RASSEGNA STAMPA 28/04/2014 POCHI SOLDI E PER POCHI: COSÌ SI NEGA L'UNIVERSITÀ PERCHÉ LE RAGAZZE NON SCELGONO LE MATERIE TECNICO-SCIENTIFICHE ? IL NOSTRO PIANO (DI STUDI) PER IMPORTARE MATRICOLE TUTTI A LEZIONE DI CLASSE SCOMPOSTA IL DOCENTE «ALLA PARI» CON I RAGAZZI NON È ATTENDIBILE CHI CITA WIKIPEDIA RITORNO ALLA CARTA NELL’ERA DELLA SCRITTURA ELETTRONICA ========================================================= TEST: RESPINTO IL 42 PER CENTO DEI CANDIDATI IL NO DEL GIUDICE CHE PUÒ FERMARE CHI «EVITA» L’ESAME IN MEDICINA FARE DI PIÙ NON SIGNIFICA FARE MEGLIO CI SI PUÒ FIDARE DEL DOTTOR-TABLET CHE CONTROLLA LA NOSTRA SALUTE? VERSO UN REGISTRO DELLE «APP» LA VERA VISITA SI FA SOLTANTO VEDENDO, SENTENDO, TOCCANDO I SUONI CHE ALLA LUNGA UCCIDONO L’UDITO CON LA PULIZIA DELLE MANI SI ABBATTONO LE INFEZIONI CONGELARE GLI OVOCITI, UN NUOVO ANSIOLITICO PER DONNE IN CARRIERA IL 30 AL 50% DEI RAGGI X USATI IN CARDIOLOGIA SONO INAPPROPRIATI STAMINA: NIENTE DA SPERIMENTARE L’ITALIANA CHE INVENTA LA GEOMETRIA «LA MIA ELICA SERVIRÀ ALLA MEDICINA» ========================================================= ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 23 Apr. ’14 POCHI SOLDI E PER POCHI: COSÌ SI NEGA L'UNIVERSITÀ Dai contributi alle borse e agli affitti, i problemi degli atenei sardi Il diritto allo studio all'università? «Un disastro, almeno nell'accezione classica». I test che glorificano il “numero chiuso” sono la pietra attuale dello scandalo, ma certo l'intero diritto - almeno in Sardegna - sembra assai svilito, secondo Giuseppe Esposito del fronte studenti Unica 2.0 di Cagliari. Un dato su tutti, che si collega all'ultimo bando Ersu: «Solo un idoneo su due ottiene la borsa di studio». Considerando gli immatricolati la percentuale degli sfortunati sale al 70 %. Questione di soldi, su cui lo Stato lesina. E (anche) di fondi che la Giunta Cappellacci «ha progressivamente tagliato». Il rettore Giovanni Melis attenua i toni, ma ammette che «c'è una situazione di sofferenza». Sì, «ogni anno un numero importante di ragazzi idonei per reddito e merito non trova alloggi e non ha una borsa di studio». E già i criteri per l'assegnazione sono troppo punitivi. Va aggiunto, precisano gli studenti, che «la Sardegna è in fondo alla classifica per l'importo della borsa di studio». Così i giovani «si trasferiscono in altri atenei». Fra quanti restano, il dato dei fuori corso dice che il numero è in costante diminuzione, a Cagliari e Sassari. Ovvio: nella crisi studiare costa di più (e fuori corso ancora di più), o si abbandona o ci si dà una mossa. Tasse d'iscrizione, borse di studio, alloggi, mense, pendolarismo: il diritto oscilla fra queste voci. Gli atenei dell'Isola non stanno fermi, e ci sono buoni segnali, ma si parte - appunto - dal «disastro». C'è da dire, intanto, che «si assiste quasi passivamente al ridimensionamento degli atenei», come si legge nella relazione del rettore all'apertura dell'ultimo anno accademico di Cagliari: nel periodo 2009-2013 il ministero ha ridotto il fondo di finanziamento ordinario da 7,5 a 6,5 miliardi. La Sardegna è passata da 216,9 a 185 milioni. Ridotta la quota, «nell'Isola ogni anno alcune migliaia di studenti sono invitati a trasferirsi in Penisola o a rinunciare agli studi». Tanto più che è stravagante la politica del fitto casa: se l'Ersu si occupa della Sardegna la Regione pensa agli studenti che vanno altrove e «per questi sono aumentati i fondi». Giusto per favorire l'emigrazione: «Io vengo da Oliena e sono al terzo anno di Medicina», spiega Esposito: «Se l'affitto è di circa 230 euro al mese, prima il contributo era di 190, adesso di 140». La parola è “finanziamento”, ma dovrebbe leggersi “investimento”, ricorda Melis: «Come si può competere con gli altri Paesi senza investire in formazione?». All'università di Cagliari, sottolinea il rettore, proprio «la situazione economica e sociale ha suggerito di mantenere stabile l'importo delle tasse». Così è salita al 19,4 % la quota degli studenti esonerati dal pagamento. Considerando che sono esentati anche «i figli della crisi» - cioè i figli di cassintegrati e di coloro che hanno perso il lavoro durante l'anno - e quelli col massimo dei voti, l'asticella è stata decorosamente abbassata. Ma per una buona notizia cento cattive: la metà degli iscritti è fuori sede (cioè «fuori dalla città metropolitana», sottolinea Melis) e «l'Ersu e la Regione offrono solo un migliaio di posti nelle case dello studente». E quando questa “popolazione” pendolare arriva in città non trova un ambiente favorevole: basti pensare, accusano gli studenti, «agli orari dei pullman, non certo compatibili con le esigenze». Più in generale «Cagliari non fa politiche adeguate». Cagliari intesa come Comune, Provincia e Regione. Alla fine, sempre più spesso, c'è l'idea dell'abbandono, anticipato dal meccanismo spesso obbligato del fuori corso. A Sassari abbandona più del 12 per cento. E intanto il costo della vita aumenta: «Tra libri di anatomia e fisiologia l'anno scorso ho speso 500 euro», si lamenta Esposito. Anche questo seleziona. E allora c'è chi si arrangia con le fotocopie (che pure non dovrebbero superare il 15 % del testo). Non sono dettagli. Diritto allo studio? In Sardegna, fanalino di coda dell'Italia (a sua volta fanalino in Europa) non sembra «l'interesse capitale della società». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 22 Apr. ’14 PERCHÉ LE RAGAZZE NON SCELGONO LE MATERIE TECNICO-SCIENTIFICHE ? Il ruolo (a sorpresa) delle madri, legate ai modelli della loro infanzia I numeri non lasciano scampo. Il gap tra maschi e femmine sulle discipline tecnico-scientifiche nel nostro Paese è più alto del resto d’Europa. E a guardare i dati di una ricerca McKinsey-Valore D che viene presentata oggi a Roma nell’ambito di Nuvola Rosa, progetto promosso da Microsoft Italia, viene da pensare che per raggiungere la parità anche nel settore tecnologico, la strada sia davvero lunga. Le laureate in materie scientifiche sono il 9.9 per cento a fronte del 14.8 dei maschi. Una differenza che ci vede ancora una volta fanalino di coda, dopo Svezia e Finlandia. Ma anche Grecia e Portogallo. Il rapporto «Occupazione-Istruzione-Educazione: le trappole nascoste nel percorso delle ragazze verso il lavoro» cerca però di andare oltre le statistiche e di analizzare le cause di questo divario. Come da tempo sottolinea anche la 27esima ora, blog dedicato alle questioni di genere de il Corriere della Sera , il gap deve essere fatto risalire all’infanzia. Già nelle scelte dei giochi le bambine iniziano inconsapevolmente a tracciare un solco che le separerà dai maschi per tutto il corso della loro vita. E la «colpa», a sorpresa, è delle mamme, che ricalcano gli stereotipi di genere vissuti durante la loro infanzia. Se i papà trascorrono il tempo con i figli di entrambi i sessi facendo le stesse attività (disegno, giochi di movimento, videogiochi), il 52 delle mamme gioca con le figlie a fare i mestieri di casa mentre con i maschi disegna o fa giochi da tavola. Morale, come spiegava il sociologo Robert K. Merton già nel 1948, si tratta di una profezia che si auto avvera. Quegli stessi bambini, una volta diventati grandi, daranno per scontato che le femmine facciano i mestieri mentre i maschi costruiscono i ponti. Passata l’infanzia, per le ragazze non va meglio. Anche il percorso di studi appare più accidentato. Se le pressioni sociali e familiari nella scelta della scuola/università si fanno sentire indifferentemente sia nel caso dei maschi sia delle femmine, le studentesse appaiono invece fortemente penalizzate quando la famiglia di origine sperimenta difficoltà finanziarie. Solo il 12 per cento dei maschi abbandona la scuola superiore a seguito di queste ragioni, a fronte del 25-27 per cento delle ragazze. Se poi in famiglia le risorse economiche sono limitate, più facilmente si punta ancora oggi sul figlio maschio rispetto alla figlia femmina (anziché sulle reali capacità e potenziale dell’uno o dell’altro). Finita l’università e il percorso di studi, la situazione peggiora ulteriormente. Già durante la prima esperienza di lavoro (stage o apprendistato che sia), se un compenso c’è, i ragazzi vengono retribuiti il doppio delle ragazze. Il che porta le donne ad essere più precarie ancora prima che si ponga il problema della conciliazione lavoro/famiglia. Il 51 per cento delle ragazze tra i 15 e 24 anni ha un contratto precario, rispetto al 40 dei maschi, incidenza che scende al 26 nella fascia d’età 25-34 anni, rimanendo tuttavia superiore di 11 punti percentuali rispetto ai maschi. La ricerca di un lavoro coerente con il proprio percorso di studi è tuttavia molto più ardua per le ragazze. A fronte di un 18 per cento di maschi che non ha trovato un impiego coerente con il proprio ambito di studi, la percentuale sale di oltre dieci punti nel caso delle femmine. La verità, seppur scomoda, è che gli indirizzi scolastici e universitari privilegiati dalle ragazze risultano essere spesso disallineati rispetto alle opportunità offerte dal mondo del lavoro. Alcuni ambiti formativi, tradizionalmente ad alta intensità e presenza femminile, come quello letterario, linguistico, giuridico, chimico- farmaceutico, geo-biologico e dell’insegnamento, presentano tassi d’impiego più bassi, remunerazioni più contenute, e un gap salariale tra maschi e femmine più elevato. Altri, come il comparto medico-psicologico ed economico-statistico evidenziano un migliore equilibrio, mentre la formazione tecnico-scientifica appare decisamente sottovalutata nelle preferenze delle ragazze, nonostante offra maggiori possibilità di collocamento e migliori salari. In sintesi, come spiega Roberta Marraccino, non c’è da sorprendersi se un contesto lavorativo già impreparato ad affrontare le sfide della neutralità di genere sin dalle prime fasi di inserimento in azienda, si riveli incapace di superare quelle barriere culturali e organizzative che ostacoleranno successivamente la crescita e la valorizzazione professionale delle donne che desiderano raggiungere mete professionali ambiziose. La strada per uscirne? Gli input devono arrivare da famiglia, università e aziende. Dice Marraccino: «Il percorso delle ragazze verso il lavoro deve essere da una parte più consapevole e informato, dall’altra supportato dalle famiglie, che devono essere le prime ad agire con maggiore cognizione delle influenze socio-culturali avverse alle ragazze». Quindi autostima, capacità e competenze vanno costruite nel tempo in modo coerente, tenendo conto delle preferenze individuali delle ragazze ma indirizzandole verso quei percorsi formativi che ne valorizzino le attitudini e risultino anche appetibili dal punto di vista lavorativo. Ma non solo. Le aziende hanno l’obbligo di realizzare una cultura di neutralità di genere sin dall’ingresso nel mondo del lavoro. Un punto di vista confermato anche da Silvia Candiani, direttore Marketing & Operations di Microsoft Italia, che sottolinea: «In Italia i Neet — acronimo inglese per Not in education, employment or training — ovvero i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono iscritti a scuola né all’università, che non lavorano e che nemmeno seguono corsi di formazione o aggiornamento professionale, sono ormai quasi 1 milione. Sapere che la maggior parte di questi è donna rende questo dato ancora più sconfortante. E lo dico da manager prima ancora che da donna. Ma non possiamo più permetterci di rinunciare al valore e alle potenzialità delle nostre ragazze» . Marta Serafini @martaserafini ____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Apr. ’14 IL NOSTRO PIANO (DI STUDI) PER IMPORTARE MATRICOLE CONSTANT NZIMBALA MFUKA studia Geologia a Firenze. È arrivato qualche anno fa con una borsa di studio del governo congolese. Nei primi tempi l'hanno ospitato i missionari comboniani, poi la regione Toscana gli ha trovato un posto alla Casa dello Studente. Ora Constant sta per concludere la specializzazione: «Vorrei aiutare il Congo, ma devo molto anche all'Italia. Il mio sogno è far da ponte tra i due Paesi». Constant è uno degli stranieri che studiano nelle università italiane. Una opportunità per loro, una ricchezza per noi. Eppure i numeri sono ancora bassi. Il confronto con gli altri Paesi europei è impietoso. In Italia gli stranieri sono il 4 per cento sul totale degli studenti (fonte Miur); in Danimarca i1 12, in Francia idem, la Germania si attesta sul io e il Regno Unito svetta con il 23 (dati Eurostat). Più isolazionisti solo la Croazia, la Lituania, la Polonia. Come mai siamo così poco attraenti? Eppure gli stranieri ci interessano. Basta guardare a due accordi recenti. Il primo è la partnership tra Istituto Marangoni e Donghua University di Shanghai, appena siglata: «Diamo l'opportunità a 4o giovani cinesi di conoscere da vicino il sistema della moda made in Italy» dice Malcolm McInnes, Group Director of Education dell'istituto milanese. «Donghua selezionerà i migliori, che seguiranno i corsi in inglese accanto agli italiani, per un periodo tra i sci mesi e un anno. Sarà uno scambio culturale interessante». LTRA INIZIATIVA, di dimensioni macro, è il progetto Scienza senza Frontiere (cienciasemfronteiras 3'0 del governo brasiliano, che offre 100.000 borse di studio nei prossimi 4 anni, per un periodo all'estero. L'Italia è una delle mete e l'università capofila - (la noi sono 15 - è Bologna (6,6 per cento di stranieri). «Abbiamo 1.437 brasiliani, che restano 6 -9 mesi e seguono lezioni nei settori tecnologici e industriali» spiega Carla Salvaterra, prorettore alle Relazioni internazionali. «Dopo i corsi, fanno tirocini nelle imprese del territorio, ne abbiamo ioo già coinvolte. Per le aziende è utile». Opportunità di confronto tra mondi diversi, ma anche un investimento. Aggiunge il rettore del Politecnico di Milano (io per cento di stranieri), Giovanni Azzone: «Tra gli stranieri che studiano da noi, un terzo dopo la laurea lavora per imprese italiane, nel nostro Paese e all'estero. Non solo, tra gli studenti italiani, quelli con un'esperienza internazionale - perché sono stati all'estero o hanno frequentato nel loro ateneo classi miste - hanno 5 volte più proposte di lavoro rispetto agli altri». La convenienza della collaborazione è evidente, non a caso il Politecnico sta studiando un accordo con Parigi e Pechino addirittura per una tripla laurea. Sarebbe un bel fiore all'occhiello per qualunque ragazzo. Allora dov'è l'ostacolo? Intanto, c'è lo storico problema della nostra lingua. Il Politecnico aveva provato a superarlo annunciando, due anni fa, che entro il 2014 tutti i corsi di laurea magistrale sarebbero stati in inglese. Figuriamoci. Un gruppo di docenti aveva presentato ricorso all'istante e il Tar ha bloccato tutto. ORA LA QUESTIONE è al Consiglio di Stato: «Intanto due terzi dei corsi magistrali sono già in inglese» dice il rettore. Gli altri atenei sono sulla stessa lunghezza d'onda: corsi di laurea esclusivamente in inglese sono in aumento alla Sapienza, a Roma, sia a Ingegneria, sia a Medicina. A Firenze si preferisce il doppio binario: corsi in inglese per i nostri, ma anche potenziamento d'italiano per gli altri, come i brasiliani (sono anche qui) e i prossimi arrivi molto attesi: grazie al nuovo accordo con il ministero dell'Istruzione dell'Iraq, Firenze si prepara all'arrivo di 130 borsisti da Baghdad: «Seguiranno lezioni soprattutto ad Agraria e Studi Orientali» spiega Anna Nozzoli, prorettore alla didattica. Oltre all'italiano, un altro freno è la burocrazia: il sistema rigido ci rende poco competitivi: ogni facoltà decide le quote di stranieri che il ministero poi pubblica su universitaly.it. Ma non c'è compensazione: se ho io posti a Ingegneria in italiano e 30 a quella in inglese, ma per la prima ci sono poche richieste e nella seconda abbondano, non si può trasferirle. E che dire dei tempi per i permessi di soggiorno? A Genova per dare una mano agli stranieri spaesati hanno istituito un ufficio, Sass, che fornisce pick up all'aeroporto, alloggio di 4 notti gratis all'oste ho, un kit con la documentazione e aiuta ad aprire un conto corrente. Insomma, a fronte di una lingua poco diffusa (la nostra) e di una burocrazia cieca, molti provano ad aprire le frontiere: ‹