tentare di far rientrare la protesta. Missione impossibile.
Così infatti il manager: «È auspicabile che ora i sindacati, di fronte a
una sentenza di merito del Tribunale, desistano dal ritenere “indebite e
illegittime” le decurtazioni dallo stipendio». Poi punta l'artiglieria
pesante contro Cgil, Cisl e Uil «per le continue e ossessive richieste di
dimissioni, licenziamento e decadenza» del management aziendale Asl. «Non
sarà il caso, una volta tanto, che siano i rappresentanti sindacali a
dimettersi dal loro ruolo, viste le responsabilità che hanno avuto nella
vicenda e visti i risultati delle loro azioni di questi ultimi anni?». I
SINDACATI Non proprio un viatico al raffreddamento dei conflitti. Efisio
Aresti, segretario generale Uil ribadisce: «Quel ricorso riguarda
un'azione privata fatta autonomamente da una cinquantina di dipendenti.
Non tocca il sindacato». Poi al manager: «Per l'ennesima volta, dimostra
di non aver a cuore le vicende dei lavoratori». Sugli accordi del 2005 e
2008 «si è proceduto come si è fatto in tutte le Asl dell'Isola. Ma
evidentemente i lavoratori dell'Asl 7 sono di serie B». Così anche
Antonio Congiu, Cgil: «Il manager non poteva arrogarsi il diritto di fare
quello che ha fatto. Per il recupero delle somme si sarebbe dovuto
rivolgere a un giudice». Spiega: «L'azione del sindacato non ha avuto
aspetti negativi. La responsabilità sui due contratti del 2005 e 2008
sono da attribuire esclusivamente al management di quegli anni. Non per
nulla - conclude - la Corte dei conti si è rivolta a loro e non al
sindacato». Ma è sui rapporti con l'attuale direttore generale che Congiu
punta il dito: «Con questo manager - conclude - nessun dialogo». Insomma
il passaggio in Prefettura sarà poco meno di un atto formale. «Se fosse
come dice Calamida - ribadisce - non si capisce come mai la Giustizia
contabile chiede i soldi indietro alla direzione Asl, manager e dirigenti
di quegli anni». E sull'attacco ai sindacati, Fallo taglia corto: «Questa
nota certifica ancora una volta perché questo dirigente non può più stare
qui». LA DISPUTA Il caso delle fasce di avanzamento (promozioni a
pioggia) è scoppiato pesantemente ai primi mesi dello scorso anno. La
Corte dei conti con in campo anche la Guardia di finanza ha ribadito che
quel tesoretto di circa 8 milioni di euro va restituito allo Stato.
Calamida a differenza dei suoi predecessori fu irremovibile: «Quei soldi
vanno recuperati. Io di certo non li pago», dichiarò in varie occasioni.
Al momento è rientrato meno di un milione di euro. Ne restano altri
sette. Roberto Ripa
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La Stampa 07 Ott. ’14
NEURONI ARRUGGINITI, ECCO COME TENERLI IN FORMA
Gli studi sulle tecniche per testare la perdita della memoria
VITTORIO SABADIN
Raggiunta una certa età, si capisce in fretta che chiunque elogi la
bellezza della vecchiaia non sa quello che dice. Le giunture del corpo
scricchiolano sempre di più, la vista diminuisce e soprattutto si
comincia a non ricordare dove si sono appena posati gli occhiali o le
chiavi di casa. André Aleman, professore di neuropsichiatria cognitiva
all'Università di Groningen, ha scritto un libro di grande successo («Our
Ageing Brain», Il nostro stagionato cervello) per tranquillizzare tutti.
La perdita di memoria non è irreversibile e si può combattere con
facilità,
Aleman, alle persone che al supermercato non ricordano più che cosa
dovevano comprare o che non riescono a ritrovare la strada dove abita il
loro migliore amico, comincia col dire qualcosa di tranquillizzante: non
siete soli. Miliardi di altre persone al mondo hanno lo stesso problema e
se la situazione sembra solo peggiorare è perché nessuno vi ha spiegato
come affrontarla. Tanto per cominciare, non è vero che i neuroni del
cervello deperiscono unicamente nelle persone anziane. Il processo di
invecchiamento comincia già a vent'anni.
Una volta si pensava che i neuroni morissero e non venissero sostituiti.
Ora si è scoperto che invece si rimpiccioliscono, e che con il tempo
hanno più difficoltà a comunicare e interagire. Questo processo comincia
presto e va avanti per tutta la vita. Il volume del cervello, tra ì 30 e
i 90 anni, si riduce del 15 per cento, anche se ogni giorno, a qualunque
età, vengono prodotti migliaia di nuovi neuroni. Questa capacità di
rinnovamento diminuisce però progressivamente e non garantisce più alla
memoria di funzionare. Non è che le cose che dovremmo ricordare non siano
più nel cervello, è che si fa più fatica a trovarle.
Il professor Aleman cita esperimenti nei quali si è chiesto a un
campione di persone giovani e anziane di ricordare qualcosa. I giovani
hanno risposto subito, gli anziani no. Quando però agli anziani è stato
lasciato un po' più di tempo per pensarci, quasi tutti sono
riusciti a ricordare. Il problema non è che la memoria scompare, ma che
le connessioni fra i vari neuroni, la cosiddetta materia grigia, sono un
po' arrugginite e funzionano meno bene.
Uno dei problemi delle persone nella terza età è la difficoltà a
concentrarsi su qualcosa. Si è continuamente distratti dai rumori e da
quello che fanno gli altri intorno, e questo spiega perché sembri così
difficile venire a capo delle istruzioni di un nuovo elettrodomestico.
Sono facilmente comprensibili, ma la mancanza di concentrazione fa
dimenticare la connessione tra il puntole il punto 2 e bisogna rileggere
tutto da capo.
Così, se sempre più spesso non si sa dove sono le chiavi dell'auto o si
dimenticano regolarmente il Pin del bancomat e la password del computer,
bisogna fare qualcosa per evitare che il prossimo stadio sia quello di
lasciare aperto il gas o di scordare di chiudere il rubinetto della
vasca. Il processo di invecchiamento del cervello non è né irreversibile
né ineluttabile. Aleman spiega che è anzi facile combatterlo, con un po'
di fantasia e di allenamento.
Ci sono tanti modi per ricordare le cose e bisogna considerare il
cervello come un muscolo, che ha bisogno di ossigeno, buona alimentazione
e quotidiani esercizi che lo tengano in forma e concentrato. E in ogni
caso, a una certa età, il cervello umano è molto ricco di quella che in
psicologia viene definita «intelligenza cristallizzata», la capacità di
giudicare le cose di oggi in base alle informazioni del passato. Si
chiama saggezza, ed è forse una delle poche cose davvero belle della
vecchiaia.
I consigli del neuropsichiatra
1. Portare l'orologio al contrario
Allena il cervello a uscire da una situazione nota (le ore 12 in alto, le
6 in basso) e gli fa interpretare informazioni non familiare.
2. Spezzettare
Un numero come, ad esempio, 349685421 può essere ricordato meglio
dividendolo in 349-685-421.
3. Creare immagini
Un Pin formato dalle cifre 2708 può essere ricordato pensando a un cigno
(2) nel parco, dove alcuni ragazzi giocano con un boomerang (7) altri a
pallone (0) intorno a un pupazzo di neve (8).
4. Usare gli acronimi
I sette vizi capitali? Si ricordano con le lettera della parola valigia.
Vanità (o superbia), Accidia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia, Avarizia.
5. Imparare parole nuove
Con l'età, la capacità discorsiva deperisce. È importante imparare parole
nuove ogni giorno e allenarsi a usarle nel contesto giusto.
6. Allenarsi alla concentrazione
Fissare una candela per cinque minuti al giorno, dimenticando tutto il
resto, aiuta a non perdere la capacità di concentrazione.
7. Stringere i pugni per 90 secondi
Stringere il destro se si memorizza qualcosa e poi il sinistro (per altri
90 secondi) una volta memorizzata, aiuta a ricordarla.
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L’Unione Sarda 07 ott. ’14
«L'HASHISH È LA MIA CURA»
Luciano Vacca: è illegale ma solo così riesco a dormire
Ascolta la notizia
«Undici anni fa ho scoperto di essere malato di sclerosi multipla. Ora mi
rivolgo agli spacciatori per procurarmi la marijuana. La cannabis mi
aiuta a dormire. Mi fa passare gli spasmi e i dolori alle gambe. In
Italia usarla, per finalità terapeutiche, non è legale. Ho paura che
qualche amico finisca nei guai per causa mia: spesso sono loro ad
acquistare la marijuana per me». Luciano Vacca, 40 anni, imprenditore
cagliaritano, dal divano osserva la sua compagna di ogni giorno: la sedia
a rotelle. «Viviamo insieme dal 2009», dice. Nonostante la malattia («Di
tipo progressivo primario, la più rara», precisa), Luciano sorride alla
vita. Ha una bella famiglia e tanti amici. Lavora dal soggiorno di casa,
riadattato a ufficio. Nel 2003 scopre di essere malato di sclerosi
multipla. Le gambe non rispondono agli impulsi del cervello. In pochi
mesi inizia a camminare male. Passano alcuni anni e perde l'uso delle
gambe. La malattia aggredisce anche un braccio. Luciano sa bene di non
poter guarire. Cortisone e interferone lo buttano giù. Chiede solo di
trascorrere le giornate senza dolori e spasmi. E di poter dormire qualche
ora di fila. Perché fa uso di marijuana? «Non esiste un medicinale che
possa bloccare la mia malattia. Lo so. Ma esistono delle sostanze per
alleviare i sintomi. La cannabis mi permette di dormire. Inoltre mi
blocca gli spasmi e i dolori alle gambe». Sa che non è legale? «Sono
costretto a recarmi nelle zone dello spaccio cagliaritano, come un
qualsiasi drogato. Spesso la mia situazione fisica me lo impedisce. Così
chiedo la cortesia a un amico. Ho sempre il timore che chi mi aiuta possa
essere denunciato o arrestato». I suoi familiari e parenti come l'hanno
presa? «Ci è voluto un po'. Poi hanno visto con i loro occhi gli effetti
benefici: da quel momento sono dalla mia parte». Esistono dei medicinali
a base di cannabis autorizzati? «Mi è stato prescritto uno spray a base
di cannabinoidi, il Sativex. È a carico del servizio sanitario regionale:
ma gli effetti collaterali sono devastanti. L'assessorato alla Sanità, un
anno fa, mi ha autorizzato a comprare, a mie spese, il Bedrocan:
infiorescenze essiccate di cannabis. Devo farlo arrivare dall'Olanda con
tempi lunghi e costi esorbitanti. Così ho deciso di procurarmi la
marijuana dagli spacciatori cagliaritani». Il ministero sembra
intenzionato a far coltivare la marijuana per fini terapeutici. È
fiducioso? «No. Ci sono troppi interessi delle case farmaceutiche». Che
cosa chiede? «Nulla. Per questo coltiverò una piantina in casa». Matteo
Vercelli
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Le Scienze 08 ott. ’14
CANNABIS, TUTTI I RISCHI PER LA SALUTE DEL CORPO E DEL CERVELLO
Cannabis, tutti i rischi per la salute del corpo e del cervello
Il consumo prolungato di cannabis espone a un maggior rischio di
patologie psichiatriche, come la schizofrenia o la psicosi. Lo ha
accertato uno studio che ha esaminato 20 anni di ricerche, rilevando
inoltre un maggior tasso di bronchiti croniche e un aumento del rischio
di infarto in età adulta e nei giovani con cardiopatie non diagnosticate.
I soggetti più a rischio di dipendenza e di conseguenze sanitarie sono
coloro che iniziano l'uso della sostanza nell'adolescenza. (red)
Il consumo di cannabis ha avuto un incremento notevole negli ultimi 20
anni e attualmente la sua diffusione tra adolescenti e giovani adulti
eguaglia quella del tabacco. Fortunatamente, anche la conoscenza degli
effetti fisici e psichici di questa sostanza psicotropa è aumentata di
pari passo. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Addiction” a firma
di Wayne Hall, dell'Universita del Queensland, in Australia, traccia un
quadro completo di queste conoscenze, grazie a una revisione di tutta la
letteratura scientifica sull'argomento pubblicata tra il 1993 e il 2013.
La prima distinzione in tema di effetti sanitari della cannabis è tra uso
occasionale e uso prolungato nel tempo. Nel primo caso, le prove
scientifiche indicano che la cannabis non provoca overdose fatali. La
mortalità che può seguire al suo uso è legata soprattutto alla guida di
veicoli: il rischio d'incidente infatti raddoppia se il guidatore è sotto
l'effetto della droga, e aumenta ancora di più se si associa all'abuso di
alcool.
Nel caso di un uso regolare di cannabis, invece, uno dei rischi è di
sviluppare dipendenza dalla sostanza, che secondo le statistiche riguarda
un consumatore su 10. La percentuale sale però a uno su sei per chi
inizia da adolescente. Inoltre, c'è una correlazione statistica con l'uso
di altre sostanze, anche se non è stato stabilito il nesso causale tra i
due tipi di abusi.
Cannabis, tutti i rischi per la salute del corpo e del cervello
Le prove scientifiche raccolte negli ultimi due decenni forniscono un
quadro abbastanza preciso e completo dei molti problemi sanitari legati
al consumo regolare di cannabis (© Curi Hyvrard/Corbis)
Molti studi in passato hanno riguardato il rischio di sintomi o disturbi
psichiatrici con l'uso regolare di cannabis, rischio che risulta
notevolmente incrementato e riguarda in particolare soggetti con una
storia familiare per questo tipo di disturbi: la sostanza, in pratica,
può rendere manifesta una malattia già geneticamente presente in forma
latente.
I più esposti, ancora una volta, sono coloro che iniziano il consumo di
cannabis nell'adolescenza: l'uso regolare in questa fase della vita
raddoppia il rischio di una futura diagnosi di schizofrenia o di sviluppo
di psicosi nell'età adulta. E anche in assenza di una vera e propria
patologia psichiatrica, il consumo regolare di cannabis da ragazzi può
determinare nella vita successiva un deficit cognitivo - il cui grado di
reversibilità non è noto - ed è correlato statisticamente a un minor
livello di scolarità, benché non sia dimostrato un rapporto di causa-
effetto.
Un altro legame studiato approfonditamente su migliaia di pazienti
riguarda il consumo di cannabis e i disturbi cardiovascolari. In una
ricerca durata quasi tre anni e condotta su circa 2000 pazienti, è stata
riscontrata una proporzionalità diretta tra frequenza del consumo di
cannabis e mortalità. In un altro studio su soggetti adulti colpiti da
infarto del miocardio, è stato osservato che il rischio d'infarto
quadruplica nell'ora successiva al consumo della sostanza. Un terzo
risultato riguarda invece i soggetti in giovane età, in cui la cannabis
può scatenare un infarto fatale in soggetti con problemi cardiaci fino a
quel momento non riconosciuti.
A soffrire è anche l'apparato respiratorio: è dimostrato infatti che i
fumatori di cannabis hanno un maggior rischio di sviluppare una bronchite
cronica, mentre non è chiaro se il maggior rischio di tumori polmonari,
riscontrato in alcuni studi, debba essere attribuito al fumo o in parte
anche alla cannabis. Un altro effetto significativo è emerso recentemente
per alcune forme di tumore dei testicoli, anche se si attendono nuovi
studi per ulteriori verifiche di questa correlazione.
Per quanto riguarda infine il fumo di cannabis, anche occasionale,
durante la gravidanza, è confermato che è associato statisticamente a una
lieve riduzione del peso del bambino, ed è quindi fortemente
sconsigliato.
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L’Unione Sarda 10 ott. ’14
Saggi Biografia del clinico cagliaritano: vicende personali e ricordi di
illustri colleghi
UGO CARCASSI, SESSANT'ANNI DI MEDICINA IN SARDEGNA
Sin da giovanissimo l'aspirazione di Ugo Carcassi era diventare medico.
In famiglia abbondavano musicisti, militari, bancari, ma lui sapeva che
prima o poi avrebbe indossato il camice bianco. «Questa aspirazione
derivava da un misto di sensazioni corporali e da precoci esigenze
cognitive. Come molti adolescenti del tempo ero afflitto dalle varie
malattie infettive... Successivamente anche dalla malaria. Avevo capito
che le febbri che comparivano con forti brividi erano, quasi sempre,
dovute alla puntura di zanzare che trasmettevano la malaria, mentre
quelle che si accompagnavano a profuse e continue sudorazioni erano
imputabili alla febbre maltese prodotta dall'infezione di un germe che io
avevo contratto per aver bevuto latte di vacca non sterilizzato».
BIOGRAFIA Queste riflessioni giovanili spingevano il ragazzo, negli anni
Trenta studente del liceo Azuni di Sassari, ad alimentare una innata
passione verso la medicina attraverso lo studio e la ricerca. Lo esaltava
l'idea di scoprire le malattie, trovare le medicine e le terapie adatte,
guarire i pazienti. Una passione che presto maturò negli studi
universitari. Dopo la guerra combattuta in prima linea nel deserto libico
con i carristi dell'Ariete, cominciò la professione con una carriera
inarrestabile, faticosa, ma anche ricca di successi. Medico condotto nei
paesi di una Sardegna ancora poverissima, reumatologo e internista,
docente universitario, ha insegnato nelle facoltà di Siena, Roma La
Sapienza e Cagliari dove per dieci anni è stato preside e anche direttore
della Clinica medica, membro di numerose società internazionali delle
varie specializzazioni. Oggi ad oltre novant'anni - non ama precisare
l'età - Ugo Carcassi si rivede com'era a quei tempi e ripercorre passo
passo le tappe di una vita sul filo dei ricordi. Una memoria di ferro e
una lucidità impressionante che gli permettono di continuare a fare il
medico, il ricercatore, il conferenziere e a scrivere saggi sui
personaggi della storia.
IL LIBRO A questo punto del lungo cammino ha pensato bene che era il
momento di raccogliere e mettere ordine tra gli innumerevoli ricordi per
raccontare la vita di “Un medico in Sardegna” in un volume di 185 pagine
edito dall'amico sassarese Carlo Delfino. Un'autobiografia anomala perché
in realtà non è solo la storia del cagliaritano Ugo Carcassi, dal sogno
liceale alla consacrazione scientifica a livello internazionale, ma è
anche il racconto di oltre sessant'anni di medicina nell'Isola. Un
racconto in prima persona di chi ha vissuto da protagonista eccezionali
scoperte (la lotta alla malaria, alla talassemia, a tante malattie rare
ed endemiche). Di chi ha seguito le lezioni e gli insegnamenti di
illustri maestri della medicina. Di chi poi, passando in cattedra, è
diventato a suo volta caposcuola ed è stato lui pure un classico barone
universitario.
Nel libro Carcassi rende omaggio a tutti gli uomini che hanno fatto la
storia della medicina nell'Isola (citati affettuosamente uno ad uno),
dagli anni pionieristici del secondo dopoguerra sino agli allievi di
allora che oggi, con qualche capello bianco, continuano a guidare
cliniche e reparti.
Carlo Figari
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L’Unione Sarda 09 ott. ’14
LA “SPIRALETTA” CHE SI METTE E SI DIMENTICA
È “smart”, grande appena 28 per 30 millimetri, è leggerissima, sicura e
garantisce un alto livello protettivo. La novità in tema di
contraccezione è una spirale che arriva direttamente dagli Stati Uniti:
si chiama Jaydess, un sistema intrauterino che «si mette e poi si
dimentica» ed è in grado di assicurare la maggiore efficacia rilasciando
il minimo dosaggio di ormoni (progestinico), liberando la donna dalla
routine contraccettiva. Particolare non secondario, non provoca un
aumento di peso. Dopo che è stata inserita nell’utero dal ginecologo, con
una semplice procedura, assicura un’altissima protezione fino a tre anni.
Inoltre, si può rimuovere in qualsiasi momento.
La novità è stata presentata pochi giorni fa a Cagliari in occasione del
Congresso nazionale della Sigo, la società italiana di ginecologia e
ostetricia. I vantaggi di Jaydess sono «innegabili e dimostrati», dicono
gli esperti. «A differenza della spirale tradizionale, la nuova
spiraletta è indicata anche per le donne più giovani, quelle che non
hanno ancora affrontato una gravidanza», spiega Gian Battista Melis,
direttore della Clinica ostetrica e ginecologica dell’Università di
Cagliari. Ha un’efficacia contraccettiva immediata e superiore a quella
degli estroprogestinici (pillola). Come funziona? Jaydess è composta da
un tubicino flessibile a forma di T. Attraverso una membrana permeabile,
rilascia direttamente nell’utero una bassa dose di ormone progestinico.
Quando viene inserita crea all’interno dell’utero un ispessimento del
muco cervicale, simile a quello sviluppato durante la gravidanza. E la
barriera difende l’apparato riproduttivo femminile anche dal rischio di
possibili infezioni. «Molte donne sono attratte dall’idea di usare un
sistema contraccettivo a lunga azione. Al tempo stesso, però, hanno
timore che un dispositivo intrauterino possa causare dolore,
infiammazioni, difficoltà o fastidio durante i rapporti sessuali», spiega
Melis. Non è così, naturalmente. Quattro donne su dieci, inoltre, sono
ancora convinte, erroneamente, che la contraccezione ormonale comporti un
aumento del peso corporeo. «Si tratta, invece, di un luogo comune, duro
da sconfiggere», aggiunge Melis. «I nuovi sistemi, come Jaydess,
garantiscono invece un’elevata efficacia e al tempo stesso rispettano le
esigenze delle donne. Questo contraccettivo intrauterino smart agendo
localmente è ben tollerato dall’organismo», dice ancora Melis. In questo
modo, «le donne possono così vivere la propria sessualità in maniera
libera e consapevole». Non solo. Dal momento che Jaydess riduce anche
durata e volume mestruale, «la sua applicazione contribuisce ad abbattere
anche il dolore e le anemie da emorragie». Dunque, Jaydess apre davvero
nuovi scenari nella sessualità. Perché non c’è rischio di aumento di
peso, ribadiscono gli esperti, e il ritorno alla fertilità è immediato
dopo la rimozione. Infine, Jaydess costa meno della pillola, perché con
150 euro in tre anni (4 euro al mese, circa la metà rispetto ai 7 o 8
della pillola) ci si assicura una protezione sicura e duratura, senza
pensieri. «La disponibilità di più metodi ad alta affidabilità è la
condizione indispensabile per garantire la contraccezione più adatta a
ciascuna donna», spiega ancora Melis. «Intendo dire che chi si trova bene
con la pillola, e non avverte nessun tipo di problema, non deve
necessariamente cambiare. Ma a quelle donne che si avvicinano per la
prima volta alla contraccezione, invece, si può proporre in piena
tranquillità Jaydess, che risulta essere altrettanto valida per la donna
che, per motivi contingenti, desidera oppure è costretta a cambiare
metodo contraccettivo».
Mauro Madeddu
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L’Unione Sarda 09 ott. ’14
L’analisi del prof. Melis, direttore di Ginecologia
GB. MELIS: DONNE SARDE INFORMATE, PRIME IN ITALIA NELL’USO DELLA PILLOLA
L a diffusione della contraccezione, si sa, dipende da molti fattori:
dall’entità del rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale, dalla
disponibilità dei sistemi più moderni, da quanto le donne sono seguite
nella scelta ma, soprattutto, dalla conoscenza diffusa. In tema di
contraccezione femminile la Sardegna è all’avanguardia: il 30% delle
donne sarde, infatti, fa uso di contraccettivi in maniera corretta.
«L’Isola detiene il primato nazionale di uso di sistemi ormonali come la
pillola. Lo scorso anno abbiamo avuto “solo” 220 baby-mamme con meno di
19 anni e 2.157 interruzioni volontarie di gravidanza», spiega Gian
Benedetto Melis, direttore della Clinica di ginecologia e ostetricia
dell’Università di Cagliari. Un dato che rappresenta circa il 3 per mille
del totale a livello nazionale e che colloca la Sardegna tra le regioni
più virtuose d’Italia e paragonabile ai livelli del Giappone, il paese
che registra il minor numero di interruzioni di gravidanza al mondo.
Sono dunque abbastanza informate le donne sarde in tema di
contraccezione. Ma di più si può e si deve fare. L’informazione su questo
tema resta fondamentale. E questa passa anche attraverso l’educazione
scolastica, ormai presente in quasi tutti i paesi dell’Unione europea ma
non ancora nel nostro. Non a caso la Sigo, l’associazione italiana dei
ginecologi e degli ostetrici, ha scelto il palcoscenico di Cagliari, dove
si è da poco concluso l’ottantanovesimo congresso nazionale, per proporre
al ministero dell’Istruzione un progetto scolastico di educazione
riproduttiva, mirato alla prevenzione in tutte le sue declinazioni.
I ginecologi hanno rilanciato anche le attività di “Scegli Tu”. «Da anni
questo progetto, attraverso iniziative innovative, si pone l’obiettivo di
educare i giovani a seguire comportamenti sessuali responsabili», afferma
Paolo Scollo, presidente della Sigo. «Esiste un modello Sardegna»,
aggiunge il professor Melis. «Sulla preparazione dei medici, sul
funzionamento dei consultori, sull’educazione in materia di
contraccezione, l’Isola fa scuola in Italia». Certo, i problemi non
mancano soprattutto nel caso dei più giovani. «Anche in Sardegna esiste
ancora una percentuale di adolescenti che si affaccia per la prima volta
all’attività sessuale senza avere le adeguate conoscenze, soprattutto
quelle legate alle malattie». Ecco perché, conclude Melis, «il consiglio
è sempre lo stesso: prima di iniziare l’attività sessuale, è bene
rivolgersi a un consultorio o a un medico». (ma.mad.)
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L’Unione Sarda 06 ott. ’14
CAGLIARI: L’ALTEZZA IN ETÀ ADULTA DECISA DA QUATTROCENTO GENI
LO STUDIO. Contributo dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del
Cnr di Cagliari
Alti come corazzieri o bassi come nani da giardino? A progettare la
nostra statura nell’età adulta sono più di 400 geni “architetto”. Lo
rivela l’analisi del Dna di oltre 250 mila persone condotta tra Europa,
Stati Uniti e Australia da 450 esperti di 300 enti di ricerca riuniti nel
consorzio internazionale “Giant” (Genetic Investigation of Anthropometric
Traits). Tra loro anche molti italiani, come l’Università degli Studi di
Milano, quella di Milano-Bicocca, l’Istituto di ricerca genetica e
biomedica del Cnr di Cagliari e l’Università di Pisa. Lo studio,
pubblicato su Nature Genetics, dimostra che sono almeno 697 le varianti
genetiche che determinano la nostra altezza: queste si concentrano in 423
regioni del genoma, ovvero oltre 400 geni che sono coinvolti per lo più
nella formazione e nell’accrescimento di ossa e cartilagini. Nessuna
caratteristica fisica o malattia era stata finora collegata ad un numero
così elevato di geni.
Questo risultato rappresenta un incredibile passo avanti nella “caccia”
ai geni dell’altezza: ad inaugurarla, nel 2007, fu proprio il gruppo di
ricerca di Timothy Frayling dell’università britannica di Exeter (che ora
guida il consorzio Giant) con la scoperta del primo gene legato
all’altezza, chiamato Hmga2. Da allora la ricerca è continuata, è il caso
di dirlo, tra alti e bassi, fino all’annuncio nel 2010 della scoperta di
oltre 180 varianti genetiche associate alla statura.
«Quello studio», ricorda Giuseppe Novelli, genetista dell’università di
Roma Tor Vergata, «si concludeva con l’auspicio di trovare l’eredità
mancante, ovvero gli altri geni coinvolti, ritenendo erroneamente che
forse ne avremmo trovati giusto qualche decina. E invece, sorpresa: lo
studio attuale ne ha trovati più di 400. Un risultato incredibile, che ci
ricorda come l’altezza sia un carattere estremamente complesso,
determinato per l’80 per cento dalla genetica, e più precisamente da
centinaia di geni i cui effetti vanno a sommarsi, proprio come accade per
altri caratteri tipo l’olfatto (determinato da oltre 600 varianti
genetiche), l’udito, ma anche la pressione arteriosa».
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Corriere della Sera 06 ott. ’14
LA NOSTRA ALTEZZA? DIPENDE DA 400 GENI E DALL’AMBIENTE
Alcune, poche, caratteristiche fisiche dipendono da un solo gene, altre
da gruppi di due o tre geni, ma la stragrande maggioranza tra le
caratteristiche fisiche che più ci stanno a cuore, dall’altezza, al peso,
al battito cardiaco fino all’intelligenza, dipendono da molti geni. Nel
caso particolare dell’intelligenza — qualunque cosa questo voglia dire —
si pensa che nasca addirittura dalla cooperazione di migliaia di geni.
Non sorprende quindi di sentire oggi che la componente genetica
dell’altezza interessa non meno di 400 geni. Lo rivela l’analisi del Dna
di oltre 250 mila persone condotta tra Europa, Stati Uniti e Australia da
450 esperti di 300 enti di ricerca riuniti nel Consorzio internazionale
«Giant» ( Genetic Investigation of Anthropometric Traits ); tra loro
molti italiani, come l’Universitàdi Milano Bicocca e l’Istituto di
ricerca genetica e biomedica del Cnr di Cagliari. Naturalmente stiamo
parlando della componente genetica, perché oltre a questa c’è anche una
forte componente ambientale che dipende da che cosa ciascuno di noi
mangia, o da che malattie ha avuto da piccolo, oltre che dalle
sollecitazioni dell’ambiente che ci circonda. È tanto vero che la
componente genetica da sola non può fare tutto che l’aumento di altezza
osservato in Occidente in tutte le popolazioni non è dovuto a un
cambiamento genetico, ma è dovuto a un cambiamento delle abitudini
alimentari, igieniche, alla ginnastica e a come si passa il tempo libero.
Ciò nonostante, conoscere la componente genetica è sempre interessante
perché può aprire la porta a uno studio più complessivo e consentirci di
dare la caccia a eventuali patologie. Non stupisce quindi un genetista
questa notizia, però immagino che molte persone saranno colpite. Il bello
viene ora, perché l’altezza è tanto ma non è tutto, mentre altre doti che
consideriamo importanti — come la resistenza allo stress, la volontà,
l’intuizione — che determinano la fortuna o la poca prestanza di una
persona, sono ancora ignote per quanto riguarda la loro componente
genica.
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Repubblica 10 ott. ’14
CURE PEDIATRICHE, LA SANITÀ NON È UGUALE PER TUTTI.
I medici Sip: "Inaccettabile diversità tra regioni"
Un dossier fotografa le enormi differenze sul territorio nei servizi
sanitari per i bambini, dagli screening neonatali alle cure palliative. A
Napoli il rischio di mortalità neonatale è del 30% superiore rispetto a
Milano. I pediatri: "Modificare la Costituzione per assicurare uguale
trattamento a tutti senza limitare l'autonomia delle scelte regionali"
di IRMA D'ARIA
Lo leggo dopo
Una visita pediatrica in un ambulatorio di MilanoROMA- Chi nasce a Napoli
ha un rischio di mortalità più alto del 30% rispetto a un bambino che
viene al mondo a Milano. È uno dei tanti dati di un dossier predisposto
dal Comitato per la bioetica della Società italiana di pediatria (Sip)
che testimonia come quello alla salute sia un diritto a contenuto
altamente variabile, a seconda del luogo in cui si nasce e si vive. Ecco
come cambia l'offerta sanitaria dal Nord al Sud e quali sono le
principali differenze nel gap che separa le regioni.
Gli screening neonatali- Il tasso di mortalità infantile in Italia è
sensibilmente inferiore a quello medio europeo e quasi la metà rispetto a
quello degli Stati Uniti. E tuttavia nelle regioni meridionali la
mortalità infantile (rappresentata per il 70% dalla mortalità neonatale)
rimane del 30% più elevata rispetto alle regioni settentrionali. Un
bambino che viene al mondo in Toscana è sottoposto allo screening
neonatale metabolico allargato, che consente di diagnosticare, e quindi
trattare precocemente, più di 40 patologie rare, mentre un bambino che
nasce in Campania viene monitorato solo per i tre test obbligatori per
legge (ipotiroidismo congenito, fibrosi cistica e fenilchetonuria).
INTERATTIVO La mappa delle disuguaglianze regionali
Meningococco B, vaccino grati solo in 4 regioni- La tutela della salute
dei bambini italiani è oggi un variegato mosaico di situazioni
differenti, a volte persino all'interno della stessa regione. Prendiamo
l'esempio dei vaccini. In Puglia, in Basilicata, in Veneto e da appena
due giorni anche in Toscana da quest'anno i bambini saranno vaccinati
gratis contro il temibile meningococco B, una tra le principali cause di
meningite con esiti mortali e danni permanenti (ipoacusie, amputazioni,
ecc.). Nelle altre regioni d'Italia i bambini non riceveranno
l'immunizzazione gratuita, anche se alcune ASL, in base alle risorse
economiche disponibili, hanno deciso di offrirla nel proprio ambito
territoriale ai nuovi nati o ai soggetti a rischio. Trattamenti diversi,
quindi, persino all'interno della stessa regione. E se in Italia circa 15
mila minori necessitano di cure palliative, sono solo 5 le regioni in cui
è stata attivata la rete pediatrica di cure palliative prevista dalle
legge 38/2010.
Lea assicurati, solo il Veneto in regola- Insomma, dalla nascita alla
morte, la regione in cui si vive segna il destino dei bambini. "Questa
situazione è inaccettabile, sia guardando alla disomogeneità nella
qualità del servizio offerto sia guardando alla confusione normativa che
si è creata - denuncia il presidente della Sip, Giovanni Corsello - . I
bambini italiani, oggi, non sono tutti uguali: programmi di vaccinazione,
screening neonatali, rete punti nascita, assistenza oncologica e cure
palliative rappresentano altrettante priorità di una politica sanitaria
che non è stata capace di garantire i fondamentali principi di
uguaglianza, universalità ed equità. E purtroppo nemmeno i livelli
essenziali di assistenza. Come testimonia il Rapporto verifica
adempimenti LEA 2012, una sola regione italiana, il Veneto, fra le 16
prese in esame, risulta in regola 'per tutti gli adempimenti oggetto di
verifica' e sono purtroppo molte quelle che dimostrano di non saper
assicurare neppure i livelli considerati appunto essenziali".
L'appello della Sip- Partendo da questo quadro, la Società italiana di
pediatria lancia un appello alle istituzioni. "Occorre un ripensamento
radicale degli esiti della 'regionalizzazione' del sistema sanitario,
fermando almeno la tendenza alla divaricazione fra le regioni e
orientando la loro autonomia all'obiettivo di una crescente integrazione,
perché questa è l'unica direzione coerente con l'articolo 32 della
Costituzione", afferma Stefano Semplici, presidente del Comitato per la
bioetica della Sip e presidente del Comitato internazionale di bioetica
dell'Unesco. Ecco perché, approfittando del confronto in atto sul Titolo
V della Costituzione, la Società italiana di pediatria propone la
sostituzione della attuale lettera m dell'articolo 117 della Costituzione
con il testo seguente, anziché quello uscito dal Senato: (...) lo Stato
ha legislazione esclusiva rispetto alla "determinazione dei livelli
appropriati e inderogabili di prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali, al fine di garantire una adeguata parità di trattamento su tutto
il territorio nazionale; (alle) disposizioni generali e comuni per la
tutela della salute, per la sicurezza alimentare e per la tutela e
sicurezza del lavoro". "Una formulazione di questo tipo - conclude
Semplici - salvaguarderebbe l'autonomia delle Regioni rispetto
allaprogrammazione e organizzazione dei servizi, ma limiterebbe -
attraverso l'utilizzo della misura di ciò che è appropriato/inderogabile
e non semplicemente essenziale nel senso del minimo indispensabile - il
disorientamento normativo e l'allargarsi della distanza fra chi ha di più
e chi ha meno. Si rafforzerebbe anche la possibilità dello Stato di
intervenire con decisione ed efficacia là dove le Regioni dimostrano di
non saper svolgere il loro compito".
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Repubblica 07 ott. ’14
C'È UNA FORMA DI CONSAPEVOLEZZA DOPO LA MORTE"
Gli scienziati britannici hanno analizzato migliaia casi di arresto
cardiaco: il 40% dei sopravvissuti avevano "ricordi" nei minuti in cui
erano clinicamente morti
LONDRA- Da sempre si cerca la prova della vita oltre la morte.
L'Università di Southamptonha affrontato in modo scientifico questa
possibilità scoprendo che una qualche forma di "consapevolezza" può
continuare anche dopo che il cervello ha cessato di funzionare del tutto.
Si tratta di una teoria controversa che fino ad ora ha sollevato molto
scetticismo, ricorda ilDaily Telegraph. Ma gli scienziati inglesi hanno
passato gli ultimi quattro anni esaminando più di 2000 casi di persone
che avevano sofferto un arresto cardiaco in 15 ospedali in Gran Bretagna,
Usa e Austria, e ottenuto risultati molto interessanti.
E' emerso che circa il 40% dei sopravvissuti avevano "ricordi" di quella
esperienza nei minuti in cui erano clinicamente morti. Un 57enne di
Southampton ha detto di aver vissuto una sorta di esperienza
extracorporea, e di aver assistito alle azioni dei medici che cercavano
di rianimarlo. "Sappiamo che il cervello non può funzionare quando il
cuore smette di battere - ha detto Sam Parnia, ricercatore che ha guidato
lo studio - Ma in questo caso la consapevolezza cosciente sembra essere
rimasta attiva fino a tre minuti dopo che il cuore non funzionava più,
anche se il cervello di solito "si spegne" dopo 20-30 secondi da quando
il cuore si ferma".
Sebbene molti dei sopravvissuti intervistati non ricordino dettagli
specifici, ci sono comunque una serie di temi ricorrenti. Uno su cinque
afferma di aver provato un grande senso di serenità mentre circa un terzo
ha percepito una accelerazione o un rallentamento nello scorrere del
tempo. Altri reputano di aver visto una forte luce o un sole che
splendeva. Mentre per certi le sensazioni erano negative, simili
all'annegamento o all'essere trascinati sott'acqua. Secondo Parnia,
potrebbero essere molti di più i casi di esperienze dopo la morte ma
molti non le ricordano a causa dei danni al cervello o ai sedativi che
sono stati somministrati.
La ricerca dell'Università di Southampton ha suscitato molto interesse in
un settore che coinvolge diversi studiosi. "Ci sono alcune prove molto
importanti in base alle quali queste esperienze sono veramente
accadutedopo che le persone erano clinicamente morte", ha detto lo
psicologo David Wilde, della Nottingham Trent University. Per Wilde
ancora non è possibile dire cosa esattamente accade in quei momenti ma la
"lente" della scienza sta indagando sempre più in profondità.
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Repubblica 07 ott. ’14
CENSIS, IL 40% DEI GENITORI FA SOLO I VACCINI OBBLIGATORI
I genitori italiani non si fidano. Confusa e contrastante l'informazione
sul web. Pediatri e medici di medicina generale le figure di
riferimentodi MARIA PAOLA SALMI
Lo leggo dopo
IL PIANETA vaccinazioni è in forte trasformazione e c'è bisogno di
consolidare la fiducia dei genitori. Da un lato l'obbligatorietà di
alcuni vaccini, impone quasi una strada a senso unico, dall'altro la
consapevolezza del problema e le scelte individuali, influenzate da
un'informazione non sempre corretta e chiara. Tanto che, secondo i dati
del Censis, il 40% dei genitori fa solo i vaccini obbligatori.Capire
quanto i genitori italiani sanno e conoscono sul tema delle vaccinazioni,
quali sono le fonti di informazione e qual è il giudizio sulle
vaccinazioni, sono alcuni degli aspetti che ha tentato di esplorare lo
studio "La cultura della vaccinazione in Italia, un'indagine sui
genitori" condotta dal Censis con il supporto incondizionato di Sanofi
Pasteur MSD, i cui dati sono stati presentati nella mattinata di oggi al
Senato Roma.
"I dati dell'indagine, e in particolare il gap informativo che ne emerge,
richiamano l'attenzione e il ruolo chiave di una corretta informazione
sulle vaccinazioni quali strumenti preventivi efficaci e sicuri a tutela
della salute. Un'informazione estesa a tutta la popolazione, ma diretta
ai genitori, in quanto fautori di scelte per sé e per i propri figli, e
dei quali una percentuale ancora troppo bassa si fida molto o totalmente
dei vaccini", dichiara Ketty Vaccaro, responsabile del settore Welfare e
salute del Censis.
Le vaccinazioni poco conosciute.L'indagine, realizzata tra genitori dai
18 ai 55 anni con figli da 0 a 15 anni età a cui fanno riferimento i
principali calendari vaccinali, parte dal ruolo della conoscenza. Il 73%
del campione intervistato dichiara di saperne molto o abbastanza di
vaccinazioni in età pediatrica: il 79% sa cos'è un calendario vaccinale
ma le cose cambiano quando si entra nel dettaglio, allora le conoscenze
diventano incerte. Solo un 5,6% è al corrente che in Italia le
vaccinazioni obbligatorie sono quattro: antidifterica, antitetanica,
antipoliomielitica e antiepatitevirale B. La spiegazione di questa
apparente incoerenza potrebbe essere legata alla modalità di
somministrazione (vaccinazione polivalente) che crea problemi nella
differenziazione tra vaccini obbligatori e vaccini solo raccomandati.
Il 71% dei genitori è convinto che i nuovi vaccini siano più sicuri
perché tecnologicamente più avanzati anche se in merito all'efficacia si
dividono a metà tra chi afferma che le vaccinazioni non sono poi così
utili nel proteggere dalle malattie e chi invece afferma il contrario. Un
62% teme addirittura che possano provocare malattie come l'autismo.
"Si" dei genitori alle vaccinazioni. Incertezze a parte, quando si entra
nella pratica quotidiana, è unanime il consenso verso le vaccinazioni.
Decisamente orientata in maniera favorevole ai vaccini la scelta dei
genitori: solo lo 0,5% dichiara di non aver vaccinato i propri figli. Il
40% dei genitori fa solo i vaccini obbligatori, mentre il 48% sceglie
quelle obbligatorie e quelle raccomandate dal Ssn. L'11,2% dei genitori
dice di aver fatto vaccinare i figli ma non sa quale vaccino sia stato
somministrato.
Informati ma in modo disomogeneo. L'esperienza vaccinale si correla
direttamente alle informazioni ricevute: la percentuale di genitori che
afferma di aver accesso a tutte le informazioni di cui ha bisogno
decresce da Nord a Sud dal 72% del Nord - Ovest al 68% del Nord-est al
60% del Centro fino al 50% del Sud. E sempre da Nord a Sud aumenta la
quota di chi avrebbe voluto sapere di più insieme a quelli che dicono di
non essere stati informati sui rischi delle vaccinazioni.
Le figure di riferimento e le fonti di informazione. Le fonti di
informazione più gettonate sono il pediatra di libera scelta (55%)
seguito dal servizio vaccinale della ASL di appartenenza (37,5%).
Madri e padri si informano (40%) prima di far vaccinare i figli: dal
medico di famiglia (71%) e dallo specialista (23,5%). Il 32% dei genitori
va sul web. I siti istituzionali sono i più frequentati (41%) seguiti dai
siti specializzati o scientifici (37%), dai forum e dai blog (27%). I
social network meno (16%) e ancora meno i quotidiani online (12%).
Secondo quanto affermano i genitori, le informazioni sui social networrk
e in rete hanno un orientamento contrario alle vaccinazioni mentre le
informazioni su internet sono focalizzate sui rischi dei vaccini (47%),
il 27% ne evidenzia i vantaggi, il 21% ne da informazione scientifica e
nel 20% offre storie di casi che hanno avuto effetti avversi dai vaccini.
Identikit dei genitori.I genitori italiani sono rispettosi degli obblighi
stabiliti dal SSN ma le informazioni ne influenzano gli atteggiamenti e i
comportamenti. L'indagine evidenzia 4 gruppi distinti:I "timorosi",
rappresentano il 36% dei genitori con un atteggiamento di cautela nei
confronti della vaccinazione e della prevenzione in generale; i "ligi",
il 33% con un atteggiamento positivo sui vaccini propenso più al rispetto
degli obblighi del Ssn che al considerare la vaccinazione una vera e
propria strategia di prevenzione della salute; i "favorevoli
medicalizzati" pari al 23% del campione, hanno un atteggiamento di
apertura e fiducia nei confronti delle vaccinazioni che non è dettato
semplicemente dal rispetto degli obblighi ma fa leva sulla consapevolezza
dell'importanza della vaccinazione come vera e prorpia strategia
preventiva; infine, gli "olistici critici" che sono l'8% e hanno un
atteggiamento critico e contrario alle vaccinazioni.
In sintesi,quasi la totalità dei genitori vaccina i propri figli ma
scende al 22,4% la quota dei genitori che dichiara di fidarsi totalmente
o molto dei vaccini anche se man mano che l'età dei genitori cresce
aumenta anche la fiducia. E' unanime il consenso sul ruolo strategico
delle vaccinazioni nello sconfiggere malattie gravi e come funzione di
difesa della collettività. Tuttavia l'informazione è ancora carente e
incompleta lasciando aperti dubbi e perplessità.
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Quotidiano Sanità 11 ott. ’14
"RIPRESA TABAGISMO COLPA DELLA LOTTA ALLE SIGARETTE ELETTRONICHE"
E-Cig. Cipolla, Polosa, Tirelli e Veronesi:
I quattro scienziati, inuna lettera apertarivolta all'Iss, chiedono che
venga riconsiderato l'approccio conservativo verso le e-cig, "improntato
sull'applicazione acritica del principio di precauzione, puntando invece
su norme equilibrate che facciano degli standard di qualità e sicurezza
di questi prodotti il loro punto di forza”.
10 OTT- In Italia “la serrata guerra alla e-cig non ha prodotto
l'auspicata riduzione del tabagismo, bensì una sua netta ripresa”. E’
l’amara constatazione contenuta in un appello sottoscritto da scienziati
italiani (Carlo Cipolladell’Istituto Europeo di Oncologia di
Milano,Riccardo Polosadell’Università degli Studi di Catania,Umberto
Tirellidell'Istituto Nazionale Tumori di Aviano eUmberto
Veronesidell'Istituto Europeo di Oncologia di Milano) e rivolto a Roberta
Pacifici, direttore dell'Osservatorio Fumo, Alcol e Drogadell'Istituto
Superioredi Sanità.
Gli scienziati sottolineano che l’allarmante ripresa del tabagismo è da
attribuire “sia ai numerosi tentavi di delegittimazione dei prodotti a
basso rischio espositivo, che hanno sistematicamente ignorato le evidenze
scientifiche, sia a una politica nazionale che sembra difendere gli
interessi economici e finanziari del tabacco e che mal si concilia con il
fine primo ed ultimo delle Istituzioni sanitarie: l'interesse per la
salute pubblica”.
Il team di esperti osserva inoltre che in Francia ed Inghilterra, dove le
sigarette elettroniche sono prodotti di libero consumo non soggetti a
controproducenti restrizioni normative, “si stanno registrando
modificazioni epocali sia in termini di riduzione della prevalenza di
tabagismo, sia in termini di contrazione nel consumo di tabacco”. E,
aggiungono, i più grandi esperti internazionali di salute pubblica
“rilevano come l’ampia diffusione di questa alternativa a basso rischio
espositivo stia determinando ricadute vantaggiose in termini di
migliorate condizioni di salute per i fumatori e di riduzione dei costi
per la sanità pubblica. Sarebbe più ragionevole lavorare nella direzione
di migliorati standard di qualità e sicurezza”.
L’adozione di una regolamentazione ad hoc per migliorare la qualità delle
sigarette elettroniche e dei liquidi “sarebbe un primo grande passo per
consentire a questi prodotti di concorrere ad un miglioramento della
salute dei cittadini Italiani. Se le scelte del Governo italiano non
saranno delineate in tempo, si subiranno riflessi negativi che
difficilmente potranno essere recuperati e risolti”.
Alla luce di questi elementi, gli scienziati lanciano un appello all’Iss
affinché riconsideri “il suo approccio conservativo improntato
sull'applicazione acritica del principio di precauzione, puntando invece
su norme equilibrate che facciano degli standard di qualità e sicurezza
di questi prodotti il loro punto di forza”.
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Le Scienze 10 ott. ’14
CHIARITO IL COLLEGAMENTO TRA OSSITOCINA E COMPORTAMENTO SESSUALE
Le femmine di topo mostrano interesse per i maschi durante l'estro solo
se una specifica popolazione neuronale è ricettiva all'ossitocina,
l'"ormone dell'amore" che nei mammiferi regola molti comportamenti
prosociali, dal legame di coppia alle cure dei piccoli. Lo dimostra un
nuovo studio sperimentale che getta le basi per una migliore comprensione
dei delicati meccanismi comportamentali umani in cui è coinvolta
l'ossitocina(red)
Sono situati nella corteccia prefrontale del cervello dei topi i neuroni
necessari alla femmina per mostrare interesse nei confronti dei maschi
durante l'estro, la fase ricettiva del ciclo sessuale. Queste stesse
cellule sono sensibili all'azione dell'ossitocina, detta anche “ormone
dell'amore” per il suo ruolo nei meccanismi che regolano il comportamento
sociale, in particolare nella cura dei piccoli e nel legame di coppia. Lo
ha scoperto unnuovo studio apparso sulla rivista “Cell”a firma di Miho
Nakajima e colleghi della Rockfeller University.
I neuroni sensibili all'ossitocina sono stati trovati in molte strutture
cerebrali, a riprova di come questo ormone sia fondamentale per un'ampia
gamma di comportamenti sociali, ma i particolari del meccanismo mediante
cui l'ossitocina influenza i circuiti neurali non erano ancora stati
chiariti.
Nakajima e colleghi hanno focalizzato la loro attenzione sulla corteccia
cerebrale, che nei mammiferi regola i comportamenti in risposta agli
input sensoriali e allo stato interno dell'individuo grazie a un
complesso sistema di elaborazione delle informazioni che coinvolge molte
strutture corticali e subcosticali interconnesse tra loro.
In particolare, i ricercatori hanno studiato una popolazione di neuroni
della corteccia prefrontale mediale, ipotizzando che fossero dei bersagli
privilegiati dell'ossitocina poiché esprimono sulla loro superficie
recettori per questo ormone (i recettori possono essere pensati come le
“serrature” in cui la “chiave” ossitocina può entrare in modo specifico
per svolgere le sue funzioni).
quando i neuroni sensibili all'ossitocina vengono silenziati, le femmine
in estro non si interessano ai maschi (© C.M. Bahr/Corbis)In popolazioni
di topi in cui l'attività di questi neuroni era stata soppressa
artificialmente, le femmine hanno perso interesse per i maschi durante
l'estro, mentre mantenevano un livello normale d'interazione con le altre
femmine.Lo stesso tipo di silenziamento non ha invece prodotto
alterazioni nelle interazioni delle femmine con i maschi oltre il periodo
di estro, e nel comportamento sociale dei maschi.
“Il nostro lavoro sottolinea l'importanza della corteccia prefrontale nei
comportamenti sociali e sessuali e suggerisce che questa popolazione
cellulare possa mediare anche altri aspetti del comportamento in risposta
all'incremento delle concentrazioni dell'ossitocina che si verifica in
un'ampia gamma di contesti differenti”, ha spiegato Nathaniel Heintz,
autore senior dello studio. “I dati raccolti dimostrano che le
interazioni sociali in grado di stimolare la produzione di ossitocina
attivano questi circuiti cerebrali in modo da coordinare le complesse
risposte comportamentali che l'individuo deve fornire nelle situazioni
sociali in continua evoluzione che sperimentano tutti i mammiferi,
compreso l'essere umano”.
I risultati della ricerca serviranno ora per chiarire il ruolo dei
meccanismi di regolazione dell'attività neuronale basati sull'ossitocina
negli esseri umani, soprattutto nei casi in cui sono alterati, con
possibili manifestazioni di gravi disturbi psichiatrici, come l'autismo o
la schizofrenia.
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Le Scienze 09 ott. ’14
ANCHE IL SUCCESSO SCOLASTICO È (IN PARTE) EREDITABILE
Il 62 per cento del nostro successo scolastico è legato a caratteristiche
che abbiamo ereditato dai genitori. A pesare di più non è l'intelligenza,
ma la personalità e la tendenza a manifestare problemi comportamentali.
Questi tratti influiscono su quanto si trova facile e divertente studiare
e imparare, e per questo l'insegnamento dovrebbe essere il più
personalizzato possibile(red)
•
La capacità di ottenere un buon rendimento a scuola sarebbe legata a
un'articolata serie di tratti geneticamente ereditabili. A questa
conclusione, che farà certamente discutere, è giunto uno studio condotto
da ricercatori del King’s College di Londra, che firmnoun articolo
pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”.
Il successo scolastico è generalmente considerato il prodotto di
molteplici influenze ambientali, dal ceto sociale al “clima della
classe”, al coinvolgimento dei genitori. Eva Krapohl e colleghi hanno
cercato di stabilire quanto influissero alcuni tratti che sono noti per
avere una componente geneticamente ereditabile: non solo l'intelligenza,
cioè, ma anche caratteristiche come la personalità, i problemi di
comportamento e il senso di autoefficacia (la tendenza ad avere
convinzioni più o meno positive sulle proprie capacità di organizzare e
portare a termine le azioni necessarie a raggiungere un obiettivo).
I ricercatori hanno studiato 6653 coppie di gemelli, metà circa dei quali
identici (monozigoti, cioè che hanno in comune il 100 per cento del
patrimonio genetico) e metà non identici (eterozigoti). Dato che le
coppie di gemelli condividono lo stesso ambiente (famiglia, scuole,
insegnanti, ecc), mettendo a confronto gemelli identici e non identici,
si può stimare il contributo relativo dei fattori genetici e ambientali.
In pratica, se rispetto a un particolare tratto i gemelli identici sono
più simili tra loro degli altri, le differenze tra i due gruppi sono
dovute alla genetica più che all'ambiente.
Krapohl e colleghi hanno sottoposto i loro soggetti a una serie di test
che hanno permesso di valutare 83 tratti ragruppabili nelle nove
categorie di intelligenza, autoefficacia, personalità,benessere, ambiente
domestico, ambiente scolastico, salute, problemi di comportamento dei
genitori e problemi di comportamento dei figli. Quindi hanno esaminato i
punteggi ricevuti dai gemelli nel General Certificate of Secondary
Education, che certifica i risultati scolastici di tutti i ragazzi
britannici all'età di 16 anni.
E' così emerso che il successo scolastico è ereditabile al 62 per cento,
mentre i singoli tratti considerati sono ereditabili in una misura
compresa fra il 35 e il 58 per cento, essendo l'intelligenza quello
maggiormente ereditabile.
Quanto al peso dei diversi caratteri sul successo scolastico, è risultato
che a contare di più è la personalità seguita dai problemi
comportamentali del figlio, da quelli dei genitori, dall'intelligenza,
dall'autoefficacia e dal benessere.
"E' importante sottolineare che l'ereditarietà non significa che tutto è
scolpito nella pietra, ma semplicemente che i bambini si differenziano
nella misura in cui trovano facile e divertente l'apprendimento, e che
gran parte di queste differenze sono influenzate dalla genetica", dice
Eva Krapoh.
E conclude: “I nostri risultati suffragano l'idea che un approccio più
personalizzato all'apprendimento può essere più efficace di uno uguale
per tutti. Scoprire che il successo scolastico è ereditabile non
significa che insegnanti, genitori e scuole non siano importanti.
L'educazione è più di ciò che accade passivamente a un bambino; i bambini
sono parte attiva nella selezione, nella modificazione e nella creazione
di proprie esperienze, molte delle quali sono legate alla loro
propensioni genetiche, un fenomeno noto in genetica come correlazione
genotipo-ambiente”.