RASSEGNA STAMPA 25/05/2014 CRUI: UNIVERSITÀ, UN PIANO PER RESTARE IN EUROPA LAUREATI, L'ITALIA È ULTIMA LA BEFFA DELLE ABILITAZIONI: RITARDI BUROCRATICI E DIAVOLERIE REGIONE: A CAGLIARI E SASSARI 220 MILIONI DI EURO UNICA: SIGLATO L'ACCORDO CHE AVVIA LAVORI PER 223 MILIONI UNA RICERCA CHE PAGA UN PAESE SENZA SCIENZA BOERI: ATENEI, LA VERA RIFORMA È DARE SOLDI AI PIÙ BRAVI SPARISCE IL TEST PER MEDICINA STUDENTE MODELLO:CAMBIARE LE REGOLE PUÒ ROVINARE I SOGNI QUELL’INSANO ENTUSIASMO PER I TEST CANCELLATI AUTARCHIA UNIVERSITARIA, NO GRAZIE PROCESSI E AVVOCATI, IL PAESE DEGLI ECCESSI SCONTI, STAGE GRATUITI: OFFERTE ATENEI PER CATTURARE STUDENTI LA RETE HA LA FEBBRE DELLA CITAZIONE SPESA PUBBLICA: LONDRA “CON INTERNET IL 90% DI RISPARMI” COME DIFENDERSI IN RETE DALLE LEGGENDE SULLA SCIENZA VITO MANCUSO: RITORNIAMO ALLA SAPIENZA ANTICA DUE SCIENZIATI, QUATTRO SALME E L'AUTOPSIA SUL CORPO DI GESÙ ITALIANI, ANALFABETI DIVINI DIRITTO ALL’OBLIO, IL DOPPIOGIOCO DI GOOGLE ========================================================= MEDICI, NUOVO CODICE CON CYBERMEDICINA E DIVIETO DI TORTURA MEDICI, FRONDA CONTRO IL NUOVO CODICE ETICO. IL NUOVO CODICE DEONTOLOGICO CHE LASCIA I MEDICI NEL PASSATO MEDICINA: LA MOBILITÀ DELLE COMPETENZE IS MIRRIONIS: LA CARLO FELICE DELLA SANITÀ IS MIRRIONIS: NEL TUNNEL SOTTERRANEO DESTINATO A UOMINI E TOPI CANNABIS USA: DI CHIARA: LEGALIZZAZIONE ANDATA IN FUMO CANNABIS USA: PROIBIRE È PEGGIO CHE LEGALIZZARE SEGNALI ELETTRICI INVECE DI FARMACI SUL SISTEMA IMMUNITARIO ORA SI «MAPPANO» CIRCUITI PER ALTRE APPLICAZIONI IL VINO PUÒ FAR BENE MA NON SI SA PERCHÉ VACCINARSI CONTRO I PREGIUDIZI VACCINAZIONI: IL MEA CULPA DELLA CIA «USATE COME COPERTURA» IL MALAFFARE E LE RISORSE SOTTRATTE AI MALATI PERCHÉ SIAMO QUATTRO ANNI PIÙ LONGEVI DI UN AMERICANO? MANCANO GLI INFERMIERI MA ANCHE I SOLDI PER ASSUMERLI ZAFFERANO, L’ORO ROSSO ANTISTRESS CHE RIGENERA LA PELLE LA «MORTE NERA» RIVOLUZIONÒ GLI SCHEMI SOCIALI DELL'EUROPA LA DEPRESSIONE POST PARTO DEI NEOPADRI SETTIMANA MONDIALE TIROIDE: SOLO IL 50% DEL SALE VENDUTO È IODATO GUZZANTI, PADRE NOBILE DELLA SANITÀ LA SECONDA OPINIONE È UN DIRITTO SI ALLUNGA L’ALFABETO DELLE CELLULE AGGIUNTE DUE LETTERE AL DNA ========================================================= ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 Mag. ’14 UNIVERSITÀ, UN PIANO PER RESTARE IN EUROPA Stefano Paleari I dati riportati domenica da questo giornale rivelano come, mai come ora, gli italiani si rivelino così insofferenti verso le Istituzioni europee. E mai come questa volta si arriva all'appuntamento elettorale dopo un periodo di crisi economica con impatti differenziati sui singoli Paesi. È come se il sentimento europeo dei padri fondatori si fosse trasformato in risentimento dei figli verso una geografia che ha garantito certamente pace, stabilità e diritti ma che oggi si rivela anche nei suoi lati negativi e che ha bisogno di un nuovo corso. Affinché questo possa avvenire dobbiamo evitare di perseverare su obiettivi che si sono fatti nel tempo irrealizzabili e la cui riproposizione non fa altro che suscitare nei molti irritazione e frustrazione. Quando si parla di Università e di ricerca, per esempio, si dice spesso che entro il 2020 dovremo, secondo gli obiettivi stabiliti a livello europeo, raggiungere il 3% del Pil di investimento in ricerca e sviluppo o che dovremo colmare il gap nella percentuale di laureati rispetto alla media degli altri Paesi europei. O ancora, che dovremo catturare una quota maggiore di fondi europei grazie al programma Horizon 2020 al quale l'Italia contribuisce economicamente per una somma maggiore di quella che riesce a raccogliere nella competizione sui progetti di ricerca. Chi non è d'accordo con questi traguardi? Nessuno, ovviamente, e quando questi vengono ribaditi nelle sedi istituzionali l'unica attenuante è che, essendo il 2020 ancora "lontano", c'è tempo per porvi rimedio. È così di Governo in Governo. Peccato però che la prossima legislatura europea ci porterà alle porte del 2020 e lì il Re sarà veramente nudo. La realtà è ben diversa e nella legislatura che si va a concludere più si segnalavano gli obiettivi europei più ci si allontanava: rispetto al 2009, infatti, i finanziamenti all'Università e alla Ricerca si sono ridotti del 20%, i ricercatori sono diminuiti del 15%, il diritto allo studio è al lumicino, ci sono meno studenti e meno laureati. Anche per questo ribadire da parte di chi ha le redini della politica gli obiettivi per la fine di questa decade genera rabbia e frustrazione. L'unica colpa che in tutto questo ha l'Europa è forse quella di mostrare la nostra inadeguatezza. Per carità, non si chiede all'Italia ciò che, purtroppo, non può dare, almeno nel breve periodo. Si chiede però solo di dire le cose come stanno e, per quanto possibile, fare di tutto per invertire almeno il trend. E allora mi chiedo: c'è una proposta politica per tutto ciò? c'è un'idea di diritto allo studio che rispecchi davvero la volontà della Costituzione italiana dei "capaci e meritevoli anche se privi di mezzi" o questa viene riproposta solo come anestetico per le nostre coscienze? c'è la consapevolezza che con l'armamentario burocratico di un'Università assimilata a Pubblica amministrazione non si va da nessuna parte nel confronto internazionale stante i paradigmi dominanti? c'è coerenza tra gli obiettivi "europei" e i mezzi "italiani"? Queste sono le domande a cui dovrebbe rispondere chi si candida a governare l'Italia e l'Europa. Ci si è stupiti del calo del Pil italiano anche nel primo trimestre 2014. Speriamo davvero che possa andar meglio nei prossimi mesi e che le misure recenti del Governo si rivelino efficaci. Ma non si dimentichi che, se dovessimo misurare il "capitale umano" che si è dissolto in questi anni grazie alle politiche dei "finti fini e dei carenti mezzi" ci sarebbe da rabbrividire e non ci fermeremmo alle statistiche dello "zero virgola". Non si chiede la Luna per la fine di questa decade, come disse Kennedy all'inizio degli anni Sessanta, ma almeno di non essere considerati tutti sprovveduti. Se Europa deve essere che lo sia per davvero, negli obiettivi e nei mezzi. Presidente della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane) ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Mag. ’14 LAUREATI, L'ITALIA È ULTIMA Nel 2013 superati in classifica anche da Romania e Macedonia Gianni Trovati Il consuntivo dice «ultimi in Europa», e gli obiettivi ufficiali comunicati dall'Italia a Bruxelles nell'ambito della «strategia Europa 2020» lo confermano: ultimi siamo e ultimi resteremo, almeno fino al 2020. Tanta coerenza riguarda il tasso di laureati nella popolazione fra 30 e 34 anni di età. L'indicatore è piuttosto trascurato nel dibattito pubblico di casa nostra ma è centrale nei documenti europei, perché ancor più dei titoli di studio nella popolazione complessiva misura il «capitale umano» più importante per il presente e il futuro di un Paese. I numeri sono tutti scritti in documenti ufficiali - li ha spulciati per primo Roars.it, blog animato da un'associazione di docenti presieduta da Francesco Sylos Labini (si veda anche Il Sole 24 Ore del 16 aprile) - e sono parecchio efficaci nel raccontare una delle cause della crisi italiana. Il fenomeno non è nuovo, perché già nel 2009 superavamo in graduatoria solo Slovacchia, Repubblica Ceca, Romania e Macedonia, ma negli ultimi anni si è aggravato: mentre l'Italia procedeva con i ritmi "tranquilli" del passato, portando al 22,8% la quota di laureati nella popolazione fra 30 e 34 anni, gli altri Paesi correvano di più: la Repubblica Ceca, con un balzo del 9,2% in quattro anni, si è portata al 26,7%, ma anche la Romania (dove il Pil pro capite è meno di un quarto del nostro) e la Macedonia, caratterizzata da una ricchezza per abitante pari al 58% di quella rumena, hanno fatto meglio. La media europea, che conta 36,8 laureati ogni 100 giovani 30-34enni, è lontana, così come i dati registrati nei Paesi che più di Macedonia e Romania dovrebbero rappresentare i "concorrenti" diretti dell'Italia: la Germania si attesta al 33,1%, la Francia è al 44% e il Regno Unito vola al 47,6 per cento. Fin qui il presente. Ma a evidenziare la scarsa ambizione della politica italiana sulla questione strategica della conoscenza sono soprattutto gli obiettivi ufficiali che negli anni scorsi abbiamo comunicato alla Commissione europea nell'ambito del progetto 2020. Il target continentale chiede di arrivare nei prossimi sei anni almeno al 40% di laureati, dato in effetti non lontanissimo dal 36,8% raggiunto nel 2013, ma noi ci accontentiamo di molto meno. Se rispetterà il proprio programma, l'Italia arriverà infatti al 27%, una percentuale che la abbona all'ultimo posto nel continente almeno fino al 2020: quando in Francia, stando agli obiettivi ufficiali, sarà laureato un giovane su due, e in Irlanda si arriverà al 60 per cento. La modestia degli obiettivi italiani, del resto, è coerente con le performance di un sistema universitario che non accelera (i laureati 2012, ultimo dato disponibile nelle banche dati Miur, sono stati 295.699, lo 0,2% in più di quelli del 2008), e anzi pare tempestato dai segni «meno» in molti indicatori. Il fondo di finanziamento ordinario, cioè il cuore della spesa statale per l'università, ha perso dal 2008 a oggi 706 milioni, cioè il 9,73% del totale, mentre le stime parlano di un dimezzamento degli professori ordinari e di un taglio del 27% degli associati da qui al 2018. Con questi numeri, il consiglio universitario nazionale (Cun) ha lanciato l'allarme sul «collasso strutturale» delle università, mentre la Conferenza dei rettori si è appena lamentata per la pioggia di adempimenti burocratici «in arrivo da più parti». La carta, insomma, pare l'unica cosa che oggi abbonda nell'università italiana. gianni.trovati@ilsole24ore.com ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Mag. ’14 Migliorare l'orientamento in entrata è la vera svolta Alessandro Schiesaro Ricordate la strategia di Lisbona? Era quella che secondo le intenzioni formulate un decennio prima avrebbe dovuto fare dell'Europa «la più competitiva e dinamica economia della conoscenza» entro il 2010. Obiettivo ambizioso, infatti rivisto un po' al ribasso nel 2005 e poi, maturata la scadenza nel pieno della crisi, tacitamente abbandonato. Ora la Commissione europea propone alcuni obiettivi per un altro appuntamento decennale, il 2020, e auspica che per allora il 40% degli europei tra i 30 e i 34 anni avrà compiuti studi universitari, o per meglio dire terziari (cioè post diploma). Nel passaggio da una scadenza all'altra si è aggravato il posizionamento dell'Italia, che oggi è ultima nella Ue a 28 come numero di laureati in quella fascia di età ed è destinata a restarlo anche nel 2020, anche se si confermasse, il che resta da vedere, il trend di crescita registrato tra 2009 e 2012 (in media + 4% annuo). Per far aumentare il numero di laureati è necessario che cresca il numero di diplomati che si immatricola, o il numero di immatricolati che si laurea o, meglio ancora, tutti e due. In Italia il tasso di passaggio dalle secondarie all'università è buono, ma quasi la metà degli immatricolati non arriva al titolo. Non solo: in alcuni Paesi, non da noi, l'uscita dall'università, magari anche senza aver conseguito la laurea, costituisce solo un appuntamento rimandato. In Danimarca quasi il 60% degli studenti torna prima o poi negli atenei, a testimonianza di un sistema fluido, legato a un modello di sicurezza sociale che punta molto sull'acquisizione di nuove competenze. Si possono guadagnare alcuni punti percentuali nella transizione tra scuola e università, e soprattutto si può rafforzare il filone degli studi di terzo livello non universitari, gli Its, che in altri Paesi concorrono massicciamente al conseguimento del target complessivo di laureati. L'unico modo per migliorare di netto la situazione resta però quello di ridurre il numero di immatricolati che non taglia il traguardo finale, spesso perché non ha scelto un corso davvero adatto alle sue inclinazioni e competenze. I testi Teco, che puntano a misurare le competenze acquisite nel corso degli studi universitari e sono stati sperimentati l'anno scorso per la prima volta anche in un campione di dipartimenti italiani, confermano che gli studenti delle facoltà a numero chiuso ottengono risultati positivi (era scontato), ma altrettanto fanno quelli iscritti a corsi di studio che prevedono comunque un test "diagnostico" in ingresso. Non una barriera all'accesso, ma un'occasione per verificare se le competenze di partenza sono adeguate e, in caso contrario, consente di impostare una strategia di recupero. Il problema principale, in altri termini, resta quello dell'orientamento in entrata, che già la riforma del "3+2", ormai quindici anni fa, poneva in teoria al centro del nuovo sistema, ma che stenta ancora ad affermarsi come cardine di un sistema universitario focalizzato sulle esigenze degli studenti. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Mag. ’14 UNIVERSITÀ, LA BEFFA DELLE ABILITAZIONI TRA RITARDI BUROCRATICI E DIAVOLERIE Come se tutto ciò non bastasse, ecco ora l’ultima: sulla seconda tornata dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (questo è il nome attuale della valutazione che apre le porte al titolo di professore nell’Università) pende il pericolo concreto della cancellazione. Domande, titoli, patemi d’animo: via, tutto inutile. La prova non c’è più. Il motivo è presto detto. La legge prevede perentoriamente che la prova debba finire entro questa fine di maggio. Ma le varie commissioni — che già per svolgere la prima tornata avevano quasi tutte sforato il tempo troppo breve loro assegnato — per affrontare sia pure al galoppo l’esame dei lavori presentati dai concorrenti alla seconda, avrebbero dovuto ricevere almeno da qualche settimana, da parte del ministero, il materiale sul quale lavorare. E cioè quelli che in gergo si chiamano «indicatori bibliometrici», attestanti il previo superamento o meno delle «mediane» da parte dei candidati. Far capire in poche parole di che si tratta supera le capacità di una persona intellettualmente normodotata, e quindi chi scrive non può che rinunciare. Basti dire che è una cervellotica diavoleria che dovrebbe servire (ma invece si è visto che non serve) a una preselezione dei candidati. Bene. Adesso la fine di maggio incombe, il termine stabilito dalla legge incalza, la burocrazia ministeriale i suddetti indicatori non li ha trasmessi, le commissioni non possono procedere, e dunque tutto minaccia di saltare. L’unico rimedio potrebbe essere a questo punto il solito minidecreto legge: e così ad occhio i requisiti della necessità e dell’urgenza sembrerebbero non mancare. Ma i ministri interessati — certamente Stefania Giannini e, pare, il ministro Boschi — sembra che non siano d’accordo sul da farsi. E dunque in queste ore migliaia di cittadini italiani stanno lì con il fiato sospeso, aspettando di sapere il destino che li attende. Di questo passo accadrà che anche per occupare una cattedra universitaria finirà per imporsi come il più ragionevole il metodo già proposto da qualcuno per occupare un seggio in Parlamento: l’estrazione a sorte. Mentre sempre più forte risuona al cielo muto la domanda di sempre: «Ma che razza di Paese è l’Italia?». Ernesto Galli della Loggia ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Mag. ’14 ACCORDO TRA REGIONE E UNIVERSITÀ A CAGLIARI E SASSARI 220 MILIONI DI EURO Firmato un Accordo di programma quadro tra i rettori degli atenei e il presidente della Regione, Francesco Pigliaru. Arrivano 223,2 milioni di euro per integrare il lavoro delle due università di Cagliari e Sassari con il trasferimento di innovazione nel territorio, attraverso l'Accordo di programma quadro (Apq) siglato oggi dal presidente della Regione Francesco Pigliaru e dai rettori Giovanni Melis e Attilio Mastino. Gli investimenti serviranno per rendere più competitive, più forti e più strategicamente collocate nella regione le università creando spazi per mettere insieme competenze, innalzando la qualità didattica e della ricerca negli atenei dell'Isola. "Il percorso, però, non si ferma qui - ha annunciato Pigliaru - è solo una prima puntata di una sequenza di altri Apq che verranno sottoscritti sul fronte della sanità, delle bonifiche con la questione Igea e su quello della mobilità e viabilità". Per Cagliari, le risorse sono 62 milioni complessivi mentre l'ateneo sassarese potrà contare su 80 milioni di euro a cui si aggiungono i cinque milioni per la riqualificazione dell'Accademia delle belle arti della Sardegna. Soldi anche per l'Ersu: 40 milioni a Sassari per il Campus universitario da 500 posti (probabilmente nella sede dell'ex brefotrofio) e 32 milioni a Cagliari per il nuovo campus da 683 posti (nella sede dell'ex semoleria), per riqualificare le case dello studente e le mense esistenti. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Mag. ’14 UNICA: SIGLATO L'ACCORDO CHE AVVIA LAVORI PER 223 MILIONI Nuove strutture per didattica e ricerca: «Servono più laureati sardi» I laureati non bastano. I posti letto per studenti fuori sede non bastano. Le strutture per fare ricerca come si deve, non bastano. Il presente dell'università sarda è questo; il patto tra la Regione e i due atenei vuole cambiare il futuro. «Deve crescere il numero degli iscritti, degli alloggi e soprattutto di quanti si laureano», annuncia Francesco Pigliaru, presentando l'accordo di programma che avvia 223 milioni di lavori tra Cagliari e Sassari. Soldi che si tradurranno in aule, laboratori, campus universitari. Utili per una didattica e una ricerca di qualità: «Senza buone università non si rilancia l'Isola», assicura il governatore. «Dove ci sono più laureati, con migliori competenze, si produce anche più innovazione, impresa, impiego». L'accordo di programma («un buon lavoro avviato dalla Giunta precedente», riconosce Pigliaru) è firmato dalla Regione con i ministeri dell'Università e dello Sviluppo economico, e coi due atenei sardi. Circa 164 milioni arrivano dal Fondo sviluppo e coesione (ex Fas), 42,5 dalla Regione, il resto dalle sedi accademiche. I rettori Giovanni Melis (Cagliari) e Attilio Mastino (Sassari) illustrano il piano: «Nella cittadella di Monserrato - spiega Melis - è già partita la costruzione di un nuovo edificio che accorperà didattica e ricerca di Farmacia, Scienze e Medicina. Contiamo di ultimarlo nel primo semestre 2015. Ci sarà anche un Centro servizi comuni per la ricerca e un nuovo giardino botanico». Nel centro di Cagliari «si interverrà sul campus urbano dei poli di Ingegneria-Architettura, Umanistico, Economico-Giuridico», prosegue il rettore. Si riqualificherà la clinica Aresu e quella pediatrica, l'ex Medicina del lavoro, i locali di via Trentino. «E in piazza d'Armi-via Is Maglias troverà posto la nuova biblioteca centralizzata di Ingegneria e Architettura». Alcuni lavori saranno pronti già a fine 2014. A Sassari, dice Mastino, gli interventi più rilevanti saranno l'area bionaturalistica dell'orto botanico, «che andrà in appalto a breve», il rifacimento del polo umanistico di via Roma e «una robusta ristrutturazione della sede storica secentesca di piazza Università. Entro tre anni - calcola il Magnifico - contiamo di completare l'intero pacchetto di lavori»: che comprende il polo agrario-veterinario, la nuova sede di Farmacia, la ristrutturazione di Economia. Nonché quella dell'Accademia di belle arti, illustrata dal presidente Gavino Mariotti. Entrambi gli Ersu avranno fondi per il nuovo campus; a Cagliari si lavorerà pure sulle strutture esistenti, mense comprese. «È fondamentale», sottolinea Melis: «A Cagliari possiamo dare un posto letto solo al 57% degli studenti idonei, a Sassari al 75%. Università come Firenze, Pisa e Siena arrivano al 100%». «Ecco», raccoglie al volo Pigliaru: «Noi puntiamo a fare come loro». Giuseppe Meloni ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 Mag. ’14 UNA RICERCA CHE PAGA Uno studio basato su dati Istat mostra che nel 2008-2011, tutte le attività (dirette, indirette e indotte) connesse alla ricerca in fisica valgono il 7% del Pil Patrizia Caraveo Quanto conta la fisica nella vostra vita? Non importa che abbiate amato, o, forse più probabilmente, odiato la materia, considerandola ostica e difficile, la fisica ci accompagna in quasi ogni momento della nostra giornata. Non è necessario conoscere le equazioni di Maxwell per accendere una lampadina, eppure il transito dei segnali elettrici lungo i fili è governato dalle leggi scoperte da questo gentiluomo scozzese che cercava di capire perché fosse così difficile trasmettere i segnali nei cavi sottomarini che erano, all'epoca, l'ultima novità per collegare il vecchio e il nuovo mondo. Andò ben oltre la risoluzione del problema e pose le basi della fisica moderna. Tuttavia non dimenticò mai il suo debito verso la telegrafia che aveva dato valore commerciale alle accurate misure elettriche, permettendo di fare prove su una scala impensabile in un normale laboratorio. A differenza di gran parte dei fisici suoi contemporanei, che consideravano la risoluzione di problemi pratici un'attività non consona ad un ricercatore, Maxwell era sensibile all'utilizzazione delle sue ricerche, ma non partecipò al loro sfruttamento economico Con un approccio totalmente diverso, Marconi, refrattario agli studi teorici ma straordinariamente dotato per la sperimentazione, costruì una fortuna sui risultati dei suoi brillantissimi esperimenti che gli valsero fama mondiale, oltre ad un premio Nobel dalla discutibile motivazione. La collaborazione tra fisici e il mondo industriale può avvenire anche in modi più indiretti, con equazioni belle ed eleganti che rimangono per anni in attesa di un problema al quale possano essere applicate. É il caso del laser, che è entrato nei libri di testo prima di trovare applicazioni che hanno cambiato in meglio le nostre vite, oppure delle equazioni della relatività generale, che hanno atteso decenni prima di trovare utilità pratica con il Gps che le utilizza per localizzare accuratamente la posizione delle nostre auto. Non è un effetto da poco, senza relatività generale il Gps non potrebbe funzionare. Visto la pervasività dei risultati della ricerca in fisica nelle nostre vite, è naturale chiedersi quale sia la loro ricaduta economica nell'Italia di oggi. La Società Italiana di Fisica (Sif) in collaborazione con Cnr, Inaf e Infn, ha commissionato a una ditta specializzata uno studio intitolato L'Impatto della fisica nell'economia italiana (http://www.sif.it/attivita/physics_economy). Lo studio, basato sui dati Istat relativi al periodo 2008-2011, mostra che, tra impatti diretti, indiretti e indotti, le attività connesse con la ricerca in fisica contribuiscono per il 7% del Pil italiano, interessando oltre 260 mila imprese per un milione e mezzo di posti di lavoro. I dati Istat dicono che i settori considerati hanno risentito della crisi, ma hanno resistito meglio di altri e si stanno riprendendo con una produttività che è superiore alla media nazionale del 20%. Il rapporto racconta anche diverse storie di successo che vedono protagoniste industrie italiane che si sono affermate nel mondo grazie alle loro competenze nelle tecnologie più avanzate, sviluppate in stretta collaborazioni con università e enti di ricerca. La conoscenza paga e l'effetto trainante sarebbe anche maggiore se il Paese ci credesse davvero e decidesse di investire di più in un settore così strategico. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Mag. ’14 UN PAESE SENZA SCIENZA L'ultimo nato della Treccani racconta la storia della ricerca scientifica in Italia e ci mostra come dal Medioevo a oggi siano state solo le nostre scelte a condannarci alla marginalità Massimo Bucciantini Nel 1979 uscì un libro di Giorgio Soavi intitolato Italiani anche questi, che contiene una delle più lucide testimonianze che siano mai state scritte su Adriano Olivetti, ovvero su una delle personalità più creative e visionarie che l'Italia repubblicana abbia avuto. Soavi, che fin dal 1947 ebbe la fortuna di lavorare a suo fianco, lo descriveva così: «Adriano era diverso perché oltre a cercare dei progettisti di fabbriche o di carrozzerie per macchine cercava collaboratori al suo progetto per la vita; e non solo per l'Italia, così piccola e sgangherata da essere idealmente e materialmente aggiustabile, ma di più. Andava con la testa ai grandi problemi ed era affascinante seguirlo o intuirne la sagoma, l'ingombro». Quel titolo e quelle parole, con il riferimento alla creatività e alla diversità rappresentate da un italiano come Olivetti, potrebbero essere il giusto commento a un'opera appena pubblicata e dedicata alla storia della scienza, al contributo che l'Italia ha dato allo sviluppo scientifico internazionale: a partire dalla rinascita filosofico- scientifica nel periodo medievale e rinascimentale fino ad arrivare ai giorni nostri. E che vede ora la luce nel quadro degli aggiornamenti dell'Enciclopedia Italiana. Il nuovo nato della «Treccani», tanto per intenderci, che come gli altri che lo hanno preceduto ha la caratteristica di essere pesante e ingombrante e che mal si adegua all'organizzazione ormai prevalente nelle nostre librerie, disposte ad accogliere libri sempre più piccoli e leggeri. Un volume, quindi, che non ha certo le caratteristiche di essere un livre de chevet, ma che è ugualmente prezioso, soprattutto se lo paragoniamo ai tanti surrogati online che la rete oggi ci propone. La foto di gruppo è impressionante. Oltre ottocento pagine, con oltre 120 saggi ripartiti in tre distinte sezioni cronologiche: la prima che copre il periodo 1400-1700, la seconda che arriva fino all'Unità d'Italia, la terza, infine, che dal 1861 giunge fino alle soglie di questo secolo. In altri termini: dalla riscoperta di Tolomeo geografo e la nascita dei primi musei, orti botanici e teatri anatomici del Rinascimento alla fisica atomica di Enrico Fermi e le conquiste nel campo della medicina e della biologia compiute da Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini. Passando, tanto per ricordarne alcuni, da Filippo Brunelleschi, Leonardo da Vinci, Galileo, Alessandro Volta, Amedeo Avogadro, Camillo Golgi, Vito Volterra, Giuseppe Peano, Guglielmo Marconi. Ma anche da tanti scienziati italiani i cui nomi sono meno noti al grande pubblico, come quelli di Agostino Bassi e Leopoldo Pilla, Eduardo Caianello e Ettore Marchiafava, Domenico Marotta e Giuseppe Occhialini. Forse gli iperspecialisti storceranno il naso per i ritratti a «medaglione» dentro ai quali i protagonisti di questa grande opera sono stati in qualche modo costretti. Ma è il quadro d'insieme che conta e colpisce. Sono le domande che si pongono Antonio Clericuzio e Saverio Ricci, i curatori del volume, a guidare il lettore in questo lungo e accidentato itinerario spazio-temporale che si snoda all'interno di un Paese da sempre considerato – secondo una vulgata dura a morire – allergico, per sua natura, alle sfide scientifiche. Ma che invece non è così. O comunque non sempre è stato così. E questo libro ha il merito di ricordarcelo, mettendo in risalto i punti cruciali di una storia fatta sì di sconfitte e arretramenti, ma anche di avanzamenti e felici congiunture. Da cui si impara una lezione importante che può sembrare banale ripetere, se non fosse che spesso si tende consapevolmente a trascurare: e cioè che nessuno ci ha mai condannato alla marginalità, perché ieri come oggi sono le nostre scelte - spesso di carattere ideologico e politico - a farci diventare quello che siamo agli occhi del mondo. Quasi metà dell'opera è dedicata al periodo postunitario. E si tratta di una scelta innovativa rispetto ad altre imprese editoriali di questo tipo. Naturalmente ciò non significa che le vicende dei secoli precedenti non abbiano influito, e pesantemente, sull'assetto culturale di questo Paese. A cominciare dal caso Galileo, dalla condanna da lui subìta, che ha segnato in profondità la storia italiana, facendoci allontanare, per oltre un secolo, dai principali centri europei della ricerca filosofica e scientifica. Non bisognerebbe infatti dimenticare che il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo restò all'Indice dei libri proibiti per ben due secoli, fino al 1835. Così come non può passare sotto silenzio il fatto – e questo lavoro non lo fa – che se a partire soprattutto dalla seconda metà del Seicento l'Italia iniziò a svolgere ricerche sperimentali nel campo della fisica e della biologia, è altrettanto vero che le principali linee di ricerca teorica su cui da allora erano impegnati gli scienziati di tutta Europa – e cioè le discussioni sulla costituzione corpuscolare della materia, sull'esistenza del vuoto e sul sistema del mondo – non trovarono un terreno fecondo. È un'Italia che nel dibattito su com'è fatto il mondo è costretta a ripiegare su se stessa e a segnare il passo, che si chiude invece di aprirsi al dialogo con Francia, Inghilterra, Germania, Olanda. E ciò è dimostrato ampiamente dai forti condizionamenti opposti dal potere religioso a ogni tipo di libertà di filosofare in naturalibus. Ne è una prova evidente la vicenda di Evangelista Torricelli, con le sue lettere sul vuoto che non vennero pubblicate lui vivo, come pure lo confermano la condanna delle concezioni atomistiche che avevano trovato ampia circolazione tra i galileiani e i cartesiani italiani di metà e fine Seicento, e la proibizione, a Settecento inoltrato, di un'eccezionale opera di divulgazione della nuova fisica come il Newtonianesimo per le dame di Francesco Algarotti (1737). E questi sono solo alcuni esempi fra i tanti, piccoli e grandi, episodi di censura (e di autocensura) che hanno costellato la nostra storia, da sempre caratterizzata da un forte contrasto a qualsiasi forma di secolarizzazione della cultura filosofia e scientifica (ma su questo punto rinvio al recente libro di Massimiliano Panarari e Franco Motta, Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia, Marsilio). All'indomani dell'Unità, la classe politica liberale si trovò di fronte a un compito immenso: quello di dotare l'Italia di un moderno apparato tecnico-scientifico, che era fortemente arretrato o del tutto assente in numerose aree del Paese. E se, come è evidenziato in diversi saggi presenti in questo volume, l'ambizioso progetto del ministro-scienziato Quintino Sella restò nel libro dei sogni (fare di Roma la capitale internazionale della scienza e della sua diffusione sociale), il suo "programma minimo" venne però portato a termine con successo. Nei primi decenni del Regno d'Italia si realizzarono infatti laboratori e istituti di ricerca capaci di competere con quelli delle maggiori nazioni europee. E questo grazie anche al forte impegno pubblico degli scienziati. E lo stesso si verificò a partire dagli anni immediatamente successivi alla fine seconda della guerra mondiale. Anche allora vi fu uno sforzo eccezionale, una nuova partenza con la creazione di istituti scientifici di livello internazionale, a cominciare dall'Istituto nazionale di fisica nucleare (1951), e con la nascita di sempre più fecondi rapporti tra università e industria, soprattutto nel campo della chimica. Insomma, quasi fosse il risultato di una legge antropologica, gli italiani sono capaci di dare il meglio di sé solo in presenza di un alto tasso di macerie e distruzioni. Poi, infatti, lo scenario cambiò di nuovo, e l'Italia piccola e sgangherata del "particulare", delle consorterie e delle molteplici e trasversali insipienze riprese vigore. Dove è vero che l'eccellenza della ricerca italiana, con i premi Nobel a Salvador Luria (1969) a Renato Dulbecco (1975) a Rita Levi-Montalcini (1986), tutti formatosi alla scuola di Giuseppe Levi, ha continuato miracolosamente a sopravvivere e a fare la differenza: ma ciò è avvenuto e continua ad avvenire soprattutto fuori d'Italia, nei grandi centri scientifici americani ed europei. Ed è da questo punto, dalla riflessione sul declino del sistema italiano della ricerca, da ciò che Clericuzio e Ricci chiamano «le tradizioni di ricerca colpevolmente distrutte», e dalla consapevolezza del fallimento di un ventennio di riforme scolastiche e universitarie, che bisogna avere il coraggio e la forza di ripartire. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il contributo italiano alla storia del pensiero. Scienze, direzione scientifica di Antonio Clericuzio e Saverio Ricci, VIII Appendice della Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, vol. IV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, pagg. XXXI, 802, 96 tavole f.t., s.i.p. ____________________________________________________________ L’Espresso 29 Mag. ’14 TITO BOERI: ATENEI, LA VERA RIFORMA È DARE SOLDI AI PIÙ BRAVI Il turnover dei ministri della Pubblica istruzione in Italia, si sa, è particolarmente elevato. Quasi immancabilmente ogni nuovo titolare del dicastero produce una riforma del sistema di reclutamento dei docenti, i cosiddetti "concorsi universitari ". È un modo gattopardesco per associare il proprio nome all'università, cambiando tutto per non cambiare nulla. Le regole sono state modificate già quattro volte in 15 anni, con clamorosi dietrofront dai concorsi nazionali a quelli locali e viceversa. Il nuovo ministro, Stefania Giannini, non sembra fare eccezione. Si è già impegnata su queste colonne ad un'operazione sulla carta ancora più radicale: abolire i concorsi. Ogni riforma ha dei costi elevati: richiede di investire capitale politico nel convincere rettori e rappresentanze dei docenti, crea nuove ansie a chi magari sta valutando se rientrare in Italia, aumenta l'incertezza di chi punta a una carriera nell'accademia italiana, dissuadendodunque i migliori dal restare. Ha senso lanciarsi in questa operazione? Non ci sono altre priorità per l'università italiana? CONCORDO CON PIERO IGNAZI: bisogna dare continuità alle procedure per l'abilitazione nazionale, sottoposte ad una prova durissima con il concorsone dei 60 mila. Non hanno dato una prova così negativa come si vuol fare credere. Mille ricorsi su 60 mila domande (meno del 2 per cento) sono davvero pochi. Gli aneddoti di cui ha dato conto "l'Espresso" sono, appunto, aneddoti. Sfido chiunque a non trovarne di simili analizzando il comportamento di un campione altrettanto grande di assunzioni in imprese private. Studiando più a fondo i numeri e i dati sui candidati e SIA commissari si scopre che il criterio preponderante per la concessione dell'abilitazione è legato al numero e alla qualità delle pubblicazioni, controllando le quali non sembra esserci una distorsione a favore dei candidati che provengono dall'università italiana rispetto agli outsider, come documentato su lavoce.info. Bisognerebbe ora che queste procedure si tenessero ogni anno, con numeri più piccoli, permettendo alle commissioni di fare un lavoro più approfondito e dando un segnale d'apertura a chi guarda all'Italia da fuori: sappiate che ogni anno, a settembre, c'è la procedura per l'abilitazione nazionale. AL TEMPO STESSO bisognerebbe occuparsi dei problemi davvero rilevanti dell'università italiana. Che utilizzo pensa il nuovo ministro di fare della valutazione della qualità della ricerca svolta dall'agenzia per la valutazione? E stata un'impresa gigantesca e costosa che offrirebbe oggi la possibilità a un ministro che vuole davvero riformare l'università di attribuire i fondi alle varie sedi in base alla loro produttività scientifica. Quale quota del Fondo di Finanziamento Ordinario delle università vuole il ministro investire in questa operazione che vuole premiare le università più attive nella ricerca? Il governo Letta sì era impegnato ad arrivare a non meno del 16 per cento ne! 2014, del 18 per cento nel 2015, del 20 per cento nel 2016, e così via, fino a un 30 per cento di finanziamenti all'università basati sulla quota premiale. Intende il ministro Giannini rispettare questo programma? Andare oltre il 30 per cento e in che tempi? Darebbe gli incentivi giusti a chi deve prendere le decisioni davvero importanti, a partire dal reclutamento vero, con chiamate dalla lista di abilitati o anche al di fuori mediante contratti di diritto privato. Perché i concorsi nazionali danno solo un'abilitazione, una condizione necessaria per essere messo in ruolo. Sono poi le diverse sedi a decidere chi chiamare e chi no. E se ricevono più soldi quando fanno bene nella ricerca, faranno di tutto per attrarre i migliori. Al punto che una volta arrivati al 50 per cento di quota premiale, si potrà probabilmente, a quel punto sì, fare a meno dell'abilitazione nazionale e magari dello stesso ministero dell'Università, limitandosi a gestire centralmente la valutazione e, sulla base di questa, l'allocazione dei fondi. ALTRO PUNTO CRUCIALE è incentivare davvero assunzioni di altissima qualità, imparando le lezioni dai fallimenti dei vari programmi di rientro dei cervelli degli ultimi dieci anni. Questi offrivano incentivi temporanei in contratti altrettanto temporanei mentre l'unico modo per attrarre i cervelli è offrire contratti a tempo indeterminato. Si può prendere spunto dalla Catalogna, una regione in difficoltà economica co Menoi, che ha creato un'agenzia che è riuscita a fare arrivare 300 persone di altissimo livello da tutto il mondo offrendo dei contrarti a tempo indeterminato. Ha intenzione il ministro di replicare questa esperienza? Il principale programma italiano di finanziamento della ricerca di base, il Prin (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale), è agonizzante. Quest'anno gli sono stati destinati 38 milioni a fronte dei 175 degli anni precedenti. Ha intenzione il ministro di rivitalizzare questo programma o intende come il predecessore di fatto puntare tutto sui finanziamenti europei dell'Ere (European Research Council)? Se sì, può davvero l'Italia fare a meno di un programma per la ricerca di base? Come si vede i problemi e le decisioni su cui lasciare un segno non mancano. I concorsi per l'abilitazione nazionale non sono la priorità. Si possono raffinare, ad esempio riducendo i raggruppamenti nelle varie discipline. Circa il 15 per cento dei candidati ha presentato domande a più raggruppamenti, un'indicazione del fatto che la loro numerosità corrisponde al desiderio di creare posizioni di potere piuttosto che a vere e proprie demarcazioni disciplinari. Ma si tratta di aggiustamenti abbastanza marginali che possono essere risolti con atti amministrativi. vere riforme sono altrove. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 21 Mag. ’14 A LUGLIO SPARISCE IL TEST PER MEDICINA «ISCRIZIONI LIBERE, POI SELEZIONI DURE» Giannini: sono prove inutili, sbarramento al primo o secondo anno Stavolta si cambia davvero. Niente più quiz. Mai più domande che, «a voler essere buoni, hanno lasciato molto perplessi». Nessun esame in primavera, a poche settimane dalla maturità. A contare «saranno soltanto la preparazione e la motivazione» dei ragazzi. E, soprattutto, il banco di prova arriverà alla fine del primo o del secondo anno di università. Ma in cambio la selezione «sarà più dura». Test d’ammissione a Medicina, addio. Dopo polemiche, proteste, ricorsi al Tar e appelli da Nord a Sud, il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini scopre le carte e annuncia: entro luglio arriverà il nuovo sistema di selezione per gli aspiranti camici bianchi. Per la gioia delle associazioni degli studenti universitari che esultano: «Abbiamo vinto noi». Il capo del Miur però precisa: le novità valgono soltanto dall’anno accademico 2015/2016. Per chi ha fatto il quiz lo scorso aprile non cambia nulla. Così come resta tutto com’è per gli altri corsi ad accesso programmato. «Il meccanismo andava cambiato il prima possibile», ragiona il ministro. «Non solo per il caos sui test di primavera, ma anche per quei ragazzi che — in centinaia, migliaia — vanno a formarsi in Albania e Romania per evitare un numero chiuso che qui è stato concepito e applicato male». A proposito dell’appuntamento di aprile, il numero uno dell’Istruzione spiega che la data stabilita rispondeva a una logica precisa: «Bisognava allinearsi al resto del mondo». Ma nel concreto qualcosa non ha funzionato. «Gli studenti hanno smesso di studiare le materie classiche, quelle che servono per la maturità, per prepararsi ai quiz. E questo ha fatto arrabbiare i professori delle scuole superiori». Il sistema che vedrà la luce a luglio si ispira al modello francese — un primo anno aperto a tutti con sbarramento finale: continui solo se passi gli esami —, «non solo perché ha una realtà accademica simile alla nostra, ma anche perché molti Paesi guardano a Parigi come ad un esempio da seguire». Certo, il tutto dovrà essere importato «con dei correttivi che tengano conto delle caratteristiche italiane». I tempi non sono ancora decisi. «Vediamo se fissare la selezione alla fine del primo o del secondo anno». Ma una cosa è certa: il test a crocette va in soffitta. Un po’ perché, dice Giannini, «non hanno senso». Un po’ perché «non valutano le competenze di chi vuole fare il medico». «Nell’ultimo test c’erano domande di Logica e Cultura generale che francamente mi hanno lasciato perplessa», commenta. E così nella nuova ammissione «conteranno solo la preparazione e le capacità dello studente». Il percorso sarà a «Y»: «Prima parte degli studi comune a tutti gli aspiranti medici, farmacisti, dentisti e ostetrici. Poi, una volta dati gli esami previsti, bisognerà superare la selezione». Selezione che sarà dura. «Il nostro sistema accademico deve davvero garantire la continuazione soltanto ai migliori». E a questo proposito una delle questioni «scottanti» sarà quello dell’asticella. Chi la decide? «Il ministero stabilirà quale sarà la valutazione standard», risponde Giannini. E lascia intendere che forse, su questo punto, potrebbe concedere un pizzico di autonomia ai singoli atenei. Come avviene in Francia. E cosa succede a chi non passa l’«esame»? «Non resterà per strada — assicura la responsabile dell’Istruzione —, avrà la possibilità di utilizzare gli esami dati per altri corsi». C’è, poi, il rischio del sovraffollamento delle aule: in alcuni atenei le classi potrebbe scoppiare. «Il problema esiste — ammette il ministro —, ma lo risolveremo. Intanto prima portiamo a termine i lavori per il nuovo sistema di ammissione». Leonard Berberi lberberi@corriere.it ____________________________________________________________ Corriere della Sera 24 Mag. ’14 LO STUDENTE MODELLO E I TEST DI MEDICINA CAMBIARE LE REGOLE PUÒ ROVINARE I SOGNI Lo studente di Taranto che è arrivato primo in tutt’Italia al test per l’ammissione alla facoltà di Medicina ha confessato di aver studiato tre anni, trascurando tutto il resto, anche un po’ il liceo, pur di riuscire nella cosa a cui più teneva. Un caso di abnegazione ma anche di programmazione, le uniche due cose che possono, unite al talento, dare risultati di eccellenza. Nei tre anni in cui quello studente studiava imperterrito, le regole dell’ammissione a Medicina sono però state cambiate dai governi cinque volte (da quattro differenti ministri). Prima il test si faceva dopo la maturità, e il voto di questo esame valeva ai fini del punteggio. Poi il valore del voto di maturità è stato annullato (la mattina stessa del test, con gli studenti già nelle aule). Poi è stato reinserito, per paura di una raffica di ricorsi (del tutto giustificati). Poi il test è stato anticipato a prima della maturità (quest’anno). E adesso è stato annunciato dal nuovo ministro, impaziente di metterci anche lei le mani, che l’anno prossimo il test non ci sarà proprio più, e abbiamo scherzato, seguiranno ulteriori indicazioni. Da un lato la perseveranza, la concentrazione sull’obiettivo, la programmazione della propria vita, di un giovane meritevole (e immaginiamo della sua famiglia). Dall’altra il caos, la disorganizzazione, una certa attitudine a giocare con le vite di quelli che più che da cittadini sono trattati come sudditi. Se qualcuno cercasse una prova migliore di come lo Stato s’infila nella vita, nei sacrifici, nelle aspettative degli italiani, arrecando confusione e incertezza, rovinando piani, cancellando speranze, il test di Medicina è il non plus ultra. Antonio Polito ____________________________________________________________ Corriere della Sera 22 Mag. ’14 QUELL’INSANO ENTUSIASMO PER I TEST CANCELLATI di GIANNA FREGONARA La ministra Stefania Giannini ha inaugurato l’altro ieri la riforma via Facebook abolendo con un post, dopo quindici anni, il test di ammissione alla facoltà di Medicina. Dal 2015 tutti gli studenti diplomati potranno accedere al primo anno, la selezione si farà dopo. Non è dato sapere ancora come, per quanti, con quali criteri. Né che cosa faranno i non ammessi: ripiegheranno su biologia, fisica, forse matematica, che al secondo anno diventeranno ghetti di lusso per i non idonei a proseguire Medicina? Forse, o forse no. Che cosa succederà con il numero degli studenti che quintuplicheranno immediatamente almeno nei primi anni? Riusciranno le facoltà ad accoglierli? E i fondi? Non si sa E non ne sa nulla neppure la ministra della Salute Lorenzin che, via agenzie di stampa, chiede di discutere del nuovo criterio di ammissione tutti insieme. La ministra Giannini si è limitata a far sapere che i problemi «si risolvono uno per volta». Sicuramente ci sono tanti metodi di selezione degli studenti. I test di medicina, la cui preparazione è stata affidata ultimamente a società straniere, non hanno brillato per efficacia e sicuramente meriterebbero di essere molto aggiornati e molto migliorati. Ma non meritano di essere cancellati con un post. Cambiare il sistema di ammissione a Medicina — e dunque indirettamente anche alle altre facoltà che lentamente sperimentano forme di ingresso con test — è una vera e propria riforma, che andrebbe proposta, discussa e verificata. Rispetto agli altri metodi di selezione di cui si è parlato in questi anni i test nazionali hanno avuto senz’altro il vantaggio indiscusso di essere un sistema in cui i candidati sono anonimi e dunque tutti uguali. Potrebbe avere un effetto simile anche il voto di maturità se si riuscisse a fare una prova nazionale, senza lasciare il voto al giudizio delle commissioni e basta. Il messaggio che passa con questo annuncio è comunque un altro: poiché la riforma del sistema di ammissione per ora non c’è — i dettagli si conosceranno solo a luglio — resta soltanto la cancellazione del test. Medicina libera per tutti, si entusiasmano gli studenti e i movimenti che hanno combattuto per l’abolizione. Gli esami, i test, non si fanno: in un Paese che si ribella a qualsiasi valutazione, in cui qualsiasi giuria è soggetta a ricorso, qualsiasi criterio a revisione continua, è un messaggio che ci porta indietro. Senza contare che ovunque le facoltà migliori ormai selezionano i propri studenti. E questo lo sanno tutti, gli studenti, i genitori, i professori. E i ministri. Gianna Fregonara ____________________________________________________________ Corriere della Sera 21 Mag. ’14 PROCESSI E AVVOCATI, IL PAESE DEGLI ECCESSI Caro direttore, l’Italia ha una posizione di spicco nell’ambito europeo per la lentezza della giustizia civile. Dovendo spiegarsene il perché, la spiegazione che sembra ovvia e viene per prima alla mente è che siano insufficienti le risorse dedicate all’organizzazione giudiziaria. Ma così non è; o meglio: così non sarebbe in una situazione normale, perché la spesa annuale per l’intero sistema giudiziario italiano (civile e penale) corrisponde a circa € 73 per abitante, che corrisponde sostanzialmente alla media dei Paesi dell’eurozona (dati 2010 Cepej). Il problema è dovuto principalmente all’ingente arretrato, che a sua volta si è formato per l’insostenibile pressione di una massa ingente di domande giudiziali. 2.399.530 nuove liti civili e commerciali in un anno è un numero abnorme, perché corrisponde a 40 nuove liti per 1.000 abitanti, dato che si confronta con 28 per la Francia, 19 per la Germania, 13 per l’Austria (dati 2010 Cepej). Contrastare un fenomeno che ha radici nel costume non è facile; ma qualcosa si può fare. Si può e si dovrebbe, innanzitutto, evitare che la via della lite infondata sia più conveniente di quella dell’adempimento del dovuto. È questo il caso, in Italia, dell’adempimento di molti debiti di diritto privato, per i quali la condanna attribuisce sovente solo gli interessi legali, che oggi, per esempio, sono calcolati al tasso dell’1% annuo. Ciò significa che in questi casi il debitore inadempiente è finanziato dal creditore, per la durata del processo fino a un provvedimento esecutivo di condanna, al tasso (per il 2014) dell’1% annuo, mentre un finanziamento bancario (che oltre tutto non gli sarebbe sempre possibile di ottenere) gli costerebbe oggi almeno il 5% annuo. Ciò è tanto più sconcertante, in quanto per il ritardo nel pagamento di merci e servizi oggetto di operazioni commerciali sono invece dovuti (per imposizione europea, al solito) interessi al tasso, oggi, dell’8,25% annuo. Sembrerebbe, inoltre, corretto e opportuno disporre che la parte soccombente, la quale abbia temerariamente abusato del processo agendo o resistendo in giudizio con malafede o colpa grave, sia condannata a pagare allo Stato una sanzione adeguata. Merita poi di essere accertato se un contributo alla riduzione del contenzioso possa essere dato dalla Pubblica Amministrazione, mediante un suo più generale e rigoroso controllo preventivo interno, che operi come filtro selettivo delle posizioni da mantenere in giudizio, separandole da quelle da abbandonare spontaneamente in riconoscimento delle buone ragioni della controparte. Si tratta di una questione assai importante, poiché i procedimenti in cui è parte la Pubblica Amministrazione, spesso con cause seriali, costituiscono una quota assai importante del contenzioso. Altra posizione di punta del nostro Paese riguarda il numero degli avvocati (nel 2010 circa 350 avvocati ogni centomila abitanti, a fronte, per esempio, di 80 in Francia e 190 in Germania: dati Cepej). «Troppi avvocati!» scriveva Piero Calamandrei con riferimento ai dati del 1913 (quando avvocati e procuratori erano 21.488: 59 ogni centomila abitanti; oggi sono circa 250.000). Troppe cause, perché troppi avvocati, o invece, gli avvocati sono molti per provvedere alle molte cause? O, infine, entrambi gli eccessi sono paralleli e hanno la radice nella particolare cultura del Paese? Delle due prime tesi, la seconda non sembra fondata: la domanda di giustizia è cresciuta, ma se il numero degli avvocati fosse adeguato alla pressione della domanda, essi dovrebbero essere pienamente occupati, mentre così non è, poiché risulta che in gran numero sono in difficoltà per insufficienza di lavoro. La tesi opposta — che siano gli avvocati a fomentare le liti — si ricollega con una secolare diffidenza verso la categoria e, più in generale, verso i giuristi: dal detto «giuristi, cattivi cristiani», ripetutamente ripreso da Lutero, all’Azzeccagarbugli del Manzoni. La tesi non è rigorosamente dimostrabile, e va in ogni modo ridimensionata, considerando che, di regola, l’incontro fra avvocato e cliente avviene su iniziativa di quest’ultimo, e non viceversa. È peraltro ragionevolmente presumibile che avvocati con poco lavoro non siano molto portati a frenare la litigiosità dei loro clienti. Anche per questa ragione, di fronte al gravissimo problema della crisi della giustizia civile, che richiede di adottare tutti i rimedi ragionevoli e possibili, l’opportunità di introdurre un numero programmato per l’ammissione all’esercizio della professione andrebbe seriamente considerata. Questa soluzione, dopo le deplorevoli vicende degli esami d’avvocato a Catanzaro, che ora si vorrebbero sostituire con la facile abilitazione professionale ricercata in certi Paesi stranieri per poi farla valere in Italia, si raccomanderebbe, inoltre, come l’unica veramente in grado di assicurare un sufficiente livello di competenza tecnica. La critica, secondo la quale limiti all’accesso alla professione sarebbero contrari alle esigenze del mercato, appare dettata da una concezione scolastica e semplicistica dei benefici della concorrenza; inoltre trascura che la garanzia di competenza tecnica non è solo nell’interesse del cliente, ma è anche nell’interesse pubblico alla qualità del giudizio, poiché il dibattito fra difensori competenti è di grande aiuto a chi deve poi decidere la lite, come qualsiasi giudice può testimoniare. Professore emerito di Diritto civile all’Università Statale di Milano ____________________________________________________________ Il Foglio 22 Mag. ’14 AUTARCHIA UNIVERSITARIA, NO GRAZIE Dall'abolizione dei test ai sussidi a pioggia, strane idee solo italiane L’ansia elettorale non ha risparmiato Stefania Giannini, ministro dell'Istruzione in quota Scelta civica, partito che pure si dichiara alieno dalla demagogia. Dunque ecco la Giannini annunciare via Facebook l'abolizione del test d'ingresso a Medicina e la sua sostituzione, dall'anno accademico 2015-2016, "con un sistema alla francese", cioè con sbarramento dopo il primo anno. "Ma", aggiunge il ministro, "potrebbe essere anche al secondo. Valuteremo entro luglio". La Giannini spiega, sempre su Facebook, che "la selezione sarà dura, ma chi non la supera non dovrà abbandonare l'università: potrà iscriversi ad altri corsi". I test attuali, con domande da Settimana enigmistica, sono indifendibili. Ma quale modello universitario prefigura un cambio in corsa da predisporre in due mesi? Chi lo finanzia? Con quali strutture e personale? All'ultimo test di Medicina si sono presentati in 83 mila per 19 mila posti: tra un anno entreranno tutti? Si abolirà il numero chiuso anche ad Architettura, Ingegneria, Economia, Giurisprudenza? Dove e con chi studierà la massa liberalizzata di matricole, visto che i nostri atenei sono afflitti da mancanza di aule e laboratori, per non parlare di alloggi e campus? Le rette, poi, sono improntate non al merito e alla corretta amministrazione ma alla demagogia: nelle università statali sono in media di 2.400 euro, ma grazie al cola-brodo dell'Isee l'80 per cento delle famiglie se la cava con pochi spiccioli. Abbiamo già una sorta di università popolare da ex Urss; vogliamo trasformarla in un prolungamento della scuola dell'ob- bligo, con inevitabili imbarcate di docenti più o meno precari? Il fiasco doloso delle mille cattedre di prodiana memoria è troppo recente. I test vanno cambiati o aboliti, ma poi si abbia il coraggio di garantire la sostenibilità del sistema universitario, se necessario con l'au-mento delle rette, e in ogni caso con un'a-zione seria contro l'evasione e con l'ingresso di risorse private. Il tutto bilanciato da borse di studio meritocratiche (i cui fondi sono stati invece tagliati), i mutui da ripagare con i primi anni di lavoro, la stretta su docenti assenteisti e dinastie baronali. Soprattutto legando i fi-nanziamenti di atenei e specifici dipartimenti alla loro valutazione. Così funziona nel resto del mondo: o pensiamo ancora ad altre scorciatoie nazionalpopolari ____________________________________________________________ Repubblica 22 Mag. ’14 SCONTI E STAGE GRATUITI LE OFFERTE DEGLI ATENEI PER CATTURARE STUDENTI LE UNIVERSITÀ RICORRONO ALLA CREATIVITÀ PER ARGINARE IL CALO DI ISCRIZIONI. C’È CHI METTE IN PALIO UNA SETTIMANA DI SOGGIORNO PER PRESENTARE I CORSI. ALTRI OFFRONO TAGLI DI TASSE A FIGLI DI DISOCCUPATI E DI PERSONE IN DIFFICOLTÀ Luigi Dell’Olio Lo leggo dopo Milano L’ obiettivo è contrastare il calo degli iscritti dovuto alla crisi. Così tra gli atenei è in corso una battaglia di creatività alla ricerca di soluzioni accattivanti, capaci di tenere insieme promozione del brand e attenzione ai costi. L’Università degli studi di Trento e la Libera Università di Bolzano offrono a un massimo di cento studenti del penultimo anno delle scuole secondarie di secondo grado una settimana residenziale estiva volta a far conoscere diversi ambiti del sapere e a far sperimentare la vita da studente. Una sorta di prova di ambientamento, dunque, per saggiare la bontà dell’offerta d’ateneo. Ogni istituto interessato, situato fuori dal Trentino Alto Adige, può segnalare fino a tre studenti interessati e meritevoli. La settimana prevede momenti di approfondimento tramite seminari su varie discipline, tra cui biologia molecolare, design, economia, fisica, giurisprudenza, informatica, ingegneria, linguistica, matematica e neuroscienze, oltre ad attività di laboratorio e visite culturali. Il Politecnico di Torino punta sugli studenti più motivati e dal prossimo settembre toglierà le tasse ai 200 studenti più meritevoli, con un investimento da un milione di euro solo per il primo anno. A questa iniziativa si affianca un programma di summer school per impegnare gli studenti nei mesi estivi. La Sapienza di Roma, invece, agevola le famiglie con più figli iscritti all’ateneo. Il beneficio consiste in una riduzione fino al 30% delle tasse universitarie fino al primo anno fuori corso. Inoltre le matricole che hanno conseguito la maturità con votazione 100 o 100 con lode ottengono l’esenzione della prima rata e, se mantengono voti elevati durante il corso di laurea, si vedono confermata l’agevolazione. L’Università di Foggia ha promosso una serie di agevolazioni a favore degli studenti i cui genitori siano stati interessati da provvedimenti di cassa integrazione, da mobilità o di licenziamento nell’ultimo anno. L’esonero non può però essere concesso se si verificano alcune condizioni reddituali (Isee o Iseeu superiore a 20mila euro) o di merito (ad esempio in caso di iscrizione da oltre cinque anni per le lauree triennali o da oltre tre per i corsi di laurea specialistica o magistrale biennali). Su questa strada si muove anche Camerino, che ha disposto l’azzeramento delle tasse per le matricole con uno o due genitori disoccupati, in mobilità o in cassa integrazione. A Milano la Bicocca ha messo a punto un piano per incentivare economicamente il merito indipendentemente dalla fascia di reddito, attraverso crediti attribuiti sulla base dei risultati raggiunti, che possono essere spesi per ottenere uno sconto sulla tassa di iscrizione all’anno successivo o a un master (se già laureati), per comprare libri di studio, iscriversi a corsi di lingua o per avere rimborsi parziali degli abbonamenti al trasporto locale. Inoltre l’ateneo meneghino ha deciso di introdurre il test di accesso a distanza per i corsi a numero programmato, evitando così gli spostamenti dei fuorisede. Restando nel capoluogo lombardo, la Iulm ha deciso di sostituire il tradizionale open day con una open week, una settimana dedicata ai giovani laureati triennali o agli studenti di corsi triennali ormai prossimi alla laurea che cercano di farsi largo nella selva dell’ampia offerta dei corsi magistrali. Inoltre, propone una retta minima ridotta per l’immatricolazione a chi proviene da famiglie con redditi bassi. La necessità di attrarre iscritti riguarda anche gli enti di formazione post-laurea, soprattutto quelli che puntano su lavoratori, professionisti e imprenditori. Esigenze che hanno spinto il Politecnico di Milano a sviluppare il Flex Emba, un formato senza aule, né orari, totalmente online, che si svolge attraverso una piattaforma di digital learning, che permette di accedere a contenuti video pre-registrati, partecipare attivamente a videosessioni di discussione e workgroup moderate dal docente, oltre a interagire con gli altri allievi. Punta su un legame stretto con il mondo del lavoro la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che propone un master universitario di secondo livello in “Smart Solutions — Smart Communities”, nato dalla collaborazione con Telecom Italia. Il corso è progettato per attrarre e formare giovani allievi di talento: ai 20 allievi selezionati viene concessa una borsa di studio dell’importo di 12mila euro. Le lezioni durano sei mesi e sono somministrate in lingua inglese, dopo di che parte la fase di stage presso il gruppo telefonico. L’obiettivo è far terminare il master con competenze da team leader, in particolare nella gestione di progetti complessi, come nuovi sistemi o servizi di telecomunicazioni, l’impiego di nuove soluzioni robotiche in campo socio- sanitario o in ambienti domestici, nonché negli ambienti di lavoro. Le Università di Trento e Bolzano offrono a un massimo di cento studenti del penultimo anno delle scuole secondarie una settimana residenziale estiva volta a far conoscere i corsi di studi Le Università di Foggia e Camerino agevolano i figli di cassintegrati e disoccupati (19 maggio 2014) ____________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Mag. ’14 LA RETE HA LA FEBBRE DELLA CITAZIONE Frammenti minimi rilanciano grandi autori ma, di post in tweet, sono traditi e banalizzati «Non fate troppi pettegolezzi». Si congedava per sempre così Cesare Pavese, nel 1950, dando corpo a una delle paure più sottili di scrittori e artisti: essere fraintesi, specie dai posteri. Timore che oggi sfiora anche i viventi: la diffusione della cultura è veloce, frammentata, polverizzata dalle migliaia di finestre virtuali che ogni giorno ci rimandano citazioni, stralci, incipit, finali. Ma qual è la fisionomia dell’informazione culturale che affiora dalla Rete? Come ci vengono restituite la letteratura, l’arte o il pensiero scientifico dopo essere stati metabolizzati da quell’architettura proteiforme? «A volte in modo fuorviante — afferma Giuliano Santoro, che ha scritto Cervelli sconnessi (Castelvecchi, pp. 144, € 16,50), una riflessione piuttosto critica sulla capacità della Rete di stravolgere un contenuto nell’ingigantire dettagli inutili, personalismi e allarmi infondati —. Spesso, parlando in termini aristotelici, il pathos ha la meglio sull’ethos e sul logos . Pensiamo all’impatto, fortissimo, di certe immagini reiterate all’infinito». E ancora: il genere in apparenza più fecondabile, la citazione, proprio per il suo carattere reiterabile (ritwittabile ) non rischia di ridurre, alla lunga, la complessità di uno scrittore o di un filosofo? Umberto Eco una volta ha detto che internet assomiglia a Funes el memorioso, protagonista di un racconto di Jorge Luis Borges: personaggio dotato di una memoria infinita, ricordava ogni cosa ma, al tempo stesso, era incapace di ragionare perché inabile al filtro, alla selezione. Quel filtro che, nel caso di un autore, diventa importante perché la sua poetica o la sua capacità analitica ci vengano restituite con intelligenza. E, come paventava Nicholas Carr nel suo Internet ci rende stupidi? (Raffaello Cortina, pp. 318, e 24), a volte questo filtro viene a mancare, perché l’urgenza di muoversi tra la mole di racconti, brani e rimandi, la fretta di spostare l’attenzione ha la meglio. Di qui, forse, la valanga citazionista, presente da un po’ nel dibattito culturale americano. Dopo l’esperimento del blogger Daniele Virgillito, che ha inserito false citazioni su Wikipedia attribuendole a vari personaggi, c’è stato un fiorire di finte sentenze con tanto di foto dell’autore. E, oltre al famoso brainyquote.com, a raccogliere «perle» vere e false, ci sono centinaia di siti, da quote-wise.com a searchquotes.com. Giorni fa, sul magazine «Slate» Mark O’Connell si è divertito a risalire alle origini di una frase attribuita a Schopenhauer, per scoprire che il filosofo quelle parole non le aveva dette. E qualche volta la falsa attribuzione segue ragioni che la ragione si rifiuta di conoscere: per esempio, la celebre frase «La vita è quello che ti succede mentre sei impegnato in altri progetti» è effettivamente parte di un brano di John Lennon («Beautiful boy», 1980, dedicato al figlio Sean), ma pare che a scriverla per primo sia stato l’umorista Allen Saunders, negli anni Cinquanta. Il rischio è quello che spaventava Pavese, cioè un fraintendimento mescolato a una generale banalizzazione dei contenuti? Lo scrittore ci è andato vicinissimo qualche settimana fa, quando lo stralcio di una sua lettera a Giulio Einaudi ha raccolto migliaia di condivisioni. Una parte di un tutto ben più completo, nella quale, in sintesi, l’autore mandava al diavolo l’editore. Nella missiva che qualcuno ha postato per intero, però, affiorava l’ironia, registro-chiave di quello scambio epistolare che in realtà era tra due vecchi amici. E poi Pavese è anche il protagonista di uno degli esperimenti forse più riusciti di divulgazione culturale in Rete: TwLetteratura, il progetto della Fondazione a lui intitolata, promuove hashtag come #PaesiTuoi o #LunaFalò intorno ai quali, oltre a rileggere lo scrittore, si possono anche azzardare riscritture personali. Fraintendimenti e riduzioni di complessità anche per Pasolini? Da giorni continua a girare un frammento tratto da Il Caos, rubrica che PPP tenne su «Tempo Illustrato» dal 1968: «La mia indipendenza che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza». Frase che esalta la coraggiosa solitudine dell’intellettuale controcorrente ma che esclude il resto dello scritto, ben più amaro e realistico («Io sono completamente solo. E, per di più, nelle mani del primo che voglia colpirmi»). Possono aiutare le riflessioni della creativa Emma Banyon, affidate giorni fa al «Guardian»: «L’urgenza e la velocità stanno mettendo a dura prova anche l’industria della creatività e gli stessi fruitori hanno sempre meno tempo per scegliere, filtrare». Torna il filtro di Funes: fermarsi a leggere tutta la lettera di Pavese o verificare se la tanto diffusa citazione «Quando un governo non fa ciò che vuole il popolo, va cacciato via anche con mazze e pietre» è effettivamente di Sandro Pertini, richiede tempo, attenzione, cura del messaggio; e perché leggere una, due, dieci poesie di Emily Dickinson (in Rete se ne trovano) quando gli aforismari forniscono la frase giusta che «buca»? La sensazione è che spesso quello che ci viene restituito sia un messaggio preconfezionato: c’è il volto riconoscibile (visi-icone come Pasolini, Einstein, Gandhi sono perfetti) da associare a una sentenza efficace. E, ovviamente, buono per ogni momento. Ecco perché forse è un peccato che rimbalzino continuamente le frasi a effetto di Wis?awa Szymborska (la poetessa definitivamente consegnata alla fama da Saviano, in televisione) mentre restano nell’ombra le bellissime riflessioni di Czes?aw Mi?osz, le cui opere richiedono tempo, attenzione, cellulare in modalità silenziosa; peccato che l’ironia di Witold Gombrowicz (tanto per restare in terra polacca) non si presti al retweet perché smotta poco alla volta, frana pagina dopo pagina, per esplodere al termine di un’estenuante lotta con la sua scrittura. Su Facebook, la pagina «Una piccola ape furibonda» accosta (con coraggio) Merini a Carcasi, Coelho a Ivory, Schopenhauer a Kahlil Gibran: ritagliando espressioni liriche, tra il decadente e il crepuscolare e associando a ogni frase un’illustrazione da «foschia vespertina», tutti si somigliano, sembrano dire le stesse cose. O, al contrario, ci si serve del grottesco per demolire un immaginario. Sempre su Facebook c’è la pagina «Happy Heidegger», dove uno dei filosofi più oscuri compare con una parrucca bionda e un neo o con una camicia sgargiante. Francesca Chiusaroli, docente di Linguistica all’Università di Macerata, si è inventata il progetto #ScrittureBrevi, dove su Twitter invita a creare dei piccoli racconti ispirati a temi, scrittori, pezzi di immaginario. «Il rischio citazione-sterile — dice — esiste, ma si aggira rivitalizzando la lingua. Per dire, abbiamo lanciato un tema tra i più abusati, come #Ceraunavoltaunre, e i lettori ci hanno sorpreso perché sono riusciti non solo a creare microstorie ma anche ad associare a questo noto incipit autori poco conosciuti». In fondo, la diffusione compulsiva di titoli e citazioni può incuriosire. Basta che non si arrivi all’asserzione di Bouvard, in Bouvard et Pécuchet di Flaubert: «Eh! Non ci serviranno biblioteche!». ____________________________________________________________ Repubblica 19 Mag. ’14 SPESA PUBBLICA, LA LEZIONE DI LONDRA “CON INTERNET IL 90% DI RISPARMI” “SIAMO RIUSCITI A RIDURRE I DIPENDENTI GRAZIE ALLA COOPERAZIONE SINDACALE”, DICE IL PAYMASTER GENERAL DEL REGNO UNITO, FRANCIS MAUDE. “MA È CRUCIALE RAZIONALIZZARE I SERVIZI CON LE NUOVE TECNOLOGIE” Eugenio Occorsio Lo leggo dopo Roma «S tiamo completando il ridimensionamento dei dipendenti pubblici: a livello di governo centrale, su 500mila impiegati iniziali c’è stata una riduzione del 16% fino a 410mila, e un’altra riduzione del 7% pari ad altri 20mila dipendenti sarà apportata nei prossimi due anni. E a livello nazionale su 6 milioni di dipendenti puntiamo a una riduzione del 12%. Però non vorrei che si pensasse che quest’operazione consiste solo in un taglio secco dei posti: è una serie di azioni molto più complessa e articolata, che porta a ridurre veramente al minimo indispensabile il sacrificio occupazionale e nel frattempo ad ottimizzare i risultati per i cittadini». Se serviva un test da laboratorio di spending review riuscita in assenza di forti tensioni sociali, Francis Maude è a portarlo in Italia. Il paymaster general nonché minister of cabinetdi Sua Maestà britannica, una funzione che potremmo equiparare qui da noi a un ibrido fra il direttore generale del Tesoro (infatti risponde al Cancelliere dello Scacchiere), il Ragioniere generale dello Stato e soprattutto il commissario Cottarelli-style, era a Roma la settimana scorsa. Ha incontrato un buon numero di ministri oltre ovviamente a Cottarelli medesimo. Quale testimonianza gli ha portato? «Che lavorando con oculatezza sulla macchina pubblica si possono ridurre davvero in modo molto significativo le spese. Noi abbiamo cominciato nel 2010: nel primo anno abbiamo tagliato spese per 3,75 miliardi di sterline, nel 2011 per 5,5 miliardi, nel 2012 per 10 miliardi, per il 2013 stiamo chiudendo i conti ma il risultato sarà di molto superiore a quella cifra». Il fatto che le cifre siano esponenzialmente crescenti indica che avete conseguito dei miglioramenti strutturali? « Direi proprio di sì. Ripeto, non tagliando selvaggiamente i dipendenti: il fatto che alla nostra operazione abbiano partecipato attivamente e concretamente i sindacati, indica che niente di quella che voi italiani chiamate “macelleria sociale” è stato effettuato. Siamo intervenuti con prepensionamenti, spostamenti da un settore all’altro, ma soprattutto con la razionalizzazione. Che passa intanto con un controllo trasparente su spese quali il marketing o le consulenze, che abbiamo ridotto per due terzi. E poi soprattutto per l’ottimizzazione informatica. Abbiamo calcolato che i risparmi possano arrivare in certi casi al 90% e oltre. Stiamo unificando in un sito, www.gov.uk, assolutamente user-friendly e anche gradevole tanto che ha avuto quest’anno il premio per il “Design of the year”, tutte le funzioni pubbliche, dalle pratiche alle transazioni finanziarie, svolte finora da centinaia di agenzie: dal rinnovo del passaporto o della patente al pagamento di tasse e multe, dall’applicazione per gli apprendistati pubblici ai passaggi di proprietà che sono solo per le auto 1,6 milioni l’anno. La maggior parte dei servizi è in fase beta, cioè sperimentale presso selezionati gruppi di cittadini il cui feedback è indispensabile per l’ottimizzazione. Alcuni sono ancora in fase alfa, cioè si sta disegnando il progetto, come le transazioni immobiliari, qualcosa come 30 milioni di pratiche l’anno. Uno solo è già in fase live, cioè pienamente operativa, e non a caso riguarda la concessione di borse di studio pubbliche». Dice “non a caso” perché l’istruzione è, come in Italia, l’unico settore ad essere risparmiato dalla review? «Noi abbiamo il massimo rispetto per gli insegnanti, così come per altre categorie troppo spesso bersagliate da critiche. I medici del servizio sanitario nazionale per esempio sono aumentati. Mi creda, è tutta questione di organizzazione. E anche di sperimentare strade nuove, come le cooperative di ex dipendenti pubblici a cui vengono appaltate determinate funzioni». Una specie di outsourcing? «Più o meno. Finora hanno aderito in 35mila. Gruppi di dipendenti pubblici si organizzano, lasciano i quadri dell’amministrazione però riprendono lo stesso servizio in appalto. Non gli diamo nessun incentivo monetario, solo l’assistenza e il tutoraggio per l’avvio di questi spinoff. Così è migliorata del 30% la produttività in settori cruciali quali l’amministrazione sanitaria. Ora ce lo hanno chiesto perfino delle squadre di vigili del fuoco. Alcune di queste nuove società entrano in joint-venture con il ministero interessato, altre prendono il servizio in toto. Gli ex-dipendenti si responsabilizzano e si sottraggono alla frustrazione e alla burocrazia che tante volte ne frenano l’efficienza. Entrano in un mercato competitivo e possono oltre a quello per l’amministrazione prendere altri incarichi nel settore privato È una formula sulla quale ci chiedono continuamente informazioni da altri Paesi. Ne ho appena parlato al ministro Madia che ha ascoltato con attenzione». A sinistra: il servizio sanitario britannico è stato oggetto di una capillare review senza però tagliare i servizi medici ____________________________________________________________ Corriere della Sera 24 Mag. ’14 COME DIFENDERSI IN RETE DALLE LEGGENDE SULLA SCIENZA Internet è come il pub dell’Ulisse di Joyce, ma enorme «La Bufala è servita: tra scienza e pseudoscienza» è il titolo che riunisce in un unico progetto i diversi incontri ed eventi che si concluderanno oggi in 28 città italiane, per parlare della corretta divulgazione scientifica e di come difendersi dalle «bufale». L’iniziativa è stata ideata dal movimento Italia unita per la Scienza insieme all’Associazione nazionale biotecnologi italiani. Obiettivo principale degli incontri, spiegano gli organizzatori, «è quello di riuscire a smascherare le cosiddette bufale scientifiche: notizie che si diffondono viralmente soprattutto sul web, ma che non hanno alcun fondamento scientifico. Si parla di disinformazione scientifica e di argomenti di grande impatto per la cittadinanza come sperimentazione animale, cellule staminali, vaccini, Ogm, omeopatia, energie alternative e tanto altro ancora». Tutte le iniziative vogliono insegnare ai cittadini ad «avere spirito critico; il che non significa non considerare gli aspetti umani ed etici delle questioni, ma permette di compiere scelte oculate su temi fondamentali per il futuro del Paese che riguardano ricerca e scienza, e dunque anche salute, alimentazione e ambiente». Il calendario degli eventi è disponibile su www.italiaxlascienza.it. Tra «i derelitti e perditempo», che affollano la taverna del famigerato Skin-the-Goat (Scorticacapre) nella notte tra il 16 e il 17 giugno 1904 un marinaio ne racconta di tutti i colori: cannibali sudamericani che pasteggiano col fegato crudo di un cavallo morto, asiatici che preparano un succulento pasticcio di topo, e perfino «un coccodrillo che mastica un’ancora come un qualsiasi pezzo di tabacco tra i nostri denti». Buon appetito! Così James Joyce si beffa nel suo Ulisse di coloro che si divertono a diffondere le storie più strampalate. Pensate ora a un pub grande come tutta la Rete e lasciate che qui circolino le notizie più bizzarre tipo «I vaccini fanno diventare autistici i nostri pargoli», oppure «Chi è vegano non si ammalerà di cancro», oppure «Con pochi mezzi è possibile realizzare la fusione fredda persino nel vostro scantinato» (speriamo di no!), eccetera eccetera. Di questa infezione è vittima soprattutto l’impresa tecnico-scientifica, da ben prima di Internet. All’alba della modernità Galileo e Cartesio invano protestavano contro il moltiplicarsi di spiegazioni fasulle sulla stampa dell’epoca; e alla fine persino l’Illuminismo non è riuscito ad arginare la marea di quelle che liquidava come «pure superstizioni». Ci deve essere qualcosa entro la scienza che giustifica il fenomeno. Forse è lo specialismo di molti scienziati, che ora sembrano gli araldi di una nuova salvezza e poi deludono con la «normalità» dei loro risultati. O forse è il fatto che l’arida scienza, come diceva Friedrich Nietzsche, col suo stesso progresso «toglie gioia», o almeno elimina consolazioni a buon mercato. Non siamo più al centro dell’Universo, abbiamo con le scimmie più tratti comuni di quanto vorremmo ammettere, e una macchina può essere così sofisticata da batterci in complessi giochi di intelligenza. Ma intanto la scienza «ufficiale» appare il prodotto di una comunità chiusa nei propri laboratori, trincerata dietro incomprensibili formule matematiche, protetta in modo «asettico» dal turbinio delle emozioni. Eppure, proprio la Rete potrebbe essere uno dei luoghi della comunicazione fra amministrazione, politica, industria, da una parte, e mondo tecnico-scientifico, dall’altra. Anzi, «quello strumento resta comunque il più potente per raggiungere le giovani generazioni, che non possiamo perdere nel nostro lavoro di educazione alla ricerca», mi dice Gianluca Vago, rettore dell’Università degli Studi di Milano e specialista in Anatomia patologica: «Dobbiamo sforzarci di utilizzare lo stesso linguaggio della Rete per far capire quelli che sono gli aspetti più salienti dell’impresa scientifica, nell’accezione più ampia del termine». Né dobbiamo dimenticare che dietro la mandria delle «bufale» che impazzano nella Rete ci potrebbe essere un fuoco «democratico» che anima coloro che mal sopportano una barriera rigida tra competenza e ignoranza. Una reazione comprensibile di fronte a quei ricercatori che esitano a uscire dalle trincee in cui definiscono la loro disciplina. Ma ai luoghi comuni (sbagliati) che la Rete costruisce mancano due doti che invece contraddistinguono l’investigazione spregiudicata della realtà: coraggio e modestia. Niente moto perpetuo, ma consapevolezza del costo di qualunque forma di energia; niente cure miracolose del cancro o di qualsiasi altro flagello dell’umanità, ma paziente sperimentazione sui farmaci; niente messaggi dagli spiriti, ma puntigliose analisi di cosa sono la vita e la coscienza. Coraggio e modestia richiedono anche l’assoggettarsi al dovere del ragionamento coerente e della prova controllabile. Questa non è una burocratizzazione della ricerca, semmai il suo contrario; e se Università, istituti superiori, centri di eccellenza scientifica eccetera riusciranno nei modi più vari e originali a presentare non tanto questo o quel risultato quanto tale atteggiamento di fondo, avranno dato un’ulteriore dimostrazione che la conoscenza è forza democratica per eccellenza, mentre una società ove la conoscenza viene confinata in piccole isole resta terribilmente fragile e può subire dure involuzioni autoritarie, anche... grazie alla Rete. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 05 Mag. ’14 VITO MANCUSO: «RITORNIAMO ALLA SAPIENZA ANTICA» LO STUDIOSO CHIUDE IL FESTIVAL DI CAGLIARI Il bisogno crescente di spiritualità nel mondo di Giulia Clarkson CAGLIARI Oltre le rigidità dei dogmi, dentro la tensione continua della ricerca. Il teologo Vito Mancuso chiude gli appuntamenti del Festival della Filosofia ospite a Cagliari della comunità La Collina di Don Ettore Cannavera dove, in compagnia di Pierpaolo Ciccarelli, ieri pomeriggio si è attardato a dialogare di Salvezza e perdizione nel rapimento estetico, si riconferma grande interprete del bisogno, attuale e diffuso, di spiritualità. Vito Mancuso, perché chiamano proprio lei per parlare di bellezza? «La voce di un teologo non si può ignorare, se si vuole chiudere il quadrato sulla bellezza. È evidente se consideriamo che lo scritto più importante sul tema è forse, ancora oggi, il Simposio di Platone, con i 5 gradi della scala dell’eros, dalla bellezza per i corpi a quella per le anime fino alla bellezza ineffabile. Tra il pulcrum e il divinum, insomma, non c’è soluzione di continuità. Dietro l’ambiguità del termine bellezza c’è una prepotente tensione verso un assoluto di purezza. All’opposto, però, la bellezza è anche perdizione e rapimento. La bellezza è il crocevia da cui si può giungere all’armonia e al divino; o, come scrive Baudelaire nei Fiori del male, è ambiguità suprema, senso della perdizione. A riguardo la teologia ha parecchio da dire, a partire dai vizi capitali. La bellezza ha la carica di lacerazione dell’io, nel senso filosofico del termine. Può generare un io diviso, incapace di essere fedele alla parola data». Quando avviene tale svolta? «Premesso che ogni esperienza è analizzabile per se stessa, l’inizio nella lacerazione della personalità si può individuare quando le parole non sono più conseguenti alle azioni, quando l’attrazione verso la bellezza porta a mentire, a se stessi o agli altri. Esiste dunque un legame anche con il linguaggio? Non c’è niente di umano che non abbia che fare con il linguaggio. Analizzare il linguaggio è come fare l’analisi del sangue per capire di cosa soffriamo. Ogni attività umana si esprime e pensa con il linguaggio, non solo verbale. A chi gli chiedeva: “Maestro, se il Celeste Imperatore vi desse il comando di tutto l’impero, quale azione fareste per prima?” Confucio rispondeva: “Raddrizzare i termini, far sì che le parole siano conformi alle cose e alle azioni”. Più c’è corrispondenza, più la vita è buona, bella e giusta. Se vogliamo uscire da questa crisi epocale dobbiamo tornare alla grande sapienza dell’antichità, che sia greca, ebraica o buddista. Testimoniano tutte il grande legame tra fisica, etica ed estetica. Un discorso che in Occidente si è riaperto anche con la scoperta della fisica quantistica. Le grandi scoperte della fisica, filosoficamente parlando, testimoniano il primato della relazionalità. Le recenti rivelazioni intorno al bosone di Higgs ci dicono che le particelle subatomiche assumono massa e vengono ad essere grazie alle relazioni». Ciò ha molto a che fare con l’estetica, infatti: che cosa è il bello se non l’armonia delle relazione e delle proporzioni? « Il farmaco di cui l’anima ha bisogno potrebbe essere proprio nelle relazioni tra fisica, estetica ed etica. Anche le religioni si devono convertire. Se pensano di possedere la ricetta, non funzionano. Ognuno porta il suo contributo alla bellezza come armonia delle relazioni. Il che non esclude la disarmonia, poiché l’armonia non è statica. Tutto si muove riproducendo logos e caos, ordine e disordine, entropia e distropia. Se l’essere si dà in armonia produce anche l’etica, che è armonia delle relazioni». La teologia è materia per giovani? «Lo spero, ma dev’essere insegnata in modo diverso. In Italia, se rimane veicolata solo dalle facoltà pontificie, non arriverà mai a captare l’entusiastica curiosità dei giovani. Per quel che mi riguarda è stato “Dio esiste” di Hans Küng a scatenare il desiderio di appartenenza, ma senza mai deporre l’inquietudine della ricerca. Parlo della ricerca di chi vuole trovare, non di chi è interessato solo alle negazioni che giustificano un vago ambito anarcoide-nichilistico. La vera ricerca è destinata a trovare, a chi vuole legarsi. La meta è, come diceva Platone, bellezza in continua ascesa. La bibbia, il papa, la chiesa sono degli strumenti e vanno superati. Il grande cammino della teologia si deve forgiare nelle dialettica, com’era un tempo, prima di diventare prigioniero dell’organizzazione ecclesiastica e di chi organizza il sapere come in una scuola per dirigenti». Ha mai fatto una scelta per puro intuito? «La gran parte delle nostre scelte sono basate sull’intuito, specie le più importanti. Certo, dobbiamo far sì che la nostra personalità sia curata, permeata dal desiderio dei sacri ideali dell’umanità perché l’intuito sia buono. D’altronde l’innamoramento cosa è se non la dimensione di attrazione che passa per l’intuito, il desiderio, l’irrazionalità? Non faccio un inno all’irrazionalismo: la ragione serve dopo per capire, ponderare, verificare». Lei ha scalato il Sinai ed ha scelto di farlo con una scalatrice di professione, Nives Meroi; quale è stato il risultato? «Nives è una persona straordinaria che parla della montagna in modo estremamente religioso, quando dice che salire in cima colma il suo desiderio di “silenziosa e quieta appartenenza”. Il senso ultimo di questa avventura, per me meramente intellettuale (io sul Sinai non sono mai stato) è stato proprio trovare questa interiorità di gioiosa appartenenza all’essere che ci può essere donata dalla natura o può essere raggiunta tramite la religione o la spiritualità». ____________________________________________________________ Il Giornale 25 Mag. ’14 DUE SCIENZIATI, QUATTRO SALME E L'AUTOPSIA SUL CORPO DI GESÙ «I soldati romani gli inchiodarono mani e piedi sulla croce per sette volte» Nuove prove sull'autenticità della Sindone: è del primo secolo dopo Cristo Le scoperte di un medico (che cura con incenso e mirra) e di un ingegnere dell'Università di Padova spiegano meglio i Vangeli di Stefano Lorenzetto Non ce ne sarebbe bisogno. Eppure a un certo punto il professor Matteo Bevilacqua, per risultare più persuasivo, non esita a togliersi le scarpe e ad appoggiare i piedi, uno sopra l'altro, sulla scrivania: «Ecco, vede, prima a Gesù trapassarono il metatarso del desto con questo chiodo da 10 centimetri. Poi bloccarono il sinistro sulla caviglia del destro e trafissero entrambi i piedi con questo secondo chiodo lungo 25 centimetri, che, uscito dal tallone, andò a piantarsi nel legno». Il primo chiodo, contesta quadra da8 millimetri dilato, lo ha ricostruito un fabbro. Il secondo è dell'epoca, quasi coevo alla Passione: proviene da una nave triremi affondata ai tempi dell'imperatore Caligola, che regnò dal 37 al 41 dopo Cristo. «La doppia trafittura spiegai due distinti nuclei di sanguinamento presenti sul piede desto della Sindone. I chiodi passarono in mezzo alle articolazioni, senza ledere l'apparato scheletrico. Ciò invera sia la profezia di Isaia sia il Vangelo di Giovanni: "Non gli sarà spezzato alcun osso"». Sarebbe stato più semplice capire come avvenne la crocifissione di Gesù di Nazaret se, anziché in quest' aula del dipartimento di ingegneria dell'ateneo di Padova, il cronista fosse stato ammesso alle prove avvenute nei sotterranei dell'Istituto di anatomia umana, diretto dal professor Raffaele De Caro. Lì i piedi e i polsi non erano del professor Bevilacqua, già direttore del reparto di fisiopatologia respiratoria del Policlinico universitario patavino dove ha lavorato per 43 anni, bensì quelli di quattro cadaveri, messi adisposizione della scienza dai legittimi proprietari mediante testamenti biologici. I fori di entrata e di uscita dei chiodi, le slogature degli arti e le altre torture che segnarono le carni del Nazareno dal pretorio di Ponzio Pilato fino al Golgota sono stati riprodotti – dal vivo, si dovrebbe scrivere, se non stessimo parlando di morti- per poi essere pubblicati su Injury, la rivista di riferimento della British trauma society e di altre associazioni mediche del settore (australiana, greca, saudita, spagnola, turca, croata, brasiliana), fra cui la Società italiana di ortopedia e traumatologia. La ricerca scientifica, che dischiude inedite prospettive sul modo in cui fu messo a morte l'uomo in assoluto più famoso fra gli 85 miliardi d'individui vissuti fino a oggi sulla Terra, è nata dall'incontro di Bevilacqua,75 anni, specialista in pneumologia, cardiologia, medicina interna e radiologia diagnostica, con il professor Giulio Fanti, 58, docente associato di misure meccaniche e termiche nel dipartimento di ingegneria industriale dell'Università di Padova. E ha coinvolto il professor Michele D'Arienzo, direttore della clinica ortopedica dell'Università di Palermo. I tre hanno anche ricostruito un manichino in scala 1 a2 con lapo stura esatta del Cristo deposto dalla croce così come appare nell'immagine rimasta impressa nella Sindone, posizionandolo su una riproduzione del lenzuolo che rispettale medesime proporzioni. Si potrebbe dire che Bevilacqua ritrovasse da tempo nei paraggi: al suo attivo ha tre brevetti incentrati su incenso e mina, i primi doni che furono portati dai re magi al Bambino di Betlemme destinato a finire in croce 33 anni dopo a Gerusalemme. Con i terpeni ricavati da queste sostanze e da altri olii essenziali, lo pneumologo esegue dal 1993 terapie inalatorie che migliorano il trofismo delle cellule cerebrali, ottenendo straordinari risultati nella cura delle malattie polmonari e neurologiche, inclusi Parkinson, Alzheimer, sclero si multipla e schizofrenia. «Nel sepolcro il corpo nudo di Cristo avvolto dal lenzuolo fu appoggiato su una pietra che Giuseppe d'Arimatea aveva cosparso con 100 libbre di una mistura ad azione antiputrefattiva a base di mirra e polvere di aloe, probabilmente anche di natron, cioè carbonato idrato di sodio, tutte sostanze assai costose. Siccome ogni molecola di natron ne assorbe 10 di acqua, la salma, anziché decomporsi, era destinata a mummificarsi». Quanto a Fanti, è un sindonologo che aveva già pubblicato otto libri sul sacro lenzuolo custodito nel Duomo di Torino, il più recente dei quali, per le Edizioni Segno, conclude con certezza che esso risale al primo secolo dopo Cristo. «Ci sono arrivato grazie a una macchina di prove a trazione che ho progettato, tarato e costruito con l' aiuto di Pierandrea Malfi, un mio allievo laureatosi con una tesi sulla datazione delle fibre tessili. Dai test ciclici di carico e scarico sulle singole fibre di lino abbiamo potuto determinare vari parameti meccanici legati all'invecchiamento. I risultati di questi esami meccanici, combinati con i dati relativi a datazioni alternative di tipo opto-chimico, hanno permesso di dimostrare che la reliquia risale al 33 avanti Cristo con un'incertezza di 250 anni in più o in meno». Il suo collega Luigi Garlaschelli dell'Università di Pavia mi spiegò che è tutto frutto di un procedimento chimico con ocra in polvere, opera di un falsario su un telo del 1300. «Teoria non supportata da dati scientifici. Anche sullo Jurnal of Imaging Science and Technology ha scritto che la Sindone è un'immagine medievale. Con Thibault Heimburger, un medico francese, ho contestato questa sua affermazione. Prima di pubblicare il nostro intervento, la rivista americana ha interpellato Garlaschelli per sapere come intendesse replicare. Non avendo argomenti per farlo, è rimasto zitto». Perché lei si occupa della Sindone? «Nel 1997 insegnavo ai miei studenti i si- sterni di visione ed elaborazione d'immagini. Visto che quella stampata nel lenzuolo di Torino è un'immagine inspiegabile, ho voluto capirne di più». Bevilacqua: «Per me s'è trattato di un approccio emotivo. Fino al 1964 ero credente, sono stato persino segretario dell'Azione cattolica al mio paese d'origine, San Marco in Lamis, nel Foggiano. Ma p oi sono diventato ateo, perché non riuscivo a capire il significato del dolore: allora ero medico in un reparto pneumologico con 110 malati di tumore e di tubercolosi polmonare. Nel 1989 passavo un periodo difficile per problemi in ospedale. Un giorno, rincasando, mia moglie Anna Maria mi disse: "Sono andata a pregare sulla tomba di padre Leopoldo Mandic. Spero che il santo ti aiuti". Mi riconverti all'istante. Da quel momento vidi nella Sindone il dolore umano che si sublima nel divino e redime». I test di laboratorio sui cadaveri che cos'hanno rivelato circa il modo in cui morì Gesù? «Sulla Sindone mancano le impronte dei pollici e il polso sinistro presentai segni di due inchiodature. Perché? È molto verosimile che la croce, composta da una trave orizzontale, il patibulum, e da una verticale, lo stipes, essendo di legno duro, noce o ulivo, presentasse dei fori preformati per evitare che i chiodi di ferro dolce, dopo aver trapassato le carni, si storcessero contro i pali. Probabilmente i soldati romani stirarono le braccia di Gesù con delle funi per far coincidere i punti di uscita dei chiodi contali fori, ma l' operazione non riuscì. Perciò estrassero il chiodo conficcato fra radio, scafoide e semilunare e procedettero a una seconda inchiodatura fra le ossicine del carpo, proprio dove sulla Sindone si osserva il foro più grande di uscita del chiodo. Ma in tal modo fu deviato il tendine del muscolo flessore lungo del pollice e fu leso il nervo mediano. Ciò indusse la rotazione del pollice: ecco spiegata l' assenza di impronte. Lo abbiamo sperimentato su tre arti superiori». Negli arti inferiori che accadde? «L'analisi delle impronte fa riconoscere nel piede destro due fori di uscita, uno al calcagno e uno fra il secondo e il terzo osso del metatarso, mentre nel piede sinistro è riconoscibile un solo foro. L'inchiodatura sul metatarso serviva a dare stabilità alla vittima. Va tenuto conto che il Nazareno era sospeso nel vuoto: gli mancava infatti il suppedaneum sotto i piedi, un sostegno di legno utilizzato per prolungare al massimo l'agonia, che poteva in tal modo durare fino a te giorni. Poiché è impossibile che un chiodo fuoriesca sul tallone senza rompere le ossa del piede, bisogna obbligatoriamente ammettere che Gesù abbia subìto anche una lussazione della caviglia destra prima delle inchiodature. E anche questo lo abbiamo dimostrato su cadavere in laboratorio. L'uomo della Sindone in pratica subì sette inchiodature: due per ogni polso, due al piede destro e una al sinistro, con quattro chiodi in tutto». E prima di questo atroce supplizio? Fanti: «Subì la flagellazione con il flagrum. L'ho ricostruito: tre cordicelle di cuoio munite di manico, che finiscono con due piombini pesanti distanziati da uno più piccolo. Ogni sferzata provocava perciò sei ferite lacerocontuse di circa 3 centimetri. Sulla Sindone se ne contano più di370. Ma il lenzuolo avvolgeva il cadavere solo sopra e sotto, non lateralmente. È presumibile perciò che sul corpo vi fossero dai 500 ai 600 di questi lividi con lacerazione delle carni. Dividendo per il numero di piombini, stiamo parlando di circa 100 frustate». E poi si parla di civiltà romana... Bevilacqua: «La spalla destra risulta di 15 gradi più bassa di quella sinistra. Pure l'occhio destro è più infossato di quello sinistro. Questo significa che un grosso trauma lussò il braccio destro e danneggiò il plesso brachiale. La lesione fu provocata dal patibulum, che pesava dai 35 ai 60 chili, e dovette prodursi durante una delle cadute di Gesù sulla via del Calvario, tanto che egli non poté più reggere il carico e fu chiamato in suo aiuto Simone di Cirene». Come previsto nel salmo 22: «Sono slogate tutte le mie ossa». «Le lussazioni rendono compatibile la posizione delle braccia nella Sindone, incrociate a livello del pube e non al di sopra di esso, come ci si aspetterebbe in un corpo eretto, rigido, con il tronco leggermente dorso flesso. Gesù spirò alle 15 e fu staccato dalla croce alle 18. Nelle morti traumatiche, il rigor mortis sopraggiunge quasi subito. È un effetto prodotto da affina e miosina, due proteine che, fondendosi, danno origine all'actomiosina e fanno contrarre la muscolatura. In pratica fu schiodata dal patibolo una specie di "T" umana, una salma con gli arti superiori spalancati e già induriti. Ma le articolazioni delle spalle lussate consentirono d'incrociarli sul pube con una minima forzatura». Che cosa provocò la morte? «Non un'asfissia, come è stato ipotizzato in passato. Essa comporterebbe perdita di coscienza e coma e invece Cristo sulla croce parlò con suo Padre, con sua Madre, con Giovanni, coni due ladroni e subito prima di morire lanciò un grido. Più probabile un infarto acuto del miocardio, al quale concorsero vari fattori». Quali? «Il primo è una causalgia, cioè un dolore urente, insopportabile, derivante dalla lesione dei nervi mediano e tibiale durante l'inchiodatura. Il secondo è uno shock ipovolemico in un corpo completamente disidratato e con volume ematico assai ridotto. In seguito alla caduta lungo la via crucis, vi fu anche una contusione polmonare, che provocò nel cavo pleurico una raccolta di sangue, il quale dopo la morte si sedimentò in uno strato superiore di siero, liquido limpido di colore giallino, e uno inferiore con coaguli e globuli rossi. Ciò spiega perché dal costato trafitto dalla lancia del centurione nella parte bassa del torace sia uscito prima sangue e poi acqua». Non avete provato disagio a usare per questi esperimenti corpi appartenuti a persone come me, come voi? «Per le indagini sul polso abbiamo utilizzato l'arto amputato a un giovane colpito da un tumore dell'avambraccio. E le salme sono state poi riutilizzate a fini didattici, per esempio da studenti di medicina statunitensi impegnati in un' esercitazione con il chirurgo plastico Cesare Tiengo». Fanti: «Disagio? Zero virgola zero. Semmai ho provato gratitudine per il Creatore di questi corpi. Seguo i colleghi universitari che costruiscono i robot. Be', da ingegnere posso assicurarle che un braccio umano presenta una complessità infinitamente superiore a quella dell'androide più sofisticato». Ma cosa può dire un telo bruciacchiato agli uomini d'oggi? «Se non fosse autentico, bisognerebbe ipotizzare che un falsario vi abbia avvolto un cadavere dopo averlo torturato barbaramente. Poiché un esperimento non riesce al primo tentativo, si dovrebbe pensare a più cadaveri torturati. Perciò o la Sindone è vera o documenta un assassinio. Papa Francesco ha deciso unanuovaostensionene12015. Gli chiedo: i pellegrini andranno a venerare nel Duomo di Torino la prova di un delitto plurimo o l'immagine del Risorto? Vorrei un sì o un no. Come Gesù comandò nel Discorso della Montagna». (703. Continua) ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 04 Mag. ’14 ITALIANI, ANALFABETI DIVINI Una ricerca evidenzia come nel nostro Paese l'ignoranza della Bibbia sia totale e che sulla dottrina vi siano idee assolutamente fantasiose Alberto Melloni Gli storici dell'educazione hanno spiegato da tempo perché il grande successo di alfabetizzazione che per l'Italia segna una punta nell'età giolittiana non venga più celebrato, ma anzi colto nella sua insufficienza all'indomani della liberazione. Finito il fascismo, la scuola che aveva costruito l'Italia liberale finisce sotto la lente di osservazione di chi vi vede una discriminazione di classe nella quale era prefigurata in nuce la stessa svolta autoritaria del Paese. Nella severità di quell'analisi si rafforza l'idea che la costruzione di una democrazia sostanziale abbia bisogno di rimediare quel "reato" (espressione di don Milani) perpetrato ai danni delle classi subalterne. È lo Stato il protagonista dell'impegno fissato dalla Costituzione repubblicana: il soggetto di una scuola comunque pubblica (ad populum) aperta al concorso di una scuola privata costruita «senza oneri» per lo Stato. Quella clausola voleva impedire che le componenti ideologiche della società italiana potessero privatizzare la formazione dei propri figli, costruire una scuola come replicante dell'orientamento ideologico della famiglia con un danno che o per via politica o per via sociale avrebbe pure riverberato a discapito del cattolicesimo romano – con la sola eccezione della scuola ebraica, tutelata perché laddove una piccola minoranza ferita dalle politiche razziste e genocidarie cercava la salvaguardia di una sua specificità contribuiva e non sottraeva coesione alla società. Questa visione pubblicisitica passa anche dalla tv: nel 1960 Non è mai troppo tardi del «maestro Alberto Manzi» forma la prima classe virtuale della storia europea non serve a riscattare l'ancor vasta platea di analfabeti primari o di ritorno che hanno nei partiti di massa o a Barbiana le loro antenne, ma a formare un giudizio comune su e contro l'analfabetismo come parte delle politics fasciste, lotta che il centro- sinistra trasformerà nelle policies politica della scuola "unificata", volta a sconfiggere l'analfabetismo profondo, come piaga endemica della società italiana. Ciò che resta invece immutata è la convinzione che l'alfabetizzazione debba avere due poli culturali precisi e pensati, che si impongono nel percorso secondario: il polo della letteratura e il polo della storia. La quantità di storia e di letteratura insegnata agli scolari segna il divide di classe e nella riforma Gentile è il filtro delle classi dirigenti. Si versa conoscenza là dove si percepisce che esiste oggetto conoscibile ed atto intellettuale al quale si può essere "educati": con una graduazione che ha in Croce e Gentile la sua spiegazione. Davvero marginale, invece, è la percezione di altri analfabetismi, e non di scarso peso, che percorrono la società italiana di allora. Ma che in larga parte corrono lungo l'intero Novecento. L'analfabetismo religioso italiano non è l'unico di cui ci si dovrebbe preoccupare, ma non è per questo di scarso peso. Se lo si intende come l'accettata mancanza di strumenti di conoscenza di una esperienza di fede, i testi sacri che la fondano, le sue pratiche culturali, le norme interne ed esterne, i dinamismi storici che la percorrono e la modificano – esso è parte integrante della storia italiana. Infatti la mancanza di strumenti per capire il vocabolario del religioso e per analizzarne i dinamismi non viene da un "dato" sociologico, ma dalla storia. Si tratta di un analfabetismo che non si identifica grazie a paradigmi storiografici in voga e non si esaurisce nel paradosso di una scuola che dedica la più celebre "ora" a un insegnamento che dipende dall'autorità apostolica del vescovo, ma che si sforza di presentarsi come strumento di cultura incardinato in una antropologia "cristiana", come se il cristianesimo avesse una antropologia atemporale. Una comprensione storica dell'analfabetismo religioso, tuttavia, non è operazione semplice come la polemica sull'ora di religione o che ha a che fare, ma non si spiega semplicemente come un capitolo dei rapporti Stato/chiesa. Nessuno vuol negare il peso della mentalità privilegiaria né negare che l'approdo di nuovi alfabeti confessionali e religiosi nell'Italia repubblicana ha reso più evidente il problema. Ma questo primo "rapporto" postula che le ragioni dell'analfabetismo religioso siano di più lungo periodo ed affondino le loro radici in una perdita di strumenti che risale nella sua stratificazione più profonda all'epoca posttridentina e più plasticamente è rappresentata dalla soppressione dei primi decenni dello Stato unitario. Il paesaggio culturale oggi è quello di un Paese dove è rilevabile statisticamente l'ignoranza totale della Bibbia, la produzione di idee fantasiose sulla struttura dottrinale o cultuale della fede nella quale si era nati, la superficialità con la quale si leggono le fedi estranee al proprio immaginario infantile. Con buona pace del ritornello sul Paese "cattolico" e senza sminuire la portata di quei sette milioni di fedeli che entrano in una chiesa parrocchiale o in un santuario la domenica, l'analfabetismo religioso di cui soffre l'Italia è vasto e merita di essere posto sotto osservazione, come fa questo rapporto, inizio di una collaborazione fra il ministero dell'Istruzione dell'università e della ricerca, la fondazione per le scienze religiose, la vasta rete di collaborazioni che questa infrastruttura del sapere coltiva da sempre. L'analfabetismo religioso, infatti, grava su una società che è pluralista de facto e che però non ha gli strumenti critici per trarne le conseguenze nello spazio pubblico su tre livelli: il primo è quello della scuola, dove non si esce da una contrapposizione sterile; il secondo è quello della produzione legislativa sulla libertà religiosa; il terzo è quello della ricerca: una indagine comparativa della stessa definizione epistemologica di questi saperi potrebbe già indicare con quanta difficoltà si muovono discipline scientifiche che, ogni volta che possono, si sottraggono alla collaborazione e alla possibilità di essere considerate come un insieme. L'analfabetismo (del) religioso è una piaga non meno grave di quella costituita dall'analfabetismo tout court: i dati internazionali oggi a disposizione spiegano che il problema è quanto mai vasto e diffuso sia in Europa, sia fuori. Il contesto italiano ha delle specificità che vanno conosciute e pensate, per poter fornire all'Unione di cui è parte e al Mare di cui è sponda non soluzioni passpartout che non ci sono, ma un esemplare sforzo di intelligenza. © RIPRODUZIONE RISERVATA Brano tratto dal volume L'analfabetismo religioso in Italia. Actio finium regundorum, in Rapporto sull'analfabetismo religioso in Italia, a cura di Alberto Melloni, Il Mulino, Bologna, 2014, pagg. 527, € 38,00 ____________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Mag. ’14 DIRITTO ALL’OBLIO, IL DOPPIOGIOCO DI GOOGLE Lamentandosi della recente decisione della Corte di giustizia europea sul cosiddetto «diritto all’oblio», Eric Schmidt di Google ha scelto una singolare linea di difesa per giustificare le aggressive pratiche commerciali della sua società: il diritto di sapere. La Corte vuole che Google consenta agli utenti di indicare i risultati di ricerca «inadeguati, irrilevanti o non più aggiornati» legati ai loro nomi, in modo che possano essere rimossi dall’indice di ricerca. Sostenendo che la questione comporta «uno scontro tra il diritto all’oblio e il diritto di sapere», Schmidt vuole farci credere che la Corte ha commesso un errore, mentre i geniali ragazzi di Google hanno trovato il giusto equilibrio fin dall’inizio. Ma che cos’è questo «diritto di sapere» di cui parla? Chi se ne può avvalere? Prendiamo in considerazione una qualsiasi altra attività che non possa concedersi il lusso di usare la nostra infatuazione collettiva per la tecnologia digitale come scudo contro una regolamentazione. Quale azienda non vorrebbe saperne di più sui potenziali clienti o dipendenti? Alle banche o alle compagnie di assicurazione piacerebbe molto sapere tutto di noi: più informazioni hanno, meglio è per i loro affari. Sapere, ad esempio, se al mattino beviamo caffè oppure succhi vegetali renderebbe sicuramente più facile prevedere se nei prossimi cinque anni avremo un infarto: un’informazione molto importante per decidere se darci un prestito o farci un’assicurazione, e a quali condizioni. Non è poi così difficile scoprire cosa beviamo a colazione, di solito queste informazioni sono disponibili su Facebook e Instagram. Molte aziende astute hanno già trovato il modo per sfruttarle. Come ha detto Douglas Merrill, ex Chief Information Officer di Google e fondatore di ZestFinance, una start-up che esamina più di 80 mila fonti per valutare la nostra idoneità al credito, «tutti i dati sono rilevanti per il credito». Nell’ambito delle questioni finanziarie, questo è senz’altro vero. Ma un mondo in cui tutti i dati sono rilevanti per concedere un credito è un mondo in cui ogni decisione che prendiamo sarà viziata dalla paranoia e dall’ansia per l’effetto che potrebbe avere sul nostro profilo creditizio. Solo le banche e le agenzie di spionaggio vorrebbero vivere in un mondo simile. E certamente non possono minimamente invocare il «diritto di sapere», se con questo si intende l’accesso incondizionato e senza vincoli a tutte le informazioni che sono in grado di carpire. In questo caso ZestFinance utilizzerebbe 800 mila fonti di informazioni, non 80 mila. È per questo motivo che alcuni Paesi cercano di impedire che i loro istituti di credito decidano anche sulla scorta di informazioni tratte dai social media. Ma un tentativo del genere può avere successo solo se il processo decisionale è soggetto a uno stretto controllo. Come si fa a impedire che i datori di lavoro guardino quel che fanno sui social media i candidati all’assunzione? Dopotutto, possono farlo anche al di fuori delle ore di lavoro e sostenere poi che la decisione di non assumere qualcuno è dovuta a qualche altro fattore puramente soggettivo. «Il diritto all’oblio» è un passo verso l’obiettivo a cui tendono queste regolamentazioni, ma, invece di sperare che siano le istituzioni a non usare impropriamente le informazioni online, si consente ai cittadini di intervenire direttamente. Permettere ai cittadini di rimuovere dagli indici di ricerca — magari temporaneamente — aspetti critici del loro stile di vita attuale e passato è il minimo che possiamo fare. Se però si ritiene accettabile imporre barriere alla fame di dati di banche e compagnie di assicurazione, perché si dovrebbe fare un’eccezione per i motori di ricerca? Il modello di Google non è molto diverso: raccogliere più informazioni possibili, organizzarle nel modo più utile (e quindi più profittevole) possibile, e fare soldi. Certo, sono gli utenti normali — come voi e me — a beneficiare di questa fonte di conoscenza, ed è quindi comprensibile che essi tendano a simpatizzare con Google piuttosto che con le banche. Ma è una buona ragione per credere che un modello di organizzazione della conoscenza che favorisce gli interessi commerciali di Google favorisca anche l’interesse pubblico? Naturalmente no: Google funziona in questo modo non perché un altro motore di ricerca sia impossibile, ma perché non siamo riusciti a trovare un modo più umano, tollerante e indulgente per organizzare la nostra conoscenza collettiva. Questo non significa che non sia possibile, ma solo che Google ha fatto del suo meglio per convincerci che è l’unico a offrire un servizio del genere. Dato che Google è nel business dell’informazione, ogni tentativo di sottoporlo a controlli viene inevitabilmente fatto passare per censura, come dimostra l’osservazione di Eric Schmidt sul diritto di sapere. Le informazioni in questione non sono però completamente eliminate (si possono ancora trovare, anche se a un costo più alto), sono solo meno visibili. Il motto di The Circle — la società al centro dell’omonimo inquietante romanzo di Dave Eggers su un gigante dell’high-tech che somiglia in modo impressionante a Google — è: «I segreti sono bugie. Avere a cuore vuol dire condividere. La privacy è un furto». A quelle tre proposizioni ne possiamo ora aggiungere una quarta: la regolamentazione è censura. Se una società come ZestFinance — per la quale «tutti i dati sono rilevanti per il credito» — a vesse usato un simile artificio retorico, ci saremmo sicuramente messi a ridere. Se lo fa Google, invece, le sue parole sono trattate con la serietà che si riserva ai saggi e ai filosofi, non alle multinazionali rapaci. Eric Schmidt non lo dice, ma Google viola continuamente «il diritto di sapere». Di fatto rimuove già i risultati della ricerca dal suo indice quando a chiederglielo sono i fornitori di contenuti — editori, produttori cinematografici, case discografiche — che hanno le loro vie legali per chiedere la rimozione di link a materiali protetti da copyright. Così, la linea di difesa secondo la quale quel che la Corte europea richiede è tecnicamente impossibile non regge: Google fa già una cosa del genere. Ma se questo è possibile per i detentori di copyright — per lo più società — perché non dovrebbe esserlo anche per i cittadini, le cui richieste non sono meno legittime? E perché Eric Schmidt non si preoccupa del «diritto di sapere» nei confronti dei titolari dei diritti d’autore? Non è forse perché l’industria dei contenuti è molto meglio organizzata dei comuni cittadini, sostenuta com’è da lobbisti potenti quanto Google? Che Google rispetti la sentenza della Corte non basta: è importante anche come lo fa. Ogni volta che Google rimuove i link a film o libri piratati, di solito mette un avviso in fondo alla pagina, per informare gli utenti di quanti link sono stati rimossi e perché. Si sarebbe tentati di pensare che un sistema simile potrebbe funzionare per il «diritto all’oblio», ma in realtà creerebbe disastri ben peggiori della rimozione di un link. Assumeremmo una persona se, facendo una ricerca in Internet, venissimo a sapere che dei link — che non possiamo controllare — sgradevoli e dannosi alla sua reputazione sono stati rimossi? Sapere che qualcuno ha un passato sospetto e ignorare perché, spesso è peggio di sapere cosa ha fatto: l’immaginazione galoppa più della realtà. Mostrare un avviso farebbe più male che bene. Il diritto di sapere come gli interessi commerciali di Google indirizzino la sua filosofia e le sue scelte tecniche: questo sì che è un diritto che bisognerebbe promuovere. (traduzione di Maria Sepa ) ========================================================= ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 Mag. ’14 MEDICI, NUOVO CODICE CON CYBERMEDICINA E DIVIETO DI TORTURA Barbara Gobbi Cybermedicina, uso delle tecnologie, governance aziendale e medicina militare. Sono queste le new entry assolute del nuovo Codice deontologico dei medici, approvato domenica a Torino - dieci i voti contrari - dopo 16 ore di dibattito serrato sugli ultimi emendamenti, arrivati al termine di una maratona negoziale partita due anni fa. Il nuovo testo, varato dal Consiglio nazionale della Fnomceo, la Federazione nazionale degli ordini dei medici e degli odontoiatri, manda quindi in soffitta la versione precedente, ferma al 2006. Perché se pochi anni erano passati dall'ultima revisione, spiega il presidente Fnom (e senatore) Amedeo Bianco, «era ormai pressante l'esigenza di recepire quella rivoluzione copernicana che ha investito la medicina, trasformando la relazione di cura e il ruolo dei camici bianchi. Stretti tra esigenze di bilancio e pazienti sempre più informati, e protagonisti di un ruolo attivo nella promozione della salute, intesa come benessere del singolo e della collettività». Ecco allora che il nuovo Codice, che sarà presentato ufficialmente venerdì a Roma, si arricchisce di quattro articoli inediti, dedicati a medicina militare (con l'introduzione della voce "bioterrorismo" e il divieto assoluto, per il medico, di essere coinvolto a qualunque titolo nel reato di tortura), medicina potenziativa o cybermedicina (il tentativo di fissare nuove frontiere ai limiti fisiologici del corpo e dell'organismo), telemedicina (l'Ict non può mai sostituirsi alla visita di persona al paziente) e organizzazioni sanitarie (con il medico che rivendica comunque una propria autonomia rispetto alle logiche dell'aziendalizzazione). «Noi - ha spiegato a quest'ultimo proposito Amedeo Bianco - partiamo sempre dal benessere del paziente, in un percorso di appropriatezza ed efficacia». Un compito «necessariamente complesso. Siamo preoccupati da politiche che guardano solo all'equilibrio economico. Tenere d'occhio le risorse è giusto e necessario ma puntando su obiettivi di salute e non sul mero dato contabile». Contestata, durante il dibattito, è stata poi l'introduzione o meno del concetto di «persona assistita» in totale sostituzione del termine «paziente». Alla fine ha prevalso una linea di mediazione: si parla di paziente quando ci si riferisce esplicitamente alla terapia, mentre l'espressione persona assistita è adottata negli articoli dove si considera il mantenimento o la promozione di uno stato di salute. Focus, ancora, sulla prevenzione del rischio clinico, con l'obbligo di segnalazione, in forma anonima, anche dei "quasi errori" da indicare nelle peer review finalizzate al risk management. Sulla lotta all'abusivismo professionale è linea dura, in sintonia con le nuove norme che prevedono il carcere fino a due anni per falsi medici e falsi dentisti. ____________________________________________________________ Repubblica 21 Mag. ’14 MEDICI, FRONDA CONTRO IL NUOVO CODICE ETICO. Bologna e Milano: "Applicheremo il vecchio" Due degli ordini provinciali più grandi d'Italia si oppongono alle modifiche approvate dal consiglio generale della Federazione e annunciano ricorsi. Lo scontro è soprattutto sull'inserimento dell'obbligo di assicurazione e sul rinvio agli ordinamenti universitari per la definizione delle competenze di MICHELE BOCCI Lo leggo dopo La fronda contro il nuovo codice deontologico dei medici, appena approvato dal consiglio nazionale della FnomCeo, parte da Milano. "Siamo contrari a questo documento e sto pensando di fare un ricorso per bloccarlo. Comunque da noi potremmo non applicarlo". A parlare è Roberto Rossi, il presidente dell'Ordine milanese, il secondo più grande d'Italia con i suoi 26mila iscritti. Nei giorni della discussione dei nuovi articoli, ha contestato l'impostazione del lavoro e adesso si dice pronto a utilizzare il vecchio testo del 2006 nella sua provincia. Più o meno la stessa cosa che pensa il presidente di un altro grande ordine italiano, quello di Bologna. "Ci sono tanti punti che non mi piacciono - spiega Rossi - . Intanto si cambiano praticamente tutti gli articoli del vecchio codice, che era ottimo. Ci sarebbe stato solo bisogno di alcuni ritocchi. Tra l'altro, al momento il testo è secretato perché lo presentano venerdì prossimo, e non capisco come mai, visto che lo abbiamo votato". Per il medico milanese sono due le novità particolarmente gravi. "Siccome non sapevano come definire le competenze del medico e dell'odontoiatra - dice - non hanno trovato niente di meglio che far riferimento agli ordinamenti delle Università. Ma come? Siamo professionisti e dobbiamo farci dire da altri qual è il nostro lavoro?". Più pratico il discorso riguardo all'assicurazione. "Nel nuovo testo - spiega Rossi - si dice che i medici sono obbligati a stipulare una polizza. Ma questo è già previsto dalla legge, non c'è bisogno di dare a questo aspetto un carattere deontologico. Finisce che se un collega per tre o quattro mesi non riesce a trovare una compagnia disposta ad assicurarlo, e succede, dobbiamo metterlo sotto procedimento disciplinare. Non ha senso". Ma a Rossi non va bene quasi niente del codice deontologico appena approvato da 86 colleghi su 99. "Già tutta la questione della definizione di paziente, secondo me, non ha senso. Qui parliamo di uno strumento di regolazione della condotta comportamentale di una professione, non di altro. Hanno fatto un articolo sulla medicina militare. Ma si tratta comunque di colleghi, non capisco perché debbano essere considerati un caso speciale". I prossimi passi dell'Ordine di Milano non sono decisi, ma la strada è comunque segnata. "Ho già parlato con gli avvocati di un eventuale ricorso contro il testo approvato alla fine della scorsa settimana - spiega Rossi - . Devo sentire il nostro consiglio in proposito. C'è anche l'idea di non applicare il nuovo codice deontologico ma restare con quello del 2006, o di emendarlo senza considerare gli articoli che ci convincono di meno. La legge ci permette di farlo ed è la stessa idea che hanno i colleghi di Bologna". E Giancarlo Pizza, presidente dell'Ordine di Bologna, conferma: "Visto che non esiste l'obbligo di acquisire il nuovo codice deciso dal consiglio nazionale, impugneremo la delibera nazionale e faremo ricorso al Tar del Lazio". Con Bologna, spiega Pizza, ci sono anche gli ordini di Lucca e Massa Carrara "Non era mai accaduto che un nuovo codice deontologico non venisse votato all'unanimità", dice Pizza, ricordando che sul voto c'erano stati 10 contrari e 2 astenuti. Alla base della decisione dell'ordine bolognese, oltre a quello sull'inserimento dell'obbligo dell'assicurazione, anche il fatto che nel nuovo codice siano state inseriti argomenti ritenuti estranei al perimetro della deontologia professionale. Tra questo il rispetto alle modifiche organizzative decise dai Servizi sanitari regionali o dalle aziende: "Ciò significa che se una azienda, o una Regione, decide un assetto organizzativo e il medico non si trova d'accordo perché non lo ritiene idoneo ai principi di cura, non può rifiutarsi perché si troverebbe poi esposto dal punto di vista del rispetto della deontologia. L'organizzazione non c'entra nulla con la deontologia". Ma non piace nemmeno, aggiunge Pizza, la "scomparsa della parola eutanasia, sostituita con 'pratiche per la buona morte'". Per Pizza il rischio è una assimilazione alle cure palliative, "mentre deve essere ben chiaro che l'eutanasia è una altra cosa". "Fino alla decisione del Tar - conclude Pizza - noi applicheremo il vecchio nostro testo del 2006". ____________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Mag. ’14 IL NUOVO CODICE DEONTOLOGICO CHE LASCIA I MEDICI NEL PASSATO I presidenti degli Ordini provinciali dei medici italiani hanno approvato ieri a Torino il testo definitivo del nuovo codice deontologico. A dire sì sono stati 87 presidenti su 99, dieci non lo hanno approvato e due si sono astenuti. L’unico elemento su cui è stata raggiunta la completa unanimità è stato il sì alla lotta all’abusivismo. Il professionista è tenuto, infatti, a denunciare (obbligo etico) se viene a conoscenza di situazioni di abusivismo o di prestanome. I dieci Ordini che hanno votato contro hanno annunciato che si atterranno al vecchio codice. Il nuovo codice sarà presentato a Roma il prossimo 23 maggio. N uove regole di comportamento per i medici? Sembra proprio di sì. I presidenti degli Ordini hanno elaborato il nuovo codice deontologico. Quanto nuovi e quanti importanti gli emendamenti rispetto a prima? Vediamo. Si riafferma con forza che «le competenze diagnostico- terapeutiche sono del medico, esclusive e non derogabili» (ineccepibile anche se infermieri dedicati, preparati e colti sono i nostri migliori alleati per far bene e non sbagliare; ma su questo non c’è neanche una riga). C’è preoccupazione per la tecnologia: «il medico, facendo uso dei sistemi telematici, non può sostituire la visita medica, che si sostanzia con una relazione diretta con il paziente, con una relazione esclusivamente virtuale». Non è molto chiaro cosa vogliono dire se non il timore che le nuove tecnologie mettano a rischio il rapporto fra medico e ammalato. Al contrario, scienza e tecnologia stanno cambiando (in meglio) le nostre capacità di diagnosticare e curare le malattie a vantaggio degli ammalati; abbiamo l’obbligo morale di conoscere e trarre il massimo vantaggio da tutto quello che c’è, tecnologia dell’informazione e genetica per esempio, che da qui a qualche anno cambierà radicalmente la medicina. Questo non è in contrasto col visitare l’ammalato e un bravo medico sa bene di cosa avvalersi e quando senza bisogno del codice deontologico. Che invece sarebbe prezioso per essere più gentili con gli ammalati, saperci scusare se li facciamo aspettare, ascoltarli di più, sforzarci di essere chiari quando gli parliamo; pochi di noi per esempio sanno resistere alla tentazione di parlare male dei colleghi di fronte agli ammalati. È vero che nel nuovo codice deontologico (art. 20 emendato) un richiamo che va in questa direzione c’è ed è giustissimo; forse, visto che si cambiava su questo punto, si poteva essere più espliciti. Fra le novità una nota (sacrosanta) sul problema del conflitto d’interessi; che è molto di più che cedere, nel prescrivere, alle lusinghe di chi vende farmaci. Nel dire a un ammalato «per questo intervento c’è da aspettare tre mesi ma si può fare settimana prossima se lei paga, nello stesso ospedale e con lo stesso chirurgo» si crea un conflitto di interessi formidabile. Stando al nuovo codice deontologico (art. 69) da domani non dovrebbe succedere più. Sarebbe bellissimo; ma gli Ordini sapranno farlo rispettare quell’articolo? (Quello di prima era molto simile ma erano ben pochi a rispettarlo). Secondo il nuovo codice non si parlerà più di eutanasia ma di morte; il medico non dovrà accelerare la morte nemmeno se il malato lo chiede (ci sarebbe molto da discutere ma almeno si comincia a fare un po’ di chiarezza). Sulle dichiarazioni «anticipate di trattamento», cioè se uno dice o scrive che non vuole essere rianimato, il testo è confuso e contraddittorio anche perché non ci sono norme di legge di riferimento. E ancora, c’era chi voleva che gli ammalati non si chiamassero più «pazienti» ma «persone assistite». Poi hanno fatto marcia indietro ma non del tutto. Così saranno «pazienti» i malati, e «persone assistite» quelli che stanno bene o che fanno esami. Peccato che molti che sembrano star bene sono malati e molti di quelli che pensano di essere malati non hanno niente. Un bel pasticcio. Chiamiamoli malati gli ammalati, così quando guariscono non saranno né pazienti né persone assistite ma saranno anche loro come tutti gli altri. Che dire insomma del nuovo codice deontologico? Non è molto diverso da quello di prima e le modifiche di questi giorni non mi pare abbiano contribuito a migliorarlo. Sarà forse perché pretendere di trovare un accordo fra 99 presidenti è un po’ troppo, in fondo Ippocrate 2400 anni fa aveva preferito fare tutto da solo. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Mag. ’14 MEDICINA: LA MOBILITÀ DELLE COMPETENZE di SERGIO HARARI * È possibile immaginare che gli specialisti si muovano tra ospedali diversi, senza troppe barriere burocratiche, invece che siano sempre e solo i malati a rincorrere le competenze? Forse sì, e sarebbe di grande aiuto a medici, pazienti e ospedali. Spesso è difficile garantire ovunque la presenza di competenze molto specifiche con ragionevoli volumi di attività che consentano buoni standard di qualità. Talvolta non ha neanche senso fare importanti investimenti in risorse umane (si pensi solo al numero di professionisti che richiede l’organizzazione di una reperibilità 24 ore al giorno), per svolgere attività numericamente molto limitate e altamente specialistiche; allora una rete di professionisti aiuterebbe a concentrare le esperienze e a ottimizzare i costi. Si tratterebbe di un approccio multidisciplinare che sempre più spesso è indispensabile in medicina (dove già il web aiuta molto, oggi avvengono consulenze multispecialistiche online tra medici di ospedali diversi e lontani) e anche in chirurgia, dove la presenza fisica resta indispensabile. D’altra parte i medici sono sempre meno, i poli di assistenza si concentrano sempre di più e la complessità dei malati aumenta: avere un super specialista per ogni problema particolare in ogni ospedale non è più immaginabile, meglio garantire le competenze in modo diffuso sul territorio, assistendo dove ce ne è realmente bisogno. L’importante è sviluppare équipe dinamiche che possano muoversi su più ospedali, senza troppi ostacoli, migliorando la mobilità dei saperi in medicina e garantendo al massimo le necessità dei malati. Cambia il mondo, abbiamo risorse sempre più tecnologicamente avanzate e costose, non è pensabile avere competenze e know-how di alto livello con attività molto parcellari e sparse, dobbiamo imparare a ottimizzare esperienze e qualità. Per tutto questo è necessario essere meno legati alla singola struttura e più vicini al paziente, operare dove è meglio per il malato e non più comodo per il medico. *Primario Pneumologia Ospedale San Giuseppe, Milano ____________________________________________________________ Unione Sarda 22 Mag. ’14 IS MIRRIONIS: LA CARLO FELICE DELLA SANITÀ Sfuggito a ripetuti tentativi di eutanasia, l'ospedale di Is Mirrionis sgomita per recuperare salute, spazio, immagine. Secondo il principale sindacato aziendale paga il prezzo d'una lunga e passata gestione «prona al potere della massoneria, interessatissima a dirottare malati verso le case di cura private». Ora i tempi sono diversi ma i nemici non hanno smesso di stare in agguato: non è del tutto morta nemmeno l'idea di raderlo al suolo perché un ospedale articolato in una decina di casermoni sparsi in un'area di otto ettari «può essere tutto fuorché un ospedale». Falso. Il Santissima Trinità, ventimila ricoveri l'anno, funziona alla grande, vanta qualche eccellenza e un numero imprecisato di incompiute che ne fa un immenso, sterminato cantiere. Ogni letto - ce ne sono 360 - viene utilizzato da cinquanta persone nell'arco dei dodici mesi. Dunque la “produttività” è buona, la degenza media accettabile (meno di sei giorni), la pazienza di chi ci lavora - più di mille fra medici, infermieri, operai e tecnici - decisamente alta: in Radiologia utilizzano come spogliatoio un fortino dell'ultima guerra mondiale, il Laboratorio d'analisi aspetta da tredici anni la fine di quello che doveva essere un trasferimento provvisorio, nei paraggi dei due reparti di Psichiatria c'è un pezzetto di giardino molto frequentato dai tossicomani. Uno c'è morto di overdose proprio l'altra settimana: l'hanno trovato cadavere, faccia a terra in un mare di fazzolettini usati e bottiglie vuote. Colpa di un ospedale troppo “aperto”, attraversato da una rete stradale interna che accoglie ogni giorno da quattrocento a seicento automobili e un esercito di visitatori, compresi i pensionati del quartiere che vanno a godersi sole e panchine nello spiazzo davanti all'ingresso centrale. Nel viavai generale, l'impressione che se ne ricava è quella di un gigantesco bazar. Non ci fossero camici bianchi in circolazione, potrebbe sembrare un rione popolare nell'ora di punta. Dietro questa facciata, per qualcuno certamente scoraggiante, c'è una struttura sanitaria più che dignitosa in grado di raggiungere - in alcuni reparti - buoni livelli. Il pronto soccorso, che svolge circa trentottomila interventi l'anno, ha la modernità e l'efficienza di un vero pronto soccorso. Le attese, simili a quelle degli altri ospedali cagliaritani, sono legate alla risacca dei pazienti scaricati dai medici di famiglia e da malati cronici in crisi d'ansia che smaniano per un controllo rapido. Soffocato da eterni lavori in corso manco fosse la Carlo Felice, il Santissima Trinità vive in emergenza passata, presente e futura. Superata la recente invasione di formiche, che avevano preso d'assalto le lenzuola dei malati, Geriatria è accampata nell'ala di un altro reparto (Urologia) nella speranza che i lavori di ristrutturazione della vecchia sede finiscano presto. Nel frattempo, succede che diventi necessario sistemare letti nel corridoio. Falso invece che la mancanza di spazi costringa Pneumologia a mettere uomini e donne nelle stesse camere di degenza. La smentita è secca: «Li abbiamo ospitati una volta sola in Terapia intensiva. Non c'era scelta, eravamo in condizioni drammatiche». Il primario di Chirurgia generale, Lino Sulis, esprime un desiderio sorprendente: «Vorrei operare di più». La sua divisione, una delle eccellenze dell'ospedale di Is Mirrionis, esegue circa 600 interventi l'anno (quasi la metà per patologie tumorali). La mancanza di personale causa uno spaventoso slittamento della lista d'attesa. Per un'ernia si è arrivati ad aspettare il bisturi quattro anni. Il sogno neanche tanto nascosto di Alessandro Brundu, direttore sanitario, ha il profumo dei soldi: «Con cinquanta milioni di euro avremmo un ospedale modello. Per crearne uno nuovo non ne basterebbero settecento». Paolo Cugliara, segretario Fials (550 iscritti su poco più di mille dipendenti), che in direzione sanitaria definiscono non proprio affettuosamente «una spina nel fianco», è d'accordo. «Vero, cinquanta milioni basterebbero per far uscire il Santissima Trinità dalla maledizione che lo inchioda, ingiustamente, alla sanità pubblica di serie B». (g. p.) ____________________________________________________________ Unione Sarda 22 Mag. ’14 IS MIRRIONIS: NEL TUNNEL SOTTERRANEO DESTINATO A UOMINI E TOPI Pare che a finanziarlo sia stato l'ultimo governo Craxi, meno di quarant'anni fa ma il decollo non è avvenuto subito, la burocrazia ha i suoi tempi. Il tunnel che collega tutti i reparti dell'ospedale di Is Mirrionis - immensa e intelligente opera d'ingegneria - dorme sottoterra desolatamente vuoto. Lavori avviati nel 1998 e conclusi nel 2004. Per realizzare questo gigantesco serpente di cemento armato è stato speso l'equivalente di tre miliardi e mezzo di vecchie lire, tutto compreso. Tutto compreso significa che sono stati completati anche gli allacci di acqua e luce e perfino l'impianto per la distribuzione di gas medicali. Per finirlo servirebbero ancora due milioni e mezzo di euro, necessari per acquistare e mettere in funzione gli ascensori che da ogni singolo reparto portano al tunnel. Il progetto per il futuro è già sulla carta: per i trasferimenti si ricorrerebbe a due ambulanze elettriche. Nell'attesa che tutto questo prenda corpo, i collegamenti in superficie tra un padiglione e l'altro sono garantiti da tre ambulanze interne (costate duecentomila euro l'una) e integrate da un servizio privato da 1.200 euro al giorno. Al tunnel si arriva passando da una porticina del Laboratorio d'analisi, confinato provvisoriamente all'inferno, primo sottopiano. Il personale del reparto la tiene rigorosamente chiusa per evitare l'arrembaggio di uomini e topi. Uomini in fuga dai reparti e alla ricerca di qualcosa da rubare, topi che vi risiedono felicemente da decenni. Sandro Brundu, direttore sanitario e testimonial irriducibile del suo ospedale, fa da cicerone in una visita guidata sul vuoto. Largo cinque metri e alto tre, lungo un chilometro e settecento metri, il tunnel - che ricorda vagamente i corridoi del carcere di Opera - ha la forma di una Y a più braccia. Stupisce per l'estensione, per la cura dei dettagli che i neon illuminano appena. È affiancato da stanzette laterali (aree di fermata) dove ci sono le trombe degli ascensori per il trasporto dei malati. Proprio questo suscita qualche perplessità da parte degli infermieri: i problemi di sicurezza, soprattutto tra i turnisti della notte, è evidente. La questione non è affatto immaginaria: il problema- ladri è sentito in tutti i reparti. Tant'è che un cartello avverte di non consegnare denaro a chiunque si presenti ai ricoverati in nome e per conto dell'ospedale. Occhio alle borsette, agli orologi, ai portafogli: il Santissima Trinità è terra di razzia. Sotto accusa, gli Infettivi, reparto che ospita spesso tossicodipendenti. In ogni caso, per far entrare in funzione il tunnel basterebbe pochissimo. «L'equivalente di un certificato di abitalità», dice Brundu mentre fruga nella memoria disseppellendo l'entusiasmo di un tempo: portata a termine la parte più onerosa, l'inaugurazione pareva a un passo. Fu allora che l'assessore regionale alla Sanità annunciò l'apertura «da qui a breve» di una galleria che avrebbe cambiato il volto dell'ospedale. Tutto stava nell'intendersi sul reale significato di quel breve , aggettivo che a Is Mirrionis è un tabù. Breve doveva essere anche l'attesa per ristrutturare le vecchie cucine, duemila metri quadri, e farne un poliambulatorio: dura da oltre quindici anni. Previsioni? «Non chiedetele a me». Alla disperata si è anche pensato di abbandonare l'idea e farne intanto un parcheggio, vista l'invasione quotidiana di auto, ma è andata puntualmente male. Buone prospettive ci sono invece per tutti quei piccoli cantieri che assediano i reparti in eterna ristrutturazione. Tra le speranze momentaneamente cassintegrate c'è infine quella di sfruttare l'area comunale adiacente l'ospedale e attualmente in comodato d'uso gratuito all'azienda che si occupa della raccolta dei rifiuti. Se venisse messa a disposizione del Santissima Trinità, sarebbe possibile vietare il parcheggio a ridosso dei padiglioni e chiudere in via definitiva il passaggio alle auto, oggi parcheggiate ovunque vi sia un angolino disponibile. Succederà, non succederà? Il sindacato, combattivo e sconfortato, non ci conta. In direzione sanitaria, dove devono essere più possibilisti per contratto, sibilano un depresso: «Vedremo». Giorgio Pisano ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Mag. ’14 CANNABIS USA: DI CHIARA: LEGALIZZAZIONE ANDATA IN FUMO Il consumo illecito della droga «leggera» non è stato eliminato: i principali utilizzatori restano adolescenti che non possono rifornirsi sul mercato legale Gaetano Di Chiara La cannabis è, fra le sostanze illecite, quella utilizzata dal maggior numero di individui nel corso della vita. L'uso di cannabis ha un picco massimo di utilizzazione intorno ai 16 anni, cioè, nella tarda adolescenza e un inizio precoce, tra i 12 e i 13 anni, riducendosi drasticamente nell'adulto. L'alta prevalenza della cannabis corrisponde ad una percezione sociale di un rischio associato relativamente basso. Così, nel sondaggio del 2013 effettuato dalla Gallup negli Usa, alla domanda «Pensi che l'uso della marijuana debba essere legalizzato o no?», il 58% degli intervistati ha risposto sì. Paradossalmente, la percezione della cannabis come droga benigna contrasta con i risultati della ricerca che mostrano come un uso pesante di cannabis iniziato nell'adolescenza (prima dei 18 anni) produca deficit cognitivi che si traducono nell'adulto in una riduzione globale del coefficiente di intelligenza. E sebbene un consumo iniziato in età adulta non sia associato a deficit cognitivi, questa apparente normalità è ottenuta al prezzo di un abnorme aumento dell'attività funzionale in alcune aree cerebrali o al reclutamento di aree che di norma non sono attivate. D'altra parte, se è vero che il potenziale d'abuso e dipendenza della cannabis è circa un terzo dell'eroina, la diffusione della cannabis è tale che il numero dei soggetti ad essa dipendenti è circa 10 volte quello dei soggetti dipendenti all'eroina. Infine, la marijuana attuale ha un titolo in THC, il suo principio attivo, almeno 10 volte più elevato di quella che circolava ai tempi nei quali chi scrive era poco più che ventenne, cioè nel '68. Come mai dunque, i dati della ricerca scientifica, pur significativi, non hanno scalfito la nozione della cannabis come "soft drug"? Sicuramente un fattore che ha fortemente contribuito a questo è che, al contrario di altre droghe, alcol compreso, la cannabis è priva di effetti letali anche a dosi elevate. Tanto che secondo alcuni epidemiologi, un effetto positivo della legalizzazione della cannabis potrebbe derivare dal fatto che, nelle abitudini dei giovani, essa si sostituisca all'alcol "to get stoned", come cantava Bob Dylan, cioè come droga da sballo. Il pericolo è, però, che la cannabis si aggiunga all'alcol, con effetti micidiali sulla guida. Se è quindi vero che di cannabis non si muore, se non indirettamente, non c'è dubbio che il suo uso ha un costo sanitario in termini di globale disabilità, che, da un punto di vista socio-economico, è equivalente a un numero di anni di vita persi circa il doppio di quello correlato all'uso di cocaina, una droga considerata pesante. Sicuramente negli Usa fattori politici e legislativi hanno contribuito a ridurre la percezione del rischio associato alla cannabis, primo fra tutti il fatto che la sua assunzione attraverso il fumo, cioè la stessa via che viene utilizzata per il suo consumo ricreazionale, sia stata legalizzata per uso medico attraverso referendum che in Europa sarebbero inconcepibili, in quanto privi di quorum. Tuttavia, l'uso del fumo di cannabis come via di somministrazione a scopo terapeutico è un non senso farmacologico, dato che non consente un preciso e prevedibile dosaggio dei principi attivi in esso contenuti, siano essi il THC o il cannabidiolo, e in più espone agli stessi principi cancerogeni contenuti nel fumo di sigaretta. È ormai palese infatti che negli Usa la legalizzazione del fumo di cannabis per uso medico non sia stato altro che un escamotage per produrre, vendere e consumare la cannabis a scopo ricreazionale senza incorrere nei reati penali che la legge federale comporta. Così, meno del 5% dei soggetti abilitati a consumare cannabis medica sono affetti da condizioni che giustificano un uso terapeutico, come tumori in stadio terminale, cachessia e sclerosi multipla; la stragrande maggioranza denuncia dolori non meglio specificati e di natura non organica. A questo proposito, non bisogna confondere la cosidetta medical cannabis o medical marijuana, legalizzata negli Usa, con la cannabis terapeutica di cui si parla in Italia e in Europa. Con questo termine infatti non ci si riferisce al fumo di cannabis, ma a quei preparati, approvati dagli enti regolatori, Emea per l'Europa, e Aifa per l'Italia, che hanno caratteristiche di medicinali. Tra questi, un estratto acquoso contenente THC e cannabidiolo, approvato per l'uso nella sclerosi multipla o un analogo sintetico del THC, il nabilone. L'uso di tali medicinali a scopo ricreazionale è reso insostenibile dal costo e dal fatto che non sono fumabili. I derivati della cannabis per il momento disponibili sono comunque medicinali di seconda scelta, dato che, per le stesse indicazioni (come analgesici o antispastici) esistono farmaci più efficaci. Ciò ovviamente non esclude che in futuro possano essere sviluppati nuovi farmaci cannabinoidi ben più utili degli attuali. L'esperienza degli Usa, dove 20 Stati hanno legalizzato il fumo di cannabis per uso medico e due anche per uso ricreazionale, indica che la legalizzazione della cannabis aumenta soprattutto la quantità consumata pro capite. Perciò è prevedibile che il guadagno per gli Stati derivante dall'introito delle accise applicate alla cannabis legale potrebbe venire annullato dalle maggiori spese connesse al trattamento dei suoi effetti cronici. L'esperienza Usa indica che i due mercati, legale e illecito, sono strettamente connessi. Così, quantità sostanziali di marijuana medica prodotta in eccesso grazie ad economie di scala, sono dirottate verso il mercato clandestino. Tuttavia, negli Usa gli adolescenti non possono accedere alla cannabis legale. Paradossalmente, quindi, la legalizzazione non riguarda i minori, cioè i maggiori consumatori di cannabis e quelli più a rischio per i suoi effetti a lungo termine. Risultato: negli Usa la legalizzazione della cannabis non ha eliminato il mercato illegale ma ne ha semplicemente ristretto la clientela agli adolescenti e agli adulti che non possono permettersi il costo elevato della cannabis legale. La legalizzazione della cannabis negli Usa rappresenta un colossale esperimento in natura, da cui l'Europa farà bene a imparare, prima di affrettarsi ad imitarlo. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 Mag. ’14 CANNABIS USA: PROIBIRE È PEGGIO CHE LEGALIZZARE Gilberto Corbellini Il timore o la riserva che prevale di fronte alla proposta, avanza da da questo supplemento in realzine alla riforma del Senato, di arruolare una componente documentatamente competente o tecnica nelle istituzioni politiche rappresentative, è che si tratti di un progetto in ultima istanza antidemocratico. O tecnocratico. Si pensa che coloro i quali ritengono che chi ne sa di più governerebbe meglio siano, come Platone, «nemici della democrazia». Così li definiva Robert Dahl. È possibile che i competenti ed eccellenti in posizioni politiche non si considerino più portatori di un metodo critico (quello scientifico, o accademico in senso alto) per stabilire i fatti e per controllare la validità delle decisioni ma portavoce di una verità per loro definitiva. Che magari tale non è, o che non è pertinente rispetto ai problemi in questione. Che il rischio non sia immaginario, lo dimostra il contributo del farmacologo Gaetano Di Chiara alla discussione sulla pericolosità e sui limiti dell'uso medico o della legalizzazione della cannabis. Togliamo di mezzo qualunque equivoco. Assumere droghe, che si tratti di alcool, tabacco, cocaina, eroina, ecstasy o cannabis, fa male. È consigliabile non farlo. Ma le droghe non fanno male tutte allo stesso modo. Analizzando l'insieme dei danni che le diverse droghe causano sia a chi le assume sia agli altri, ne risulta inconfutabilmente che la droga più dannosa è l'alcool. E che il consumo di tabacco ha un impatto più grave della cannabis. E proprio non esistono giustificazioni razionali per cui alcool e tabacco sono legali, e il consumo di droghe meno dannose di alcool e tabacco non potrebbe esserlo in un quadro normativo finalizzato alla riduzione generale dei danni. Con vantaggi economici e sanitari. Una parte sempre minima di popolazione sarà forse più a rischio di consumo, ma almeno sarà responsabilizzata. E l'abuso di droga sarebbe gestito come problema sanitario, quale è. E non di ordine pubblico. Non è chiaro perché istanze paternalistiche e illiberali, mascherate da buone intenzioni e argomenti retorico-terroristici, debbano essere preferite ad approcci più pragmatici. Non si deve nemmeno mettere in discussione che va fatto il possibile per ridurre i danni che gli adolescenti possono causare al loro cervello, e al resto, facendo gli spavaldi con le droghe. Così com'è giustificato che lo Stato disincentivi comportamenti ricreativi degli adulti, come il consumo di droghe, che possono mettere in pericolo la salute di altri, o generare costi evitabili. Fatte queste premesse, si dovrebbe intelligentemente discutere se davvero si vogliono portare a casa dei risultati, riducendo i consumi o almeno le conseguenze dannose per i nostri ragazzi. O se si preferiscono leggi che insensatamente proibiscono sostanze meno dannose (e non certo perché sono illegali, anzi è proprio l'illegalità che causa i maggiori danni), mentre è legale il consumo di droghe dannosissime. In particolare l'alcool. Sapendo che l'ipocrisia è un tratto molto vantaggioso via via che si sale nelle gerarchie di potere, non stupisce leggere o ascoltare distorsioni dei fatti, al fine di soddisfare pregiudizi personali. Definire "escamotage" la legalizzazione della cannabis medica offende l'intelligenza ed è un segno di sprezzo verso chi la pensa diversamente e con migliori argomenti. Ma non essendo farmacologo, né farmacoepidemiologo, né neuropsichiatra non tocca a me confutare nel merito gli pseudoragionamenti "tecnici" di Di Chiara. Salvo per la questione del «coefficiente di intelligenza», che è poi un "quoziente" e che sarebbe ridotto negli adulti dal consumo di cannabis. Ho studiato per altri motivi i determinanti del QI, e letto gli studi in questione. È altrettanto verosimile che chi ha già un basso QI per altre ragioni risulti più predisposto a consumare cannabis. Come persona curiosa e storico della medicina m'interesso della questione droga, da un punto di vista storico-culturale e socio-psicologico, almeno dagli anni Settanta. Quando anch'io consumavo cannabis, senza diventarne dipendente o subire danni cognitivi. Almeno così mi pare, ma questo può essere un caso e non ne parlo certo per farne un argomento di discussione – benché conosca decine di persone con una storia simile. Sono inconfutabili le ragioni politico-economiche assurde, meglio dire capricciose per cui la cannabis nella prima metà del Novecento è stata inserita tra le droghe illegali, e per cui le è pure stato tolto, per un certo periodo, qualunque valore di farmaco valido per alcune condizioni cliniche. Si sa che gli scienziati hanno dei bias cognitivi nel relazionarsi con la storia, ma proprio per questo va ricordato che anche la storia è una scienza empirica. Che lascia tracce controllabili dei fatti accaduti. Ed è non meno dannoso ignorare i fatti storici, cioè non riconoscere o correggere gli errori del passato, di quanto lo sia fuorviare la discussione riportando come scientificamente fondati argomenti che non lo sono. Ho seguito l'evoluzione delle ricerche sperimentali ed epidemiologiche sul consumo di droghe, ma anche all'evoluzione degli atteggiamenti sociali, presso i miei coetanei e poi tra i giovani, da quando mio figlio è entrato nell'adolescenza. Le mie idee libertarie sono state messe alla prova da una naturale ansia genitoriale. Ho rimesso tutto in discussione e ho concluso che l'approccio libertario funziona certamente male, ma tutti gli altri sono molto molto peggio. Le politiche di controllo del consumo di droghe sono entrare da alcuni anni in una fase nuova con diversi esperimenti di depenalizzazione, come quelli olandese e portoghese, o di legalizzazione. Ci sono valutazioni medico-sanitarie precise – che non sono escamotage – che hanno indotto negli Stati Uniti a fare quel che viene chiamato un «esperimento naturale», in realtà sbagliando perché gli esperimenti naturali sono epistemologicamente cose diverse. È di certo un esperimento, iniziato da poco e motivato dal riconoscimento che le politiche proibizioniste sono fallite, di cui è prematuro giudicare l'esito. Peraltro, negli esperimenti si possono aggiustare parametri e controllare cosa ne viene fuori. Se è vera, com'è vera, la pericolosa corsa per alzare il contenuto di THC (componente psicostimolante) nella varietà sativa sul mercato, una strategia da non sottovalutare potrebbe essere depenalizzare l'uso in modo da promuovere il consumo di Cannabis indica che contiene più CBD (componente sedativa e che produce diversi benefici terapeutici). Si potrebbe ottenere un antagonismo di mercato rispetto alla sativa, sfruttando proprio le dinamiche sociali di consumo. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Mag. ’14 SEGNALI ELETTRICI INVECE DI FARMACI PER AGIRE SUL SISTEMA IMMUNITARIO È stato dimostrato che con opportuni stimoli ai fasci nervosi giusti si può contrastare, ad esempio, la produzione di sostanze infiammatorie Goran Ostovich vive in Bosnia Erzegovina e fa consegne a domicilio. Kevin Tracey è ricercatore al Feinstein Institute for Medical Research a New York e ha avuto un’intuizione geniale. Il primo soffriva di una grave forma di artrite reumatoide che gli procurava dolori alle mani, ai polsi e ai gomiti e gli impediva persino di girare il volante del suo furgone, figurasi come poteva caricare e scaricare i pacchi da recapitare ai clienti. E infatti aveva smesso di lavorare. L’altro ha trovato il sistema per farlo ritornare al lavoro e anche al suo sport preferito, il ping pong: gli ha impiantato un piccolo dispositivo nel collo capace di controllare l’attività del suo sistema immunitario e di spegnere quell’infiammazione che stava all’origine della sua malattia. I due sono i primi protagonisti di una nuova rivoluzione in campo medico: la possibilità di curare le malattie con impulsi elettrici invece che con farmaci. Benvenuti nell’era dell’elettroceutica. L’idea che i segnali elettrici possano controllare il sistema immunitario può suonare bizzarra per chi si occupa di biologia, perché si è sempre pensato che i segnali elettrici rappresentassero il linguaggio del sistema nervoso e non di quello immunitario. Si sa, per esempio, che la pressione arteriosa o il battito cardiaco sono regolati dal cervello che invia impulsi elettrici a tutto il corpo attraverso i nervi, riceve dei feed-back sulle sue varie funzioni e si preoccupa di aggiustarle. E infatti già oggi si può intervenire per modificare questi circuiti, quando sono alterati, per esempio con pacemaker (che inviano impulsi elettrici capaci di regolare il ritmo cardiaco) o con defibrillatori che permettono al cuore di ripartire quando va in fibrillazione ventricolare. Che però una stimolazione elettrica potesse controllare il sistema immunitario, cioè quel sistema di difesa dell’organismo che qualche volta impazzisce e aggredisce l’organismo stesso (come appunto avviene nell’artrite reumatoide dove gli anticorpi prodotti da questo aggrediscono i tessuti delle articolazioni) sembrava un’idea quasi eretica. Ma Tracey ha dimostrato che non è così. Negli ultimi anni Novanta, con i suoi collaboratori, stava sperimentando un nuovo farmaco anti infiammatorio. Aveva notato che, quando lo iniettava nel cervello dei topi, questo composto riduceva l’infiammazione negli organi e negli arti periferici, ma la quantità di farmaco era così piccola che non poteva agire attraverso il circolo sanguigno. L’unica spiegazione poteva essere un effetto mediato dai nervi. Così ha cominciato a studiare come la stimolazione dei nervi potesse sostituirsi al farmaco e ha dimostrato che stimolando elettricamente i nervi che arrivano alla milza (qui vengono prodotte le cellule T del sistema immunitario, coinvolte nell’artrite reumatoide, che sono alla base dei processi infiammatori), si riduce l’infiammazione e che il cervello può dialogare con il sistema immunitario. Ma come? Le cellule nervose comunicano con le cellule immunitarie della milza attraverso sostanze chimiche chiamate neurotrasmettitori e la stimolazione dei nervi attiva una reazione complessa che impedisce ai T linfociti di produrre sostanze infiammatorie come il Tumor necrosis factor (Tnf, quest’ultimo, ripetiamo, si accumula nelle articolazioni, provoca infiammazione, dolore e danno ai tessuti). E, infatti, le moderne terapie per l’artrite reumatoide si basano su farmaci che bloccano il Tnf , ma sfortunatamente comportano il rischio di infezioni e non sempre funzionano. Come nel caso di Ostovich (il nome è di fantasia per tutelare la privacy) e poi in Bosnia questi farmaci non sono così accessibili. Ecco allora che Ostovich, insieme ad altri undici pazienti, si sono prestati a una sperimentazione clinica, coordinata da Tracey, che prevedeva l’impianto di uno stimolatore del nervo vago, l’autostrada elettrica che collega il cervello alla maggior parte degli organi, milza compresa. L’impianto ha funzionato: Ostovich non ha provato più dolore, i livelli di Pcr, una proteina presente nel sangue che è indice di infiammazione, sono calati, e, ultimo, ma non meno importante, non si sono rilevati effetti collaterali. Con Ostovich altri sette volontari hanno ottenuto miglioramenti e la sperimentazione è stata pubblicata sulla rivista Arthritis and Rheumatism . Tracey, individuando il primo circuito cervello-milza che controlla il sistema immunitario è stato un pioniere, ma nel frattempo si sono accumulate altre osservazioni interessanti. L’americano Clifford Woolf della Harvard Medical School di Boston ha annunciato, pochi mesi fa, di avere individuato un secondo circuito: quello di nervi che arrivano alla pelle e che, se stimolati, possono ridurre certe infezioni cutanee. Ancora: Silvia Conde della New University di Lisbona ha dimostrato che manipolando certe fibre nervose che stanno nel plesso carotideo (attorno cioè alla carotide) si può modulare la sensibilità all’insulina e magari arrivare a curare il diabete. Dimostrando così che il sistema immunitario non è l’unico che può essere manipolato. E, infatti, alcuni ricercatori americani e la Electrocore, un’azienda americana che ha il suo quartier generale a Basking Ridge in New Jersey (molte aziende si stanno ora interessando a questo settore), stanno cercando di trovare una nuova soluzione terapeutica per l’asma e hanno dimostrato che stimolando un certo gruppi di fibre del nervo vago, si può intervenire sul rilascio, da parte loro, di neuro mediatori come la noradrenalina che agiscono sui bronchi e possono prevenire il broncospasmo. E hanno dato il via a una sperimentazione: 81 persone, ricoverate per un attacco di asma, che non rispondevano alla terapia tradizionale hanno avuto beneficio dall’impianto di un elettrodo per quanto riguardava la funzionalità polmonare, ma no per altri sintomi come la tosse o la sensazione di mancanza di respiro. Così l’americana Brendan Canning del Johns Hopkins Asthma and Allergy Center a Baltimora (Maryland) sta cercando di isolare, sempre nel nervo vago, le fibre responsabili di questi sintomi, per poterle usare come bersaglio del trattamento. La sfida, dunque, è quella di trovare i circuiti elettrici, coinvolti nelle malattie, che possono essere i bersagli della terapia, individuarne le alterazioni e trovare il «voltaggio» adatto per la cura. Secondo le previsioni degli esperti (e soprattutto secondo le aspettative delle aziende che stanno investendo, la multinazionale farmaceutica Glaxo Smith Kline in prima fila, ma anche il gigante dei dispositivi medici Medtronic, oltre ad aziende più piccole come l’Electrocore) il primo elettroceuta potrebbe essere disponibile sul mercato nel giro di una decina di anni. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Mag. ’14 ORA SI «MAPPANO» CIRCUITI PER ALTRE APPLICAZIONI E si cerca di capire come somministrare al meglio gli impulsi Impulsi elettrici invece di pillole: le nuove terapie, mutuate dalla fisica, si vogliono ora affiancare, se non sostituire, ai tradizionali sistemi di cura basati sulla chimica o sulla genetica e la biologia molecolare. La nuova idea è quella di somministrare impulsi elettrici diretti a specifiche fibre nervose o a particolari circuiti cerebrali (capaci d interferire con il loro potenziale di azione:) per curare le malattie più disparate. Tutto si basa sul fatto che il sistema nervoso sovraintende a praticamente tutte le funzioni dell’organismo, inviando ordini attraverso impulsi elettrici. Quando questi impulsi non funzionano a dovere, potrebbero essere corretti dall’esterno: in questo modo si potrebbe, per esempio, stimolare la produzione di insulina da parte delle cellule beta del pancreas per il trattamento del diabete, regolare l’assunzione di cibo per curare l’obesità, intervenire sulla muscolatura liscia (quella che sta attorno alle arterie o ai bronchi) per controllare ipertensione e asma. Siamo agli albori dell’elettroceutica, il cammino da percorrere è lunghissimo, occorre cambiare il paradigma di ricerca perché qui si tratta di mettere assieme competenze molto diverse (come sta accadendo nel campo delle nanotecnologie), ma molti istituti e soprattutto molte industrie ci hanno scommesso, come ci informa un articolo appena pubblicato sulla rivista Nature. La prima sfida, sulla strada della messa a punto di queste nuove terapie riguarda la possibilità di mappare i circuiti neuronali, non solo da un punto di vista anatomico, ma soprattutto funzionale, e di costruire un «dizionario dei circuiti» associati sia allo stato di salute sia alle malattie e di capire come «somministrare» al meglio gli impulsi elettrici dall’esterno. Se ci pensiamo bene è lo stesso tipo di approccio che oggi si usa per trovare farmaci a bersaglio molecolare: occorre prima identificare il bersaglio, poi costruire il «farmaco», in questo caso l’elettro-farmaco. I primi prototipi di «dispositivi-controllori-dei-circuiti nervosi» potrebbero essere microchip (simili a quelli usati oggi nell’interfaccia che permette al cervello di controllare le protesi di braccia o gambe). Quelli di seconda generazione potrebbero, invece, liberare energia luminosa, meccanica o magnetica capace di modulare cellule di particolari circuiti. Per arrivare alla messa a punto di questi dispositivi occorre un lavoro di squadra: i neuroscienziati che hanno, dunque, il compito di mappare i circuiti nervosi, i bioinformatici che devono identificare i potenziali di azione tipici di una malattia, i bioingegneri che sono chiamati a sviluppare dispositivi biocompatibili, gli ingegneri elettronici che si devono occupare dei microchip. E i chirurghi che, infine, dovranno impiantare questi dispositivi. L’idea è quella di cominciare a studiare circuiti nervosi periferici facilmente accessibili che hanno a che fare con malattie comuni come l’ipertensione. Per esempio, si è già dimostrato che questa patologia può esser controllata attraverso interventi su strutture nervose: il seno carotideo (si tratta di una dilatazione dell’arteria carotide interna che è coinvolta nel meccanismo di regolazione a breve termine della pressione sanguigna) e i nervi renali (interventi di denervazione, cioè di distruzione di queste strutture portano a una riduzione della pressione sanguigna). Fino a qui, però, si tratta di interventi su nervi che regolano direttamente certe funzioni dell’organismo. I passi successivi riguarderanno condizioni mediche un po’ più complesse come l’artrite reumatoide, per esempio. In questo caso l’effetto che la stimolazione elettrica ha sulla malattia non passa soltanto attraverso il sistema nervoso, ma anche attraverso il sistema immunitario con il quale il primo dialoga in continuazione (come del resto il sistema nervoso dialoga anche con quello endocrino che controlla la produzione di ormoni nell’organismo). Infatti, come si può leggere nella pagina qui a fianco, la stimolazione del nervo vago (che arriva alla milza, l’organo dove si «organizza» la risposta immunitaria) attiva il sistema immunitario il quale a sua volta, attraverso cellule e mediatori, interviene sull’infiammazione che caratterizza la malattia (nell’artrite reumatoide il sistema immunitario fabbrica autoanticorpi che aggrediscono i tessuti delle articolazioni, provocando appunto l’infiammazione). Ma sono molte altre le patologie che potrebbero essere curate . Qualcuno però non ne è convinto. C’è chi dice che questo approccio sottostima la complessità del sistema nervoso e che andranno superati problemi come quelli che riguardano l’affidabilità e la durata nel tempo della manipolazione dei nervi. ____________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 19 Mag. ’14 IL VINO PUÒ FAR BENE MA NON SI SA PERCHÉ Mezzo bicchiere di vino rosso a pasto, un consumo moderato di cioccolata e magari di frutti rossi: abitudini fino a oggi considerate positive per la salute a causa di un comune denominatore, il resveratrolo. Ora però uno studio della Johns Hopkins University di Baltimora pubblicato su lama Internai Medicine sembrerebbe smentire il mito dell'azione antinfiammatoria, antitumorale e antitrombotica di questa sostanza. Secondo i ricercatori statunitensi, un'eventuale beneficio associato a questi alimenti sarebbe dovuto ad altri fattori, non al noto antiossidante. "A lungo si è pensato e si è dato largo spazio, anche a livello mediatico, all'idea che questo acido potesse portare a qualche beneficio", ha spiegato Richard D. Semba, docente di oftalmologia nell'ateneo statunitense. "Eppure noi non abbiamo trovato alcuna traccia a riprova di questa teoria". Anzi, ha spiegato il ricercatore che per lo studio ha collaborato con l'Azienda Sanitaria di Firenze, "gli italiani che presentano nell'organismo maggiori quantità di questi antiossidanti presenti nel vino o nei mirtilli, non sembrano vivere più a lungo di quelli che ne hanno di meno. Presentano lo stesso rischio degli altri di sviluppare patologie cardiovascolari o tumorali". Se il rischio diminuisce mangiando alcuni cibi, spiegano gli autori dello studio, il merito non sembra essere di questo composto. Basandosi su un campione di 783 uomini e donne ultrasessantacinquenni abitanti nella zona del Chianti, seguiti dal 1998 al 2009, hanno infatti dimostrato che la concentrazione di resveratrolo nelle urine non aveva niente a che vedere con i marker infiammatori, l'incidenza di patologie cardiovascolari o il rischio di sviluppare cancro. "Il nostro gruppo di pazienti non seguiva una particolare dieta, ma tutti, chi più chi meno, assumevano il vino tipico della regione: dallo studio, tuttavia, non sono emersi i benefici di solito associati ai cibi ricchi di resveratrolo, sebbene in altre studi questi alimenti si dimostrino in grado di ridurre l'infiammazione e proteggere il cuore", ha concluso Semba. "Probabilmente la spiegazione è che i benefici, se ci sono, sono dovuti ad altri polifenoli: difatti il nostro studio dimostra soltanto che i benefici probabilmente non sono legati al resveratrolo, e non che non ci siano affatto". Laura Berardi ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Mag. ’14 VACCINARSI CONTRO I PREGIUDIZI Perché cambiare idea è così difficile anche di fronte a verità certe? Neutralizzare i «bias» cognitivi è fondamentale per le decisioni pubbliche Gilberto Corbellini «Una persona con una convinzione è una persona difficile da cambiare. Ditele che siete in disaccordo con lei, e se ne andrà. Mostrategli fatti e numeri, e metterà in discussione le vostre fonti. Fate ricorso alla logica, e non sarà in grado di capire il vostro punto di vista». Con queste parole, nel 1956, il fondatore della psicologia sociale cognitiva, Leon Festinger, descriveva la scoperta che lo avrebbe portato a introdurre negli anni successivi il concetto di «dissonanza cognitiva», per cui lo stesso individuo può coltivare credenze e comportamenti tra loro incoerenti, che inducono automaticamente a ricercare una qualche consonanza attivando diverse strategie di elaborazione cognitiva o comportamentale compensatoria. Nel caso in specie, gli adepti di una setta americana, i quali attendevano la fine del mondo prevista dalla loro credenza l'1 dicembre 1954, quando l'evento non si realizzò non smisero di credere alle sciocchezze che predicavano. Bensì, accentuarono il loro fanatismo e le azioni di proselitismo, "razionalizzando" con argomenti ad hoc il fallimento del presagio. Sessanta anni dopo, la letteratura scientifica sull'esistenza, anche nella cosiddetta mente umana, di una sorta di sistema immunitario che protegge da credenze e opinioni diverse e potenzialmente destabilizzanti per un'identità psicologico-sociale individuale faticosamente costruita, è sterminata. Un'immunità che riguarda ogni ambito delle decisioni umane che possono associarsi a qualche percezione o falsa percezione di minacce, incluse quindi le resistenze che gli stessi scienziati possono maturare psicologicamente contro spiegazioni dei fatti diverse da quelle preferite. Quella che potrebbe essere una legge dell'immunità ideologica, dice che le persone con forti credenze sbagliate e fondate su false percezioni di alcuni fatti, reagiscono ai tentativi altrui di correggere tali false percezioni, accentuandole. In alcuni ambiti della psicologia politica il fenomeno è descritto con la metafora del «ritorno di fiamma». Quello che sta accadendo di interessante nello studio di questi bias cognitivi, che sono poi delle varianti degli idola di Bacone solo finalmente meglio dettagliate a livello sperimentale, è che si comincia ad assistere ad aperture importanti nel campo della comunicazione medico- sanitaria verso queste conoscenze. «Pediatrics», che è la più autorevole rivista mondiale di pediatria, ha pubblicato nel marzo scorso uno studio, ideato principalmente da Brendan Nyhan che insegna scienze politiche alla Michigan University, in cui si dimostra che la comunicazione pubblica sui vaccini è in larga parte sbagliata, perché non tiene conto dei bias cognitivi ed emotivi attraverso cui le persone filtrano i fatti. Le false percezioni di fatti scientificamente acclarati, raramente possono essere corrette in modo efficace somministrando la "verità". Per questo è importante che studiosi dei bias cognitivi che sono all'opera nelle mistificazioni politiche dei fatti, collaborino con i medici per entrare nel merito di come funziona la mente umana e quali sono le strategie più efficaci per combattere false credenze che possono danneggiare persone e comunità. Come è stato per il caso Stamina, o l'idea che i vaccini siano pericolosi. Perché i fenomeni sono più o meno della stessa natura. Lo studio ha arruolato 1.759 genitori statunitensi coinvolgendoli in un esperimento in cui essi erano casualmente suddivisi in quattro gruppi, ognuno oggetto di specifiche e differenziate forme di comunicazione volte a far capire l'utilità della vaccinazione MMR (quella ritenuta dai fanatici responsabile dell'autismo), o a un gruppo di controllo. Il risultato è stato che nessuno degli interventi di comunicazione rivolti ai genitori che non intendevano vaccinare i figlio li ha smossi da quell'atteggiamento. Tra l'altro, quando i genitori che avevano l'atteggiamento meno favorevole verso il vaccino capivano la falsità delle tesi che associano la vaccinazione MMR all'autismo, essi correggevano le loro false percezioni ma riducevano anche ulteriormente l'intenzione di vaccinare i figli. Inoltre, l'uso di immagini o racconti che mettevano in evidenza i rischi di non vaccinare, inducevano nei genitori un aumento della credenza in un legame tra vaccino e autismo, o un'aumentata percezione dei rischi di effetti collaterali dovuti alla vaccinazione. Anche se l'esperimento può essere criticato, perché i partecipanti in qualche modo sapevano di esser parte di una situazione costruita, in realtà risultati analoghi sono stati ottenuti per altre vie. E confermano, tra l'altro, una scoperta costante sulle figure e i contesti che portano le persone a fidarsi delle informazioni sanitarie dissonanti rispetto a quello in cui credono. Sono i medici che hanno in cura i malati, in questo caso i bambini, quelli di cui i genitori hanno più fiducia. Il che in Italia non è incoraggiante, perché ricordo esperienze raccapriccianti quando circa tre lustri fa interagivo con questa categoria medica, per far star bene mio figlio. In realtà, ho avuto la fortuna di essere amico di Roberto Burgio, scomparso recentemente, e che tanto ha fatto per far maturare anche in Italia una visione razionale e moderna della medicina per i cuccioli umani, in cui i vaccini svolgono un ruolo fondamentale. Studi come questi dimostrano che le idee di democrazia deliberativa o partecipativa sono illusioni se non si interviene direttamente ai livelli decisionali istituzionali per assicurarsi che le scelte siano effettuate sulla base di fatti accertati e non falsamente interpretati. La discussione in corso per garantire che le istituzioni parlamentari riformate includano figure con le necessarie e adeguate competenze è decisamente una versione aggiornata, alla luce delle conoscenze psicologiche sui bias cognitivi ed emotivi, del concetto di check and balances. I controlli e contrappesi oggi possono essere garantiti solo se le istituzioni reclutano al loro interno figure davvero indipendenti e di eccellenza internazionale, la cui reputazione sia tale da assicurare che non cadranno vittime di trappole populiste. A queste spetterà di esercitare una rigorosa sorveglianza sulla validità scientifica dei dati e sui metodi usati per interpretarli e per decidere e controllare gli effetti delle scelte politiche. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 21 Mag. ’14 VACCINAZIONI, IL MEA CULPA DELLA CIA «NON LE USEREMO PIÙ COME COPERTURA» Gli Usa si servirono di un dottore pachistano per cercare Bin Laden SEGUE DALLA PRIMA Una mossa a lungo attesa dopo polemiche dure anche negli Stati Uniti, con l’agenzia accusata di aver messo in pericolo le vite di molti, la cui colpa era quella di portare un camice. Torniamo indietro nel tempo. Di almeno tre anni. Soffiate, dati satellitari, indagini e ricognizioni concentrano l’attenzione dell’intelligence americana su una palazzina di Abbottabad, in Pakistan. C’è il sospetto che all’interno del complesso recintato si nasconda un capo di al Qaeda, probabilmente lo stesso Bin Laden. Non c’è la conferma, però, e prima di lanciare un eventuale blitz servono delle verifiche. Ma certo non si può andare a bussare al pesante portone verde. Ed ecco che la Cia, mentre un team sorveglia l’edificio del target da distante, si inventa un trucco. Gli agenti ingaggiano il medico pachistano Shakil Afridi che dovrà fingere di condurre un programma di vaccinazione contro l’epatite ad Abbottabad. In questo modo potrà mandare delle infermiere nella palazzina per prelevare campioni di Dna dagli ospiti, in particolare i molti bambini presenti, e quindi stabilire se combaciano con quelli del leader qaedista. Afridi porta avanti il progetto, anche se non è mai stato chiarito se la sua missione sia stata decisiva nell’identificare Bin Laden. Secondo molte versioni avrebbe fallito. Di certo c’è che Osama è stato ucciso e che il medico è finito, in seguito, in una prigione pachistana. Ma, purtroppo, non sono mancati altri effetti. Tragici. I talebani hanno scatenato una guerra contro le vaccinazioni considerate il paravento della Cia. In realtà i militanti le osteggiavano già da prima, sostenendo che si trattava di una manovra per sterilizzare i piccoli musulmani. Visioni da dementi che però si sono sommate ai sospetti dopo l’assalto di Abbottabad e al piano Usa. Così i terroristi si sono scatenati prendendo di mira vaccinatori, medici e uomini di scorta all’equipe di infermieri. I numeri dicono tutto: dal dicembre 2012 al maggio di quest’anno almeno 56 persone sono state trucidate. Tutte erano legate, in qualche modo, all’azione anti-polio. Un massacro. Che si è portato dietro un altro fenomeno. Molte famiglie pachistane si sono opposte alla vaccinazione. E su 77 casi di polio accertati nel 2014 ben 61 si sono verificati nell’area tribale pachistana, il tradizionale rifugio di esponenti talebani ed elementi di al Qaeda. La storia ha avuto poi contraccolpi negli Usa, dove sedici rettori di scuole legate alla Sanità hanno protestato con la Casa Bianca chiedendo l’immediato stop di un modus operandi che trasformava il personale medico in un bersaglio. La risposta è arrivata con una lettera firmata dal consigliere antiterrorismo di Obama, Lisa Monaco, che ha precisato: 1) Il direttore della Cia, John Brennan, ha bloccato la tecnica nell’agosto 2013. 2) L’agenzia non cercherà di sfruttare o ottenere materiale genetico attraverso questo tipo di iniziative. L’ordine vale su scala globale. Ora si spera che l’annuncio possa convincere i talebani a fermare la caccia all’uomo. Anche se i militanti sono abilissimi nel trovare pretesti. Sull’altro fronte, l’intelligence dovrà inventarsi nuove tattiche per infiltrarsi in zone altrimenti precluse. Con il prossimo ritiro, gli Stati Uniti avranno la necessità di mantenere occhi e orecchie sul posto, ossia quegli uomini dietro le linee che non possono essere sostituiti dai droni. Il teatro afghano-pachistano si è rivelato piuttosto complesso. Senza, però, dimenticare che la Cia non è stata la sola agenzia a ricorrere all’aiuto di qualche medico amico. In Afghanistan, in passato, ha operato un network di informatori che aveva i suoi punti di forza in alcuni ospedali. Si trattava di afghani che collaboravano nella raccolta di informazioni sui terroristi, dati che poi erano passati ai militari. Un apparato, però, che non aveva la «copertura» del Pentagono e neppure della Cia ma agiva in modo autonomo. Guido Olimpio @guidoolimpio ____________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Mag. ’14 IL MALAFFARE E LE RISORSE SOTTRATTE AI MALATI Recentemente è stato valutato il “peso” della corruzione in Sanità: 6,4 miliardi all’anno secondo il Libro Bianco Ispe-Sanità. Ora la cronaca torna a imporre il tema di come fare a contrastare il malaffare nel campo della salute, dove i soldi sono più preziosi. Il presidente della Lombardia Maroni propone di affidare alla Regione tutti gli appalti delle Asl e degli ospedali. Certo, la recente storia di governo regionale, almeno per quel che riguarda la passata gestione, non rassicura. Ma concentrare tutto in un unico organismo può essere utile, perché è più facile da controllare. Alla peggio si risparmierà in intercettazioni e le galere saranno meno affollate. L’altra soluzione si chiama trasparenza. Esiste già una legge, in verità, detta “anticorruzione” che prevede nelle Asl la nomina di un responsabile anticorruzione (ma chi controlla il controllore?) e la pubblicazione online di un Piano di “pulizia” (che poi dovrebbe essere applicato) e di tutti i dati (curricula e compensi) dei vertici della Asl stessa. A oggi, secondo un rilevamento Agenas-Libera- Gruppo Abele, l’86% delle Asl risulta “trasparente”, anche se solo Liguria e Basilicata hanno completato il lavoro. Peccato che gli appalti più importanti (come la costruzione di un nuovo ospedale) sfuggano al controllo delle Asl ed è per questo che la trasparenza dovrebbe essere estesa all’intera gestione sanitaria, compresi i rapporti con quella privata e convenzionata. Chissà allora se con l’azione combinata di controlli dall’alto e dal basso si potrà risparmiare qualche miliardo. Da usare per curarci meglio. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Mag. ’14 PERCHÉ SIAMO QUATTRO ANNI PIÙ LONGEVI DI UN AMERICANO ? I dati mondiali: Italia superata solo da Svizzera e Singapore A dispetto di difficoltà e pessimismo imperanti l’Italia si conferma fra i Paesi in cui si vive più a lungo. A certificarlo sono le World Health Statistics 2014 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo il rapporto le bambine nate nel nostro Paese nel 2012 hanno una speranza di vita di 85 anni, e i bambini di 80,2. Per fare un paragone significativo, i nostri attuali «duenni» hanno la prospettiva di vivere in media 4 anni in più dei loro coetanei nati negli Stati Uniti d’America, dove l’aspettativa è di 81 anni per le femmine e di 76 anni per i maschi. La classifica generale per gli uomini registra una situazione migliore della nostra soltanto in Islanda (81,2 anni ), Svizzera (80,7) e Australia (80,5). Nel «campionato» femminile stravincono le giapponesi (87 anni), mentre le signore di Spagna, Svizzera e Singapore precedono le nostre di appena un decimale a 85,1. I dati combinati danno per l’Italia un’aspettativa di 82,6 anni, dietro solo a Svizzera (82,9) e Singapore (82,65). A livello globale i valori medi sono 73 anni per le donne e 68 per gli uomini, ma se un bambino nato in un Paese ricco vive intorno ai 76 anni, uno che nasce in un Paese povero non supera i 60. Come si spiegano gli ennesimi risultati positivi in questa classifica di un’Italia per tanti versi «in crisi»? «Per cominciare con il fatto che, comunque, rimaniamo un Paese più ancorato di altri a una dieta di stampo mediterraneo, che è la più efficace nella prevenzione di malattie cardiovascolari e tumori» commenta Giuseppe Paolisso, presidente della Società Italiana di Geriatria. «Ma anche con gli effetti di una serie di politiche sanitarie iniziate già 20-30 anni fa nel nostro Paese, con l’adozione dei piani nazionali di prevenzione e con l’attuazione degli screening per la diagnosi precoce dei tumori» sottolinea Giuseppe Ruocco, direttore generale della Prevenzione al ministero della Salute. «A questo va aggiunto che il nostro Sistema sanitario è uno dei pochi a essere allo stesso tempo moderno e universalistico» precisa Niccolò Marchionni, presidente della Società Italiana di Cardiologia Geriatrica. «Se consideriamo entrambi i parametri abbiamo uno dei migliori Servizi sanitari del mondo e questo ha un enorme impatto sulla vita media. Prova ne sia che in una nazione come gli Stati Uniti, dove le tecnologie in campo cardiologico sono le migliori del mondo ma non c’è un sistema sanitario ad accesso universale, il tasso di mortalità media per malattie cardiovascolari non è molto diverso da quello dell’Albania. E quelle cardiovascolari, insieme ai tumori, sono le patologie che influenzano di più la vita media nei Paesi in cui è stata abbattuta la mortalità infantile». Ma non sarà anche una questione di geni? «Il pool di geni che “circola” in Italia è probabilmente buono in termini di longevità, ma si stima che possa pesare non più del 20-30 per cento sull’aspettativa reale di vita» chiosa Paolisso. «Quello che conta di più è ovviamente l’altro 70 percento — conferma Marchionni —. Non solo perché rappresenta la quota maggiore, ma perché è l’unico su cui si può intervenire, e che quindi può fare davvero la differenza fra nazione e nazione. Considerazione che assume un valore ancora più significativo se si valuta anche la qualità della vita e non solo la quantità». «Secondo dati europei recenti, non ancora pubblicati, che valutano l’aspettativa di vita in rapporto all’aspettativa di vita senza disabilità — puntualizza l’esperto — la Finlandia, per esempio, ha un’attesa di vita non molto diversa da Italia e Spagna, ma la sua attesa di vita con disabilità è molto maggiore. In altre parole: i finlandesi vivono più o meno quanto spagnoli e italiani, ma trascorrono più anni “da malati”, e su questo parametro l’influenza di stili di vita, prevenzione e accesso a cure efficaci, è molto maggiore di quella dei geni che si possono ereditare da genitori longevi». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Mag. ’14 MANCANO GLI INFERMIERI MA ANCHE I SOLDI PER ASSUMERLI Nelle strutture del Servizio sanitario nazionale mancano almeno 6o mila infermieri, non perché non ci siano professionisti disponibili, ma perché non ci sono le risorse per assumerli. La denuncia viene dal sindacato di categoria, il NurSind. Secondo il sindacato, infatti, circa il 53% dei laureati in Infermieristica si ritrova disoccupato e chi trova lavoro è sempre più spesso precario, oppure ha un impiego part time o a tempo determinato. Insomma, il Servizio sanitario ha bisogno di infermieri, ma non può permetterseli E se prima ad assumere era il settore pubblico, dopo il blocco del turn over del 2010, sono cooperative e «società di somministrazione del lavoro» ad assumere infermieri per inviarli a svolgere prestazioni presso aziende varie. Soluzioni possibili? Secondo il NurSind: sblocco del turn over, abbassamento dell’età pensionabile, sviluppo del part time negli utimi anni di impiego. Intanto, a fronte della grave carenza di infermieri, non siamo più noi a «importare» queste figure professionali dall’estero, ma — come rileva il NurSind — sono gli infermieri italiani a emigrare per trovare lavoro. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Mag. ’14 ZAFFERANO, L’ORO ROSSO ANTISTRESS CHE RIGENERA LA PELLE L’oro rosso, o meglio lo zafferano. Da millenni viene utilizzato per le sue proprietà taumaturgiche, adesso è stato «scoperto» anche dalla cosmetica. È il principio attivo di una nuova linea di trattamento globale «Or rouge» firmata Yves Saint Laurent composta da una crema viso da giorno e una specifica per occhi. «Ha le capacità — spiega Caroline Nègre, direttore scientifico della marca — di migliorare la rigenerazione cutanea. Nel 2002 è stato scoperto che l’ottanta per cento delle malattie legate all’invecchiamento sono la conseguenza di un’infiammazione cronica. Per contrastarla, nel 2011 iricercatori di YSL-Skinscience hanno intrapreso un programma di ricerca nel campo della glicobiologia perché hanno scoperto che i glicani intervengono in questo processo. Basandoci su queste teorie abbiamo dovuto individuare in natura un principio attivo da utilizzare nelle formulazioni dei nostri prodotti. Ci sono voluti più di cinque anni, durante i quali sono state esaminate oltre cento piante prima di individuare, nel pistillo dello zafferano ricavato dal fiore di crocus, le proprietà che cercavamo». E qui entra in gioco Chris Kilham, di professione «medicine hunter» o meglio etnobotanico. Americano ma «mi sento cittadino del mondo. Dove fiorisce una pianta sono lì. Può essere il Sudamerica come la Cambogia. Per questa collaborazione con Saint Laurent ho visionato diverse coltivazioni per poi concentrarmi sulle piantagioni di zafferano che crescono sull’altopiano dell’Atlante in Marocco perché hanno una qualità particolare, complice l’altitudine, le condizioni del terreno e la temperatura. Trovo che questo ingrediente possa portare a una svolta in ambito cosmetico». La coltivazione è profondamente ancorata alla tradizione, un rito ancestrale scandito da ritmi e momenti particolari. Aggiunge Kilham: «I fiori, dal colore viola tenue, si schiudono nel corso di un solo giorno dell’anno, durante l’autunno. Le donne attendono quel preciso momento per coglierne le preziose corolle a mano. È la natura a imporre dure ore di lavoro, costringendole a svegliarsi prima dell’alba, quando i petali sono ancora ben chiusi per poter proteggere i preziosi pistilli. Dopo la raccolta, ognuno dei tre filamenti di zafferano viene estratto e messo a essiccare e riposto in vasi di vetro ermeticamente chiusi. Occorrono centocinquanta fiori per produrre un solo grammo». Per questo il suo valore è paragonabile all’oro. Aggiunge Peter H. Seeberger, esperto in glico-scienze: «Come principali costituenti della pelle, i glicani giocano un ruolo nel metabolismo cellulare. Con l’età, la quantità di glicani diminuisce, la comunicazione cellulare si altera, i messaggi si confondono. La pelle si rigenera meno rapidamente, perde sostanza e la sua architettura si degrada. Studi hanno dimostrato che questa parte della pianta di zafferano possiede proprietà antiossidanti e antistress in grado di rigenerare l’epidermide». G. Ghi. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Mag. ’14 LA «MORTE NERA» RIVOLUZIONÒ GLI SCHEMI SOCIALI DELL'EUROPA Claudia Galimberti Clerkenwell, Londra, marzo 2013: si scava per una nuova linea della metropolitana e si trovano corpi quasi mummificati. Dalla dentatura di uno dei corpi si estrae il Dna del batterio responsabile della epidemia di peste del XIV secolo in Europa, che si rivela simile a quello della peste recente, che, in Madagascar, è stata veicolata attraverso gli uomini. Due varianti dello stesso ceppo, come accadde con la peste di Giustiniano che nel 500 d.C. causò la morte di 25 milioni di vittime in Asia e in Europa e con la Peste Nera che ottocento anni dopo, nel 1347, si diffuse nelle stesse terre e in Europa uccise, lungo l'intero Trecento, quasi metà della popolazione. Una peste portata da due navi genovesi partite da Caffa in Crimea, e dirette a Genova. Fuggono da una città, assediata dall'Orda D'Oro di Gani Ben Khan e colpita da una strana malattia che semina morte ovunque. I marinai non sanno che hanno già contratto il morbo. Si fermano a Costantinopoli, sembrano sani, ma in verità già diffondono la malattia. Arrivano a Messina stanchi, con il corpo coperto da bubboni e macchie scure. I corpi deformati, gli sguardi allucinati, l'odore di morte che si portano appresso fanno sì che le navi vengano respinte in mare, ma ormai il contagio è arrivato e in breve, a cominciare dall'Italia, tutta Europa viene invasa dal batterio Yersinia Pestis, il virus letale della peste. Sarà un articolo del medico tedesco Justus Karl Hecker a darle il nome di "peste nera". Nera per il colore dei bubboni, nera perché in odore di rito satanico; o semplicemente nera perché dava la morte. La peste viaggiava impalpabile nell'aria, i cadaveri si ammucchiavano, i parenti lasciavano i morti insepolti per non doverli toccare. Morivano i mendicanti e i re, i vescovi e i miserabili. I medici che li curavano giravano con strani abiti e una maschera a foggia di becco di uccello. Li copriva una lunga veste nera, mentre la maschera conteneva nel becco erbe aromatiche che dovevano preservarli dai contagi. Le aperture per gli occhi erano coperte da due spesse lenti di vetro. Eppure ogni accortezza si rivelò inutile: i medici morivano come i pazienti in un girone infernale che non risparmiava nessuno. Che cosa avrà pensato il primo malato a vedere il suo corpo all'improvviso ricoperto da queste enormi bolle che gli davano dolori lancinanti? Chi avrà maledetto per aver portato la malattia? Per lungo tempo si è attribuita alle pulci e ai topi, annidati nelle stive delle navi, la causa prima della peste nera. Oggi poco importa capire se siano stati uomini, pulci o roditori la causa del contagio, resta il fatto che la peste ha mietuto milioni di vittime e ha trasformato la struttura sociale dell'Europa. Le generazioni successive erano più forti e più longeve, come se le epidemie avessero plasmato un nuovo tipo di popolazione. Certo, le risorse del territorio dovevano essere divise tra pochi e l'economia cambiava (vedi articolo a fianco), ma sono ancora più importanti le conseguenze sociali. Le esigenze diventano più complesse: le città si ampliano, le vie di comunicazione si moltiplicano, le innovazioni fioriscono. La peste ha scosso le certezze della fede e la Chiesa ne esce indebolita. È l'ora degli uomini nuovi, quelli che metteranno in discussione la concezione medievale dell'uomo e dell'universo gettando le basi per il laicismo del Rinascimento. denpasar@tin.it ____________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Mag. ’14 LA DEPRESSIONE POST PARTO DEI NEOPADRI Tic, manie e angosce (vere o inventate) I segnali di un’altra fragilità maschile di FRANCESCO PICCOLO Ormai è un fatto noto: la depressione di padri che hanno appena avuto un figlio si avvicina al 10 per cento (con tendenza all’aumento, come dicono i meteorologi). La grande novità dei nuovi padri, quelli che si sono affrancati dalle consuetudini medievali in vigore fino a non troppo tempo fa, è anche questa. Dando una grande fiducia a questa tanto attesa evoluzione del maschio, le donne non avevano calcolato la sua capacità di esprimere soprattutto le fragilità, e di assumersi meno i compiti. È evidente che la depressione post parto paterna si nasconda dietro la normalità, e forse si confonde con essa. Infatti, alla fine di giornate in cui si è dato il proprio contributo in modo serio e appassionato, in cui si è condiviso il ruolo accudente, arriva sempre il momento in cui, anche se il neonato è meraviglioso e voi siete raggianti di essere il suo genitore, non ne potete più. Vi siete rotti le scatole. È legittimo. Non bisognerebbe vergognarsi o sentirsi in colpa. Perché chi si vergogna o si sente in colpa, soccombe. Si deprime. E comincia a dare segnali visibili di quel sentimento generico di scontentezza che sconfina nell’angoscia che sconfina nell’infelicità. Questo sentimento si contorce pian piano su se stesso e comincia a esprimersi in modi diversi, inconsueti. Sia per le madri sia per i padri. Ma mentre per le madri la casistica della depressione post parto è stata lungamente studiata, per i padri è una disciplina nuova, tutta da catalogare. Quindi, la questione più difficile è accorgersi della depressione post parto dei nuovi padri, che tendono a respingere l’ipotesi e sono convinti di essere soltanto un po’ nervosi, ma oggi, solo oggi, anzi stasera, ma di essere in realtà (lo giurano) profondamente felici della nuova vita e di queste meravigliose serate passate a casa con l’orecchio teso o a cambiare batterie all’interfono perché, dato che non è possibile che i figli dormano, se non si sentono urla e pianti vuol dire che le batterie sono difettose o scariche. Però, per le compagne più preoccupate e per quelle meno accorte, ci sono una serie di segnali scientifici in presenza dei quali è necessario entrare in allarme. Si potrebbe essere in presenza di un padre afflitto da depressione post parto, se si verificano una o più delle seguenti condizioni: Il neopadre possiede un quadernino sul quale segna, con penne di vari colori, il record giornaliero, settimanale, stagionale, di alcuni videogiochi della playstation. Diventa amico fraterno, e insiste per organizzare la vacanza estiva con gente che non ha mai visto, conosciuta giocando su ruzzle o nei videogiochi di ruolo. Una sera, e poi un’altra e ancora quella successiva, comincia a fare discorsi filosofici complicatissimi sulla necessità di non chiudersi in un mondo isolato, di non stare sempre a casa tutti e tre, di comunicare con gli altri. Porta a supporto della tesi citazioni colte, aforismi, esperienze di vita. Alla fine, prega di dire sì a quell’invito, almeno una volta, portiamo anche il bambino. Così, ci si ritrova a cene a casa di amici che fumano ininterrottamente, dicendo mica ti dà fastidio se fumo? E dicendolo in un modo che non ammette risposte negative. Il bambino intanto strepita al buio di una camera da letto sconosciuta. Lui dice: strano non fa mai così, deve essere la colica. Dice la parola colica fino a 547 volte al giorno, l’ottanta per cento delle quali assolutamente a sproposito. Ritiene fondamentale possedere il decoder Sky con il quale registra tutto quello che è possibile registrare. Se qualcuno si avvicina al decoder, simula un infarto, oppure qualche volta ha davvero un infarto. Lo spolvera ogni giorno, qualche volta lo accarezza, dicendogli delle paroline dolci che forse con il neonato non ha ancora adoperato. Dovesse portarselo a letto e dormire abbracciato con quello, l’allarme deve scattare immediatamente. Ha gli occhi fissi sul telefonino perché risponde contemporaneamente a proposte di aperitivi, proposte erotiche pesanti, organizzazioni complicate di tornei di calcetto. E deve scusarsi con il compagno di videogiochi ma purtroppo hanno altri impegni per questa estate. Fa sempre finta di non accorgersi che il neonato ha — come si dice solo per i neonati — fatto la cacca. In quel momento è molto distratto e impegnato in qualcos’altro, passa alla larga, segue le mosse della madre, la spinge ad avvicinarsi al neonato. Se la tecnica riesce, la madre dirà: «Mi sa che ha fatto la cacca». C’è una regola non scritta: chi se ne accorge, lo deve cambiare. Non si sa perché c’è questa regola, ma c’è. Per questo il padre depresso fa finta di non accorgersene. Ci sono casi in cui tutti e due i genitori adoperano la stessa tecnica. Sono momenti molto difficili, soprattutto per il neonato. Le strategie di movimento casalingo si fanno complicate. Anche perché succede un altro fatto strano, nei genitori: spesso, si stancano contemporaneamente. Sarebbe semplice se le energie e le capacità fossero distribuite a turno durante il giorno (e la notte); ma non è così. Quando il padre si rompe le scatole del proprio figlio, di solito si rompe le scatole anche la mamma. Chissà perché. Dopo il primo periodo di entusiasmo e intraprendenza, il padre depresso comincia a mostrarsi incapace di fare qualsiasi cosa bene. Di sentirsi molto in difficoltà nel cucinare il brodino, nel cambiare la tutina, nell’addormentarlo nella culla. Mostra molta buona volontà, mostra che non vorrebbe fare altro, ma poi dice con senso di sconfitta e impotenza: «Non ci riesco, mi aiuti?», «Mi fai vedere come si fa?». È una tecnica sofisticata, che soltanto qualcuno arrivato allo stremo dei nervi può adottare: bisogna essere esasperanti, incalzare, chiedere soccorso di continuo. Ci vuole un po’ di pazienza, ma alla fine la praticità vince: e la madre ti chiede di levarti, che fa lei, anche perché fa prima. E in quel momento lui dice: «Ma no, mi dispiace, fammi provare, è che non sono ancora bravo...». E se ne va di là a guardare la televisione e a registrare altri programmi ancora, convinto che potrebbe succedere di non uscire mai più da casa, di non potere andare mai più a fare un aperitivo. La parola che il padre afflitto da depressione post parto pronuncia di più, anche più di «colica», è «aperitivo». All’improvviso, ritiene l’aperitivo un fondamento delle relazioni umane. Parla dell’agorà, della necessità del dialogo, ritiene l’aperitivo fondamentale per i suoi rapporti di lavoro, per le opportunità future, per l’equilibrio della mente. Qualche volta si mette a piangere, se le circostanze gli impediscono di uscire in tempo per un aperitivo già concordato. Lo si può individuare facilmente anche nel luogo degli aperitivi. Indossa camicie sgargianti, che qualche volta si possono definire senza esagerazione: hawaiane. È particolarmente interessato alle giovani donne di circa venti anni. Muove la testa al ritmo della musica, ride sguaiatamente, si diverte moltissimo, ed è il primo ad alzare le braccia e a muovere il bacino quando si decide di improvvisare un ballo ubriachi. Allo stesso tempo, guarda di continuo l’orologio e sospira ogni volta che vede l’ora. Molte delle persone presenti all’aperitivo lo definiscono: scatenato; le ventenni: scemo. Usa subdolamente — e quasi sempre con successo — la teoria che i neonati siano molto legati alla figura materna. Prova a dire che ha letto su una rivista scientifica inglese che è così fino a nove anni, e odia essere smentito. Sa comunque che la madre del figlio in comune è molto sensibile a una frase che costituisce la tecnica di tutte le tecniche di deresponsabilizzazione: «Vuole te». «Vuole te», pronunciato con intenzione e uno sguardo ipocrita che esprime senso di frustrazione per la consapevolezza di dover aspettare anni (non erano nove? a me sembrava di aver letto nove...) prima di entrare per davvero nel cuore del proprio figlio. «Vuole te», allungandole il neonato per piantarglielo in braccio. «Vuole te» rende la madre vulnerabilissima, per il semplice fatto che non importa che sia vero o no: lei ci crede. E ci crede perché non desidera altro che questo: che il figlio voglia lei. La madre si commuove, apre le braccia e accoglie il neonato come farebbe una divinità salvifica e mentre lo consola e lo vezzeggia, lo cambia o lo fa mangiare o lo fa addormentare, il padre è libero di giocare alla playstation, di mandare messaggini a tutta l’umanità, di appoggiare teneramente la guancia sul decoder, di uscire a fare due passi. È capace di dire, una sera in cui è più depresso del solito: forse non ci amiamo più. Si dichiara disposto a prendersi un periodo di riflessione, ad andare via di casa, mentre piange abbracciato per ore con la compagna. Tutto questo per soddisfare un desiderio futile, tipo andare a vedere la partita a casa di un amico, o a fare aperitivi appunto. Dopo, torna a casa dicendo che ci ha pensato e che bisogna riprovarci, perché ci amiamo troppo. Annuncia che sta scrivendo racconti o romanzi erotici. Non sente mai che il bambino sta piangendo. Però dice che lo ha sentito, certo, ma lo sta lasciando piangere per una questione educativa. «Piangere un po’ gli farà bene». Dice spesso: come? Non ho capito. Perché stava pensando ad altro. Al parco tiene gli occhi fissi nel vuoto mentre spinge un bambino troppo piccolo per stare sull’altalena, e tutti gli altri genitori guardano la scena come se fosse un thriller mozzafiato. È felice, anzi raggiante, solo il giorno dell’inaugurazione di un nuovo canale satellitare. Alle feste dei bambini, mangia tutte le pizzette e i panini che ci sono, e spesso anticipa un bambino perché sta per afferrare l’ultima fetta di torta. Guarda a lungo suo figlio nella culla e intanto calcola quanti anni avrà quando il figlio compirà dieci anni, quando ne compirà diciotto, trenta. Si avvilisce molto. Aspetta sotto casa una di quelle ventenni che ha conosciuto all’aperitivo e le si inginocchia davanti dicendo che è la donna della sua vita, che ha già lasciato casa, che dorme in macchina da tre giorni, che vuole sposarla appena ottiene il divorzio. Poi torna a casa, ricordandosi di comprare prima il latte. La depressione (quella vera) dopo un figlio può colpire anche i padri e non solo le madri, come ben noto e documentato. La conferma più recente arriva da uno studio della Northwestern University di Chicago, pubblicato sulla rivista «Pediatrics». Secondo la ricerca, condotta su 10.623 uomini, i sintomi depressivi aumentano in media del 68% durante il primo anno di paternità, quando questa arriva intorno ai 25 anni. Indagini precedenti avevano già mostrato che i padri depressi sono più inclini alle punizioni corporali nei confronti dei bambini, che interagiscono meno con i figli e che sono più facilmente stressati e negligenti nei confronti della prole. I figli dei padri depressi hanno maggiori rischi di avere difficoltà nell’apprendimento linguistico e nello sviluppo dell’abilità di lettura, oltre a maggiori problemi di comportamento. «Noi sapevamo che la depressione paterna esisteva — ha sottolineato Craig Garfield, primo firmatario dell’indagine — e anche che aveva queste ricadute sui bambini». «Questo studio su grandi numeri ora ci conferma che se un giovane padre è incline a umore triste, ad ansia o è incapace di gioire per la sua nuova condizione, va incoraggiato a farsi aiutare». ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 16 Mag. ’14 SETTIMANA MONDIALE TIROIDE. L'ISS FA IL PUNTO SULLA CARENZA DI IODIO: "SOLO IL 50% DEL SALE VENDUTO È IODATO" I più esposti ai rischi di carenza del prezioso elemento fondamentale per la crescita sono i bambini in età scolare, le donne in gravidanza e anche i neonati. Del sale venduto, solo la metà è iodato. Percentuale che scende al 23% nella ristorazione collettiva e al 7% nell'industria alimentare 16 MAG - La carenza di iodio è un problema di salute cui è ancora esposto il 29% della popolazione mondiale, mentre circa il 12% degli italiani sono affetti da gozzo. Sono le stime riferite dall’Osservatorio Nazionale per il Monitoraggio della Iodoprofilassi (OSNAMI) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), alla vigilia della Settimana Mondiale della Tiroide - una manifestazione che avrà luogo a livello globale dal 19 al 25 maggio prossimi. L’OSNAMI, una struttura epidemiologica mediante la quale viene effettuata la sorveglianza su scala nazionale del programma di iodoprofilassi, illustra come ancora soltanto poco più del 50% di tutto il sale venduto sia iodato: questi dati sono resi noti da Antonella Olivieri, responsabile scinetifico dell'Osservatorio. E le percentuali di vendita di sale iodato scendono se si passa al settore della ristorazione collettiva (23%) e dell'industria alimentare (7%). OSNAMI, inoltre, ha pubblicato, sulla pagina web dell'ISS, una tabella che riporta il trend nazionale di vendita del sale iodato nell'arco di sei anni, dal 2006 al 2012, sia nella distribuzione generale, sia nella ristorazione collettiva che nell'industria alimentare. Questa carenza nutrizionale può comportare effetti negativi in tutte le fasi della vita. Lo iodio infatti, è il costituente fondamentale degli ormoni tiroidei, i quali svolgono un ruolo determinante nello sviluppo e nell’accrescimento, ma anche nel mantenimento dell’equilibrio metabolico dell’organismo adulto. Esistono già una serie di misure finalizzate a promuovere il consumo di sale arricchito di iodio su tutto il territorio nazionale. Inoltre, nell’obiettivo di ridurre la frequenza dei disordini derivanti della carenza di iodio, uno strumento importante è stato fornito dalla legge n. 55, emanata il 5 marzo 2005, Disposizioni finalizzate alla prevenzione del gozzo endemico e di altre patologie da carenza iodica. Proprio a supporto dello strumento legislativo l’intesa Stato Regioni del 26 febbraio 2009 ha istituito l’OSNAMI, i cui dati, pur evidenziando un miglioramento dell’assunzione di iodio a livello di popolazione rispetto al passato, confermano il persistere nel nostro paese di una carenza nutrizionale di iodio che, anche se non severa, determina ancora un’alta frequenza di gozzo e di altri disordini correlati. I dati evidenziano talvolta un insufficiente apporto di iodio mostrando, soprattutto nel caso dei bambini in età scolare, valori più marcati della carenza nelle regioni a sud rispetto al nord. Ecco i dati: sale iodato I dati di vendita fino ad oggi raccolti, grazie alla collaborazione dei principali produttori e/o distributori di sale sul territorio nazionale, indicano chiaramente che poco più del 50% di tutto il sale venduto presso la grande distribuzione è sale iodato. Inferiore è la percentuale di vendita di sale iodato (23%) nella ristorazione collettiva. Ancor più critica è la situazione nell’industria alimentare presso la quale la percentuale di vendita del sale iodato non supera il 7% di tutto il sale venduto. Bambini in età scolare In collaborazione con gli Osservatori Regionali per la Prevenzione del Gozzo è stata analizzata la ioduria, ovvero la concentrazione di iodio in campioni di urine di bambini in età. I dati raccolti negli ultimi tre anni hanno mostrato che in 6 delle 9 regioni che hanno partecipato allo studio i valori mediani di ioduria rilevati sono ancora al di sotto di 100 microg/L, valore indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità quale soglia al di sotto della quale la popolazione esaminata viene identificata come iodocarente. Anche per ciò che riguarda la frequenza di gozzo, i dati raccolti confermano il permanere di un insufficiente apporto nutrizionale di iodio nella popolazione scolare italiana (Regioni del Centro-Nord 4-10%, Regioni del Sud-Isole 10-15%). Donne in gravidanza La stessa misura della ioduria è stata effettuata in un gruppo di donne in gravidanza che non assumevano integratori contenenti iodio, sempre mediante la collaborazione con gli Osservatori Regionali per la Prevenzione del Gozzo, è stato possibile effettuare la misura della ioduria in un elevato numero di donne in gravidanza che non. I risultati ottenuti hanno dimostrato una condizione di insufficiente apporto iodico nelle donne esaminate, confermando l’importanza dell’integrazione iodica in gravidanza e durante l’allattamento, al fine di garantire il raggiungimento dell’aumentato fabbisogno iodico in queste fasi della vita. Popolazione neonatale Nel nostro Paese, anche i neonati risultano ancora esposta agli effetti della carenza nutrizionale di iodio, come confermato dall’elevata frequenza di valori elevati di un indicatore biologico specifico, il TSH neonatale. La determinazione di questo ormone viene utilizzato per lo screening neonatale dell’ipotiroidismo congenito che è obbligatorio per legge e che prevede l’esecuzione del test in tutti i neonati. World Health Statistics 2014. Ottant’anni per gli uomini e 85 per le donne: l’aspettativa di vita degli italiani. Europa mai così in buona salute Il nostro Paese si colloca così al 7° e al 5° posto, rispettivamente per uomini e donne, nella classifica mondiale dell’aspettativa di vita stilata dall’Oms e contenuta nel volume di statistiche sanitarie mondiali appena pubblicato. L’Europa non è mai stata meglio in salute ma ora bisogna fare i conti con bisogni diversi e con la crisi economica che riduce la possibilità di investimenti. IL RAPPORTO 16 MAG - Pubblicato ogni anno dal 2005 dal WHO, World Health Statistics è la maggiore fonte di informazioni sulla salute delle persone di tutto il mondo. Esso contiene i dati provenienti da 194 paesi su una serie di indicatori: mortalità, malattie, tra cui l'aspettativa di vita, malattie e decessi per malattie importanti, servizi e trattamenti sanitari, investimenti finanziari nella sanità, così come i fattori di rischio e comportamenti che riguardano la salute. Il 2014: Grandi guadagni della speranza di vita Ovunque le persone vivono più a lungo, secondo il "World Health Statistics 2014" pubblicato il 15 maggio dall'Oms. Basato su medie globali, una ragazza nata nel 2012 può aspettarsi di vivere per circa 73 anni e un ragazzo per 68 anni. Sono sei anni in più rispetto l'aspettativa media di vita globale per un bambino nato nel 1990. "Una ragione importante per cui l'aspettativa di vita globale è migliorata così tanto è che meno bambini muoiono prima del loro quinto compleanno," dice il Dott. Margaret Chan, direttore generale dell'Oms. "Ma c'è ancora un grande divario tra ricchi e poveri: persone in paesi ad alto reddito continuano ad avere molte più possibilità di vivere più a lungo rispetto alle persone nei paesi a basso reddito". I gap tra paesi ricchi e poveri: Un ragazzo nato nel 2012 in un paese ad alto reddito può aspettarsi di vivere fino all'età di circa 76-16 anni in più di un ragazzo nato in un paese a basso reddito (60 anni). Per le ragazze, la differenza è ancora più ampia; un gap di 19 anni separa l'aspettativa di vita in alto reddito (82 anni) e paesi a basso reddito (63 anni). Ovunque vivano nel mondo, le donne vivono più degli uomini. Il divario tra maschi e l'aspettativa di vita femminile è maggiore nei paesi ad alto reddito dove le donne vivono circa sei anni più degli uomini. Nei paesi a basso reddito, la differenza è di circa tre anni. Le donne in Giappone hanno l'aspettativa di vita più lunga del mondo a 87 anni, seguita da Spagna, Svizzera e Singapore. L'aspettativa di vita femminile in tutti i primi 10 paesi aveva 84 anni o più. L'aspettativa di vita tra gli uomini è di 80 anni o più in nove paesi, con la più lunga aspettativa di vita maschile in Islanda, Svizzera e Australia. "Nei paesi ad alto reddito, gran parte del guadagno della speranza di vita è dovuto al successo nella lotta contro le malattie non trasmissibili," dice il Dott. Ties Boerma, Direttore del Dipartimento di Statistica Sanitaria e Sistemi Informativi presso l'OMS. "Meno uomini e donne muoiono prima di arrivare al loro 60° compleanno di malattie cardiache e ictus. I paesi più ricchi sono diventati più bravi nel monitorare e gestire la pressione alta, per esempio. " Il calo dell'uso del tabacco è anche un fattore chiave per aiutare le persone a vivere più a lungo in diversi paesi. All'altra estremità della scala, l'aspettativa di vita per uomini e donne è ancora inferiore a 55 anni in nove paesi africani - Angola, Repubblica Centrafricana, Ciad, Costa d'Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Lesotho, Mozambico, Nigeria e Sierra Leone. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 03 Mag. ’14 GUZZANTI, PADRE NOBILE DELLA SANITÀ Ora che non c’è più, sarà difficile trovare chi sappia raccontare la sanità con tanta chiarezza, lungimiranza e passione. Ricordava tutto il professor Elio Guzzanti (foto ), personaggio straordinario, che ci ha lasciati ieri mattina, all’età di 93 anni. Lucido fino alla fine. Il grande tecnico che ha praticamente impostato il sistema ospedaliero italiano così come è disegnato oggi, a cominciare dalla grande riforma del 1978 quando nacque il Servizio sanitario nazionale. E poi la ristrutturazione degli ospedali in dipartimenti per superare la vecchia logica dei reparti, la creazione dei day surgery e dei day hospital per uscire dalla logica antieconomica dei ricoveri. E infine l’importanza del territorio, dell’assistenza primaria. Guzzanti cominciò a sostenerlo 20 anni fa che il segreto era tutto qui. Romano, ministro della sanità nel governo Dini, direttore degli ospedali riuniti Santo Spirito, San Camillo e Umberto I, direttore del Bambino Gesù, il professore univa le sue grandi capacità tecniche all’umanità del medico. In oltre 50 anni non è mai stato sfiorato da scandali, così frequenti in sanità. Lo piangono i suoi allievi, affranti: «Se ne è andato un grande». Margherita De Bac ____________________________________________________________ Corriere della Sera 04 Mag. ’14 LA SECONDA OPINIONE È UN DIRITTO di RICCARDO RENZI È normale che i giornali, di carta e online, che si occupano di salute ricevano spesso lettere di pazienti che si lamentano dei loro medici, di cui denunciano vere o presunte malefatte. L’esperienza ci ha insegnato a gestire queste situazioni, attenti a non criminalizzare nessuno e a non gridare subito allo scandalo di malasanità. Ma ci sono lamentele per le quali ci sentiamo di prendere immediatamente le parti del paziente: sono i casi in cui i cittadini riferiscono di essere stati letteralmente maltrattati da un medico perché si sono rivolti anche a un altro specialista per avere conferma di una diagnosi o di una prescrizione, per aver richiesto in pratica la famosa second opinion . Pensavamo che questa giusta prassi fosse ormai accettata e «digerita» anche dai medici italiani, ma evidentemente non è così, vista la maggior frequenza di queste segnalazioni. Ora , fermo restando che di questi tempi sta diventando un lusso ottenere anche la prima opinione, è bene ricordare che quelli che possono o riescono con il Serviziosanitario nazionale a ottenerne anche una seconda, non fanno che esercitare un loro diritto, che deve essere rispettato dal medico. A fronte di una diagnosi importante, la seconda opinione, fornita da uno specialista e non da medici improvvisati o santoni, non solo è una possibilità in difesa del paziente (e infatti è citata nella Carta dei diritti del malato proposta da Umberto Veronesi), ma è anche una buona regola sanitaria. Non a caso si tratta di una prassi riconosciuta e promossa (per alcune diagnosi, obbligatoria) da diversi sistemi sanitari e dalle assicurazioni private americane, se non altro perché una diagnosi sbagliata è anche uno spreco di risorse. È inoltre accertato che il paziente confortato e rassicurato da una seconda opinione è un paziente migliore, perché accetta e aderisce meglio alle cure. Aldilà poi delle regole razionali, etiche o economiche, sarebbe bene che venisse semplicemente riconosciuto un «diritto all’ansia» del malato, negli studi medici dove la seconda opinione è vista come un insulto alla professione (o all’ego ipertrofico del titolare) e anche nei Pronto soccorso, dove si fa pagare il ticket a quelli che si sentono male, ma che non dimostrano di avere qualcosa di grave. Perché il medico che non sa valutare e accettare le paure dei malati non è un buon medico. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 08 Mag. ’14 SI ALLUNGA L’ALFABETO DELLE CELLULE AGGIUNTE DUE LETTERE AL DNA Le basi «X» e «Y» affiancate alle 4 che esistono in natura Scienziati dello Scripps Institute di La Jolla (California) hanno ottenuto il primo organismo vivente con un Dna semisintetico in grado di replicarsi. Il Dna di ogni essere vivente è formato da un susseguirsi di coppie di basi azotate (adenina, timina, citosina e guanina) identificate dalla lettere A, T, C, G: la A si accoppia con la T e la C con la G. Gli scienziati californiani hanno messo a punto una nuova coppia di basi, chiamate, per comodità espositiva «X» e «Y», e le hanno introdotte nel Dna di un Escherichia coli, un batterio molto comune e spesso utilizzato nei laboratori. La creazione di un Dna semisintetico «in vitro» non è una novità. In questo caso però è stato ottenuto un risultato ben più difficile, cioè l’incorporazione del Dna modificato in un microorganismo vivente, capace poi di replicarsi e di trasmettere il suo nuovo codice genetico alla propria progenie. Perché ciò fosse possibile era necessario che si realizzassero molte condizioni, fra le quali, per ricordare le principali, che il Dna fosse stabile, che fosse riconoscibile dall’Rna-polimerasi (l’enzima che lo deve «leggere» correttamente per rendere possibile la sua replicazione in nuove copie) e che non venisse eliminato dai meccanismi preposti alla sicurezza delle cellula, programmati per riparare il Dna che presenti anomalie. Una serie di ostacoli non facili da superare. Scendendo nel dettaglio dell’esperimento: i biologi americani hanno sintetizzato un tratto di Dna che conteneva una «coppia artificiale» formata da due molecole denominate tecnicamente «d5SICS» e «DNAM». Per riuscire a introdurre queste basi nell’Escherichia coli è stata usata una specie di microalga, che le ha trasferite dal terreno di coltura all’interno della cellula batterica, dove si sono integrate con il Dna presente. La comunicazione della scoperta è stata data dalla rivista Nature (che vi ha anche dedicato la copertina) e apre un nuovo capitolo nella biologia sintetica. «Per ora abbiamo riportato la replicazione di una sola coppia di basi non naturali» ha precisato Denis Malyshev, primo firmatario della «lettera» a Nature , «ma stiamo lavorando su replicazione, trascrizione e translazione di diverse altre». «Quello che abbiamo fatto», ha spiegato Floyd E. Romesberg, che ha guidato il team di ricerca, «ci avvicina a una biologia a “Dna espanso ”, che avrà molte applicazioni: da nuovi farmaci a nuovi tipi di nanotecnologie». È dalla fine degli anni Novanta che Romesberg e i suoi collaboratori cercano di individuare molecole da utilizzare come basi di nuovo Dna e, quindi, capace di «creare» proteine e persino organismi mai esistiti prima. Luigi Ripamonti