RASSEGNA 16/03/2014 SEMPRE PIÙ LAUREATI SENZA IMPIEGO (E CHI CE L’HA GUADAGNA POCO) ALMA UREA: DOPO 5 ANNI PUÒ DIVENTARE UN ARGINE CONTRO LA PRECARIETÀ GLI UNIVERSITARI PIÙ SCARSI? DIVENTANO TUTTI MAESTRI UNIVERSITÀ STRACCIA POCO LAVORO E SPRECHI, I LIMITI DELL’UNIVERSITÀ GLI ATENEI INSEGUONO IL NOZIONISMO CONCORSI ALL'ITALIANA MAI PIÙ. CAMBIAMO LE REGOLE PER I PROF PER SUPERARE L’ABILITAZIONE VIETATO STUDIARE GLI AUTORI DI DESTRA ALLARME DEGLI INTERNISTI IN CALO LA RICERCA INDIPENDENTE PAGA PER STUDIARE: IN USA È SCOPPIATA LA BOLLA DEI PRESTITI PRESIDI PROMOSSI RINVIATI A SETTEMBRE SI PUÒ LEGGERE NEL FUTURO? "BIG DATA" LICEO PACINOTTI. IL 20 MARZO LEZIONE DEL PROFESSOR MARROSU L’AMERICA CEDE IL CONTROLLO DI INTERNET IL VALORE DELLA FEDELTÀ NELL’ERA DIGITALE IL VOTO FA MALE ALLA DEMOCRAZIA. SORTEGGIAMO ========================================================= LA GRANDE FUGA DA MEDICINA CROLLANO GLI ISCRITTI AI TEST BARRIERE ALTE PER MEDICI E DENTISTI IL ROBOT SUPERA I TEST D'ACCESSO ALL'UNIVERSITÀ FASCICOLO SANITARIO: IL DECRETO ARRIVA IN CONFERENZA STATO REGIONI AOB: MEDICINA1, BLITZ DEI NAS: LETTINI IN CORSIA AOUCA: LETTI IN CORSIA? OBBLIGATI AOUCA: SOTTO TERAPIA PER CAMBIARE SESSO: REGISTRO TUMORI, IN SARDEGNA SOLO A SASSARI E NUORO I NAS ALL'OSPEDALE DI CREMA: BEN 3.500 ESAMI SBAGLIATI SANITÀ, 1.260 GIORNI PER UNA FATTURA SARDEGNA TRA LE REGIONI MENO LENTE CON 160 GIORNI ASL IN RITARDO Le lumache sono Olbia e Sassari IL WELFARE DEL «NON PROFIT» IN MEDIA COSTA IL 23% IN MENO CASO ROCHE-NOVARTIS STRETTA CONTRO I CARTELLI: SÌ AI FARMACI MENO CARI VACCINI, CRESCE IL GRAN RIFIUTO IL TEST SUL SANGUE CHE SCOPRE L’ALZHEIMER CON 3 ANNI D’ANTICIPO OSPEDALI IN AFFANNO: TROPPI ACCESSI AL PRONTO SOCCORSO LO SCARICABARILE DEI CAMICI BIANCHI NEFROLOGIA I SARDI PIÙ COLPITI DELLA MEDIA SOS PER I RENI IL CERVELLO DELLE DONNE È DIVERSO DA QUELLO DEGLI UOMINI? FERTILITÀ FEMMINILE I SUCCESSI DI DUE RICERCATORI ITALIANI IN DUE ANNI VISITE ON LINE A PIÙ 4000 CATARATTA NUOVE FRONTIERE DELLA CHIRURGIA INSONNIA PER 10 MILIONI DI ITALIANI «BREGA MASSONE FACEVA INTERVENTI INUTILI PER SOLDI» IL GENE CHE CONTROLLA SPESA ENERGETICA E OBESITÀ CORRERE FA "RINGIOVANIRE" IL NOSTRO CERVELLO È DIRITTO DEI BIMBI GUARIRE SENZA FRONTIERE L'AMBIENTE PLASMA IL NOSTRO GENOMA I PERICOLI DELL'AUTO-DIAGNOSI ========================================================= ____________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Mar. ’14 SEMPRE PIÙ LAUREATI SENZA IMPIEGO (E CHI CE L’HA GUADAGNA POCO) Per chi esce dagli atenei del Sud stipendi più bassi fino a 200 euro Un laureato impiega almeno un anno per trovare un lavoro, precario e da poco più di mille euro netti al mese: ma se il graduato in questione è donna e, peggio ancora, se ha ottenuto il suo titolo in un ateneo del Sud, i tempi per ottenere un posto dignitoso si allungano e la busta paga, al contrario, si intirizzisce. La — desolante — conferma arriva dal sedicesimo rapporto di Almalaurea, realizzato su 450 mila laureati dei 64 atenei del consorzio, che inquadra il futuro lavorativo di chi, dopo aver raggiunto il massimo livello di istruzione, si confronta col mondo del lavoro, uscendone spesso con le ossa rotte. Anche se chi ha una laurea resta avvantaggiato rispetto a chi ha raggiunto solo il diploma di scuola media superiore, perché a 5 anni dal titolo solo l’8% dei laureati non lavora, il quadro generale è quello di «una sensibile, ulteriore frenata della capacità di assorbimento del mercato del lavoro». Nel dettaglio: tra i laureati di primo livello (laurea triennale, o breve), il tasso di occupazione è sceso di 4 punti solo nell’ultimo anno, di 16 se si confronta il dato con il 2008: a un anno dal titolo il 66% dei laureati brevi lavora o quantomeno svolge uno stage retribuito. Tra i colleghi magistrali la contrazione registrata è di due punti, e di 11 rispetto al 2008. Tra gli studenti che scelgono di proseguire con la laurea specialistica, infatti, lavorano in 70 su 100. Quelli che stanno messi peggio sono i magistrali a ciclo unico, per lo più studenti dei vecchi corsi di laurea: per loro il crollo è del 3% rispetto al rapporto dell’anno scorso, ma del 23% rispetto all’indagine 2008. E l’analisi delle caratteristiche del lavoro trovato è il segno delle difficoltà che i laureati post riforma hanno affrontato in questi ultimi anni. I contratti a tempo indeterminato hanno avuto un calo, rispetto all’indagine 2008, del 15% tra i triennali, dell’8% tra i magistrali, del 5% tra quelli a ciclo unico. E questi sono dati che rientrano nella media. Anche se l’indagine non prende in considerazione alcuni atenei importanti — come la Statale di Milano o l’Università di Pisa — restituisce una frattura netta tra un Sud disarmato che arranca, dove i laureati stentano a trovare un’occupazione, e spesso si accontentano di lavoretti poco qualificanti, e un Nord avanzato, dove cominciare a lavorare, o anche frequentare un corso di formazione retribuito, è quasi scontato, e dove gli stipendi sono fino a 200 euro più alti. A parità di condizioni di partenza, chi si laurea all’Università di Reggio Calabria Mediterranea ha il 59% di possibilità di lavorare o di frequentare uno stage pagato, a tre anni dal titolo, percependo 1.045 euro al mese netti. Chi esce dallo Iulm di Milano nell’88,3% dei casi ha un’occupazione dopo tre anni, e la sua busta paga arriva a 1.251 euro. Il tasso di disoccupazione dei laureati così può oscillare dal 28% dell’Università calabrese, passando per il 20,4% della II Università di Napoli e il 18,5% di Salerno per arrivare al 3,3% dell’ateneo di Milano S.Raffaele, senza disdegnare Genova (6,5%), Torino e Trieste (8,3%). Un sistema a due velocità? «Non facciamoci ingannare dalle apparenze — spiega Andrea Cammelli, fondatore di Almalaurea —. Non è detto che gli atenei del Sud siano peggiori, è il sistema imprenditoriale del Sud che non funziona e fatica ad assorbire laureati. Al Nord il 3% dei laureati si sposta per andare all’estero, ma il 18% degli studenti del Sud emigra al Nord per lavoro. A fare la differenza è anche la specializzazione». Quindi, oltre al prestigio dell’ateneo, quando si sceglie il corso di laurea bisogna considerare che i laureati di Ingegneria e delle professioni sanitarie, nonché dei gruppi educazione fisica e scientifico, sono favoriti nella ricerca di lavoro rispetto ai colleghi dei percorsi giuridico-psicologico e geo-biologico. E poi: più giovani, quindi chi si laurea prima, e chi conosce inglese e tedesco, è più ricercato. Il resto, è fortuna. Valentina Santarpia ____________________________________________________________ Il Manifesto 11 Mar. ’14 ALMA UREA • DOPO 5 ANNI PUÒ DIVENTARE UN ARGINE CONTRO LA PRECARIETÀ Novità: la laurea serve Roberto Clccarelli Il XVI rapporto sull'occupazione dei laureati, senza lavoro un giovane su quattro a un anno dal titolo Bisogna usare con cura i dati sulla condizione occupazionale dei laureati diffusi ieri a Bologna da Almalaurea, il consorzio interuniversitario che riunisce 64 atenei italiani. Nel XVI rapporto che ha coinvolto quasi 450 mila laureati posi-riforma emergono due elementi fondamentali: il primo è che, rispetto al quinquennio 2008-2013, la crisi ha colpito i laureati triennali non iscritti ad un altro corso di laurea, tra i quali la disoccupazione è cresciuta di quasi quattro punti percentuali, dal 23% al 26,5%. La recessione ha fatto una strage tra i neodiplomati tra i 18 e i 29 anni (+14,8% disoccupati), 5,8% tra i diplomati «più anziani», mentre tra i neolaureati è al 6,5% e tra i laureati +2,9%. Tra il 2007 e il 2013 il differenziale tra la disoccupazione dei neolaureati e dei neodiplomati è passato da 2,6 punti a favore dei primi a 11,9 punti percentuali. Il secondo dato è che, dopo cinque anni, la laurea diventa un argine contro la disoccupazione dilagante, anche se è meno efficace rispetto ad altri paesi. La condizione occupazionale dei laureati tende infatti a migliorare, la stabilità del lavoro e il reddito registra un miglioramento, pur attestandosi su 1400 euro mensili (1358 euro per i triennali,1383 per i magistrali), una media modesta ma comune ai salari italiani. Se invece si misura l'occupazione dopo un anno dalla laurea i dati sono ben più drammatici e dimostrano l'ostilità del mercato del lavoro rispetto ai più giovani. Lo si capisce dalle retribuzioni ad un anno dalla laurea che si attestano sui mille euro netti mensili (1003 per il primo livello, 1038 per i magistrali, 970 per i magistrali a ciclo unico). Più si è precari e qualificati, meno si viene pagati, dunque. La contrazione salariale è pari al 5% tra i triennali, al 3% fra i maggistrali biennali, al 6% per il ciclo unico. Si spiega anche così l'insistenza sulla «garanzia giovani» degli ultimi governi, una misura che dovrebbe sostenere tramite un apprendistato il lavoro dei giovani entro 4 mesi dalla laurea. Almalaurea sostiene che all'inizio della «carriera» lavorativa la laurea non permette la coincidenza tra le competenze e il lavoro svolto, tra salario e mansione. In seguito la qualifica, e eventuali percorsi formativi o professionali, permettono di erigere un argine contro la precarietà e la svalutazione dei salari, mentre diminuisce il divario tra gli occupati a Nord e a Sud che resta grave: il differenziale tra i guadagni è del 20% (1385 euro a Nord, 1150 a Sud). Tutto questo non risolve la precarietà. I contratti a tempo indeterminato sono infatti crollati del 15% tra i laureati triennali, 8 tra i magistrali. 5 a ciclo unico. Cresce anche il lavoro nero o informale che nel 2013 ha riguardato 1'8% dei laureati di primo livello, il 9% dei magistrali, il 13% a ciclo unico. Un'analisi comparata condotta sulle ultime sei generazioni, permette di dimostrare che con il dilatarsi del tempo dal conseguimento del titolo, l'occupazione migliora tra i laureati post-riforma, mentre peggiora tra quelli a «ciclo unico», Giurisprudenza, Medicina, Veterinaria o Architettura, che continuano a studiare, magari lavorano da precari o gratis, in attesa di conquistare la laurea. La tesi di Almalaurea è in controtendenza rispetto all'enfasi delle classi dominanti sulla rivalutazione della formazione primaria contro quella terziaria universitaria. Ministri (l'indimenticata Fomero o il suo vice Martone, Gelmini come l'attuale ministro dell'Istruzione Giannini) o imprenditori (il nipote di Gianni Agnelli e presidente Fiat-Fca Ellcann, da ultimo) premono per l'alternanza scuola-lavoro sul modello «tedesco», formazione professionale, prevalenza della «manualità» contro l'«intellettualismo» dei laureati «choosy», «bamboccioni» e «fuoricorso». In apparenza è un invito a lasciare gli studi universitari, a cui oggi si iscrive una percentuale bassissima di 19enni• solo il 30%. Fonti ufficiali come l'Ocse o l'Istat, afferma il presidente Almalaurea Andrea Cammelli, sostengono invece che i laureati presentano un tasso di occupazione di 13 punti maggiore rispetto ai diplomati (75,7% contro il 62,6%). Fra i 25-64 anni l'occupazione è più elevata del 48% rispetto ai diplomati, in linea con la Francia ma più bassa rispetto a Regno Unito e Germania. Resta però intatta la realtà italiana. Basso il livello di scolarizzazione della popolazione (abbiamo i manager più ignoranti d'Europa, solo il 27,7% ha la scuola dell'obbligo, i laureati sono il 24% contro una media del 53%). l'Italia, infine, è il paese Ocse che ha tagliato 10 miliardi di euro all'anno all'istruzione. Una scelta suicida, che non aiuterà ad aumentare il numero dei laureati. Il governo italiano ha ammesso il fallimento della riforma Berlinguer-Zecchino. La commissione Ue si attende dal nostro paese il 26-27% dei laureati, contro il 40% del libro dei sogni. Pochi, malpagati ma resistenti i laureati italiani. ____________________________________________________________ Il Giornale 12 Mar. ’14 GLI UNIVERSITARI PIÙ SCARSI? DIVENTANO TUTTI MAESTRI L'indagine dell'Agenzia di valutazione fa tremare gli atenei: bene gli studenti di Medicina. Bocciati in capacità critiche gli iscritti a Scienze della formazione Francesca Angeli Roma I migliori sono gli studenti di Medicina e di Matematica. I peggiori invece gli iscritti a Scienze della Formazione primaria, ovvero i no stri futuri maestri elementari. Se nel punteggio complessivo finale i primi hanno raggiunto il massimo, 1.118, i secondi hanno registrato la performance più scarsa, 907. Una buona notizia e una decisamente cattiva dalle nostre università. Sono i risultati della prima sperimentazione sulle competenze generali dei laureandi italiani condotta dall'Anvur, l'Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca. Solo una sperimentazione che però ha già destato grande preoccupazione tra accademici, esperti e sindacati che ne contestano i metodi e i criteri. Perché? Una volta che il sistema di valutazione sarà « a regime» (insieme ai risultati di altri test eseguiti in entrata e in uscita sulle competenze generaliste e sulle specialistiche) questi risultati avranno un peso sia sull'accreditamento dei corsi sia sulla ripartizione della quota premiale del Fondo di Finanziamento ordinario. Un risultato scarso potrebbe tradursi in una riduzione di finanziamenti o addirittura nella chiusura di un corso. La sperimentazione condotta in 18 mesi su circa 6.000 studenti volontari di 12 diverse Università italiane (tra le quali la Statale di Milano e la Sapienza di Roma) ha la finalità di monitorare le capacità generali non collegate a un particolare ambito disciplinare: il pensiero critico; l'abilità nel comunicare e la capacità di prendere decisioni. La coordinatrice dello studio, Fiorella Kostoris, spiega che i risultati ottenuti sono comparabili con i test realizzati in altri 9 paesi nell'ambito di un progetto Ocse. Il primo problema che emerge dalla rilevazione Anvur è l'irregolarità del percorso di studi. Fra gli studenti del terzo e quarto anno del ciclo triennale solo il 14 per cento circa ha completato tutti i crediti formativi di b ase e caratterizzanti. Soltanto il 18 per cento degli studenti è in regola e questo significa che due terzi dei laureati entro il terzo anno accademico della triennale conseguono il titolo senza aver terminato i corsi di base e caratterizzanti da almeno un semestre. Il secondo problema è «la persistenza di una separazione tra le cosiddette due culture: scientifica ed umanistica». Gli studenti che ottengono ottimi punteggi nella parte "letteraria del test" non riescono a fare altrettanto in quella "scientifico quantitativa". Sono pochissimi quelli che ottengono buoni risultati in entrambe. Il dato più preoccupante resta quello segnalato all'inizio. I risultati migliori nei test sono raggiunti dagli studenti di Medicina seguiti da quelli di Matematica, Fisica, Statistica e Psicologia. I peggiori sono «quelli degli studenti iscritti a Scienze della Formazione primaria, ovvero coloro che diventeranno maestri e maestre». Insomma i futuri insegnanti dei nostri figli sono ultimi sia nell' ambito umanistico sia in quello scientifico. Gli studenti migliori non a caso sono quelli che hanno già passato un test di accesso come quello previsto per Medicina. Il governatore di Bankitalia, Vincenzo Visco, presente al convegno dell'Anvur, ha sottolineato la necessità di «politiche che rendano il sistema di istruzione e formazione più adeguato a un ambiente sempre più competitivo e in continuo cambiamento». 30% Le nuove matricole, l'obiettivo fissato era arrivare al 40%. +4% L'aumento della disoccupazione tra i laureati. Ma è inferiore ai diplomati La paga media mensile dei laureati di primo livello a un anno dalla laurea FONTE: Elaborazione da Almalaurea e Anvur MATERIE Rispetto agli studenti Usa, siamo meno bravi nel ragionamento scientifico, ma migliori in scrittura e argomentazione FACOLTÀ Gli aspiranti medici hanno i risultati più brillanti nei test sulle competenze, peggiori gli studenti in Formazione primaria IRREGOLARI Solo uno studente su cinque completa gli esami fondamentali entro gli anni previsti ____________________________________________________________ Il Foglio 12 Mar. ’14 UNIVERSITÀ STRACCIA L’emergenza atenei al sud e quei tic culturali anti mercato Il 18,9 per cento dei laureati all'Università di Bari dopo tre anni dal titolo è disoccupato, il 20,4 per cento alla Seconda Università di Napoli, all'Università di Reggio Calabria si arriva addirittura al 28. Al contrario, al San Raffaele di Milano i senza lavoro sono solo il 3,3 per cento, a Genova il 6,5, a Roma il 12. I dati di Almalaurea confermano che l'Italia anche nelle statistiche sull'università è lunga e duale. La situazione per il Mezzogiorno sarebbe ancora più grave se quasi un laureato su cinque non si spostasse al centro e al nord per cercare lavoro (per tacere di chi va all'estero). A certe latitudini, insomma, il "pezzo di carta" cessa di essere un ascensore sociale e una leva di opportunità. In tempi di revisione della spesa pubblica, sarebbe il caso che si aprisse una riflessione sulle risorse statali investite nel sistema accademico. Per troppi, in Italia, "scuola" e "università" sono parole che non possono nemmeno essere accostate a termini come "efficienza" e "mercato". I risultati di questo atteggiamento si vedono. Accanto a rare eccellenze, troppe università italiane sono baracconi inefficienti: non fanno ricerca, non competono con le università del mondo, non attraggono ta lenti e non offrono nemmeno reali chance di lavoro per i laureati. Da anni si propone di legare i finanziamenti alle varie università ai risultati della ricerca e alle performance di occupabilità degli studenti, innescando dinamiche concorrenziali virtuose. Se vigessero tali meccanismi premiali, molte università meridionali sarebbero costrette a chiudere o ad accorparsi. Si oppone a una riforma radicale solo chi non vuol vedere la realtà: la Federico II di Napoli, ad esempio, era un polo di eccellenza, accoglieva studenti da tutto il Mezzogiorno e non solo; oggi è rarissimo che la scelgano studenti provenienti regioni diverse dalla Campania e molti giovani napoletani brillanti studiano altrove. Meglio avere poche buone università che molti atenei scadenti. Le risorse risparmiate con la riduzione del personale amministrativo pletorico potrebbero essere impiegate in borse di studio per gli studenti meritevoli, ai quali verrebbe lasciata la libertà di scegliere l'università che preferiscono, in Italia o all'estero. Inondiamo il sud di borse di studio, tagliamo baronati e burocrazie, assegniamo a milioni di studenti il potere (di mercato) di scegliersi )'università e il futuro. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 15 Mar. ’14 POCO LAVORO E SPRECHI, I LIMITI DELL’UNIVERSITÀ In molti atenei ci si è adattati a un sistema troppo comodo e a uno spreco di denaro Il decadimento è un ostacolo all’occupazione giovanile L'università italiana, dopo decenni di decadimento, è ora una delle peggiori del mondo, e questo è uno degli ostacoli all'aumento della occupazione giovanile. Anche quando le imprese iniziano a richiedere tecnici specializzati in informatica, gestione aziendale, marketing ecc, non trovano personale qualificato di alto livello. Ora se ne è resa conto anche Alma Laurea e il governatore della Banca d'Italia. Un professore in Italia lavora poco, anzi pochissimo: circa sessanta ore l'anno. Incredibile? No, si tratta di una mia esperienza personale. Nella Facoltà di Scienze Statistiche della università “La Sapienza “di Roma, tutti i corsi erano semestrali: in realtà duravano tre mesi. Il mio corso di Economia Industriale iniziava il 1° marzo e terminava il 31 Maggio; sei ore di lezione alla settimana per tre mesi fanno 72 ore, meno le vacanze di pasqua, sono 60 ore. Molti professori, non io, avevano pochi studenti e quindi non avevano ne tesi di laurea e pochi esami. Il resto sarebbe dovuto essere dedicato alla ricerca scientifica. Ma, negli ultimi dodici anni del mio insegnamento dal 92 al 2004, non abbiamo fatto alcuna riunione per verificare il punto sulla ricerca e non esisteva nessun controllo. In pratica, chi voleva fare ricerca la faceva, chi non ne aveva voglia o preferiva le consulenze faceva ciò che più gli pareva. La attività didattica consiste esclusivamente in una lezione ex cattedra. I poveri studenti ricevono il verbo del docente senza possibilità di dialogo e vengono imbottiti di sapere ( !) come salsicce. Anni fa, esistevano gli assistenti. Quando ero assistente del prof. Sylos Labini, gli studenti venivano nel pomeriggio da me e facevamo una specie di ripetizione del corso. Poi hanno abolito gli assistenti e hanno creato i ricercatori che, chissà perchè, non hanno compiti didattici, ma solo di ricerca che nessuno controlla. Per questo- solo in Italia- è nato Cepu che ha grande successo fornendo ripetizioni agli studenti, a pagamento-. In questo modo non si trasferisce conoscenza. Chi deve apprendere ha assoluta necessità di dialogare, di chiedere spiegazioni, di ricevere un sostegno continuo nel processo di apprendimento. Nel 1962 mi sono laureato in Economia a Cambridge. La mattina si andava a lezione. Il pomeriggio, nel college, il mio supevisor- Nicholas Kaldor- mi dava un tema: dovevo svolgerlo in una settimana-non più di una pagina e mezzo-e poi discuterlo con lui- che è stato uno dei maggiori economisti del secolo scorso - per un'ora. Questa discussione, su un argomento che io conoscevo per averlo studiato per una settimana, era fondamentale ed è il segreto di atenei come Cambridge, Oxford e Harvard che sono i migliori del mondo. Dopo un anno di corso e di esercizi scritti, gli esami sono solo scritti: per tre giorni ti danno dodici temi e devi svolgerne quattro in tre ore. Si fanno una volta solo, non ci sono secondi appelli o sessioni di settembre. Chi è promosso rimane, chi no non ci mette più piede. É duro , ma in quell'anno Cambridge vinse tre premi Nobel. In Italia esistono alcuni centri di eccellenza, ma sono pochi. In molti atenei ci si è adattati ad un sistema troppo comodo e ad uno spreco di denaro indegno. La carriera accademica non tiene conto del merito, ma di una frenetico mercato di scambio di favori. Il risultato è che i ragazzi non hanno un livello di preparazione adatto ad una epoca di grandi cambiamenti tecnologici, economici e sociali, e dopo una laurea, spesso inutile, vagano con poche speranze. ____________________________________________________________ TST 12 Mar. ’14 CONCORSI ALL'ITALIANA MAI PIÙ. CAMBIAMO LE REGOLE PER I PROF È sufficiente una strategia in 4 punti per liberarsi da bizantinismi e favoritismi ROBERTO GIUNTINI UNIVERSITÀ DI CAGLIARI Il 31 ottobre scorso sono scaduti i termini per la presentazione della domanda alla seconda tornata della cosiddetta «abilitazione scientifica nazionale» per diventare docenti universitari. L'abilitazione è un'idoneità scientifica (valida 4 anni), rilasciata da commissioni sorteggiate a candidati che soddisfino determinati requisiti. Questi ultimi sono stati stabiliti da leggi e decreti, dall'Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca e dalle commissioni stesse, sulla base di criteri quantitativi che in molti settori disciplinari fanno riferimento al numero di citazioni. Di questa complessa macchina giudicante, che precede il concorso vero e proprio, non c'è analogo nel resto del mondo, soprattutto nelle nazioni nelle quali l'attenzione al merito ha una lunga tradizione. Date la farraginosità e le bizantinerie dei dispositivi normativi, la qualità degli esiti è dipesa, alla fine, dal grado di responsabilità cioè dal senso etico e civile dei commissari. E quindi alcune commissioni hanno lavorato dignitosamente, mentre altre si sono prodotte nei giochi di potere che hanno reso famosi nel mondo i «concorsi» universitari all'italiana. Molte domande sono state presentate da docenti che fanno già parte dell'università. Oltre a tali «interni», hanno però presentato domanda anche candidati attualmente «esterni» alle università, in particolare studiosi italiani che hanno completato la formazione all'estero o che addirittura rivestono già ruoli accademici in prestigiose università o centri di ricerca stranieri. Pochissimi, purtroppo, i candidati stranieri. Al di là della qualità dei risultati, il problema è il seguente: benché la legge preveda due tipi di concorso dopo le abilitazioni (uno in teoria più aperto agli esterni e uno «chiuso», destinato agli abilitati interni), coloro che sono fuori dalle università hanno pochissime probabilità di entrarvi. Il motivo è di carattere finanziario. Si renda pari a 1 il costo massimo di un docente universitario (il professore ordinario). Se un ricercatore già «interno» e abilitato passa il concorso chiuso (o quello più aperto agli esterni), costerà al dipartimento solo 0.2 (se diventa professore associato) o 0.5 (se diventa ordinario). Se invece il vincitore di una prova aperta è «esterno», costerà al dipartimento 0.7 (se si tratta di un posto di associato) o 1 (se si tratta di un posto di ordinario). Analoghe considerazioni valgono per abilitati che sono già professori associati. Visti i magri bilanci delle università, inevitabilmente si finirà per scegliere ricercatori e associati «interni», che saranno difesi da invasioni esterne anche per ovvi motivi di colleganza consolidati e malgrado il fatto che tra i candidati esterni potrebbe esserci qualcuno più meritevole. Tra l'altro, iÈ dipartimento potrebbe decidere di non chiamare un vincitore meritevole a lui sgradito, pagando un prezzo trascurabile. Ma l'esterno senza posto dovrà ritentare la fortuna altrove, con le stesse trascurabili chances di successo. Si tratta di un meccanismo drogato all'origine, con cui purtroppo si dovrà decidere adesso e per i prossimi anni il reclutamento di migliaia di professori universitari. L'ovvia conseguenza sarà di sacrificare, ancora una volta, con il merito, intere generazioni di studiosi esterni ai circuiti accademici. La soluzione, però, ci sarebbe: semplice e radicale. 1) Abolire in un solo colpo leggi, decreti ministeriali, decreti dirigenziali, interpretazioni, abilitazioni, idoneità, valutazioni statistiche e bibliometriche, insomma tutto quel «corpus» bizantino che regola la materia del reclutamento. 2) Rimodellare l'agenzia di valutazione che ha già fornito un positivo contributo alla valutazione della qualità della ricerca («Vqr»), ma che ha dato indicazioni ben più controverse sui criteri dei concorsi sul modello dell'inglese «Quality Assurance Agency for Higher Education». 3) Dopo la libera assunzione di un docente da parte dei dipartimenti, sulla base dell'invio di un curriculum e di un colloquio-seminario, l'agenzia avrà il compito di valutare «ex post» le scelte dei singoli atenei, con la «chiara indicazione delle responsabilità soggettive e oggettive delle scelte». 4) Redistribuire, a livello nazionale, il budget sulla base di tali valutazioni. In questo modo si renderebbero anche superflue le attuali procedure di accreditamento delle strutture presso il ministero! La crescente burocratizzazione delle funzioni dei docenti, infatti, sembra fatta apposta per soffocare le università, intrappolate in uno stato di «riforma permanente», che le costringe ogni anno a riformare l'esistente, cancellando quello che si era cambiato l'anno precedente. Il tempo per la ricerca è ridotto all'osso. In poche parole non si tratta d'inventare nulla di nuovo. Basta rifarsi alle migliori pratiche internazionali e mettere in soffitta per sempre la compulsione normativa che, con la pretesa di evitare abusi e nepotismo, nasconde in realtà l'assenza di coraggio nelle scelte e lascia spazio all'ambiguità e alle pratiche più nefaste. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Mar. ’14 PER SUPERARE L’ABILITAZIONE UNIVERSITARIA VIETATO STUDIARE GLI AUTORI DI DESTRA Quanto conta il fattore ideologico nella valutazione del curriculum di un professore universitario? La risposta dovrebbe essere «zero», altrimenti si ritornerebbe all’incubo degli anni Settanta, quando in alcuni atenei e in alcune materie difficilmente riuscivi ad andare in cattedra se non professavi la fede nel «metodo marxista». Il pregiudizio ideologico nei concorsi universitari in realtà non è scomparso né è valsa ad eliminarlo la riforma Gelmini che ha istituito liste nazionali di abilitazioni. Le cronache dei concorsi recenti parlano di candidati bocciati insoddisfatti, cosa del tutto normale. Ma anche di scandalo tra i colleghi a leggere certe motivazioni negative. A Simonetta Bartolini, biografa di Ardengo Soffici, come rilevava ieri Renato Besana su «Libero», è capitato di essere bocciata al concorso di abilitazione a professore associato perché, come si legge nella valutazione di uno dei commissari, Mario Sechi, omonimo del giornalista, «presenta un profilo marcatamente militante», essendosi occupata di «autori rivendicati dalla destra politica come fondativi di una tradizione alternativa a quella “vincente” ed egemonicamente canonizzata: da Soffici a Barna Occhini, di cui ha pubblicato il carteggio, a Papini e Guareschi...». Insomma, va bene tutto, ma guai a occuparsi di autori di destra. Un po’ lo stesso criterio con cui è stata negata l’abilitazione a professore ordinario a uno studioso più noto, come Alessandro Campi, autore di saggi su Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt, Giovanni Gentile e Gianfranco Miglio. Commentando i diciotto titoli presentati per ottenere l’abilitazione da ordinario in storia delle dottrine politiche, l’esaminatore Angelo d’Orsi ha commentato: «Buona parte di tali lavori affronta il fascismo e i movimenti politici reazionari. Suscita perplessità il carattere fortemente ideologico di tanta parte della sua produzione...». Un giudizio duro per uno storico affermato, non condiviso dalla comunità accademica. Tanto che un’autorità della sinistra come il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha invitato Campi nel comitato scientifico di Biennale democrazia che si svolge a Torino. I casi di valutazione ideologica sono diversi e sembra siano già partiti molti ricorsi. Dino Messina ____________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Mar. ’14 ALLARME DEGLI INTERNISTI IN CALO LA RICERCA INDIPENDENTE Ricerca indipendente a rischio in Italia: in 5 anni gli studi indipendenti (cioè non finanziati dalle aziende) sui medicinali si sono ridotti di circa il 38%. Lo denuncia la Società scientifica di medicina interna Fadoi. In Italia il 32,3% della ricerca scientifica sui farmaci è non profit; un contributo importante, soprattutto se si considera che in Europa la percentuale è del 19,8%. Eppure nonostante gli studi clinici non commerciali siano percentualmente più rilevanti rispetto alla media europea, questa preziosa risorsa per il Paese rischia l’impasse. Infatti, come segnalano i dati dell’Agenzia italiana del farmaco nel 2° Rapporto nazionale sulla sperimentazione clinica dei medicinali, la quota di ricerca non profit in Italia è passata dal 41,4% del 2008 al 35,7% del 2010, fino al 32,3% del 2012. E così dai 364 studi registrati nel 2008 si è arrivati a 225 nel 2012. Una contrazione preoccupante: quello della ricerca indipendente è un settore promosso da strutture ospedaliere, universitarie, da associazioni scientifiche o professionisti per migliorare la pratica clinica e l’assistenza sanitaria. Finalizzato quindi solo a un interesse pubblico. ____________________________________________________________ Il Mattino 11 Mar. ’14 «GLI ATENEI INSEGUONO IL NOZIONISMO non insegnano ai ragazzi la fame di futuro» Il manager e scrittore: il declino è iniziato quando le università hanno pensato più ai prof che agli allievi Antonio Manzo «Se ve ne fosse stato ancora bisogno, ed io credo di no, la crudezza delle cifre in rosso ci dicono solo due cose: la prima, c'è una emergenza drammatica che è quella di creare lavoro per i giovani; la seconda, l'università italiana crea disoccupati». Pierluigi Celi cinque anni fa scrisse una lettera al figlio invitandolo a lasciare l'Italia» Cinque anni dopo ha pubblicato un libro «Alma Matrigna» che è un atto di accusa all'università italiana. Manager scrittore, presidente dell'Enit, già direttore generale della Luiss. I dati confermano, sostanzialmente, la sua analisi. Laureati disoccupati, meno iscritti all'università, poi destino da disoccupati, poco pagati quelli che riescono a trovare un lavoro. «È la riconferma che l'università deve concepire diversamente la sua missione civile e culturale e, soprattutto, deve fare diversamente il proprio mestiere». L'ennesima riforma? Ancora un cambio di rotta? «Se la rotta è quella di oggi non va assolutamente bene. Le università italiane sono diventate strutture del sapere dove i giovani vengono imbottiti di conoscenze, deresponsabilizzati sul loro futuro con la prospettiva della laurea e, soprattutto, vengono spediti nella società senza alcuna nozione del lavoro, né con la cultura del lavoro che non significa un posto a qualunque costo. Il declino è cominciato quando le università italiane hanno iniziato ad occuparsi più dei professori che dei ragazzi da formare». Ma non spetterebbe alle imprese instradare i giovani sul fronte occupazionale? «Le imprese non lo fanno perché anche loro hanno un ritmo di velocità esponenziale molto alta. Debbono reggere alla sfida dei mercati e dei clienti. Chiedono laureati che abbiano già una mentalità formata ad assumersi responsabilità aziendali, sia pure a livelli minimi». Ma le imprese non possono pretendere laureati già formati... «...ma le imprese debbono valutare professionalità in grado di avere un'alta capacità di inserimento nel circuito lavorativo. Hanno la necessità di valutare giovani laureati che con prontezza comprendano i meccanismi del lavoro che si accingono a svolgere». Cosa consigliare alle università italiane dopo queste devastanti cifre? «Gli atenei debbono aiutare i giovani, soprattutto negli ultimi due anni delle lauree magistrali, creando le condizioni per intraprendere un «apprendistato esperenziale» che integri le nozioni universitarie con le nozioni di vita, con un occhio di riguardo per l'imprenditoria e l'innovazione». Lavorare mentre studiano? «Sì, le università debbono aiutare i giovani a mettere le mani nel mondo del lavoro insegnando il rischio dell'impresa, incentivando l'attitudine a lavorare insieme agli altri, impegnando risorse per coinvolgere intelligenze e saperi». Un discorso che lei fa principalmente ai docenti universitari. «Insegnano, spiegano il testo, salutano e vanno via. Ancora non hanno compreso che loro, in ogni settore, dovrebbero attivare delle botteghe artigianali, dove i loro saperi debbono essere come un tornio. Gli allievi si allevano non si istruiscono solamente. Così, l'impatto con il mondo del lavoro è più difficile. Perché il giovane che sta per laurearsi non acquisisce quella lezione sul "rischio del caso concreto" che dovrà fronteggiare nella vita. In un percorso formativo questa capacità di stare al mondo delle imprese si assume con la discussione, con il confronto continuo. Anche con i lavori manuali...» Al di là del percorso di studi? «Sì, lavori manuali. Dove la testa e lo spirito di sacrificio impegnano l'intelligenza singola ad un risultato concreto, immediato, visibile. I giovani debbono impegnarsi con lavori umili, sporcandosi le mani». C'è un verbo per assecondare la speranza? «Cambiare. E non per inseguire nuovismi fuori luogo ma per dispiegare nella realtà la capacità di fare, di intraprendere. I posti fissi saranno sempre meno e la capacità di cambiamento è già una rottura». Cosa manca oggi nell'Italia in crisi? «La fame di futuro, la voglia di costruire. E l'università italiana continua a far studiare senza offrire questi stimoli di vita». La provocazione Negli ultimi due anni delle lauree magistrali i giovani si preparino anche con lavori manuali ____________________________________________________________ Il Manifesto 11 Mar. ’14 PAGA PER STUDIARE: IN USA È SCOPPIATA LA BOLLA DEI PRESTITI Vuoi soldi in prestito dal governo? Non essere uno studente, sii una banca». La provocazione è venuta da una senatrice americana che nell'autunno del 2013 commentava sul proprio sito un'incredibile notizia. Con 864 miliardi dollari in prestiti federali e 150 miliardi di dollari in prestiti privati, i debiti degli studenti Usa superano oggi 1 trilione di dollari. Gli studenti laureati, ma sempre più precari o disoccupati, non riescono a ripagare i debiti. A meno di 30 anni esiste oggi una generazione fallita, o meglio in bancarotta. Come un'azienda, oppure una banca: Lehmann Brothers, per fare un esempio. Trentasette milioni di persone, con una laurea o un diploma, non riescono a ripagare i debiti più gli interessi che hanno dovuto contrarre con autorità federali o con enti specializzati per pagare un'istruzione che nel mondo anglosassone (Canada, come in Inghilterra) si paga. Secondo la Federal Reserve Bank di New York, il debito studentesco, a partire dal primo trimestre 2012, il saldo medio dei prestiti agli studenti di tutte le età era di 24.301 dollari. Circa un quarto dei mutuatari devono più di 28 mila dollari, il 10 % deve più di 54 mila euro, il 3 % più di 100 mila dollari, 167 mila persone devono più di 200 mila dollari. Su 37 milioni di giovani debitori, il 14 %, circa 5,4 milioni under 30 hanno in passato chiesto un prestito per pagarsi gli studi. Per ogni studente che non riesce a ripagare il debito, e dichiara fallimento, almeno altri due debitori diventano delinquenti. Hanno cioè perso tutto quello che avevano e, per sopravvivere, sono costretti a diventare criminali. Questa realtà non riguarda solo i neo-laureati, ma tutte le generazioni che conducono una vita ossessionata dall'idea di ripagare i debiti formativi. Tra i 30 e i 39enni sono più di dieci milioni, 5,7 milioni tra i 40-49enni, 2,2 milioni sono gli ultra 60enni. Come effetto dell'esplosione della bolla finanziaria dei subprime, nel 2010 il debito degli studenti ha superato quello delle carte di credito. Nel 2011 ha superato quello dei prestiti richiesti per acquistare un'automobile. Insieme alla nuova bolla finanziaria dei buoni del Tesoro qualcuno l'ha definita la bolla più grande della storia economica potrebbe scoppiare anche quella del debito studentesco che cresce 3 mila dollari al secondo. Questo scenario traduce la vita al tempo degli uomini indebitati e rappresenta la «normalità» del capitalismo finanziario. Vuoi diventare ceto medio? Quindi devi studiare. Ma se vuoi studiare, devi pagarti un'istruzione di qualità con migliaia di dollari (spesso centinaia). La tua famiglia non ha soldi in banca e, dopo avere fatto i conti sul tavolo della cucina, si rivolge ad una banca. Si indebita, tu dovrai ripagare il debito con il lavoro. Ma come fai se sei precario, intermittente, povero? Questo è il paradosso in cui vive da più di un decennio l'ex classe media, oggi diventata «classe pericolosa». Nell'ultimo quinquennio gli studenti Usa (inglesi e giapponesi) non sono rimasti a guardare. Numerose sono state le campagne di contro-informazione: «Occupy Student Debt» ha creato una piattaforma per raccontare questi orrori, seguito da organizzazioni come «Rebuild the Dream», «Education Trust», «Young Invincibles». Il presidente Obama ha approvato il programma «Pay as You Earn» che dilata i tempi dei pagamenti dei debitori. La petizione «Support the Student Loan Forgiveness Act» ha chiesto invece la cancellazione dei debiti. Ma i debiti, oggi, vengono rimessi solo alle banche. Non agli studenti. La vita continua. In attesa del commissario liquidatore o di Equitalia. ro. ci. ____________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 11 Mar. ’14 PRESIDI PROMOSSI RINVIATI A SETTEMBRE ODISSEA PER I 335 VINCITORI DEL CONCORSO PARTITO NEL 2011: FORSE VICINI ALLA META di Alex Corlazzoli E una vera e propria odis sea quella dei 335 vincitori del concorso per dirigenti scolastici in Lombardia. Nei giorni scorsi l'ennesima tappa della via Crucis: all'inizio di questa settimana avrebbero dovuto prendere servizio; da tempo erano stati convocati dall'Ufficio scolastico regionale per la firma del contratto. Molti, provenienti da altre parti d'Italia, erano arrivati a Milano per assumere l'incarico ma la sera prima è arrivato da Roma il contrordine: abbiamo scherzato! I 355 vincitori hanno firmato subito il contratto, hanno avuto le sedi assegnate, ma prenderanno servizio il 1° settembre 2014. Fino ad allora nelle scuole senza presidi resteranno i reggenti che devono dirigere due o tre istituti, magari distanti anche cinquanta chilometri l’uno dall'altro. A fermare tutto una nota del Miur che richiama la cosiddetta continuità didattica. Secondo le dichiarazioni del Ministro Stefania Giannini, riportate da Orizzonte Scuola: "Immettere in ruolo i nuovi 355 presidi a marzo avrebbe significato doverli spostare dalle cattedre che occupano attualmente e, di conseguenza, rimandare in aula i vicari che erano stati nominati per coprire le dirigenze rimaste vuote". UNA VICENDA all'italiana che vale la pena ripercorrere. 11 12 ottobre 2011 si svolge la prova preselettiva, fatta subito oggetto di ricorsi. 11 18 luglio 2012 il Tar Lombardia annulla le prove concorsuali per la presunta irregolarità delle buste contenenti i nomi dei candidati. Dal luglio 2012 la vicenda passa nella competenza del Consiglio di Stato che concede la sospensiva e poi a distanza di due mesi se la rimangia, con la conseguenza che salta l'affidamento degli incarichi previsto per il primo settembre 2012. Comincia da lì la lunghissima trafila delle udienze presso il Consiglio di Stato. Si arriva all'il luglio 2013, quando la sentenza n. 3747 affossa il concorso. Alla ripresa autunnale il Miur avoca a sé la responsabilità del riavvio della procedura. Il resto è la cronaca di questi giorni: il cambio di inquilino in viale Trastevere, la frenata, il caos nelle scuole che avevano già convocato i consigli d'istituto per presentare il nuovo dirigente. ____________________________________________________________ TST 12 Mar. ’14 SI PUÒ LEGGERE NEL FUTURO? C'È UNA SFERA DI CRISTALLO CHE SI CHIAMA "BIG DATA" MARCO PIVAID i: APPLICAZIOW Nuove logiche per decifrare la realtà dalle pandemie fino ai trend sociali Il futuro non lo si può prevedere, ma lo si può studiare. Ed è straordinario che l'accuratezza degli scenari che possiamo anticipare stia aumentando. Opinione pubblica e consenso, crisi economiche, pandemie e mutamenti geopolitici: non sarà una magica sfera di cristallo a rivelarci da che parte va il mondo, , ma una serie di indicatori scientificamente trattati. Una rivoluzione in questo senso viene dall'accesso e dall'analisi dei cosiddetti «Big Data», il fiume di informazioni che produciamo e di cui lasciamo traccia attraverso Internet e altri mezzi in cui parliamo di noi: si tratta di «briciole digitali», come le chiama Alessandro Vespignani, professore alla Northeastern University di Boston e direttore scientifico della Fondazione Isi di Torino, e che si stanno rivelando straordinariamente utili. Professore, che cosa sono esattamente le briciole digitali che costituiscono i Big Data? «Sono informazioni che l'uomo lascia al suo passaggio ogni volta che usa per esempio Facebook, compra un libro su Amazon, viaggia seguendo il tracciato di un Gps, esegue una transazione finanziaria: questa mole di informazioni ci permette di studiare la direzione di macroscenari in fieri, anticiparli e anche di cambiarli». Può farci un esempio? «In primo luogo possiamo partire da inferenze abbastanza semplici, come provare a indovinare chi vincerà la finale di "X-Factor", mettendo a sistema la massa di opinioni che viaggia via twitter delle centinaia di migliaia di persone, che poi votano da casa». Passando, invece, a casi più complessi? «Dal 2009 il mio team ha seguito l'evolversi della pandemia del virus A/H1N1. Seguendo i primi focolai della malattia, grazie a modelli matematici e simulativi che hanno messo in relazione i singoli fenomeni agli spostamenti dell'uomo nel mondo globalizzato e superconnesso e le informazioni che venivano scambiate su Internet e dai media, i computer sono riusciti a predire in buona misura il viaggio di questo virus nel mondo e fornire informazioni per contenere l'emergenza». È possibile applicare principi simili anche per anticipare i grandi trend della società? «Usiamo l'analogia delle previsioni meteorologiche. Grandi fenomeni atmosferici si generano dal comportamento di singoli atomi e da piccole variazioni. Così dallo studio del particolare possiamo ricostruire il dato generale: se consideriamo l'uomo un "atomo sociale", tracciando le sue attività al lavoro, in famiglia e nel tempo libero, vediamo i legami che crea nel tempo fino alla comparsa di "molecole" e corpi sempre più complessi, cioè metafore di veri e propri mutamenti collettivi: questa è la fisica dei sistemi sociali». Una scienza sempre più appetibile per «spin-doctors» e movimenti politici... «Non c'è dubbio. Dagli Anni 80 ci si affida alle scienze e alla psicologia sociali, ma da ora e nel prossimo futuro saranno le scienze computazionali, basate sui Big Data, a fornire indicazioni su opinione pubblica e consenso, che a loro volta influenzano, come sappiamo, i mercati finanziari e ancora più in grande le relazioni internazionali tra gli Stati». È uno scenario multiforme: inquietante o di grande opportunità? «Si dice che la scienza non è né "buona" né "cattiva" e che dipende dal suo utilizzo, ma nemmeno neutrale: nuove conoscenze producono sempre effetti. E importante, allora, utilizzare il potenziale dei Big Data in senso comunitario e non elitario». Si pone però anche un problema antico: fare previsioni significa interferire con gli scenari stessi che studiamo. Non si finisce per influenzarli? «È un problema che (miste senz'altro, ma può rivelarsi un'opportunità. Nel momento in cui estrapoliamo informazioni possiamo decidere come utilizzarle e diffonderle: proprio perché i trend sono reattivi alle nostre interferenze possiamo studiarne le risposte. Nel caso delle pandemie la diffusione delle conoscenze può fare la differenza tra il panico e il contenimento dell'emergenza». E come facciamo a sapere che ciò che ci suggeriscono in prospettiva i Big Data non sarà ((inquinato» dal nostro utilizzo? «Torniamo all'analogia con le previsioni meteorologiche. A poche ore o giorni sono affidabili, ma a una settimana diventano difficili, fuorviate da una serie di eventi successivi. Nel fare previsioni i modelli statistici e computazionali possono però aggiornare di giorno in giorno le informazioni, correggendo così la visione della realtà». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Mar. ’14 LICEO PACINOTTI. IL 20 MARZO LEZIONE DEL PROFESSOR MARROSU Dallo studio del cervello la cura di tante malattie Il primo a sostenerlo fu Aristotele: corpo e anima, intesa come cervello, non sono separati. Da allora gli studi ne hanno fatto di strada, per arrivare a ribadire il concetto espresso 2.300 anni fa: esistono connessioni strettissime fra la neurologia e l’attività dell’organismo, più si conoscono e più si è in grado di intervenire sulle patologie. Francesco Marrosu, direttore del reparto di Neurofisiopatologia al Policlinico di Monserrato, terrà una conferenza al liceo scientifico Pacinotti di Cagliari il 20 marzo alle 14, per affrontare coi ragazzi il tema della memoria nell’ambito delle iniziative previste per la Settimana mondiale del cervello: tenterà di spiegare con parole semplici funzionamento - e disfunzionamento - di un organo complicatissimo e non del tutto noto nonostante i sofisticati apparati tecnologici a disposizione. Racconterà di un verme lungo un millimetro, prototipo degli studi neuroscientifici in quanto possiede “solo” 300 neuroni, e dei cosiddetti “moscerini della frutta”, piccoli insetti-cavie per studiare alcune gravi patologie neurologiche. Importanti passi avanti si sono compiuti nella ricerca sull’epilessia, sul morbo di Parkinson, sull’Alzheimer e sull’autismo, «ma la genetica è ancora poco di fronte alla recente sfida da mission impossible: codificare le parti più rilevanti della cablatura del nostro cervello», spiega Marrosu. «Le altre nazioni - prosegue - stanno investendo proprio su questo tipo di studi, perché conoscere i collegamenti neurologici può significare riuscire a isolare le connessioni errate, quelle che determinano le patologie». Una delle ultime scoperte al riguardo arriva da un centro di studi computazionali di Amsterdam: nelle alterazioni di cablatura del cervello si sarebbe delineata la patologia del diabete. «Ecco perché reputo indispensabile accendere i riflettori sull’importanza di questo tipo di ricerca - continua il primario - e perché credo si debba raccontare ai giovani il futuro della scienza». Chissà che proprio tra i liceali del Pacinotti non si celino i futuri «giovani ricercatori impudenti» tanto auspicati da Marrosu, che «non abbiano rispetto delle teorie passate e abbiano il coraggio di violare vecchi paradigmi». Michela Seu ____________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Mar. ’14 L’AMERICA CEDE IL CONTROLLO DI INTERNET La gestione dei domini web passerà a un organismo internazionale DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Per i conservatori Usa è un altro cedimento di Barack Obama che, dopo aver ridimensionato l’impegno militare americano nel mondo, ora riduce anche il controllo degli Stati Uniti sulla gestione di Internet. Ma per gli altri governi, a cominciare dall’Unione Europea che aveva chiesto il cambiamento di rotta a gran voce, questa è una svolta positiva lungamente attesa. La decisione comunicata venerdì sera dal ministero del Commercio di Washington della rinuncia degli Usa a continuare a controllare l’Icann, l’ente che assegna i domini di Internet, apre, comunque, una fase di transizione lunga e dagli esiti ancora incerti. Sulla decisione americana ha probabilmente pesato il clima di sospetti che si è diffuso nel mondo dopo le rivelazioni di Edward Snowden sulle attività di spionaggio della Nsa che, si è scoperto, sono praticamente planetarie e vengono realizzate in gran parte utilizzando le reti digitali. Ma il governo Usa nega che questo sia stato un fattore nelle sue scelte e, del resto, una riflessione era in corso già da anni: come ha ricordato ieri, nel dare l’annuncio, il direttore per le Telecomunicazioni del dipartimento Usa del Commercio, Lawrence Strickling, fin dalla fondazione dell’Icann, nel 1988, quello del governo Usa era stato concepito come un ruolo di supplenza in attesa che il nuovo organismo internazionale, comunque basato negli Stati Uniti, a Los Angeles, si rafforzasse e imparasse a camminare con le sue gambe. Questo «rodaggio» è durato più del previsto, un quarto di secolo, ma è anche vero che in questi anni l’Icann (sigla che sta per Internet Corporation of Assigned Names and Numbers) ha funzionato molto bene garantendo a tutti un accesso alla rete ordinato, rapido e privo di condizionamenti. L’ente ha aumentato i domini a seconda delle necessità: dopo quelli più vecchi come .com, .org e quelli nazionali, sono arrivati .info e tanti altri mentre ora si prepara anche l’apertura a di domini personalizzati o riferiti a settori merceologici (.clothing, .shop), a servizi (.hospital), o basati su lingue con caratteri diversi da quelli latini (cirillico, cinese e arabo). Il problema vero, adesso, è quello di dar vita a un nuovo organismo internazionale che rappresenti il mondo del web in tutte le sue componenti senza essere assoggettato a un controllo politico o burocratico da parte dei governi. Già due anni fa un primo tentativo di cambiare era fallito perché alla vigilia del vertice dell’Itu che voleva trasferire l’Icann sotto il controllo dell’Onu, il Congresso di Washington votò all’unanimità una risoluzione nella quale si chiedeva un impegno a mantenere Internet lontano da ogni possibilità di controllo da parte di governi autoritari. E, con l’Icann sotto l’ombrello delle Nazioni Unite, anche governi come quelli di Pechino e Mosca che pongono limiti all’uso di Internet, avrebbero avuto voce in capitolo. Ora comincia la ricerca di un nuovo equilibrio. Primo appuntamento, una riunione che si terrà il 24 marzo a Singapore, tra i diversi organismi e le personalità internazionali che già oggi fanno parte dell’Icann. Partirà da lì, sotto la guida del presidente dell’Istituto, Fadi Chehade lo sforzo di costruire un nuovo assetto istituzionale coinvolgendo le grandi imprese della Internet economy e anche entità non governative e le non-profit più attive sul web. Repubblicani a parte, anche le grandi multinazionali Usa dell’economia digitale sono spaventate dal cambiamento: temono che le pressioni politiche che comunque ci saranno producano limiti, barriere o tolgano fluidità a un sistema che fin qui ha funzionato bene. Ma il governo Usa promette che si ritirerà solo quando sarà certo che ciò non avverrà: Strickling ha detto ieri che l’America farà un passo indietro solo quando sarà certa che sul ponte di comando della nuova società ci saranno azionisti che hanno interesse al buon funzionamento del web come la Internet Engineering Task Force, o le associazioni che tutelano la sicurezza, l’apertura e la stabilità dei canali di comunicazione digitale. Un lavoro complesso, ma c’è tempo: la convenzione dell’Icann col governo Usa scade il 30 settembre 2015, ma le parti sono già d’accordo di prorogare questo termine se a quella data ci saranno ancora problemi aperti. Massimo Gaggi ____________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Mar. ’14 IL VALORE DELLA FEDELTÀ NELL’ERA DIGITALE di Danilo Taino Statistical Editor Chi arriva direttamente su un sito web di informazioni ci sta in media tre volte più a lungo di chi ci arriva attraverso Facebook o un motore di ricerca. Per la precisione 4 minuti e 36 secondi contro un minuto e 41 secondi di chi ci è arrivato passando prima dal social network e un minuto e 42 secondi di che proviene da un sito qualsiasi di ricerca. I visitatori diretti vedono anche in media circa il quintuplo delle pagine viste da chi ci arriva indirettamente: per la precisione, su basi mensili, 24,8 pagine contro 4,2 (Facebook) e 4,9 . E visitano il sito di informazioni 10,9 volte al mese, contro le 2,9 indotte dal social di Mark Zuckerberg e le 3,1 derivanti da una ricerca. Questo in quello che è probabilmente il Paese più avanzato e sofisticato in termini di utilizzo dell’informazione digitale, gli Stati Uniti. I risultati derivano da una analisi del Pew Research Center condotta assieme alla John S. and James L. Knight Foundation su 26 dei maggiori news website americani studiati attraverso il sito comScore Data Web. Di base, mostrano come fare business diventi via via più complicato e via via più affascinante. Nel caso specifico, indicano che il modo in cui una persona entra in un sito di informazioni ne cambia l’esperienza e quindi il comportamento. Il primo fatto che rivelano è l’alto livello di coinvolgimento e di lealtà che le persone dimostrano nei confronti del sito d’informazioni che scelgono e dei suoi contenuti. Inoltre, aprono una finestra sulle sfide che le imprese di media hanno di fronte nel cercare uno spazio nel mondo digitale e nel realizzare piani di sottoscrizione per l’accesso ai loro siti web. E aiutano a chiarire il loro rapporto con i social media e i motori di ricerca (Google, Yahoo, eccetera): in sostanza, Facebook e le ricerche sono essenziali per portare grandi quantità di occhi su un sito d’informazione ma la connessione che stabiliscono con il sito stesso e con la società di media che gli sta dietro «sembra piuttosto limitata», commenta Pew. Lo studio fornisce anche indicazioni più specifiche. Il website americano con la percentuale maggiore di traffico diretto, per esempio, è Cnn : 60% . Ma un suo visitatore unico vi si ferma in media solo un minuto e mezzo ogni volta, vede 13,1 pagine al mese e torna su Cnn.com 8,7 volte al mese. È insomma piuttosto attraente, è un brand forte ma forse può migliorare la sua capacità di trattenere chi vi entra. Foxnews.com , invece, ha il 42% di visitatori diretti ma riesce a trattenerli ogni volta per 9 minuti e 6 secondi , a fargli vedere 29 pagine al mese e a farli tornare 11,1 volte ogni 30 giorni. Il sito sul quale i visitatori si fermano per meno tempo è quello del Guardian , 54 secondi , quello su cui si fermano mediamente di più ogni volta che lo visitano è nydailynews.com , 17 minuti e 18 secondi (che è anche il website con il maggior numero di pagine viste mensilmente, 52,6 ). I modelli di business cambiano, dunque, diventano più complicati e interessanti. Lo studio sembra però indicare che il coinvolgimento di chi si informa e la fedeltà a una testata di notizie restano fondamentali anche nell’era digitale. @danilotaino ____________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Mar. ’14 IL VOTO FA MALE ALLA DEMOCRAZIA. SORTEGGIAMO La sfida delle donne tra la socialista Anne Hidalgo e Nathalie Kosciusko- Morizet (centrodestra) per diventare sindaco di Parigi è il momento mediaticamente più appassionante; poi c’è il valore di test nazionale, per vedere se la sinistra del presidente François Hollande riesce a risalire in popolarità. L’opposizione dell’Ump, dilaniata dalle lotte interne, potrà finalmente contarsi, e tutti attendono al varco il Front national: quanti comuni alla fine saranno governati dagli uomini e dalle donne di Marine Le Pen? Domenica prossima, 23 marzo, in Francia si tiene il primo turno delle elezioni municipali (il ballottaggio sette giorni dopo), e già ci si prepara alle Europee di maggio. I francesi sono chiamati alle urne e di questo trattano talk show, comizi, dibattiti e appelli. Ma i sempre più evocati e corteggiati elettori, alla fine, a votare non vanno. Due anni fa, al secondo turno delle legislative francesi, i non votanti furono il 43,71% , un record (e pure in Italia, alle ultime politiche, l’astensione ha raggiunto il 24,8% alla Camera e il 24,9% al Senato, ossia il massimo storico dalla nascita della Repubblica). In questi giorni pre-consultazione le pubblicità-progresso a Parigi mettono le mani avanti: accanto alla foto di una scheda elettorale si legge la gigantesca frase «arma di democrazia di massa». Sarà vero? E se lo è, perché è diventato necessario ricordarlo a cittadini sempre più riluttanti? «Che cosa è andato storto con la democrazia», si chiede l’«Economist » in copertina, e lo storico belga David Van Reybrouck offre la sua risposta: le elezioni. O meglio la loro sopravvalutazione, il considerarle una sorta di sinonimo della democrazia. Sostanzialmente l’unico modo attraverso il quale la democrazia può essere esercitata. «Contro le elezioni» è il suo nuovo saggio. Il titolo ha il merito di attirare l’attenzione, ma forse le conviene chiarire se lei è per caso un sostenitore delle dittature. «No non lo sono affatto, ovviamente, anzi mi considero un fervente democratico. Ma siamo tutti diventati dei fondamentalisti delle elezioni e abbiamo perso di vista la democrazia. L’abbiamo visto anche con le primavere arabe: la rivolta dell’Egitto ha portato con sé elezioni, ma non una democrazia accettabile». Sono in crisi anche le democrazie più antiche, quelle occidentali. «Siamo alle prese con la democrazia da circa 3 mila anni, ma lo strumento delle elezioni lo usiamo da soli 250. Le elezioni sono state inventate, dopo le rivoluzioni americana e francese, non certo per fare avanzare la democrazia, ma semmai per arrestare e controllare i suoi progressi. Il voto ha permesso di sostituire a un’aristocrazia ereditaria una nuova aristocrazia elettiva». Non starà mica rievocando le critiche sovietiche alla «falsa democrazia borghese» in favore della vera democrazia, quella proletaria? «No, per niente, anche se da qualche anno mi arrivano ogni genere di accuse, da destra e da sinistra. Questo libro nasce dopo l’esperienza del movimento G1000 che ho contribuito a fondare in Belgio nel 2011-2012, unendo fiamminghi e valloni alla ricerca di una migliore organizzazione della democrazia nel nostro Paese. Non sono un bolscevico. Semplicemente prendo atto che le elezioni hanno portato a vere iniezioni di democrazia fintanto che si allargava il suffragio, esteso a tutti gli uomini e poi a tutte le donne. Da decenni ormai il percorso si è di fatto invertito e, soprattutto in Occidente, i cittadini sono stanchi di una partecipazione fondata quasi solo sul voto. Nel mio libro precedente Congo (in Italia lo pubblicherà Feltrinelli, ndr ) racconto la colonizzazione belga in Africa e poi i sacrifici immensi di tanti che hanno perso la vita per ottenere libere elezioni. Vedere come questo strumento venga sempre di più snobbato in Occidente deve far riflettere e ha poco senso gettare tutta la responsabilità su milioni di cittadini che legittimamente non credono più a quest’organizzazione della società e della politica». Lei nel suo libro parla di «sindrome di stanchezza democratica», individuando quattro diagnosi possibili: colpa dei politici, della democrazia, della democrazia rappresentativa o della democrazia rappresentativa elettiva. «A dare la colpa ai politici sono i populisti. Da Silvio Berlusconi a Geert Wilders e Marine Le Pen ai nuovi arrivati Nigel Farage o Beppe Grillo. Chi critica la democrazia invece vanta i successi della tecnocrazia, evidenti in Cina per esempio, secondo uno schema opposto rispetto ai populisti: invece di privilegiare la legittimità, i tecnocrati puntano all’efficenza. Oppure, ci sono quelli che incolpano la democrazia rappresentativa, come fanno i movimenti come We are the 99% e gli Occupiers americani o gli Indignados. Io invece me la prendo con le elezioni, o meglio con la pigrizia di ridurre tutto al voto. Le elezioni sono il combustibile fossile della politica: un tempo erano in grado di stimolare la democrazia, ma ora provocano problemi giganteschi. Questo non significa che abbia visto con favore la nomina in Italia, da Mario Monti in poi, di presidenti del Consiglio non eletti». In Italia il Movimento Cinque Stelle parla molto di nuove forme di democrazia grazie alla rete, lei che cosa ne pensa? «Sono d’accordo sul fatto che la nostra democrazia ottocentesca non sia più adatta ai tempi, ma non condivido le soluzioni che loro propongono». Qual è allora il suo rimedio? «Seguo con interesse alcuni esperimenti di estrazione a sorte, che negli ultimi anni sono stati condotti un po’ ovunque nel mondo, dalla provincia canadese della British Columbia all’Islanda al Texas a, più recentemente, l’Irlanda. Qui si è appena conclusa la Convenzione costituzionale, che ha visto collaborare per un anno 66 cittadini tirati a sorte con 33 eletti. Quest’assemblea inedita è riuscita ad avviare senza scossoni la riforma di 8 articoli della Costituzione irlandese, affrontando anche la questione del matrimonio omosessuale che in Francia ha provocato forti tensioni». Pensa che introdurre il criterio dell’estrazione a sorte potrebbe funzionare non solo in piccoli Paesi, ma anche in grandi nazioni come Francia o Italia? «Sarebbe importante almeno accettare il principio, e poi introdurlo gradualmente nelle assemblee locali, affiancandolo agli strumenti classici di democrazia elettiva». Quale competenza potrebbero avere persone chiamate a deliberare per estrazione a sorte? «E perché, quale competenza hanno oggi la maggior parte dei deputati nei nostri Parlamenti? I migliori di loro usano la legittimità offerta dallo status di eletti per chiedere informazioni e consigli agli esperti, e infine decidere a ragion veduta. Niente che non potrebbe fare una persona tirata a sorte. Con il vantaggio fondamentale che i cittadini tirati a sorte sarebbero forse più inclini a dare priorità al bene comune, e non alla propria rielezione». Quali altri studiosi si interessano a questi temi? «Oltre a Habermas, vorrei citare l’americano James Fishkin e i francesi Bernard Manin e Yves Sintomer. È il momento di pensare a una democrazia deliberativa e non più solo elettiva. Quando John Stuart Mill proponeva il voto alle donne, a metà dell’Ottocento, lo prendevano per pazzo. Le novità non ci devono spaventare». @Stef_Montefiori ========================================================= ____________________________________________________________ Repubblica 14 Mar. ’14 LA GRANDE FUGA DA MEDICINA CROLLANO GLI ISCRITTI AI TEST “UNO SU 5 HA RINUNCIATO” Gli studenti: un errore anticiparli ad aprile SALVO INTRAVAIA ROMA — Fuga dal camice bianco? O famiglie ingannate dall’anticipo dei test ad aprile? I primi numeri forniti dal ministero sui candidatiai test di ammissione alle facoltà a numero chiuso – Medicina, Odontoiatria, Veterinaria e Architettura – che partono l’8 aprile certificano un crollo piuttosto netto: quasi 24mila domande in menorispetto al 2013/2014, un quinto delle 114mila istanze dello scorso anno. Gli studenti puntano il dito contro l’ex inquilino di viale Trastevere, che ha avallato l’idea del collega Francesco Profumo di anticipare il test ad aprile. «I primi effetti concreti della scelta del ex ministro Carrozza di anticipare i test sono sotto gli occhi di tutti — dice Gianluca Scuccimarra, dell’Unione degli universitari — Un calo del20 per cento deriva dall’aver imposto agli studenti una scelta tra il percorso universitario nei corsi a numero chiuso e la conclusione dell’ultimo e fondamentale anno di scuola». È la prima volta, infatti,che il test di ammissione si svolge ad aprile anziché a settembre. L’anno scorso, i test vennero dapprima programmati per luglio, con oltre 72mila candidati al quizzone di Medicina e Odontoiatria. Poi arrivò il ministro Carrozza che rinviò tutto a settembre riaprendo le iscrizioni. E il numero di candidati schizzò a 84mila: ben 15mila in più dei 69mila aspiranti di quest’anno. Ma gli studenti accusano il ministero anche di avere confuso le carte. «La diminuzione del 20 per cento dei posti, rientrata ad un giorno dalla chiusura delle iscrizioni, ha indotto tanti a non entrare in una lotteria con un numero di biglietti vincenti esiguo», continua Scuccimarra. Quest’anno, il ministero ha pubblicato un primo contingente di posti reintegrato in extremis. E l’Udu chiede al ministro Giannini di «sospendere i test di aprile». Ma è ipotizzabile una fuga dalla facoltà di Medicina? Per il rettore dell’università Tor Vergata di Roma, Giuseppe Novelli, «la facoltà di medicina sta perdendo appeal perché i posti per le specializzazioni sono passati da 5mila a 3mila all’anno». «Uno studente laureato — continua Novelli — è scoraggiato dalla prospettiva di attendere anni prima di iniziare la specializzazione». Un calo di vocazioni che ha colpito in maniera ancora più visibile Veterinaria – meno 25 per cento – e quella di Architettura: meno 32 per cento sul 2013 e meno 42 rispetto al 2012. «Le possibilità lavorative per gli architetti si sono ridotte e le famiglie faticano a mantener ei figli agli studi», spiega Renato Masiani, preside alla Sapienza. Per Leopoldo Freyrie, presidente dell’ordine degli architetti, è la crisi a colpire duro. «Negli ultimi tre anni il comparto dell’edilizia ha perso il 50 per cento del fatturato e 650mila operatori hanno perso il lavoro. Inoltre, oggi, il reddito medio degli architetti è sotto i 20mila euro all’anno». ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Mar. ’14 BARRIERE ALTE PER MEDICI E DENTISTI A disposizione un posto ogni 7 candidati - Per veterinaria meno di mille ingressi Andrea Curiat La prova di ammissione alla facoltà di medicina e chirurgia è una delle più temute dagli aspiranti alunni. E i ragazzi in fondo non hanno tutti i torti, se si considera che nel 2013 si erano iscritti al test quasi 85mila giovani (e in 69mila si sono presentati alle prove) per un totale di poco più di 10mila posti banditi, come dire un posto ogni 7 candidati. Nel 2014, la data da segnare sul calendario è l'8 aprile: è rimasto quindi poco meno di un mese per prepararsi al test, che come sempre è unico anche per chi vuole iscriversi alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria. Per conoscere i risultati, invece, bisognerà attendere la pubblicazione delle graduatorie il 22 aprile. Nell'anno scolastico 2014/2015 i posti provvisoriamente disponibili sono 7.918 per i corsi di medicina e chirurgia (più 351 per i cittadini non comunitari non soggiornanti in Italia), mentre altri 787 sono riservati alle lauree in odontoiatria (cui se ne aggiungono 70 per i cittadini stranieri). L'elenco potrà però essere aggiornato con ulteriori decreti ministeriali. Discorso a parte per il test di medicina in lingua inglese: i posti sono 155 più 77 per i cittadini non comunitari, mentre la prova di ammissione si svolgerà il 29 aprile (si veda anche la scheda a pagina 27). Delle 60 domande che compongono la prova di ammissione alle facoltà di medicina, 4 sono di di cultura generale; 23 di ragionamento logico; 13 di biologia; 14 di chimica e 6 di fisica e matematica. La componente di cultura generale e ragionamento logico mira ad accertare le capacità dell'alunno di usare correttamente la lingua italiana e di completare logicamente un ragionamento, nonché le conoscenze su temi che dovrebbero essere stati affrontati nel corso degli studi. La sezione con le domande di biologia spazia dalla chimica dei viventi alla teoria cellulare, passando per i processi energetici che alimentano gli organismi, le biotecnologie, la genetica, l'anatomia e la teoria ereditaria. I quesiti di chimica approfondiscono la costituzione della materia e le sue proprietà, il sistema periodico degli elementi, e tutto ciò che riguarda le reazioni chimiche organiche e inorganiche. Sul fronte della fisica, i candidati farebbero bene a prepararsi sulle misure, sulla cinematica, la dinamica, la meccanica dei fluidi, la termologia, l'elettrostatica e altri temi ancora. Sul fronte della matematica, infine, si va dall'algebra alle funzioni, e dalla geometria alla statistica. Questi stessi quesiti, nell'articolazione delle materie, verranno sottoposti anche a chi vuole iscriversi ai corsi di laurea in medicina veterinaria. La prova si svolgerà il 9 aprile con modalità analoghe a quella di medicina, mentre i risultati saranno pubblicati il 23 aprile. I posti disponibili sono 632, più 79 per i cittadini non comunitari non soggiornanti in Italia. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Mar. ’14 IL ROBOT SUPERA I TEST D'ACCESSO ALL'UNIVERSITÀ - MA NON SA FARE RICERCA Se i robot saranno intelligenti quanto gli esseri umani, i lavori che svolgiamo attualmente saranno presto eseguiti dai robot? Noriko Arai, matematico presso l'Istituto Nazionale di Informatica del Giappone, cerca di rispondere con un progetto avviato nel 2011: “Un robot può essere ammesso all'Università di Tokyo?”, apparentemente la più difficile tra quelle giapponesi. Arai afferma che ogni volta che le persone perdono il lavoro per i progressi tecnologici, si dovrebbero implementare l'istruzione e la formazione professionale in campi completamente nuovi. Solo se la società potrà prevedere questi possibili cambiamenti potrà arrivare a quel futuro preparata. In caso contrario sarà difficile progettare politiche pubbliche di istruzione, economia, lavoro e previdenza sociale adeguate. Arai ha preso in considerazione il sistema educativo britannico, che è stato rafforzato proprio negli ultimi anni dal Governo, e ha dichiarato che potrebbe non essere adeguato in futuro qualora non venisse creato anche un dispositivo portatile di traduzione simultanea per esso. C'è anche un altro scopo dietro il progetto. Se le macchine non possono ancora sostituirci, allora «dovremmo chiarire ciò che manca e svilupparne le tecnologie», dice Arai. L'anno scorso, un robot ha superato un test di simulazione per l'esame di ammissione all'università ma non ha soddisfatto l'obbiettivo del team di ricerca di ottenere un punteggio del 50 per cento. I risultati hanno comunque dimostrato che il robot ha l'80 per cento di probabilità di superamento degli esami per 404 università giapponesi. Recentemente il direttore di ingegneristica di Google, Ray Kurzweil, aveva predetto che i computer supereranno in astuzia gli esseri umani entro il 2029. Potrebbe accadere prima. Caterina Latte ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 13 Mar. ’14 AOB: MEDICINA 1, BLITZ DEI NAS : LETTINI IN CORSIA E PAZIENTE SENZA CENA All'alba, i 43 posti letto ufficiali e anche quelli non ufficiali, ricavati trasformando le stanze da quattro persone in stanze da cinque, erano finiti da un pezzo. Medico di turno e caposala avevano anche inviato un fax al pronto soccorso: «Siamo pieni, non mandate più pazienti». Eppure continuavano ad arrivarne. Che fai, neghi il ricovero? È a quel punto, verso le 5 del mattino, che in corsia è stata allestita la prima “baracchetta”: a disposizione del paziente, un lettino accostato a una parete, quattro paraventi intorno a garantire (si fa per dire) la privacy, niente comodino né armadietto, oggetti personali per terra. IL SOPRALLUOGO Ospedale Brotzu, ottavo piano, Medicina 1: è iniziata così, lunedì scorso, una delle giornate più difficili per un reparto sull'orlo di una crisi di nervi. Il culmine è arrivato di sera, quando sono arrivati in ispezione i carabinieri del Nas (Nucleo antisofisticazioni). A quel punto i ricoverati erano diventati 61 e le postazioni di fortuna in corsia erano diverse: una situazione degradante e potenzialmente pericolosa, in caso di malore una barella avrebbe avuto difficoltà a passare. A chiamare i militari una paziente, inferocita perché l'ora di cena era passata da un bel pezzo e il cibo, a lei, non era mai arrivato. I carabinieri hanno preso nota della situazione, interrogato la donna, preso i nomi di chi era al lavoro. Dopo il sopralluogo, alcuni pazienti sono stati dimessi, altri trasferiti e dalla corsia sono spariti lettucci e paraventi. ALTA TENSIONE Abbastanza tipica, a Medicina 1, la richiesta d'intervento alle forze dell'ordine. L'ultima giusto ieri: «Chiamo la polizia». Nel reparto diretto dal primario Roberto Ganga i ricoverati sono in media 50-52, molti dei quali anziani, a volte non in grado di andare in bagno da soli, e quindi bisognosi di essere puliti se si sporcano. A protestare, certo, i pazienti, che subiscono in prima persona i disservizi ma almeno riescono a distinguere ruoli e responsabilità e vedono che il poco personale (per turno, dopo le 14, ci sono un medico, un operatore socio-sanitario, due assistenti e tre infermieri) fa il possibile per far fronte al tanto lavoro da fare. Ma le sfuriate più terribili vengono dai parenti dei ricoverati, che durante le visite vedono cose che a volte fanno salire il sangue alla testa: a parte le tantissime lamentele presentate all'Ufficio relazioni con il pubblico, in più di una circostanza si è arrivati agli insulti e alle minacce. Risultato: medici, infermieri e operatori stressati, alcuni affetti da patologie cardiocircolatorie e psoriasi, diverse richieste di rinforzi inoltrate alla direzione sanitaria nel corso degli ultimi anni. CACCIA AI LETTI Quando, come avviene periodicamente, il numero di ricoveri si impenna, comincia la caccia ai lettini negli altri reparti: in Medicina, vista la ricorrenza del fenomeno, se ne tengono sempre alcuni di riserva, ma in caso di accessi straordinari come quello di tre giorni fa non sono sufficienti. TURNI Il personale lavora in tre turni: 7-14, 14-22, 22-7; l'arrivo dei nuovi macchinari per la terapia, che avrebbero dovuto ottimizzare i tempi attraverso una gestione informatica dei dati relativi ai pazienti, avrebbero in realtà finito per allungarli, soprattutto nel turno serale. Gli spazi, nelle stanze sovraffollate di letti, sono angusti: ci si muove a fatica, e in caso di malore le difficoltà crescono. Le postazioni fisse per l'ossigeno sono una ventina e si trovano solo su un lato delle stanze: per tutti gli altri pazienti (anche quelli eventualmente alloggiati in corsia) ci si deve arrangiare con le quattro bombole in dotazione. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Mar. ’14 AOUCA: LETTI IN CORSIA? OBBLIGATI Medicina 2: 36 posti letto, 40 ricoverati al giorno - Gino Pascalis, primario di un reparto sotto pressione Le brande in corsia? Eccole, accostate alle pareti, tra le porte delle camere. «L'ex assessore Dirindin quando le vide andò su tutte le furie», sorride il professor Gino Pascalis: «Non voleva che la loro presenza venisse istituzionalizzata. Appena se ne liberava una, dovevamo portarla via; poco dopo eravamo costretti a rimetterla». San Giovanni di Dio, primo piano, Medicina 2: con 36 posti letto e 40 ricoverati al giorno, le brande in corsia sono una scelta obbligata. Non è un bel vedere, rappresentano la negazione della privacy ma dopo che la Dirindin (oggi senatore del Pd) lasciò l'assessorato, il primario Pascalis non le ha più tolte. Ogni giorno scrive ai vertici dell'Azienda mista da cui dipende il vecchio ospedale civile: centinaia di lettere tutte uguali, archiviate in voluminosi schedari, nelle quali il professore comunica quanti pazienti sta alloggiando in corsia e avverte che le brande ingombrano, ostacolano possibili vie di fuga e rendono difficile l'accesso agli impianti antincendio. DEGENZE BREVI Sono 11 anni che Pascalis dirige questo reparto da 2.000 ricoveri l'anno (altrettanti ne fa Medicina 1). Tantissimi. «La degenza media è di 6,2 giorni», dice Pascalis: «Pochissimi. Un risultato eccezionale, possibile solo grazie all'impegno di medici, infermieri e operatori. Anche perché non abbiamo certo le attrezzature moderne di cui dispongono Santissima Trinità e Brotzu». Un carrello carico di medicinali, bacinelle e oggetti vari, paurosamente inclinato, sembra avere un gran desiderio di crollare. «I letti sono vecchi di trent'anni. E i comodini sono gli stessi che fecero infuriare la Dirindin perché erano arrugginiti». E gli organici? «Dal 2003 scrivo per segnalare che servirebbero più medici e più infermieri. Si lavora in condizioni che finiscono per provocare disagi a quei poveri cristi dei pazienti: di conseguenza la conflittualità nei confronti del personale è molto alta, soprattutto da parte dei parenti». Sbagliano sempre, a lamentarsi? «Bisogna mettersi dall'altra parte della barricata: tre infermieri di turno per 40 pazienti, se uno si sporca bisogna pulirlo. Sa quanto ci vuole? E ci sono da somministrare terapie, distribuire cibo, tantissime incombenze». CONTENZIONE? A VOLTE Per qualcuno il reparto è un parcheggio in cui abbandonare il parente anziano e non autosufficiente di cui non ci si vuole prendere cura? «Noi - assicura il primario - cerchiamo sempre di coinvolgere le famiglie per assistere il ricoverato che ne ha bisogno. Se non possono, cerchiamo di attivare programmi di assistenza dell'azienda. Se no è un problema: mettiamo le sponde nei lettini». Contenzione? «Solo se è necessario per l'incolumità del paziente. Usiamo lenzuola o i braccialetti imbottiti». Chiedete l'autorizzazione ai parenti? «Sì. Ma se c'è un'emergenza, di notte, decidiamo sul momento». IL FUTURO Le Medicine pagano il prezzo dei troppi ricoveri fatti dal pronto soccorso? «I medici del pronto soccorso fanno il loro lavoro: non si rimanda a casa un paziente non stabilizzato, lo si ricovera. Le Medicine sono sotto pressione ma è giusto così: qui finiscono i pazienti con patologie cardiologiche ma che le Cardiologie non possono accogliere, i vecchini con insufficienze renali che non possono andare nelle Nefrologie, chi ha la cirrosi epatica, chi tempo fa aveva pochi anni di vita davanti e ora ne ha di più, chi ha la leucemia mieloide fino a dieci anni fa moriva nel giro di cinque anni e ora, dopo la scoperta dell'enzima, vive più a lungo». I medici di famiglia dovrebbero fare di più? «Non credo che abbiano colpe, sinceramente. Il fatto è che negli ultimi decenni la medicina ha fatto passi da gigante: abbiamo allungato la vecchiaia, come dico sempre a chi parla di allungamento della vita. Si campa di più, ma con tante patologie degenerative. D'altro canto sono aumentate le patologie (diabete, malattie immunitarie) a carico dei giovani. Bisogna rassegnarsi: in futuro la spesa sanitaria è invevitabilmente destinata ad aumentare». Marco Noce ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Mar. ’14 REGISTRO TUMORI, IN SARDEGNA SOLO A SASSARI E NUORO Sottoscrizioni, interrogazioni in consiglio regionale, ripetute richieste avanzate dagli oncologi e altre iniziative messe in campo in ogni dove ma ancora non si è fatto nulla: del registro tumori della Sardegna non c'è traccia. Anzi, a onor del vero, dalla fine degli anni Novanta esiste il Registro tumori della Provincia di Sassari e da due anni quello di Nuoro. A Cagliari, giusto per fare un esempio, con la questione Sarroch, da anni sono in tanti a chiedere maggiori e più approfonditi controlli sul livello di inquinamento del territorio e l'istituzione del Registro. Lo stesso vale a Quirra e in tutta l'area del poligono. La verità, per Vincenzo Migaleddu è sempre e solo una: «Meno si sa e meglio è». Probabilmente, perché non si vorrebbe risalire alle cause che determinano un incremento - o, come dicono i medici, un eccesso - di mortalità legato all'insorgenza di patologie tumorali. A Portovesme e Sarroch, dove in prevalenza l'inquinamento proviene dalla presenza di metalli pesanti, gli effetti sono evidenti. Piombo, zinco, arsenico, ferro e rame sono ovunque e nel corso degli anni hanno determinato un aumento rilevante delle malattie all'apparato respiratorio, dei tumori alla pleure e, da non trascurare, la mortalità - in termini tecnici - “per condizioni morbose perinatali”. Cioè, bimbi che muoiono in tenerissima età. ____________________________________________________________ Sky 13 Mar. ’14 I NAS ALL'OSPEDALE DI CREMA: BEN 3.500 ESAMI SBAGLIATI Risultati errati, potrebbero essere stati sovrastimati fino al 40%. I pazienti richiamati per ripetere il test gratuitamente Sono 3500 solo all’ospedale di Crema, ma sono molti di più in tutta Italia, i pazienti che dovranno ripetere il test per valutare il livello di paratormone nel sangue, un esame che serve a stabilire la concentrazione di calcio. La multinazionale Abbott, che fornisce il kit per la misurazione del parametro, ha comunicato infatti nei giorni scorsi che, da febbraio 2013 al 14 febbraio scorso, il livello è stato sovrastimato del 40% per un errore di misurazione, il che inevitabilmente ha generato diagnosi errate. Danno per i pazienti e per il sistema sanitario «I medici curanti avranno indubbiamente provveduto a prescrivere ulteriori esami di laboratorio o esami strumentali per approfondire quale potesse essere la causa di questa anomalia. Quindi si è creato per i pazienti un disagio e in alcuni casi anche un danno economico per loro che per il sistema sanitario», ha spiegato a Sky TG24 HD Luigi Ablondi, direttore generale dell’ospedale di Crema. «La categoria maggiormente esposta a questo tipo di rilevazione - ha aggiunto - è quella delle donne in menopausa, che hanno forse ricevuto dei trattamenti a base di vitamina D, che tuttavia non fa male». Incerto il numero dei pazienti colpiti È difficile al momento stabilire quanti siano i pazienti in Italia che dovranno rifare il test, i singoli ospedali stanno provvedendo a richiamarli uno ad uno per ripetere l’esame gratuitamente. Ma da quantificare a questo punto è anche il danno economico che l’errore ha prodotto: quanti esami di approfondimento sono stati effettuati inutilmente? E quanti ticket si sono rivelati superflui? I Nas stanno ispezionando i laboratori di tutti gli ospedali che hanno avuto in dotazione il kit della Abbott, in questo modo si potrà avere un quadro più completo di quanto è successo. A Roma indagati per il caso Novartis - Roches Sarebbero intanto indagati gli amministratori e i dirigenti delle società Roche e Novartis nell'inchiesta sulla presunta campagna di denigrazione del farmacoAvastin che ha indotto l'Antitrust a comminare una multa di 180 milioni di euro. I reati ipotizzati dalla procura di Roma nei confronti dei vertici delle due aziende sono associazione per delinquere, aggiotaggio, disastro doloso, corruzione e truffa ai danni di enti pubblici. Dal Cdm arriva invece la stretta contro i cartelli per i farmaci. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Mar. ’14 AOUCA: SOTTO TERAPIA PER CAMBIARE SESSO: la nuova vita di sedici pazienti - I transessuali sono affidati alle cure dell'endocrinologo Dieci maschi, sei femmine. Al Policlinico di Monserrato sono sedici i pazienti in attesa di cambiare sesso. Hanno alle spalle storie assai differenti ma tutte segnate da fasi di travolgente infelicità. Fanno capo a un ambulatorio ultraspecialistico nato tre anni fa nel reparto diretto dal professor Stefano Mariotti. È un centro di riferimento per l'intera Sardegna. I transessuali (o le transessuali, a seconda dei casi e dei punti di vista) sono affidati ad Alessandro Oppo, endocrinologo ed andrologo che - in tandem con la clinica psichiatrica dell'università di Cagliari - pianifica la terapia in attesa dell'intervento chirurgico definitivo. Intervento, va detto subito, che può essere programmato a costo zero in tante Asl italiane. I più gettonati sono comunque gli ospedali di Trieste e Genova dove si viene ricoverati come un qualunque assistito protetto dal Sistema sanitario nazionale. Chi invece ha fretta, e molto danaro a disposizione, preferisce solitamente farsi operare in clinica privata: una delle mete più richieste è in Thailandia dove esercitano i migliori bisturi del settore. La spesa, per tornare in patria finalmente nuovi e finalmente rinati, oscilla attorno ai quindicimila euro ma, volendo, si può spendere di più. Quarantacinque anni, cagliaritano, Alessandro Oppo si occupa di andrologia dal 1994. Inevitabile che finisse per approdare su un fronte che all'epoca era totalmente scoperto: «Prima che aprisse i battenti il nostro ambulatorio, i pazienti affetti da disturbi di genere rientravano nella folla costretta al pendolarismo per ragioni di salute. Facevano, insomma, quelli che si chiamano sui giornali viaggi della speranza: avanti e indietro dalla penisola. Il che aggiungeva stress a stress». Nonostante i disturbi di genere siano considerati dall'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) una malattia a tutti gli effetti, resta invariato il costo dei farmaci: serve una trentina di euro ogni dieci giorni. A differenza di quanto accade in Toscana e in Piemonte, la Regione Sardegna si sfila dai rimborsi e lascia che le prescrizioni si facciano su ricette bianche, pagamento cash in farmacia. Evidentemente la transessualità non è considerata una patologia importante o, in ogni caso, degna di avere lo sconto-ticket. La terapia ormonale e quella psichiatrica sono come le leggendarie convergenze parallele di Aldo Moro: viaggiano sullo stesso binario ma finiscono per incrociarsi soltanto alla fine. Cioè quando il paziente avrà raggiunto l'equilibrio necessario per affrontare uno sconvolgente cambio anagrafico. L'altro ieri, proprio su questo giornale ha raccontato la sua storia Nìcolas Carta, un giovane di Riola Sardo che sta per diventare Giulia. Ci riuscirà, burocrazia permettendo, nel 2022. Giulia è una delle pazienti del dottor Oppo, il quale parla di trans soltanto in termini generali, senza scendere mai nelle vicende private dei suoi assititi. «Il mio è un lavoro che richiede impegno, sensibilità ed estrema attenzione verso condizioni di sofferenza evidenti, in qualche caso addirittura drammatiche». Proprio per questo definisce «importante e preziosa» la collaborazione con i colleghi di Psichiatria. Sul tavolo del suo minuscolo ambulatorio al pianterreno del Policlinico, ci sono le statistiche sui casi di transessualità: uno ogni trentamila abitanti per quanto riguarda i maschi, uno ogni cinquantamila per le femmine. «Trasferendo questi dati in Sardegna, abbiamo una quarantina di casi per i maschi, una ventina per le femmine». Questo vuole dire che il problema esiste e ha numeri importanti, soprattutto se si tiene conto che molti trans - in quanto tali - non riescono a trovare lavoro. Quanti sono quelli costretti a prostituirsi? Oppo spalanca le braccia: «Non lo so, non ne ho idea. Nessuno dei miei pazienti mi ha parlato di cose del genere e io mi guardo bene dal forzare la mano». Par di capire, da frasi come queste, che il lavoro dell'andrologo cammini su una corda sospesa nel vuoto. «Basta niente per spezzare il rapporto di fiducia tra medico e paziente». Dunque nessuna domanda di carattere personale a meno che l'interessato (o l'interessata) non voglia aprire l'argomento. Non tutti gli iscritti nella speciale lista d'attesa del Centro di endocrinologia puntano ad affidarsi a un chirurgo per cambiare sesso. Alcuni (inutile chiedere quanti) preferiscono accontentarsi della terapia ormonale; terapia che, operati o no, dovranno comunque seguire per tutta la vita con un obiettivo preciso: taroccare un corpo che non accettano per farlo somigliare il più possibile a come lo avrebbero voluto. Giorgio Pisano ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 Mar. ’14 OSPEDALI IN AFFANNO: TROPPI ACCESSI AL PRONTO SOCCORSO: NON C'È FILTRO Nel mirino gli orari degli ambulatori e le visite a domicilio Pazienti sistemati in brande nei corridoi, blitz dei carabinieri, polemiche sul ricorso alla contenzione dei pazienti: il sovraffollamento di alcuni reparti degli ospedali cittadini, tornato alla ribalta in questi giorni, è solo un sintomo. Il problema sta a monte: manca un servizio che, come una diga, blocchi prima del pronto soccorso i tanti utenti che non hanno bisogno di quel servizio, tantomeno di essere ricoverati in reparti (le Medicine, ma anche Geriatria, Pneumologia, Ortopedia, Traumatologia) che stanno già per scoppiare e dove spesso si lavora sull'orlo della crisi di nervi. Il guaio è che «se hai un malore non trovi risposte alternative», ha spiegato il responsabile del dipartimento Emergenza-urgenza della Asl 8, Giorgio Pia. A Cagliari, ogni anno, i quattro pronto soccorso affrontano 120 mila casi, di cui appena 3.500 per questioni di vita o di morte. Da qui, in mancanza di un servizio di osservazione breve, i troppi ricoveri impropri: rischioso far tornare a casa una persona che potrebbe essere più grave di quanto sembri. «Quando ti mandano un paziente in reparto che fai, lo mandi via?», domandava l'altro giorno il direttore generale del Brotzu, Antonio Garau: no, lo accetti, anche quando i posti letto sono esauriti. Coi risultati che si sono visti. LA RICERCA Il Servizio igiene dell'azienda mista (da cui dipendono Policlinico e San Giovanni di Dio) due anni fa ha svolto una ricerca sugli accessi ai pronto soccorso cittadini: ieri non c'è stato modo di parlarne con la responsabile (la professoressa Rosa Maria Coppola, in questi giorni fuori sede per impegni professionali) ma ne sarebbe saltato fuori che circa la metà di chi si era rivolto alle strutture di emergenza non era mai passata dall'ambulatorio dei medici di famiglia. L'ACCUSA Un risultato che avvalorerebbe, contro questi ultimi (450 nel distretto sanitario, ognuno con una media di 1.000 pazienti a carico), la critica espressa più volte, e dando voce a tanti, da Maria Laura Maxia, responsabile del Tribunale del malato: «Non fanno filtro». Tradotto: servono più ore di apertura degli ambulatori e più visite a domicilio, un servizio che troppi medici di famiglia - nonostante le proteste - effettuerebbero malvolentieri. «COME IN LOMBARDIA» Aziende sanitarie e Ordine dei medici di medicina generale, aggiunge Maxia, non possono più perdere tempo: «Bisogna attivare gli ambulatori consociati che in Lombardia e altre regioni hanno dimostrato di funzionare». Come funzionano? «Alcuni medici di famiglia si mettono d'accordo e fanno i turni per garantire l'apertura 24 ore su 24; se il malore non è grave vai lì, anziché al pronto soccorso». TASK FORCE Si era parlato anche di un'altra ipotesi, per Cagliari, caldeggiata anche dall'ex esponente della Federazione medici di famiglia, Fabio Barbarossa: un ambulatorio da aprire accanto ai pronto soccorso, con una task force di medici di famiglia a occuparsi dei casi meno urgenti (codici bianchi e verdi), consentendo che al servizio di emergenza accedano solo quelli gravi e gravissimi (codici gialli e rossi). LE GUARDIE MEDICHE Si era anche valutato se affidare questo servizio (come già avviene a Oristano e Ghilarza) ai medici attualmente in servizio nelle due guardie mediche di via Talete e via Santa Maria Chiara, a Pirri, che verrebbero chiuse. Sullo sfondo c'è anche il progetto a lungo termine di chiusura del San Giovanni di Dio, che porterebbe con sé il trasferimento del pronto soccorso a Monserrato. Scenari che ora dovranno essere vagliati dal nuovo assessore alla Sanità fresco di nomina, il medico nuorese Luigi Arru. Marco Noce ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 Mar. ’14 medici di famiglia: «Ma le responsabilità non sono nostre» LO SCARICABARILE DEI CAMICI BIANCHI «Le nostre responsabilità sull'affollamento negli ospedali? Una grande bugia». I medici di famiglia non vogliono stare sul banco degli imputati. Nicolfranco Boccone, dopo vent'anni in ospedale e altrettanti da medico di famiglia, ribalta l'accusa: «Il sistema degli ospedali è da riformare radicalmente: il 30 per cento dei pazienti del pronto soccorso è stato dimesso nei 30 giorni precedenti, vuol dire che da parte dell'ospedale c'è stata una mancata risposta». Nel mirino finiscono anche le guardie mediche: «Al massimo fanno ricette, altrimenti dirottano i pazienti al pronto soccorso». Anche l'accusa di schivare le visite domiciliari viene smontata: «In questo momento sono in auto per andare a visitare un paziente». VISITE A DOMICILIO Andare nelle case è un dovere, spiega Silvio Eugenio Abis: «Se il paziente non può venire in ambulatorio, siamo obbligati ad andare noi a casa sua». Abis, dal suo studio di via Tuveri, ribadisce: «Faccio più di 30 visite domiciliari al mese e ogni giorno ricevo circa 25 pazienti nel mio ambulatorio». Per offrire servizi di base migliori esistono già alcuni studi associati. «Noi siamo quattro medici divisi in tre ambulatori e i pazienti possono essere visitati dal lunedì al sabato mattina». TELEFONINI ACCESI Sergio Cadoni si divide tra gli ambulatori di via Gallura e via Curtatone. «Rispondo sempre alle chiamate: il mio cellulare è acceso anche la domenica». Cadoni precisa che gli orari degli ambulatori sono virtuali: «A Pirri le visite sono dalle 17 alle 19, ma non vado mai via prima delle 20,30». Nessun rifiuto di andare a casa dei pazienti neanche da parte di Maurizio Mascia. «Nessuno dei miei pazienti si è mai lamentato, le visite domiciliari si devono fare perché chi si rifiuta può essere denunciato». Anche Mascia, che ha lo studio in via Donizetti, non lavora da solo. «Siamo un gruppo di medici pronti a scambiarci i pazienti in base alle esigenze. Il telefono resta acceso anche di sabato e domenica. Io un virtuoso? No, è la norma». FURBETTI Meno virtuosi sono a volte i pazienti. Flavio Manchinu, medico di base da 33 anni, ne ha ricusato uno. «Mi ha detto di essere andato al pronto soccorso e di aver finto di sentirsi male per fare subito l'elettrocardiogramma che avevo prescritto: da quel giorno con me ha chiuso». Non è un caso isolato: «Ci sono purtroppo cattive abitudini, ma sono date dal fatto che se si prenota un esame bisogna aspettare mesi mentre a pagamento dallo stesso medico basta qualche ora». SNAMI Edoardo Giuseppe De Pau, segretario del sindacato Snami, difende la categoria dei medici di famiglia. «I pazienti che si recano al pronto soccorso lo fanno autonomamente, senza consultarci: lì riescono a ottenere tutte le prestazioni senza dover aspettare mesi in lista d'attesa». Marcello Zasso ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 14 Mar. ’14 NEFROLOGIA I SARDI PIÙ COLPITI DELLA MEDIA SOS PER I RENI Il male c'è e non si vede Numeri da bollettino di guerra e un trend in costante crescita. Le malattie ai reni dilagano. Un italiano su dieci è affetto da insufficienza renale cronica, 6 milioni in tutto. Di questi, 45 mila sono attualmente in dialisi, 17 mila i trapiantati. La Sardegna batte ogni altra regione. «L'incidenza nell'Isola è pari al 15,01 per cento, ben più alta della media nazionale». A lanciare l'allarme è Antonello Pani, direttore della Divisione di Nefrologia e Dialisi del Brotzu. La recente scoperta è frutto del primo studio epidemiologico sardo sulle malattie renali croniche. Sotto la lente sono finiti 4.842 abitanti dell'Ogliastra e il risultato è preoccupante. L'indagine si è meritata le pagine del Journal of the American Society of Nephrology , la più prestigiosa rivista al mondo del settore. Dietro c'è il lavoro di squadra tra la Nefrologia del Brotzu, il Cnr di Cagliari, l'Istituto Progenia di Lanusei, l'Istituto nazionale dell'invecchiamento americano, con la collaborazione di David Schlessinger. Cifre imponenti e una curva sempre più proiettata verso l'alto. «In dieci anni i dializzati sardi sono aumentati del 22 per cento», spiega Pani. E la percentuale dei trapiantati è più che raddoppiata, arrivando a sfiorare un incremento di poco inferiore all'ottanta per cento. Circa mille ricoveri all'anno nella Degenza nefrologica, compresi quello del settore Trapianto, cento emodializzati in carico nel Centro dialisi e centocinquanta nuovi ricoveri in day hospital ogni dodici mesi. Il polo nefrologico della struttura di via Peretti lavora a ritmi forzati. «La prevenzione è importantissima», avverte Pani, a ridosso della Giornata mondiale del rene, celebrata ieri. «Se vengono trascurati, i reni possono diventare nemici subdoli. «Si ammalano in silenzio», spiega. «Spesso i primi segnali di malessere e malfunzionamento si presentano solo quando il danno è in fase avanzata». E qui entra in campo il fattore tempo: una diagnosi tempestiva consente di scongiurare ogni pericolo. «Quando la malattia renale viene diagnosticata in fase molto precoce è possibile rallentarne la progressione». I vantaggi sono immensi: «In alcuni casi permette di evitare l'ingresso in dialisi, in altri lo ritarda di molti anni». Reni e cuore vanno a braccetto: «La malattia renale cronica è un fattore di rischio formidabile per le malattie dell'apparato cardiovascolare». Ulteriore ragione per giocare d'anticipo facendo prevenzione. Ma chi sono le potenziali vittime? «Soprattutto adulti, over 65, ipertesi, diabetici, obesi, soggetti con familiarità alle malattie renali e chi fa uso di farmaci anti-infiammatori». Ma l'allerta si estende a tutti. «La diagnosi precoce è consigliabile a tutta la popolazione. In particolare a diabetici, ipertesi, obesi e a chi ha problemi di colesterolo». I fattori scatenanti sono tanti, le cause che portano all'insufficienza renale svariate, «le più comuni sono il diabete e l'ipertensione arteriosa». Spiccano le glomerulonefriti «le malattie dei glomeruli (le unità funzionali del rene), terzo fattore di rischio dopo il diabete e l'ipertensione». E ancora, dietro possono esserci infezioni batteriche, più raramente virali, l'uso improprio di farmaci (soprattutto antinfiammatori e antidolorifici), cibi contaminati, ostruzioni delle vie urinarie congenite, ereditarie o acquisite. Nei casi più estremi il cattivo funzionamento dei reni rende necessari la dialisi e il trapianto. Ma alcuni accorgimenti, legati in primo luogo alla dieta, possono dare una mano d'aiuto per evitarli. «È necessario abolire il fumo, evitare la sedentarietà puntando su una regolare attività fisica e ridurre il consumo di sale». Sara Marci ____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Mar. ’14 IL CERVELLO DELLE DONNE È DIVERSO DA QUELLO DEGLI UOMINI? Neurobiologia, fotografia e filosofia per entrare (e uscire) dai miti della psiche femminile. Senza stereotipi Le donne ragionano in modo diverso dagli uomini. Le donne sono migliori nelle materie umanistiche. Le donne sono passionali, impulsive, infedeli, insicure. Le donne sono bravissime nel multitasking! Quante volte abbiamo sentito queste frasi? Dopo tanto parlare di corpo delle donne, è tempo di cambiare prospettiva e affrontare il tema, e i miti, della psiche e del cervello al femminile, strumenti di successo ma spesso anche prigioni delle ambizioni. E’ lì che nascono le paure — su cibo, sesso, lavoro —, le speranze di empowerment delle donne; così come tanti, troppi stereotipi. A partire dal più antico di sempre. Il cervello delle donne è diverso (meno intelligente?) da quello degli uomini. Di questo e molto altro si parlerà (e riderà), giovedì 13 marzo, al Teatro Franco Parenti (ingresso libero con prenotazione obbligatoria allo 02-20400334) durante «La mente delle donne: così fan tutte? Siamo cervello oltre lo stereotipo del corpo». E’ il quarto appuntamento di «Il tempo delle Donne» di primavera. Prove generali del laboratorio di idee, sperimentazione e innovazione di La27ora-Corriere della Sera, «IoDonna», Valore D e WE-Women for Expo che a fine settembre (il 26, 27 e 28) dalla Triennale di Milano si allargherà ad altri spazi milanesi convolgendo università, associazioni, aziende, per tre giorni di confronti, spettacoli sui temi delle donne contemporanee. Il tema dell’«intelligenza» al femminile è il nucleo dell’incontro-spettacolo di giovedì. Raccontato attraverso piani diversi, in una contaminazione fra neurobiologia, fotografia, letteratura e filosofia. Ad alternarsi sul palco la neuroscienziata Raffaella Rumiati, la fotografa e divulgatrice scientifica Lucia Simion, il filosofo Diamante Ordine. Con i raid comici delle «Scemette», perché le donne non amano mai prendersi troppo sul serio, neppure quando parlano del pezzo più importante del corpo, il cervello appunto. E’ giusto partire con un’ammissione. Sì, le donne hanno il cervello più piccolo e leggero. Non è un mistero. Gli scienziati lo hanno misurato: il cervello medio di una donna pesa 1,200 chilogrammi contro 1,350 kg di quello maschile. Eppure anche Albert Einstein aveva un cervello—piuma, e nessuno direbbe che funzionava meno bene perché aveva un volume minore. «La grandezza non è tutto», avverte Raffaella Rumiati, professoressa di Neuroscienze Cognitive alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste e autrice del saggio «Donne e uomini». Dal palco del Parenti, con dovizia di dati ed esempi, svilupperà il concetto delle «menti differenti», fra mito e realtà, cercando di rispondere al dubbio di sempre: il cervello degli uomini è così diverso da quello delle donne? Ben aldilà di massa e volume, quello che conta sono le connessioni, o sinapsi, fra i neuroni. Solo da alcuni anni, grazie alle nuove tecniche di imaging (come la risonanza magnetica) gli scienziati sono riusciti ad entrare in un cervello vivo, vitale, e hanno iniziato a capire come funziona questa straordinaria macchina. «Gli stereotipi possono esercitare un’influenza devastante sulle prestazioni delle donne, specie negli ambiti in cui ci sentiamo vulnerabili», spiega Rumiati. «Ecco perché i comportamenti denigratori nei nostri confronti vanno eliminati». A lungo, ad esempio, si è sostenuto che le donne non siano portate per le materie scientifiche. Il gap è evidente, se ci si limita alle statistiche. Nell’Unione Europea ci sono più donne laureate rispetto agli uomini — in media il rapporto è di 124 a 100 — ma in effetti c’è ancora una «segregazione» accademica verso le materie umanistiche o legate al benessere e alla cura (dati Eurostat). In Italia la situazione è particolarmente grave nel campo della fisica, della matematica e della chimica. Gli esempi di scienziate eccellenti in realtà non mancano. La fotografa Lucia Simion racconterà i reportage effettuati durante le sue numerose spedizioni in Antartide, la «quotidianità estrema» e le conquiste delle scienziate in quello che viene considerato «il più grande laboratorio a cielo aperto della Terra». Soltanto da una ventina di anni le donne sono ammesse a queste spedizioni. E senza di loro, oggi, le basi non funzionerebbero. A seguire il filosofo Nuccio Ordine, professore di letteratura italiana presso l’università della Calabria e autore del bestseller «L’utilità dell’inutile. Manifesto», da mesi in cima alle classifiche di vendita in Italia e Spagna, farà una lettura scenica commentata di testi di Ariosto, Cervantes e Mozart per ribaltare il topos dell’infedeltà della mente femminile. Infine le comiche «Le Scemette» (già in onda sul Web Cabaret della 27 Ora) ci racconteranno in brevi sketch il lato comico della mente al femminile. «Donne tradite e traditrici, lasciate e che lasciano. Donne affermate, arrapate, disgraziate e, spesso, disorientate. Donne, soprattutto, intelligenti», racconta la regista Giovanna Donini. Perché, per essere donne, ci vuole intelligenza. Molta intelligenza. Sara Gandolfi Chiara Mariani ____________________________________________________________ FederSanita’ 11 Mar. ’14 FASCICOLO SANITARIO ELETTRONICO: IL DECRETO ARRIVA IN CONFERENZA STATO REGIONI Arriva all’esame della Conferenza Stato Regioni del 13 marzo prossimo, lo schema di Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri sul Fascicolo sanitario elettronico. Il primo dei decreti attuativi che dovranno dare piena attuazione alle misure urgenti per la crescita del Paese. Un provvedimento che in coerenza con le norme sulla privacy punta a presentare in modo molto chiaro i diversi aspetti disciplinati e le finalità perseguite, ossia cura, ricerca e governo. Il provvedimento stabilisce che il Fse dovrà contenere dei dati comuni in tutte le Regioni (ossia, oltre ai dati identificativi dell’assistito, referti, verbali di pronto soccorso, lettere di dimissione, dossier farmaceutico, consenso o diniego alla donazione di organi) e altri dati integrativi la cui alimentazione è invece lasciata alle scelte regionali (ad esempio: prescrizioni specialistiche e farmaceutiche, prenotazioni specialistiche e di ricovero, cartelle cliniche, Adi, erogazioni di farmaci, vaccinazioni, certificati medici, esenzioni ecc). Il Fse conterrà inoltre un “taccuino personale dell’Assistito” all’interno del quale ogni cittadino potrà inserire autonomamente dati e documenti personali sui propri percorsi di cura. E ancora, il Decreto indica anche i soggetti deputati al trattamento dei dati per finalità di cura e di ricerca. Alcuni dati e documenti non potranno, infatti, essere consultati dai soggetti che accedono al Fse. Inoltre per tutelare ancora di più la privacy dell’assistito si stabilisce anche il principio del cd “oscuramento dell’oscuramento”, in base al quale coloro che accedono ai dati non possono venire automaticamente a conoscenza del fatto che l’assistito ha operato la scelta di non mostrarli. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 10 Mar. ’14 SANITÀ, 1.260 GIORNI PER UNA FATTURA Dossier dell’Europa, il record negativo a Catanzaro. Pavia la più virtuosa DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES — Raccontata qui a Bruxelles, è una storia che mette un po’ i brividi. Ma è vera, racchiusa in alcuni fogli e tabelle, e sta ora sulle scrivanie della Commissione europea. In questi fogli si parla di sanità: di pace-maker, defibrillatori, valvole cardiache, protesi vascolari, ecotomografi, bisturi e mille altri dispositivi medici che possono salvare una vita. In Italia, in un giorno qualsiasi, un’Asl – Azienda sanitaria locale- può richiederne un’intera fornitura alla ditta o alle ditte private che producono questi materiali: consegna d’urgenza. Le norme Ue dicono che la fattura va pagata in 60 giorni al massimo. Ma se quella Asl è, mettiamo, la «Mater Domini» di Catanzaro, per pagare il suo debito impiegherà in media circa 3 anni e mezzo, per l’esattezza 1.337 giorni (calcolo aggiornato al dicembre 2013); o un po’ di meno, 3 anni e 4 mesi (1.260 giorni), se si aggiorna il calcolo a questi ultimi giorni, nel 2014. In Italia, solo 5 Asl rispettano i termini dei 60 giorni: Asl Provincia di Pavia (48 giorni), AsL 4 Medio Friuli (56), Asl Città di Milano (59) I.R.C.C.S. Burlo Garofalo di Trieste (60); Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento (61). Le maglie nere spettano invece alla già citata Mater Domini di Catanzaro (3 anni e 4 mesi), all’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza (3 anni e 2 mesi, 1.177 giorni), all’Asl Napoli 1 Centro (2 anni e 9 mesi, 1.086 giorni), all’Azienda sanitaria regionale Campobasso (2 anni e 5 mesi, 916 giorni), e all’Azienda provinciale di Reggio Calabria (2 anni e 4 mesi, 905 giorni). In Regioni come la Calabria, il tempo medio di pagamento dei dispositivi medici è di 833 giorni (con uno scoperto di 384,7 milioni), e in Campania di 440 (con uno scoperto di oltre 562 milioni). In Austria, da un’ingiunzione di pagamento al pagamento effettivo di una fattura sanitaria passano in media 80-90 giorni; in Francia, 240-360; in Germania, 140-160; e in Italia, 410-460. Inutile aggiungere che due, tre anni di ritardo nei pagamenti per un piccolo-medio fornitore possono significare una forma di eutanasia finanziaria. Le malinconiche cifre sulla parsimonia delle nostre Asl sono state raccolte dall’Osservatorio Crediti del Centro studi Assobiomedica, e sono poi finite a Bruxelles, nel dossier della Commissione europea sui ritardi dei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione italiana affidato al vicepresidente della Commissione e commissario Ue all’Industria Antonio Tajani. Non rappresentano tutto il buco della sanità, né certo tutti i debiti pregressi dello Stato verso le aziende private. Secondo una ricerca svolta dalla Banca d’Italia a fine 2011 su imprese industriali, imprese dei servizi privati non finanziari, e delle costruzioni, il totale del debito pubblico nei loro confronti ammontava allora a 90 miliardi di euro (5,8% del Pil), ed era per metà riconducibile alle Regioni e alle Asl: in questo scorcio di 2014 si parla di 75-80 miliardi, con le «sofferenze» maggiori sopportate sempre dal settore delle costruzioni. Oggi, 10 marzo, tutte queste cifre torneranno in ballo, poiché questo è l’ultimo termine fissato dalla Commissione europea per il recapito della «lettera di giustificazioni» spedita dall’Italia. La posta in bilancio è (sarebbe) una nuova procedura di infrazione Ue. Pochi giorni fa, Roma ha scritto alla Commissione chiedendo una proroga di un mese nell’invio della lettera: proroga negata. Ieri sera, però, come riferito in un altro articolo, il governo ha spedito la missiva per Bruxelles. Questo dovrebbe ristabilizzare se non altro i rapporti generali fra Roma e la Commissione. Ma è facile prevedere che il problema dei debiti pregressi continuerà ancora ad avvelenare i rapporti Ue-Italia. Anche perché, più che una questione di statistica, sembra ormai divenuto un fatto di costume, che a Bruxelles viene purtroppo percepito come una nostra tradizione nazionale. E non si tratta unicamente della «solita» Calabria. Il Lazio, 280 giorni in media di ritardi, ha uno «scoperto» nei pagamenti ai fornitori sanitari di oltre 482 milioni di euro. E perfino il Piemonte, con 232 giorni e uno scoperto di quasi 341 milioni, arranca: Nord e Sud uniti nell’insolvenza. Luigi Offeddu loffeddu@corriere.it ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 Mar. ’14 SANITÀ, RIMBORSI IN 5 MESI SARDEGNA TRA LE REGIONI MENO LENTE CON 160 GIORNI Lo Stato lumaca ha colpito ancora. Il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione viaggia in ritardo anche per la spesa sanitaria. Ma nella classifica italiana, la Sardegna è lontana dal record negativo del Sud. IL FATTO Una direttiva Ue ha imposto che da gennaio 2013 gli enti pubblici sanitari debbano saldare le fatture entro 60 giorni (30 per gli altri). Ma secondo una ricerca di Assobiomedica, l’associazione di Confindustria delle imprese fornitrici di dispositivi medici, nessuna regione italiana rispetta la scadenza. Per acquistare apparecchiature sanitarie (dai bisturi alle valvole cardiache) le Aziende sanitarie locali pagano in media dopo 211 giorni, ovvero 7 mesi, con uno scoperto che al momento supera i 3,7 miliardi. La Sardegna si ferma a 160 giorni con uno scoperto di quasi 80 milioni di euro (il 2,1% del totale). Un ritardo, certo, che però è contenuto se paragonato agli 832 giorni della Calabria e agli 822 del Molise. Nella classifica dei cinque peggiori enti pagatori della sanità italiana, 3 sono calabresi: dall’Azienda ospedaliera di Catanzaro con 1.337 giorni (circa 3 anni e mezzo) all’azienda provinciale di Cosenza (1.250 giorni) sino a quella di Reggio Calabria (979). SARDEGNA Secondo i dati aggiornati forniti dall’assessorato sardo della Sanità l’andamento medio dei tempi di pagamento è migliore e pari a 115 giorni, tenendo conto anche delle aziende ospedaliere e universitarie. Nel dettaglio la situazione cambia a seconda delle Asl. Le più veloci a pagare sono quelle più piccole, come la numero 4 dell’Ogliastra dove una fattura viene saldata tra i 45 e i 60 giorni e tra i 47 e i 60 giorni nell’azienda ospedaliera di Sassari. Nel Sulcis-Iglesiente servono sempre 60 giorni, mentre nella Asl 5 di Oristano i giorni variano dai 56 ai 65. Contenuti i tempi anche nella provincia di Cagliari (63-92). Nel Medio Campidano si passa tra 60 e i 102 giorni. A tirare su la media sono: il Brotzu (dove per una fattura servono dai 195 ai 270 giorni), la Asl 1 di Sassari (180-240) e la numero 2 di Olbia (180). Nell’azienda universitaria del capoluogo, invece, bisogna aspettare tra i 110 e i 188 giorni, contro gli 86-136 dell’Asl 3 di Nuoro. LE MIGLIORI In Italia sono solo 5 le aziende che rispettano i limiti e sono al Nord, come l’Asl 4 Medio Friuli (35 giorni) e l’Asl 2 Isontina di Gorizia (61 giorni). Annalisa Bernardini ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 Mar. ’14 ASL IN RITARDO Le lumache sono Olbia e Sassari Nonostante la lentezza della pubblica amministrazione, si smuovono i pagamenti nella sanità grazie anche al superamento del patto di stabilità. Secondo i dati certificati dell’assessorato regionale alla Sanità, i debiti ancora da saldare a luglio 2013 superavano di poco gli 85 milioni di euro. Mentre secondo la ricerca di Assobiomedica, a dicembre sono scesi a 79,8 milioni. Quelli più consistenti, secondo la Regione, sono della Asl 1 di Sassari (42,4 milioni di euro) e della Asl 2 di Olbia (20 milioni). Chi ha meno debiti è invece l’azienda universitaria di Cagliari che deve pagare “solo” 865 mila euro. PATTO DI STABILITÀ Ad aiutare la spesa e quindi a snellire i tempi di pagamento nel settore, giova l’esclusione dai vincoli del patto di stabilità. «La Sardegna», fanno sapere dall’assessorato regionale «autofinanzia la spesa sanitaria in base agli accordi Stato-Regione del 2006». Per questo, quindi, le cifre sono autodeterminate ed esulano dal patto di stabilità come in Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta e Sicilia. Il Patto di stabilità è l’accordo Ue stipulato nel 1997 che mira proprio a controllare le politiche di bilancio pubblico nei Paese aderenti. Superati certi limiti, insomma, le amministrazioni non possono più spendere, anche se si tratta di sanità. E così, per far fronte alle spese del settore, alcune regioni, come la Lombardia, hanno derogato a questi limiti. An. Ber. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 15 Mar. ’14 CASO ROCHE-NOVARTIS STRETTA CONTRO I CARTELLI: SÌ AI FARMACI MENO CARI ROMA — L’«intesa orizzontale fra le società Roche e Novartis» individuata dall’Antitrust è sufficiente, per la procura di Roma, a definire il distretto di competenza. Senza il patto commerciale romano l’Avastin sarebbe stato veicolato sul mercato come qualunque altro farmaco. Esercizi di lobbing, intese anti-concorrenziali e (probabili) «dazioni» di denaro possono essere avvenute solo dove l’autorità (Aifa) avrebbe dovuto vigilare. Fra il procuratore aggiunto che coordina il pool dei reati economici a Roma, Nello Rossi, e il collega torinese Raffaele Guariniello ci sono state diverse telefonate ma finora non si è trovata una soluzione. Mercoledì, fra l’altro, Giovanni Pitruzzella il presidente dell’Autorità per la concorrenza, era dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Trapela che, da Torino, proporrebbero una sorta di fifty fifty, ossia conservare il segmento d’inchiesta sul disastro colposo lasciando che a Roma si indaghi sui reati di aggiotaggio, corruzione e truffa. Ma il punto non è quanta parte dell’inchiesta su Avastin finisca a Roma e quanta a Torino ma il contenuto. Dalla Capitale sta per partire la richiesta ai colleghi piemontesi di trasmettere le carte: nel caso di un no, si andrà al contrasto di attribuzione in Cassazione. Alla notizia delle prime iscrizioni sul registro degli indagati di manager a Roma i vertici di Roche e Novartis hanno smentito di aver ricevuto notifiche. Ieri, intanto, il governo ha varato misure anti cartello proprio sulla scia della vicenda Roche- Novartis, prevedendo norme per favorire l’impiego di farmaci off label, meno onerosi per la sanità pubblica ma altrettanto efficaci dal punto di vista terapeutico. Questo garantendo sia la sicurezza dei pazienti che i diritti delle aziende titolari dei brevetti, con norme più flessibili. Il. Sa. ____________________________________________________________ Repubblica 16 Mar. ’14 VACCINI, CRESCE IL GRAN RIFIUTO E I MEDICI LANCIANO L’ALLARME “COSÌ I BIMBI SONO A RISCHIO” Il fronte del no delle famiglie: paura e scetticismo MICHELE BOCCI MICHELE BOCCI ISEGNALI sono sempre più chiari negli ambulatori delle Asl come in quelli dei pediatri, nei dipartimenti alla salute delle Regioni come al ministero: in Italia la fiducia nelle vaccinazioni scricchiola. Il fronte dei contrari a questa forma di prevenzione arruola tra le 3mila e le 5mila persone ogni anno e fa scattare l’allarme. IN UN editoriale che verrà pubblicato nel prossimo numero della rivista Annali dell’Istituto superiore di sanità, il responsabile delle malattie infettive del-l’Iss Giovanni Rezza mette in guardia sul «sempre più diffuso feeling anti vaccinale che coinvolge il nostro Paese, ci sono aree in cui questo strumento è sempre meno usato. E se cala il numero dei bambini coperti rischiano di tornare malattie che sembrerebbero sconfitte. Il problema con i vaccini è che quando vincono sembrano inutili». Polio e tetano sono ancora molto diffusi nel mondo. I dati nazionali, fermi al 2012, non raccontano ancora quello che sta succedendo ma un giro nelle Regioni fa capire che i problemi ci sono. Circa il 5% delle famiglie non vaccina i figli ma si teme che la percentuale stia aumentando. «Bisogna parlare di più con le persone — dice Rezza — confrontarsi con le loro paure e spiegare che vaccinare fa bene». Il grande nemico è la rete, che si nutre di teorie balzane stile “scie chimiche”, con falsi miti negativi che girano sul web senza mai scomparire, come di dubbi più seri e documentati. «Tempo fa un padre mi ha rifilato 70 pagine di articoli contro le vaccinazioni tratti da Internet — racconta Silvana Tilocca, responsabile del dipartimento di prevenzione della Asl di Cagliari — Tutta roba che arrivava da fonti non dichiarate, non verificate o verificabili». Carta straccia su cui si erano appoggiate le convinzioni di una famiglia. I bambini che ogni anno devono affrontare la vaccinazione sono mezzo milione. Già al terzo mese devono fare la copertura contro tetano, pertosse, polio, epatite B, haemophuls influenzae, penumococco. I primi quattro sono i cosiddetti “obbligatori”. Per il primo anno di vita si fanno due richiami, poi si passa a morbillo-parotite-rosolia e meningococco. Questo secondo il calendario vaccinale del ministero, dove si auspica il superamento del concetto di obbligatorietà. L’unica Regione ad aver abbandonato questa dizione per ora è il Veneto, che anche per questo studia con attenzione cosa succede ai cittadini. Il dottor Antonio Ferro della Asl di Monselice è anche il promotore di vaccinarsi.org, della società italiana di Igiene, che vuole essere un’isola di sicurezze scientifiche nel mare agitato della rete. Sul sito si racconta dell’emergenza morbillo nelle Filippine (1.100 casi a gennaio), degli 80mila bambini a rischio polio in Siria ma anche dei 600 casi di tetano in 10 anni in Italia e delle infezioni mortali da meningococco e pneumococco nel nostro Paese. «In un anno vediamo aumentare dello 0,5-1% il numero di chi si oppone ai vaccini - dice Ferro - È un dato importante ma non tiene conto di due fattori ancora più preoccupanti. Il primo riguarda il fatto che spesso all’interno delle regioni ci sono zone dove il fronteanti vaccini ha molti più adepti. Penso da noi a quella di Bassano o in Emilia a quella di Rimini, dove i contrari sono anche l’8%. Poi stiamo notando un ritardo nelle vaccinazioni». Questo perché permolti genitori i 3 mesi di età sono troppo pochi per avviare la strategia di prevenzione. Infine c’è ancora un dato che spaventa chi è favorevole ai vaccini, cioè la stragrande maggioranza del mondomedico e scientifico. Una ricerca della Asl di Verona ha rivelato che il 15% di coloro che hanno fatto la vaccinazione ai loro figli si dicono comunque dubbiosi su questo strumento. A portare a questa situazione è stato anche l’atteggiamento di una parte del mondo medico, che ha chiesto fiducia incondizionata nei vaccini senza dare troppe spiegazioni. Tra l’altro di recente è uscito uno studio sulla rivista “Pediatrics” in cui si sostiene che le campagne per promuovere la vaccinazione spesso sono controproducenti: allontanano le famiglie dai vaccini. «Bisogna intervenire senza fare muro contro muro — spiega sempre Rezza — È necessario prendersi il tempo per informare e raccogliere le istanze dei cittadini senza pregiudizi. Ci vuole apertura per non fare irrigidire chi ha dubbi. E poi a questo punto andrebbe abbandonata la obbligatorietà, per non dare più pretesti a chi contesta che gli interventi sanitari non possono essere imposti». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Mar. ’14 IL TEST SUL SANGUE CHE SCOPRE L’ALZHEIMER CON 3 ANNI D’ANTICIPO Risultati esatti nel 90 per cento dei casi È l’ossessione dei neuroscienziati: trovare un test capace di predire la comparsa della malattia di Alzheimer. Ci stanno provando in molti e ora un nuovo e promettente risultato arriva dagli Stati Uniti: ricercatori della Georgetown University di Washington hanno appena annunciato, sulle pagine della rivista Nature Medicine , di aver messo a punto un esame in grado di preannunciare il rischio di malattia con tre anni di anticipo e con un’accuratezza del 90 per cento, grazie all’analisi di dieci tipi diversi di grassi nel sangue. Un concreto passo in avanti, hanno commentato gli esperti, anche se questi risultati andranno confermati. L’Alzheimer è una sfida gigantesca per i sistemi sanitari nel prossimo futuro: sono 44 milioni le persone affette da questa patologia in tutto il mondo e il numero triplicherà entro il 2050; in Italia i malati attualmente superano quota 700 mila, con un impegno sociosanitario enorme, che ricade, in gran parte, sulle famiglie. «Oggi come oggi non ci sono terapie in grado di rallentare (e curare) la malattia — commenta Giovanni Frisoni, direttore scientifico dell’Irccs Fatebenefratelli di Brescia —. Semmai qualche farmaco può aiutare a controllare alcune sue manifestazioni, come per esempio il deficit dell’attenzione (donepezil o rivastigmina o galantamina) o le performance cognitive (memantina). Sono solo sintomatici, rimborsati dal sistema sanitario nazionale. Poi ci sono altri interventi farmacologici che agiscono sul metabolismo cerebrale, come alcune miscele di acidi grassi, ma sono a carico del paziente». In ogni caso le cure vengono prescritte quando la malattia si è già manifestata, all’inizio, con disturbi della memoria e un decadimento cognitivo e, successivamente, con la perdita progressiva della capacità, per il paziente, di gestirsi autonomamente. Il vero problema è trovare una terapia capace di contrastare la malattia nelle fasi precoci, magari prima che dia segno di sé. Ma per fare questo occorre sperimentare i farmaci quando il danno cerebrale non è ancora evidente. Ecco perché è importante avere un test che individui le persone a rischio e che queste persone possano entrare nelle sperimentazioni di molecole- prototipo curative. Ed ecco perché il nuovo test (è più interessante di altri perché è fatto sul sangue ed è quindi molto semplice: non prevede, per esempio, una puntura lombare con il prelievo del liquido cerebrospinale) solleva non poche questioni etiche. In altre parole, questa indagine (se la sua efficacia verrà confermata) non servirà tanto per dire alle persone risultate positive «ok, hai una certa probabilità di andare incontro alla malattia quindi ti propongo un trattamento preventivo» (perché non c’è. O meglio, ci sono le solite regole, come ribadisce Frisoni, che valgono un po’ per tutto: corretta alimentazione, adeguata attività fisica eccetera). Servirà piuttosto per dire: «Ok, sei a rischio Alzheimer, vuoi entrare in uno studio clinico per valutare se il farmaco X o Y può essere efficace nel ritardare la comparsa dei sintomi e, come si dice oggi, nel modificare il decorso della malattia?». Il nuovo test si basa sul dosaggio di dieci lipidi (fosfolipidi, per l’esattezza) che deriverebbero dalla precoce distruzione delle membrane delle cellule cerebrali coinvolte nella malattia. I ricercatori hanno seguito 525 persone ultrasettantenni in cinque anni e hanno individuato 53 soggetti che hanno sviluppato sintomi di Alzheimer. Hanno confrontato il loro «profilo lipidico» (cioè i fosfolipidi presenti nel sangue) con quello di altrettanti soggetti sani. E sono riusciti a individuare chi era a rischio di andare incontro a quel declino mentale progressivo che si chiama, appunto, Alzheimer. Adriana Bazzi abazzi@corriere.it ____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Mar. ’14 IL WELFARE DEL «NON PROFIT» IN MEDIA COSTA IL 23% IN MENO «Soprattutto in epoca di spending review per il welfare va posto al centro il servizio pubblico alla persona: comunque gestito purché serva il bene comune secondo criteri di efficienza. Su tale terreno appare astratta e superata la contrapposizione fra pubblico e privato». Secondo Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà, docente di statistica metodologica alla Bicocca, fondatore ed ex presidente della Compagnia delle opere, è questa la conclusione principale dell’ottavo rapporto sulla sussidiarietà che verrà presentato domani a Roma in un convegno al quale parteciperà anche il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Lo studio, realizzato in collaborazione tra la Fondazione e il Politecnico di Milano, si concentra su costi, efficienza e qualità dei servizi sociali in Italia. Impresa tutt’altro che semplice visto che non esistono pratiche consolidate di rilevazione «micro», cioè delle singole organizzazioni: le statistiche pubbliche riguardano al più la spesa aggregata dei Comuni per tali servizi. La novità è dunque rappresentata dall’indagine sui costi di alcuni servizi (asili nido, housing sociale e universitario, cura degli anziani, riabilitazione) realizzata con il duplice obiettivo di verificare se vi siano differenze di efficienza nell’offerta fra organizzazioni private non profit ed enti pubblici, a parità di qualità percepita dagli utenti, e di comprenderne le eventuali cause. In estrema sintesi la ricerca, che mette a confronto due strutture comunque di eccellenza per tipo di servizio (nel solo caso degli asili ne vengono considerati due comunali e tre privati) in zone omogenee (prevalentemente al Nord, e a Catania per l’housing universitario), arriva alla conclusione che l’offerta privata risulta più efficiente perché presenta costi unitari minori in media del 23%. Dato che va letto considerando due aspetti importanti. In primo luogo la differenza non appare principalmente dovuta a un minor costo delle attività «core», cioè del servizio erogato, bensì dipende dal fatto che le strutture pubbliche risultano nella maggior parte dei casi gravate da costi «esterni», generali o indiretti come l’amministrazione, le utenze, i servizi vari di manutenzione e così via, in gran parte dipendenti dunque da scelte gestionali e specificità «di contesto», non attinenti alla singola struttura. In secondo luogo costi inferiori non comportano una riduzione della qualità del servizio: il livello di soddisfazione (misurata attraverso le indagini di customer satisfaction condotte dalle singole strutture) non mostra differenze di rilievo, con anzi un leggero «vantaggio» delle organizzazioni non profit. Anche negli asili nido, dove la differenza di costi è più rilevante perché nel privato sono inferiori del 41%, la ragione non va ricercata nelle attività «core»: in questo caso contribuisce in gran parte l’uso di diversi contratti che rendono il trattamento economico meno favorevole per gli educatori delle strutture non profit, senza che ciò si rifletta comunque in differenze nel servizio percepite dalle famiglie. Ecco dunque che, viene sottolineato nel rapporto, una più netta divisione tra livello amministrativo e di controllo e attività operative nella prestazione dei servizi aiuterebbe la formazione di unità autonome di servizio, «imprese sociali pubbliche» in grado di collaborare dove necessario con le organizzazioni private. «Il rapporto è di estrema attualità», dice Vittadini, «anche secondo il premier Matteo Renzi è necessario andare verso una nuova idea di pubblico che superi contrapposizioni e dispute ideologiche». Sergio Bocconi ____________________________________________________________ Libero 11 Mar. ’14 FERTILITÀ FEMMINILE I SUCCESSI DI DUE RICERCATORI ITALIANI Sono due ricercatori italiani, l'endocrinologo Francesco Orio e il ginecologo Stefano Palomba ad aver pubblicato recentemente su Nature Reviews Endocrinology (numero di marzo 2014) tra le più prestigiose riviste scientifiche al mondo, del gruppo Nature, l'articolo intitolato: "New guidelines for the diagnosis and treatment of Pcos" ossia "Nuove linee guida per la diagnosi e il trattamento della Pcos", acronimo americano che indica la Sindrome dell'ovaio policistico, patologia che è la prima causa endocrina di infertilità della donna, ha infatti una prevalenza de15-10% in tutto il mondo e soprattutto in Italia, con possibili complicanze endocrino-metaboliche oltre che ginecologiche. I due studiosi, sono riconosciuti a livello internazionale tra i principali esperti mondiali di tale patologia. Orio, che è Professore Associato di Endocrinologia presso l'Università "Parthenope" di Napoli, il più giovane professore di I fascia di endocrinologia in Italia, risultato di recente idoneo all'abilitazione scientifica nazionale, lavora in convenzione presso la Struttura di Tecniche di Fertilità dell'Azienda Ospedaliera Universitaria "S. Giovanni di Dio e Ruggi d'Aragona" di Salerno professor Palomba lavora presso l'Unità di Ostetricia e Ginecologia dell'Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, in uno dei principali centri pubblici italiani di procreazione medicalmente assistita; anch'egli è risultato idoneo alla recente abilitazione Scientifica Nazionale come docente di Prima Fascia di Ginecologia ed Ostetricia ed è in attesa di chiamata presso una università italiana a caccia di talenti. Orio e Palomba, per l'organizzazione internazionale Expertscape, sono tra i primi 10 "World leaders" nella ricerca e nel trattamento della Sindrome dell'ovaio policistico: è emerso dalla conferenza stampa a Palo Alto (San Francisco) in Usa. ____________________________________________________________ Il Giornale 15 Mar. ’14 IN DUE ANNI VISITE ON LINE A PIÙ 4000 Incontenibile «Dottor Web». Nel 2014 saranno 100 milioni le visite on line nel mondo, con un aumento del 400% in due anni, secondo uno studio pubblicatoti Panama e coordinato da Francisco Martin, direttore della società di consulenza Deloitte. A far esplodere il fenomeno l'uso generalizzato di pc e Internet, la sempre maggiore familiarità con gli strumenti tecnologici da parte degli anziani e l'uso massiccio di dispositivi mobili. Le e-visit cresceranno di più, per gli scienziati, soprattutto in Nord America (Usa e Canada) dove le consultazioni online si attesteranno a 75 milioni quest’anno. Le visite virtuali dovrebbero generare quest’anno, a livello mondiale, un risparmio potenziale di oltre 5 miliardi dollari (3,6 miliardi di euro), rispetto al costo delle visite reali ____________________________________________________________ Libero 15 Mar. ’14 CATARATTA NUOVE FRONTIERE DELLA CHIRURGIA La chirurgia oftalmica si rinnova e sta al passo con i tempi. A darne prova l'oggetto della discussione tra i luminari che hanno preso parte ai primi due meeting del "Congresso di Oculistica AICCER" (Associazione italiana di chirurgia della cataratta e refrattiva) in programma a Milano dallo scorso giovedì 13 fino a o Due gli argomenti fondamentali: la chirurgia della cataratta a bassa pressione e la sala operatoria del futuro. Il professor Paolo Vinciguerra, direttore di Humanitas Centro Oculistico e tra gli organizzatori del Congresso ci ha spiegato che parlare di chirurgia della cataratta a bassa pressione vuol dire in sostanza riuscire a operare evitando, sia che l'occhio durante il processo di aspirazione del liquido perda tensione, sia che si innalzi eccessivamente la pressione oculare prima della fuoriuscita del liquido. L'esperto ha poi precisato che durante la fase di aspirazione del cristallino frammentato, si utilizza uno strumento che aspira e allo stesso tempo infonde liquidi. È questo un esempio di chirurgia controllata che permette di ridurre i rischi, aumentando la percentuale di buona riuscita dell'intervento. Diversamente da quanto accadeva invece con il sistema a caduta. Quest'ultimo infatti determina una regolazione meno precisa e, per mantenere un livello di sicurezza, un incremento della pressione intraoculare. La cosiddetta sala operatoria del futuro invece si costituisce di una serie di strumenti di ultima generazione, collegati tra loro da wi-fi e dotati di sintonizzatore vocale. A tal proposito, sempre il Professor Vinciguerra, ha raccontato che operare in una sala operatoria così composta migliora la qualità e la precisione dell'intervento. Un sistema integrato tra femtosecondo, microscopio, facoemulsificatore consente di posizionare con precisione la lente intraoculare alla fine dell'intervento. AN.LU. ____________________________________________________________ Avvenire 15 Mar. ’14 INSONNIA PER 10 MILIONI DI ITALIANI IL RIPOSO NOTTURNO MODELLATO SUL DNA DEI GENITORI Genova. Il sonno viene modellato dal patrimonio genetico ereditato dai genitori e potrebbe avere una funzione molto più complessa di quella ipotizzata finora. Nella Giornata mondiale del sonno, ieri, è quanto emerge dalla ricerca condotta dal gruppo di Valter Tucci, dell'Istituto Italiano di Tecnologia (lit) di Genova e pubblicata sulla rivista Philosophical Transactions of the Royal Society Biology. «Finora era noto che geni ereditati dai genitori giocano un molo importante nel sonno», osserva Tucci. Un passo in avanti è stato fatto adesso, grazie alla ricerca condotta su un campione di 200 geni, che dimostra come molti di questi si attivano solo se sono stati ereditati da uno dei genitori. Ad avere disturbi del sonno sono circa dieci milioni di italiani, due milioni dei quali hanno problemi col respiro (apnee notturne), cinque milioni sono insonni cronici e circa un milione è affetto dalla sindrome delle gambe senza riposo in forma grave. A tracciare il profilo in cifre delle notti degli italiani è il presidente dell'Associazione italiana di medicina del sonno, Liborio Parrino. In particolare, ha specificato Parrino, dei cinque milioni di insonni cronici, tre milioni prendono farmaci per dormire da almeno un anno. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Mar. ’14 «BREGA MASSONE FACEVA INTERVENTI INUTILI PER SOLDI NESSUN SENSO DI PIETÀ» E in aula il pm ricorda il padre medico MILANO — Per la prima volta nella storia giudiziaria un pm chiede di condannare all’ergastolo due chirurghi accusati di aver provocato la morte di quattro pazienti dopo averli sottoposti, nonostante fossero malati terminali o troppo anziani, a interventi inutili e dannosi, eseguiti solo per incassare i lauti rimborsi del servizio sanitario nazionale. Omicidio volontario e truffa aggravata sono le accuse che si aggiungono a quella di lesioni volontarie per altri 45 pazienti operati, ma sopravvissuti, che vengono estese anche a un terzo medico dell’equipe di chirurgia toracica della Santa Rita di Milano, che nell’immaginario collettivo è ormai la clinica degli orrori. È un’arringa appassionata e venata di commozione quella del sostituto procuratore Grazia Pradella, che in Corte d’assise sostiene l’accusa con la collega Tiziana Siciliano. «Ciò che è accaduto è inaccettabile prima che inspiegabile» dice il magistrato parlando di un reparto dove «le mutilazioni» erano all’ordine del giorno, dove «l’asportazione di pezzi più o meno grossi di polmone» permetteva alla Santa Rita, attraverso una «raggelante equazione», di ottenere 11 mila euro per ciascuno degli interventi eseguiti «sulla base del nulla», evitando volutamente gli accertamenti diagnostici che avrebbero dimostrato quanto fossero inutili. «Persone fragili e in penose condizioni che si erano affidate al loro medico ed alle quali è stata tolta la possibilità di affrontare la morte con dignità senza aggiungere sofferenza a sofferenza», afferma Pradella. A guidare l’equipe era Pierpaolo Brega Massone che a poco più di 40 anni diventa primario per volere del proprietario della clinica, Francesco Paolo Pipitone, morto a 77 anni nel 2010 dopo aver patteggiato 4 anni e 4 mesi di carcere: «Uomo dall’avidità incontenibile», secondo il pm Siciliano. Brega Massone poteva contare sui «gregari» Pietro Fabio Presicci e Marco Pansera i quali, invece di impedire le operazioni, hanno condiviso la «attività criminosa del leader». Personaggio complesso, Brega «è sempre preoccupato dei soldi» dice Pradella, al punto da rivendicare in un’intercettazione di aver consentito alla clinica di fatturare tre milioni di euro, 300 mila dei quali finiti nelle sue tasche. È convinto di avere «capacità eccezionali», di essere «il miglior chirurgo del mondo» e quando l’inchiesta lo coinvolge, si sente vittima di un complotto. «Freddo e meticoloso», mai «scosso», come i colleghi ha mostrato «disprezzo per i pazienti» non avendo al processo «il più elementare senso di umana pietà per coloro che erano stati operati inutilmente, neppure dopo averli visti testimoniare o aver visto le sofferenze dei loro parenti». Assente all’udienza di ieri, il chirurgo ha evitato di ascoltare le richieste d’ergastolo per sé (quattro omicidi) e per Presicci (due omicidi in concorso con Brega) e di 18 anni per Pansera (un omicidio con Brega), l’unico a meritare le attenuanti. I tre sono stati già condannati nel primo processo per un’altra ottantina di lesioni a 15, 10 e 6 anni e 9 mesi. «È rimasto a Pavia», assicura l’avvocato Luigi Fornari, che lo difende con il collega Oreste Dominioni, quando già qualcuno immagina una fuga. Il legale definisce le richieste di condanna «prevedibili», chiedendosi però perché, «se la procura era così sicura, ha detto di no ad una perizia» di esperti dei giudici. L’accusa parla di «dolo eventuale» negli omicidi, avvenuti tra il 2005 e il 2006, perché gli imputati avrebbero «accettato cinicamente il rischio della morte dei pazienti, ampiamente prevedibile date le loro condizioni». Come nel caso di Antonio Schiavo, un 85enne operato a un polmone nonostante le sue condizioni sconsigliassero l’intervento, tanto che muore per una «lacerazione del cuore» mentre è sotto i ferri, ricorda il pm Pradella. Il magistrato frena a stento le lacrime ricordando la figura di suo padre Fabio, un professore universitario e medico di base a Milano scomparso da tempo, e della casa di famiglia frequentata da pazienti, bisognosi prima di tutto di attenzione. In un paio di mesi la sentenza. Giuseppe Guastella gguastella@corriere.it ____________________________________________________________ Le Scienze 14 Mar. ’14 IL GENE CHE CONTROLLA SPESA ENERGETICA E OBESITÀ Il gene IRX3 riveste un ruolo cruciale nell'insorgenza dell'obesità: i topi di laboratorio in cui è deficitario o mancante nelle cellule dell'ipotalamo, l'area cerebrale responsabile del comportamento alimentare e della spesa energetica, sono più magri di quelli normali, a parità di dieta e di attività fisica. A influenzare il livello di espressione di IRX3 sono le mutazioni a carico di un altro gene, FTO, che ricerche passate avevano associato all'obesità negli esseri umani (red) Il gene FTO e le sue mutazioni sono stati recentemente indicati come i principali responsabili dell'obesità negli esseri umani. Un nuovo studio pubblicato su “Nature” da Scott Smemo, dell'università di Chicago, e colleghi di una collaborazione internazionale, dimostra ora l'importanza cruciale nell'insorgenza del disturbo di un altro gene, detto IRX3, che è influenzato dalle mutazioni di FTO. “I dati dimostrano con forza che il gene IRX3 controlla la percentuale di grasso corporeo”, ha spiegato Marcelo Nobrega, professore associato di genetica umana dell'Università di Chicago e coautore dello studio. “Qualunque associazione tra FTO e obesità appare mediata da IRX3”. Alcuni studi genetici hanno evidenziato che l'obesità è fortemente correlata a mutazioni di un singolo nucleotide, l'unità chimica di base del filamento del DNA, a carico del gene FTO, che nei topi codifica per un enzima coinvolto nel controllo del peso corporeo e del metabolismo. In particolare, la mutazione colpisce gli introni di FTO cioè le parti non codificanti del gene: da ciò, l'ipotesi che questa mutazione fosse in grado di alterare il livello di espressione del gene stesso, mediante un meccanismo sconosciuto. In una prima fase di questo nuovo studio, gli autori hanno esaminato l'effetto delle mutazioni a carico degli introni di FTO nei campioni di tessuto cerebrale di 153 soggetti umani, confermando il ruolo cruciale di queste mutazioni, che però non influenzerebbero l'espressione di FTO, bensì quella di un altro gene, denominato IRX3 e collocato nel genoma a grande distanza da FTO. In una seconda fase, gli autori hanno ingegnerizzato geneticamente alcuni topi in modo che non esprimessero il gene IRX3. I roditori con questo deficit erano significativamente più magri delle loro controparti normali, a parità di alimentazione e di attività fisica: pesavano infatti almeno il 30 per cento in meno, essenzialmente a causa di una riduzione della massa grassa. Inoltre, quando venivano alimentati con una dieta ad alto contenuto di grasso, i topi senza IRX3 riuscivano a mantenere lo stesso peso e e la stessa massa grassa di quelli alimentati con dieta normale, contrariamente a quanto avveniva nei topi geneticamente normali, che arrivavano ad almeno il doppio del peso. “Questi topi sono magri e privi di grasso, eppure raggiungono dimensioni normali”, ha aggiunto hin-Chung Hui, coautore dello studio. “Sono anche resistenti all'obesità indotta da una dieta ad alto contenuto di grassi e hanno una maggiore capacità di gestire il glucosio, il che indica una buona protezione contro l'insorgenza del diabete”. )I ricercatori hanno osservato inoltre che i topi con una funzione dell'IRX3 alterata nell'ipotalamo, l'area cerebrale in cui avviene la regolazione del comportamento alimentare e della spesa energetica, erano anch'essi magri, con un rapporto tra massa magrae massa grassa identico ai topi completamente mancanti di IRX3. La funzione ipotalamica dell'IRX3 sembra dunque controllare la massa corporea e la percentuale di massa grassa di questi animali, indicando che la predisposizione genetica dell'obesità è determinata dal cervello. Gli autori hanno riscontrato anche nel pesce Danio rerio (zebrafisch), un modello animale molto utilizzato negli studi di genetica, gli stessi meccanismi d'interazione tra mutazioni degli introni di FTO ed espressione dell'IRX3 osservati nei topi e nell'essere umano:ciò indica che si tratta di una correlazione fortemente conservata durante l'evoluzione. ____________________________________________________________ Repubblica 10 Mar. ’14 CORRERE FA "RINGIOVANIRE" IL NOSTRO CERVELLO La dimostrazione dai test sui topi da parte dei ricercatori italiani del Cnr. La corsa aiuta la formazione di nuove cellule nervose 10 marzo 2014 30 LinkedIn 0 Pinterest ROMA- Correre aiuta a "ringiovanire" il cervello. E' questo il risultato dei test condotti dai ricercatori italiani sui topi nell'Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibcn-Cnr), i cui risultati sono pubblicati sulla rivista Stem Cells. Secondo i ricercatori, i nuovi dati aprono nuove prospettive nell'ambito della medicina rigenerativa del sistema nervoso centrale. Finora era noto che l'esercizio fisico porti benefici anche al cervello, favorendo la produzione di nuovi neuroni. Adesso per la prima volta si dimostra che correre può stimolare la produzione di nuove cellule staminali, rallentando in questo modo il processo di invecchiamento del cervello e favorendo capacità fondamentali, come la memoria. "Questa ricerca ha scardinato un dogma della neurobiologia", osserva il coordinatore della ricerca, Stefano Farioli-Vecchioli. "Finora - prosegue - si pensava che il declino della neurogenesi nell'età adulta fosse irreversibile". I test sono stati condotti su topi privi del gene chiamato Btg1, che in condizioni normali agisce come un freno alla proliferazione delle cellule staminali. Osservando gli effetti prodotti su questi topi dalla corsa, i ricercatori hanno osservato che "nel cervello adulto un esercizio fisico aerobico come la corsa blocca il processo di invecchiamento e stimola una massiccia produzione di nuove cellule staminali nervose nell'ippocampo, aumentando le prestazioni mnemoniche". Lo studio è stato condotto nel laboratorio diretto da Felice Tirone, che da anni studia alcuni meccanismi molecolari che regolano i processi di proliferazione e differenziamento dei neuroni nel cervello adulto, in collaborazione con Vincenzo Cestari dell'università Sapienza di Roma. Per Farioli-Vecchioli "la scoperta pone le basi per ulteriori ricerche mirate ad aumentare la proliferazione delle staminali adulte" nel cervello e su topi modello di malattie come Alzheimer e Parkinson. I risultati - rileva - avranno delle implicazioni molto importanti per la prevenzione dell'invecchiamento e della perdita di memorie ippocampo-dipendenti". ____________________________________________________________ Tempo 16 Mar. ’14 È DIRITTO DEI BIMBI GUARIRE SENZA FRONTIERE Manifesto per l'accesso alle cure migliori dei piccoli malati di cancro Il sostegno alla ricerca e alle famiglie diventa una questione europea mondiale contro il cancro infantile, la Società europea di oncologia pediatrica Siope e l'Associazione internazionale delle associazioni dei genitori di bambini e adolescenti malati di tumori Icccpo hanno presentato al Parlamento Europeo il manifesto elettorale per l' oncologia pediatrica. Il documento è stato sottoscritto dai parlamentari e dai candidati alle prossime elezioni europee, di diversi Paesi e di diversi partiti politici, che hanno partecipato all'incontro «Affrontare le diseguaglianze trai paesi d'Europa nella ricerca e nella cura del cancro pediatrico». Per l'Italia sono intervenuti medici e ricercatori da Milano e Roma. Ero con loro, per rappresentare la Fiagop, che presiedo e che in Italia collabora con Aieop, Associazione Italiana Ematologia Oncologia Pediatrica: genitori e medici insieme, vicini e insieme ai ragazzi, per contribuire a far sì che la situazione di cura e guarigione dei pazienti, in particolare bambini e adolescenti, migliori. Durante il mandato 2009- 2014, solo un piccolo seppur molto attivo gruppo di Parlamentari Europei ha sostenuto attivamente la comunità che si occupa di oncologia ed ematologia pediatrica. L'auspicio è che il nuovo Parlamento Europeo, dal maggio 2014, sostenga e rafforzi il suo impegno. Gli obiettivi del Manifesto sono: Promuovere attraverso tutta Europa un uguale accesso ai trattamenti standard, alle cure, al follow-up e alla ricerca clinica; Ridurre il gap in termini di sopravvivenza legato alla differenza di reddito tra i gli Stati Membri, visto che il tasso di sopravvivenza negli Stati dell'Unione Europea a reddito medio/basso è dal 10% al 20% inferiore rispetto a quelli ad alto reddito; Indirizzare l'insufficiente finanziamento nazionale ed europeo verso la ricerca sui cancri pediatrici (di base, traslazionale e clinica); Sostenere iniziative a livello europeo volte allo sviluppo di farmaci innovativi per il trattamento del cancro di bambini e adolescenti; Sostenere adeguate misure di follow-up dei guariti, allo scopo di affrontare le tossicità a lungo termine dei trattamenti e le loro conseguenze; Fare in modo che ogni Stato Membro metta in atto politiche sociali volte a sostenere i bambini col cancro e le loro famiglie durante e dopo il periodo di trattamento; Monitorare il processo legislativo in Ue al fine di garantire migliori cure e maggiori ricerche in oncologia ed ematologia pediatrica. Assenti per ora, purtroppo, eurodeputati o candidati italiani ad appoggiarlo: la speranza è che anche rappresentanti del nostro Paese sottoscrivano il Manifesto e si impegnino a sostenerne gli obbiettivi. La comunità multidisciplinare in oncologia pediatrica, anche attraverso l'indispensabile collaborazione tra i vari stakeholder, ha il potenziale adeguato per portare ad un una vera svolta nella ricerca e nella cura del cancro infantile e portare quindi rilevanti conseguenze per la vita di tanti pazienti, genitori e guariti. * Presidente Federazione Italiana delle associazioni genitori oncoematologia pediatrica Onlus ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 16 Mar. ’14 L'AMBIENTE PLASMA IL NOSTRO GENOMA L'epigenomica rivoluziona gli studi sul Dna, che può subire mutazioni a seconda delle esperienze. E passare alle generazioni successive Roberto Manzocco aQuella del rapporto tra natura e cultura – o, se vogliamo, tra ereditarietà e ambiente – è una delle questioni più annose e controverse della filosofia e della ricerca scientifica. Ora un importante contributo al dibattito arriva da un ambito di ricerca molto interessante: l'epigenomica. Secondo la visione classica, il nostro genoma è un codice fisso, che può mutare da una generazione all'altra, ma che per il resto opera in modo costante e si riproduce uguale a se stesso. In realtà le cose non si svolgono in modo così lineare, e i nostri geni sono circondati da meccanismi aggiuntivi, l'epigenoma appunto, che provvedono ad attivare – "esprimere" – questo o quel gene, in questa o quella cellula, a seconda delle fasi della vita, ma soprattutto a seconda degli stimoli esterni, ambientali e, in senso lato, pure "culturali". L'ambiente ci plasma, insomma, il nostro Dna subisce variazioni nei meccanismi di attivazione e sovente questi cambiamenti sono potenzialmente trasmissibili alle generazioni successive. Le esperienze che possono indurre mutazioni epigenetiche sono molte, relative a quello che mangiamo, quello che respiriamo, alle attività fisiche, e a situazioni psicologiche, dall'apprendimento allo stress. Siamo in presenza di una rivoluzione concettuale, per la quale un codice già noto, quello genetico, risulta essere influenzato da un codice di cui sapevamo poco, quello epigenetico. Per Valerio Orlando – biologo della Fondazione Santa Lucia di Roma, ora in forze al King Abdullah University of Science and Technology, a Thuwal, in Arabia Saudita – «nell'ambito della conoscenza del genoma l'epigenomica rappresenta una novità: si prende atto del fatto che accanto al genoma c'è anche l'epigenoma, un complesso di strutture accessorie che ne regolano la funzionalità, si tratta di componenti strutturali proteici e chimici dei cromosomi essenziali per la regolazione cellulare. L'importanza di questi componenti è che sono essi a consentire al genoma di comunicare con l'ambiente. L'epigenoma è quel complesso di fattori strutturali che registrano l'esperienza biologica in tutte le fasi della vita e attraverso di essi le cellule trasmettono la base della loro identità alle cellule figlie e in alcuni casi alle generazioni successive». È il caso dell'ambiente prenatale e di quello post-natale. «È noto ad esempio che le abitudini alimentari e comportamentali della madre – la sua esperienza biologica, gli ormoni secreti dal suo organismo, ciò che mangia, le situazioni stressanti che si trova a vivere, – possono influire sul feto e sull'espressione dei suoi geni – continua Orlando, tra i relatori del Brain Forum che si chiude oggi a Milano. Inoltre lo stress nelle primissime fasi della vita e la carenza di cure materne possono modificare determinate regioni regolative dei geni e relativi circuiti cerebrali, per cui la progenie finirà con lo sviluppare un fenotipo depressivo/aggressivo. In alcuni casi tali caratteristiche possono essere ereditate, e la predisposizione si combina poi con l'ambiente sociale e familiare. Volendo fare una metafora, potremmo dire che l'epigenoma rappresenta un'immagine chimica della realtà, un riflesso dell'ambiente esterno come viene incontrato dalle cellule e dall'organismo». Varie sono le connessioni tra epigenoma e comportamento: la ricerca ha riscontrato correlazioni tra determinate caratteristiche epigenetiche e la tendenza al suicidio, la schizofrenia, l'alcolismo, la suscettibilità individuale a stupefacenti come la cocaina, l'azione di alcuni tipi di psicofarmaci. Per quanto riguarda il rapporto tra epigenetica e cervello umano, possiamo dire che molte funzioni cerebrali sono accompagnate da cambiamenti nell'espressione genica a livello cellulare, e che alcuni di questi meccanismi sembrano essere coinvolti nella memoria a lungo termine. C'è da dire che gli studi sugli esseri umani sono pochi, mentre non mancano quelli sugli animali, soprattutto ratti e topi. E a proposito di animali Orlando fa un interessante esempio relativo agli insetti sociali: «Nel caso delle api, l'esposizione delle larve alla pappa reale ne influenza pesantemente l'espressione genica, determinandone il destino, ossia il ruolo sociale che ricopriranno, facendone operai o api regine». Forse è un po' troppo presto per mettersi a cercare le basi epigenetiche dei gusti artistici e delle preferenze individuali – soprattutto di quelle più squisitamente psicologiche, come i “colori preferiti” e così via. È però senz'altro chiaro che alcune scelte marcatamente culturali – per fare un esempio, quella di bere in età adulta il latte di altre specie animali – può influenzare le nostre caratteristiche epigenetiche – nella fattispecie la produzione dell'enzima lattasi – e che tali caratteristiche possono essere trasmesse. Per quanto riguarda la ricerca, l'Human Epigenome Project, un progetto internazionale – sostenuto dal britannico Wellcome Trust Sanger Institute, l'azienda biotech Usa-tedesca Epigenomics Ag e il francese Centre National de Génotypage – mira a identificare, catalogare e interpretare i meccanismi che compongono l'epigenoma, accumulando conoscenze utili nella lotta ai tumori. Epigen è invece un'iniziativa multidisciplinare, promossa dal Miur e dal Cnr, che riunisce 70 ricercatori con l'obiettivo di comprendere come i meccanismi epigenetici regolino i processi biologici, determinino la variazione fenotipica e contribuiscano allo sviluppo di numerose patologie. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 16 Mar. ’14 I PERICOLI DELL'AUTO-DIAGNOSI Il boom di device per monitorare la salute spaventa medici ed esperti ma rappresenta una opportunità di ricerca Luca Tremolada Per promuovere le reti mobili 5G la commissaria per le telecomunicazioni Neelie Kroes ha raccontato che le informazioni mediche di ciascuno di noi occupano mezzo terabyte di dati. Per intenderci sono l'equivalente di 150 ore di filmati in formato digitale, che hanno per oggetto unicamente la nostra salute. Può sembrare molto ma la stima è approssimata per difetto. L'incontro dell'healthcare con l'internet delle cose ha generato una singularity tecnologica che ha prodotto in un paio di anni l'invasione sul mercato di strumenti "consumer" per il self tracking, ovvero per il monitoraggio degli indicatori biometrici. La miniaturizzazione dei microprocessori mobili, lo sviluppo della sensoristica e la ricerca sui materiali ha prodotto l'ingresso sul mercato di braccialetti, sensori, caschetti, cerotti che si connettono a un normale smartphone o tablet e attraverso appositi algoritmi sono in grado di calcolare e simulare l'andamento di uno o più parametri vitali. Gli esperti sostengono che l'autodiagnosi consentirà di esprimere in tempo reale quantitativi di informazione sulla nostra salute senza precedenti. Oggi sul mercato a prezzi abbordabili si trovano misuratori in tempo reali di temperatura corporea, pressione arteriosa, battito cardiaco e onde celebrali. Nei prossimi mesi sono attesi strumenti per misurare in modo non invasivo le aritmie, il livello di ossigeno nel sangue e la glicemia nel sangue. La sperimentazione nel campo dei biosensori e dei nuovi materiali vede al centro startup o aziende iperspecializzate che stanno scoprendo il mercato di massa. Nell'ultimo anno gli investimenti in nuove imprese del digital health sono raddoppiati superando solo negli Usa gli 1,9 miliardi di dollari (più di 195 operazioni di finanziamento di taglio superiore ai 2 milioni di dollari). Quest'anno, sostiene Rock Health l'incubatore specializzato in e-health, per la prima volta l'industria del digital health raccoglierà più fondi di quelli destinati ai device per il biomedicale. A muovere più denaro è il self tracking. iHealth, tra le realtà più dinamiche del settore, da alcuni anni si sta specializzando nel monitoraggio della salute attraverso device mobili. Quest'anno al Consumer electronic show di Las Vegas hanno presentato un apparecchio simile a una cornetta del telefono degli anni '80 per la diagnosi delle aritmie: si appoggia al petto nudo per avere sullo smartphone un tracciato elettrocardiografico. Alla InteraXon, per esempio, da dieci anni studiano le interfacce per il cervello. L'anno scorso hanno deciso di puntare su Indiegogo (un piattaforma di crowdfunding alla Kickstarter) e in un battibaleno hanno raccolto quasi 300mila dollari per produrre Muse, una elegante fascia per la testa che legge le frequenze delle onde cerebrali e le traduce in segnali che il computer può capire. È composta da sette elettrodi e visualizza le onde su tablet. Secondo loro, aiuta a controllare stanchezza e concentrazione. Molti di questi strumenti sono poco più di prototipi, l'accuratezza dei loro risultati dipende dallo stato del sensore e dalla capacità di isolare l'indicatore biologico che intende misurare. Ma per i consumatori sono diventati comunque strumenti di auto-controllo che prima non c'erano. I cosiddetti ePatients hanno smesso di avere pazienza. Vogliono monitorare il proprio stato di saluto senza tempi di attesa. In America il rapporto Health Online 2013 ha calcolato che un americano si fa l'autodiagnosi sul web e un terzo di questi non ne chiede neanche conferma al medico. I medici avvertono che il pericolo del passaggio dal l'auto-monitoramento all'auto-diagnosi è breve. Ma non sono solo le startup ad aver fiutato il business. Le conseguenze della mania di quantificare il nostro stato di salute hanno convinto anche i big. A parte colossi come Philips e Panasonic che da tempo hanno virato su nuovi mercati come quello dell'energia e del biomedicale. Anche attori "tradizionali" del mercato dell'elettronica di massa come Samsung, Apple, Intel e anche Nintendo stanno imparando a pronunciare la parola e-health. Qualche esempio? I coreani della Samsung hanno introdotto nei propri device mobile un cardiofrequenzimetro. A Cupertino lavorano su brevetti che potrebbero in vista del prossimo iPhone. Intel alcuni mesi fa ha presentato Edison il più piccolo microPc del mondo. Per raccontarlo ha mostrato Mino, un classico body per neonato collegato a una spilla a forma di tartaruga lavabile e removibile. Il microsistema rileva e invia a un'app sullo smartphone molti parametri, quali temperatura della stanza e del bambino, respiro, sonno, veglia e posizione. Mino, come altri device, potenzialmente possono diventare oggetti di ossessione e di controllo. Ma rappresentano strumenti straordinari per specialisti e personale medico. I tempi forse non sono maturi. Ma raccogliendo con metodo e attraverso protocolli di ricerca condivisi queste informazioni possono rappresentare i nuovi big data della sanità.