RASSEGNA 22/12/2013 UNIVERSITÀ, PER IL MERITO DOTE INTEGRATA DI 40 MILIONI SARDEGNA: REGIONE E UNIVERSITÀ, UN RAPPORTO DIFFICILE SARDEGNA: I GIUDICI CONTABILI SUI FINANZIAMENTI ALLE UNIVERSITÀ ECCO COME RICOSTRUIRE LA RICERCA ITALIANA POLITICHE DA FARSA E LA CULTURA MUORE LE UNIVERSITÀ ONLINE NON PASSANO L’ESAME DIETROFRONT, CARI STUDENTI IN RETE L’UNIVERSITÀ ONLINE NON FUNZIONA LA MEMORIA PERDUTA DELLA SCIENZA COSÌ SI CANCELLANO I DATI DIGITALI LE 10 SCOPERTE PIÙ IMPORTANTI DEL 2013 SECONDO "SCIENCE" CARTA CANTA: IL CERVELLO PREFERISCE IL LIBRO, DAI TOMI AI BIGLIETTI LÌ C’È LA NOSTRA STORIA CLIC, E SIAMO MENO INTELLIGENTI I PERICOLI PER LA SCUOLA DELLE NUVOLE VIRTUALI ABBANDONO SCOLASTICO, ITALIA TRA I 5 PAESI PEGGIORI D'EUROPA LA STABILITÀ TAGLIA I CONTRATTI PER LE SPECIALIZZAZIONI MEDICHE. I TEORICI DELLA COSPIRAZIONE IN 500 CONTRO LE SCIE CHIMICHE ? USARE IL NUCLEARE PER FERMARE IL RISCALDAMENTO GLOBALE ========================================================= SANITÀ, DOPPIA CURA SUI CONTI COSTI STANDARD E «PATTO» LE CURE DELLA SANITÀ IN ROSSO CONTI DI ASL E OSPEDALI SULL'OTTOVOLANTE COSTI DELLE REGIONI A CONFRONTO: OGNI SARDO SPENDE 45 EURO L’ANNO AOUCA: BLOCCO R, CI SONO 50 MILIONI TROPPA MEDICINA E DIMENTICHIAMO CHE SIAMO MORTALI CON IL TUMORE SI CONVIVE CURE PERSONALIZZATE PER MIGRANTI E NO ANCORA UNA PROROGA PER LA CHIUSURA DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI DSM: I NOSTRI DÈI SONO I FARMACI , NON LE MALATTIE PERICOLO INTRUGLIO STAMINA AI MALATI DI STAMINA CELLULE DI ALTRE PERSONE UNA CURA PERICOLOSA» COSÌ GUARITORI E SANTONI GIOCANO CON LA DISPERAZIONE AL VIA UN NUOVO DOCUMENTO SULLA DIAGNOSTICA PER IMMAGINI TESTA E TORACE I «PUNTI DEBOLI» NEGLI INCIDENTI CON LA MOTO DATI ALLARMANTI SULLA SANITA’ ITALIANA NEL RAPPORTO AIOP L’ATTIVITA’ FISICA OVER 50 ALLONTANA LA DISFUNZIONE ERETTILE DURANTE IL SONNO , CI FACCIAMO IL LAVAGGIO DEL CERVELLO CERVELLO E SALUTE, L’ETÀ NON SI MISURA IN ANNI ? ========================================================= ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Dic. ’13 UNIVERSITÀ, PER IL MERITO DOTE INTEGRATA DI 40 MILIONI ROMA Per gli atenei meritevoli arriva una prima, seppur lieve, boccata d'ossigeno. Con un emendamento al decreto «salva-Roma», oggi in aula al Senato, sono stati ripristinati i 40,3 milioni aggiuntivi del Fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo) che erano stati prima inseriti e poi eliminati per ragioni di copertura dal dl "L'istruzione riparte", convertito in legge poco più di un mese fa.  I 40,3 milioni di euro citati saranno dirottati al Ffo da un residuo di cassa relativo al progetto "Super B Factory", inserito nel Programma nazionale della ricerca 2011-2013 dall'ex ministro Mariastella Gelmini ma successivamente considerato «significativamente oneroso per le finanze pubbliche». Lo stanziamento sarà distribuito in due tranche: 22 milioni nel 2014 e i restanti 18,3 milioni nel 2015. In realtà che la ripartizione di questi fondi avverrà su base meritocratica la norma approvata lunedì non lo dice. Ma dal Miur garantiscono che sarà così. Del resto la "fetta" di risorse a carattere premiale deve crescere per legge dal 13,5% di quest'anno al 16% del 2014, al 18% del 2015, al 20% del 2016 e così via. Fino ad arrivare, a regime a un massimo del 30 per cento. Soddisfazione per la decisione di Palazzo Madama è stata espressa dalla titolare dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza. Che l'aveva preannunciata in un'intervista pubblicata sul Sole-24 Ore del 28 novembre scorso. A tal proposito, da viale Trastevere fanno notare come grazie agli interventi varati nell'ultimo anno – i 150 milioni nella legge di stabilità, i 20 del decreto del fare e i 40 del dl salva-Roma – per la prima volta dal 2009 il trend del Ffo nel 2014 tornerà a crescere. E dai 6.694 milioni del 2013 passerà a 6.744. Sempre in tema di università vanno segnalate altre due novità che sono state introdotte ieri in commissione al ddl di stabilità. La prima è che il fondo per il diritto allo studio universitario salirà dai 100 milioni previsti dal decreto "L'istruzione riparte" a 150. La seconda è che per gli specializzandi in medicina arrivano 30 milioni nel 2014 e 50 nel 2015. Che dovrebbero significare 1.300 borsisti in più rispetto ai 2.500 attuali. Eu.B. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 19 Dic. ’13 REGIONE E UNIVERSITÀ, UN RAPPORTO DIFFICILE CAGLIARI Ritardi nell’erogazione dei contributi e scarsa programmazione. Sono queste le zone d’ombra del difficile rapporto fra la Regione e le università di Cagliari e Sassari fino a «rendere complicata la verifica degli obiettivi raggiunti» A scriverlo è la sezione di controllo della Corte dei conti a conclusione dell’indagine sui finanziamenti pubblici (anni 2010 e 2011) agli atenei. Di fatto, con la firma dell’ultima convenzione, c’è stato un cambio di rotta, la programmazione ora è triennale, ma nel frattempo – hanno denunciato i rettori Giovanni Melis e Attilio Mastino – «il contributo è stato ridimensionato purtroppo nello stesso momento in cui nell’isola è aumentata la crisi economica e sociale, col risultato che le università da sole non possono farcela e non è pensabile che per recuperare nuove risorse aumentino ancora le tasse a carico degli studenti». Con la sua indagine, la Corte – come sottolineato dal relatore Roberto Angioni - ha dunque auspicato che «lo stanziamento complessivo di 25 milioni (il riferimento è al 2011, col 65 per cento destinato a Cagliari e la parte restante a Sassari) non solo sia erogato con puntualità, i ritardi nella media arrivano a due anni, ma che sia chiara anche la finalità degli stanziamenti, con una rendicontazione conclusiva (inesistente o quasi) per capire come sono stati spesi i finanziamenti pubblici». È proprio questa attività di controllo a valle che – secondo la Corte – permetterebbe di migliorare non solo i rapporti fra la Regione e le Università, ma soprattutto aumenterebbe la possibilità di raccogliere risultati, mentre oggi le statistiche dicono che «nell’anno accademico 2009, il 60 per cento degli studenti sardi era fuori corso contro una media nazionale del 46,8». Stesso discorso vale anche per la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica: i ritardi nell’erogazione dei fondi, oltre la continua contrazione degli stanziamenti, rischiano di rendere ancora più precario un settore invece nevralgico per il futuro economico dell’isola. Nella stessa seduta, la Corte ha discusso anche i bilanci della società in house della Regione «Fase 1», che si occupa di sperimentazione farmaceutica. A sette anni dalla sua costituzione, la conclusione della relatrice Valeria Motzo è stata impietosa: «Costa troppo (un milione e mezzo di finanziamento negli esercizi 2011 e 2012) e non produce ricavi tanto che senza il sostegno pubblico non avrebbe alcuna possibilità di proseguire l’attività». I margini di incertezza – è scritto nella relazione – «sono così ancora molto elevati a causa del personale e delle consulenze, mentre continuano a essere scarsi i proventi nonostante un ultimo leggero miglioramento». Risultato: la giunta regionale ha pronta una delibera che accorperà «Fase 1» all’Azienda ospedaliera Brotzu, ed è questa anche la soluzione prospettata dall’amministratore della società, Giampaolo Pilleri. (ua) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 19 Dic. ’13 SARDEGNA: I GIUDICI CONTABILI SUI FINANZIAMENTI ALLE UNIVERSITÀ Il rimprovero della Corte La maggiore criticità è nella programmazione delle risorse. Poi ci sono aspetti connessi al ritardo sull'erogazione dei fondi e all'assenza di rendicontazioni precise su alcuni finanziamenti per i privati. La Corte dei Conti ha passato al setaccio le risorse regionali per il sistema universitario. «Questi fondi sono legati a una pianificazione da effettuare a monte e dovrebbero essere assegnati per programmi specifici», ha chiarito Roberto Angioni, che ieri ha illustrato i contenuti dell'indagine. «Tra il 2005 e il 2008 c'era una convenzione triennale, mentre per gli anni successivi si è operato in regime di proroga disposta tardivamente. Alle osservazioni della Corte, l'Università ha risposto con una programmazione triennale. Tra sei mesi verificheremo i risultati». Nella relazione presentata da Angioni si fa riferimento ai 19 milioni di euro stanziati dalla Regione nel 2010 per gli atenei di Cagliari e di Sassari e ai 19 milioni 250mila euro e agli ulteriori 6 milioni previsti nel 2011. Al Consorzio Forgea International di Cagliari e all'Associazione istituzione libera università Nuorese Ailun, nel biennio 2010-11, sono stati erogati 6 milioni. In una successiva audizione si è analizzata anche la gestione della società partecipata dalla Regione Fase 1 srl, che si occupa di ricerca e sviluppo nel settore farmaceutico. Dopo la relazione del consigliere della Corte, Valeria Motzo - che ha evidenziato la consistenza dei finanziamenti regionali alla società -, è intervenuto il direttore generale della presidenza della Regione, Gabriella Massidda. Il funzionario ha spiegato i passaggi che hanno portato a valutare la dimissione di Fase 1. Eleonora Bullegas ____________________________________________________________ Avvenire 19 Dic. ’13 ECCO COME RICOSTRUIRE LA RICERCA ITALIANA L'Italia investe in ricerca un terzo della Finlandia (1,25% del Pil contro il 3,8%) e le imprese italiane, quando finanziano la ricerca universitaria, lo fanno con l'equivalente di 14mila dollari a ricercatore, contro i 98mila della Corea del Sud e i 73mila dei Paesi Bassi. L'Italia spicca per numero di ricercatori nazionali che si aggiudicano finanziamenti Erc (European reasearch council, i più prestigiosi e ricchi finanzia- menti europei per la ricerca), ma li utilizzano presso istituzioni straniere. Una fotografia ben poco lusinghiera dello stato della ricerca in Italia emersa dal recente convegno "La ricerca in Italia", organizzato da Università Bocconi, Novartis e Gruppo 2003. Nei mesi scorsi si è anche concluso un esercizio di valutazione della qualità della ricerca degli atenei italiani a cura dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca Anvur), al quale avrebbe dovuto far seguito una distribuzione premiale di fondi, ma i 41 milioni di euro previsti non sono per ora disponibili. "Se dovesse nuovamente mancare il collegamento tra valutazione e distribuzione premiale delle risorse, come nel caso di esercizi di valutazione svolti in passato", ha detto il rettore della Bocconi, Andrea Sironi, "verrebbe a mancare anche la motivazione a considerare seriamente gli esiti della valutazione. Quando la valutazione è collegata alla distribuzione delle risorse si crea, invece, un meccanismo che spinge le università a prestare particolare attenzione alla produttività scientifica dei propri docenti. Si crea concorrenza tra gli atenei per assumere e mantenere i ricercatori più produttivi. I concorsi si concludono più facilmente con l'assunzione del candidato più qualificato, anziché quello 'interno', mentre il timore di perdere un docente con un'elevata produttività scientifica può spingere le università a creare le condizioni migliori perché tale ricerca possa essere svolta". (P. M.) ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Dic. ’13 POLITICHE DA FARSA E LA CULTURA MUORE di Dacia Maraini «La biblioteca universitaria di Pisa è in uno stato di stallo allarmante», mi scrive la prestigiosa storica Chiara Frugoni, preoccupata per la chiusura di una antica e preziosa biblioteca. «Aperta al pubblico fin dal 1742, dispone di più di 600.000 volumi, 1.389 manoscritti, 161 incunaboli, 7.022 Cinquecentine, 4.357 periodici di cui 1.030 correnti. Si aggiunga il fondo di circa 20.000 tesi che dal 1868 raccolgono gli scritti di Carlo Azeglio Ciampi, Giovanni Gentile, Carlo Rubbia, Enrico Fermi».  Il palazzo della Sapienza appartiene all’università: dunque se ne occupa il ministero della Pubblica istruzione, ma gestione e dotazione della biblioteca universitaria dipendono dal ministero dei Beni culturali, perché si tratta di una biblioteca statale. Questa doppiezza crea problemi di decisionalità. C’è l’esperto che prospetta danni irreversibili seguiti all’ultimo terremoto, c’è l’altro che sostiene invece la completa agibilità, salvo qualche ritocco alle strutture. I pompieri d’altro canto, avendo controllato piu volte l’edificio, affermano che non c’è motivo di allarme anche se qualche lavoro va fatto. «Nell’edificio del Cinquecento le crepe nel portico datano da decenni». Ma il sindaco, nel dubbio, decide di chiudere l’edificio esigendo una perizia dagli uffici tecnici dell’università.  Intanto però il rettore comincia a pensare che i libri vadano trasferiti in un altro palazzo, ma ci si accorge che gli spazi disponibili sono inadatti. «Nessun palazzo in Pisa è idoneo e se idoneo, necessita di lavori di anni e di costi insopportabili di adeguamento. L’ex ministro Ornaghi ha scritto che la biblioteca deve rimanere dove è», continua Chiara Frugoni. Intanto vengono stanziati 600.000 euro per mettere a norma i locali dell’edificio di San Matteo dove andrebbero trasferiti almeno 120.000 volumi della biblioteca universitaria, mentre si fanno i lavori alla Sapienza. «In realtà i locali sono della Soprintendenza», ragiona Chiara, «e oggi si viene a sapere che l’edificio di San Matteo può ospitare solo 60.000 libri e i volumi sono molti di più. E poi perché cominciare a spostare in assenza della perizia, che si aspetta da un anno e mezzo?».  Gli studenti scalpitano. I libri diventano sempre più difficili da consultare. Cosa fare? Si stabilisce che per il momento si utilizzeranno alcune sale di un palazzo di fronte all’edificio della Sapienza, la Casa dello studente, che potranno ospitare 90 studiosi. Però tutti i libri della Sapienza e il catalogo rimarranno dove sono. Questo comporta che gli impiegati della biblioteca dovranno attraversare due volte al giorno la strada, fra le macchine in transito, per prendere e riportare i libri. «Se sono di grosso formato non potranno essere trasportati. In assenza di perizia, è già stata firmata la convenzione che questo stato di cose durerà diciotto mesi, dunque per un altro anno e mezzo la biblioteca rimane inagibile».  Sembra davvero una farsa alla Courteline, fatta di decisioni irrevocabili, sostituite da contro-decisioni risibili, da uno scontro di ordini e contrordini che creano un garbuglio inestricabile. Solo che anziché ridere sugli scambi di coppie e sugli equivoci di lettere spedite e mai arrivate, come nelle vere farse, qui si scherza sul futuro degli studiosi e sulla credibilità di una grande e prestigiosa università.  ____________________________________________________________ Repubblica 18 Dic. ’13 LE UNIVERSITÀ ONLINE NON PASSANO L’ESAME Il ministro Carrozza: troppi prof precari, pochi studenti. “Chi non si mette in regola chiude” CORRADO ZUNINO ROMA — Diciannove pagine del ministero dell’Istruzione seppelliscono le undici università telematiche italiane. Sei mesi di lavoro della commissione interna dedicata (due professori emeriti più il vicecapo di gabinetto), tre riunioni, diverse audizioni, i pareri del Cnsu (Consiglio degli studenti) e i dossier dell’Anvur (i valutatori). A fine ottobre la sentenza, attesa in verità: le università telematiche italiane hanno pochi (o più spesso nessuno) insegnanti a tempo indeterminato, hanno pochi studenti, pochi immatricolati e spesso un numero di lauree incongruo rispetto agli iscritti. A volte hanno problemi infrastrutturali. Chi non risolverà presto queste assenze, queste chiare mancanze, dovrà chiudere. «Pena l’estinzione dell’università stessa»,aveva già scritto l’Anvur. Dice ora il ministro Maria Chiara Carrozza, a sintesi del lavoro: «Basta alle deroghe per le telematiche. Devono avere regole certe come le università tradizionali, devono seguire criteri stringenti per l’accreditamento e il reclutamento del personale docente. Dobbiamo poter valutare, con gli stessi criteri validi per le università tradizionali, l’efficacia e l’efficienza dei corsi impartiti. Lo faremo nel prossimo piano triennale». Fino ad oggi i corsi sono stati valutati prima, mai dopo. Ancora il ministro Carrozza: «Le università telematiche devono aumentare il numero di docenti con contratto stabile, oggi ci sono troppi precari. Devono aumentare l’attività di ricerca, oggi piuttosto scarsa». O gli atenei Mooc si attrezzano o il Miur non le riconoscerà più. Il numero degli studenti immatricolati negli atenei online italiani è stato in crescita dal 2004 al 2011, per iniziare poi una progressiva diminuzione anche nelle strutture più grandi: Marconi, Uninettuno e Unicusano. Stesso trend per i laureati: flessione dopo il 2011. La commissione ministeriale ha segnalato l’assenza di“criteri determinati e chiari” per la valutazione qualitativa del-l’offerta formativa, nessuna regola per l’istituzione delle scuoledi dottorato e nessuna chiarezza nel passaggio di docenti e ricercatori alle università tradizionali. Le telematiche, si scopre, possono far partire l’anno accademico in qualunque momento della stagione. Organizzano esami e danno crediti “non idonei a garantire il raggiungimento delle previste competenze”. La Pegaso, aveva già scritto l’Anvur, “rischia di produrre titoli legali il cui contenuto non è comparabile con quello delle altre istituzioni universitarie”. Tutte le “online” non hanno, o hanno in maniera inadeguata, attività di laboratorio. Riassume la commissione: «I laureati delle università telematiche hanno una minore preparazione rispetto ai laureati delle università convenzionali». È interessante segnalare come, nel corso del 2013, sette euniversity abbiano richiesto accrediti per 47 nuovi corsi di laurea (18 E-Campus, 7 Pegaso, 7 Unicusano, 7 Uninettuno, 5 Giustino Fortunato, 2 Mercatorum, 1 Benincasa). L’Anvur ha fatto passare solo i due corsi della Mercatorum. E-Campus, Pegaso e Unicusano hanno ottenuti i corsi in seconda istanza, a colpi di Tar e Consigli di Stato. Nell’ultimo rapporto l’Anvur aveva sottolineato — nel caso della romana Universitas mercatorum legata alle camere di commercio italiane e della Giustino Fortunato di Benevento — un conflitto d’interessi rispetto ai proprietari. La commissione ministeriale ha chiesto che “alcune tipologie di corsi” non siano impartibili a distanza: non tutto si può insegnare su Internet. «I finanziamenti pubblici saranno assegnati in ragione della qualità dell’attività didattica e dell’attività di ricerca», ha chiosato il ministro. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 15 Dic. ’13 DIETROFRONT, CARI STUDENTI IN RETE L’UNIVERSITÀ ONLINE NON FUNZIONA In principio fu entusiasmo travolgente. Sebastian Thrun, scienziato e docente universitario tedesco trapiantato nella Silicon Valley, il fondatore dei segretissimi laboratori di Google X Labs e la mente dietro il progetto dell’auto che si guida da sola, si trasformò all’improvviso in «rockstar» accademica quando, poco più di due anni fa, provò a mettere in rete i suoi corsi di Computer science alla Stanford University. Stanco di fare lezione a 200 ragazzi, Sebastian pensò che questo fosse il modo giusto per ampliare l’audience. Fu un successo mozzafiato, raccontato a suo tempo da «la Lettura»: accessibili su internet, i suoi corsi cominciarono a essere seguiti da ben 160 mila studenti in tutto il mondo.  Da allora l’insegnamento universitario online ha cominciato a diffondersi con grande rapidità dentro e fuori gli Stati Uniti mentre Mooc — acronimo che sta per «Massive Open Online Courses» — è diventato sinonimo di un nuovo modo di fare formazione accademica, abbattendo i costi degli atenei più blasonati e mettendo la loro istruzione d’eccellenza a disposizione di chiunque. Ma, mentre le università di mezzo mondo si avventurano in questo nuovo territorio inesplorato, il loro profeta ha già cambiato rotta.  Thrun, di fronte al successo planetario delle sue lezioni aveva lasciato Stanford e si era messo in proprio fondando Udacity: una nuova piattaforma di insegnamento digitale sostenuta dal venture capital che si è messa a contendere, e con successo, il promettente mercato dell’insegnamento universitario in rete a Coursera, l’alleanza accademica digitale promossa proprio da Stanford insieme ad altri grandi atenei e a edX, la piattaforma creata a Boston da Harvard e dal Massachusetts Institute of Technology, i nomi più celebri della East Coast.  «Sono piombato in uno stupefacente paese delle meraviglie dell’istruzione», aveva raccontato Thrun che si era trovato a cavalcare una vera rivoluzione: di quei 160 mila studenti, 23 mila erano arrivati fino in fondo, sostenendo anche un esame finale online. Il «New York Times» ha consacrato il movimento dichiarando il 2012 «l’anno dei Mooc», mentre le università di tutto il mondo, comprese quelle italiane, hanno cominciato a seguire questa rotta. Solo che, nel frattempo, Thrun si è accorto che le cose non funzionavano e ci ha ripensato. O, almeno, ha deciso di correggere il tiro. Questi corsi offerti liberamente al pubblico, ha spiegato qualche settimana fa alla rivista «Fast Company», hanno un problema: «Guardando i risultati conseguiti dagli studenti mi sono reso conto che il prodotto che offriamo è abbastanza schifoso».  Cosa è successo? Che mentre veniva lodato da Thomas Friedman e da altri celebri commentatori per aver aperto, insieme all’altro grande precursore, Salman Khan, una strada che ha già consentito a un milione e 600 mila ragazzi di tutto il mondo di seguire corsi di alto livello online, Thrun si è accorto che i risultati accademici fin qui conseguiti sono deludenti. Un anno fa Thrun aveva proposto un programma di collaborazione al governatore della California, Jerry Brown, che si era lanciato entusiasticamente nell’impresa. Ne era nata un’alleanza tra Udacity e la San Jose State University, l’accademia pubblica (30 mila studenti) della capitale della Silicon Valley. Nobile l’obiettivo: realizzare il sogno dell’istruzione di alta qualità messa gratuitamente a disposizione dei figli delle famiglie più povere.  Detto, fatto: corsi online da 150 dollari tutto compreso offerti agli studenti provenienti dai licei delle zone più disagiate della California. Molte le iscrizioni, ma già nel primo programma-pilota di matematica, necessario per mettere i ragazzi in condizioni di affrontare i corsi universitari, solo il 25 per cento ha passato l’esame. Cosa ancora peggiore, gli analisti di Thrun si sono resi conto che uno studente che studia algebra in un vero «college» ha il 52 per cento di possibilità in più di passare l’esame rispetto a chi frequenta una classe digitale di Udacity.  A quel punto Thrun ha chiesto un’analisi a tappeto che ha dato risultati sconcertanti: sono pochissimi i ragazzi impegnati nei corsi online che arrivano fino in fondo. Udacity usa le strategie pedagogiche più sofisticate per stimolare l’attenzione dei suoi studenti digitali, ma quelli che superano l’esame finale sono appena il 7 per cento. Conferma uno studio recentissimo della University of Pennsylvania: solo la metà degli studenti che si iscrivono a un corso digitale seguono al computer almeno una lezione e solo il 4 per cento del totale completa il corso.  Delusione immensa per chi si era illuso di essere entrato nell’era dell’istruzione democratica, offerta gratuitamente negli angoli più remoti del mondo: quelli che ce la fanno in rete sono pochi e quasi sempre hanno già alle spalle un buon bagaglio di conoscenze accademiche. Sempre secondo le analisi della University of Pennsylvania, l’80 per cento di coloro che seguono attivamente i Mooc hanno già conseguito un qualche titolo di studio di livello universitario.  Delusione, ma anche sospiri di sollievo dei grandi atenei, un’industria che negli Stati Uniti fattura ben 400 miliardi di dollari e che temeva di essere spazzata via dalle nuove università virtuali e gratuite. Ma la storia dell’insegnamento online non è affatto finita: mentre Thrun modifica l’impostazione di Udacity che abbandona i sogni democratici dedicandosi sempre più a corsi di formazione continua, digitali e a pagamento, spesso sostenuti da grandi aziende e utilizzati anche per l’aggiornamento tecnologico del personale, le grandi accademie americane continuano a scommettere sull’insegnamento universitario via internet.  La paura di vedere le «cattedrali del sapere» rottamate, come vecchi stabilimenti siderurgici, è passata: ci si sta rendendo conto che nella scuola il contatto diretto studente-insegnante è insostituibile. Che oltre a lezioni ed esami sono importanti i colloqui coi docenti, l’ambiente sociale dell’università, il sistema di relazioni di studio e professionali che si sviluppa attorno a un campus. Ma le università continuano ad avere un problema gigantesco: quello dei costi. Pagare più di 50 mila dollari l’anno per frequentare le migliori accademie aveva un senso quando i neolaureati avevano un posto assicurato e ben retribuito. Oggi, invece, anche gli atenei più blasonati fabbricano disoccupati. O sottoccupati che non riescono nemmeno a ripagare il grosso debito di studio (a volte anche 200 mila dollari) accumulato negli anni.  Molte università, incapaci di tagliare i loro costi, pensano che un modo per spendere meno possa essere proprio quello di sostituire una parte delle lezioni tenute da docenti in carne ed ossa con corsi online. Per i quali si sperimentano metodi più coinvolgenti di comunicazione cercando di applicare teorie nuove (e non da tutti condivise) come quella del connettivismo pedagogico. Insomma, archiviata l’illusione dell’istruzione democratica per tutti, i Mooc provano a reinventarsi.  ____________________________________________________________ Repubblica 20 Dic. ’13 LA MEMORIA PERDUTA DELLA SCIENZA COSÌ SI CANCELLANO I DATI DIGITALI Si decifra un codice antichissimo, ma non si possono più leggere gli esperimenti recenti. Accade persino alla Nasa E molte volte i supporti sono inutilizzabili ELENA DUSI Riusciamo a leggere il codice di Hammurabi ma non i dati raccolti da Viking sulla Luna. La Nasa infatti ha perso la capacità di decifrare una parte dei bit inviati dalla sua sonda nel 1976. Né l’agenzia spaziale americana soffre da sola per il problema dell’invecchiamento di software e supporti digitali. Per l’80% delle ricerche condotte nel 1991 i dati sono andati persi. L’ha calcolato un gruppo di biologi dell’università della British Columbia, a Vancouver, che ha preso in esame 516 articoli scientifici pubblicati tra il 1991 e il 2011 su piante e animali. Studio per studio, i ricercatori hanno cercato di ripescare i dati su cui le pubblicazioni erano basate. E si sono ritrovati a mani vuote 4 volte su 5. Se la scienza va avanti salendo sulle spalle dei giganti, le basi del passato sembrano ormai poggiare sull’argilla. Qualcuno l’ha chiamato il “medio evo digitale”. Lo stesso fenomeno che rende illeggibili foto e video di famiglia di una manciata di anni fa sta erodendo i pilastri della scienza, sempre più fondata su grandi esperimenti e capace di raddoppiare la mole di dati prodotti ogni due anni. «Accade spesso che un esperimento sia irripetibile. Lasciare che i dati siano conservati solo dai suoi autori vuol dire perderli nel giro di poco tempo, quindi buttare via risorse e frenare i progressi della scienza» è il commento sconsolato di Timothy Vines, il coordinatore del sondaggio. Per non finire nello stesso buco nero di Viking, il Cern di Ginevra ha dedicato un palazzo di due piani alla memoria dei suoi esperimenti. In 80mila dischi e 50mila nastri sono preservati 100 petabyte di informazioni: mezzo secolo di fisica europea. Responsabile del Servizio conservazione dati è Alberto Pace, ingegnere proveniente dal Politecnico di Milano. «Il materiale più affidabile è il nastro magnetico. Dura a lungo, costa poco, non è soggetto a bachi devastanti e non consuma energia. Solo i dati che vengono consultati correntemente dagli scienziati sono su disco. Nel nostro centro di calcolo le procedure di controllo, aggiornamento e copiatura vanno avanti a ciclo continuo. Ogni singolo dati viene riprodotto in media ogni quattro anni. Tutto il materiale è presente in almeno due copie, conservate in luoghi diversi». Ma conservare i dati è una cosa. Riuscire a leggerli a distanza di tempo un’altra. E sempre al Cern Paolo Giubellino — che dirige l’esperimento Alice — ricorda: «Qualche anno fa abbiamo avuto la necessità di ripescare i dati di un vecchio esperimento americano. Non c’è stato altro da fare che ricostruire da zero il computer concui i risultati erano stati raccolti in prima battuta». Nel centro di ricerche di Ginevra i dati raccolti dall’acceleratore di particelle in un anno occuperebbero una pila di cd alta 20 chilometri. Per la loro ricerca, invece, gli scienziati canadesi hanno usato studi basati su banche dati molto più semplici. A differenza dei grandi esperimenti su scala continentale, gli studi condotti da piccoli gruppi di scienziati affidano la conservazione delle misurazioni a uno dei loro autori. «Ci aspettavamo delle difficoltà nel reperire informazioni di 50 anni fa. Ma scoprire che la quasi totalità dei risultati di 20 anni fa è andata persa è stata una brutta sorpresa» prosegue Vines. Ogni anno che passa dalla pubblicazione di un articolo aumenta del 7% la chance che dalla casella mail dell’autore arrivi la risposta “indirizzo sconosciuto”. E cresce del 17% la probabilità che lo scienziato abbia perso i dati, il software necessario a leggerli non sia diventato obsoleto o, in alcuni casi, perfino che l’autore rifiuti di condividere i suoi risultati. In alcuni casi i ricercatori interpellati hanno risposto a Vines e colleghi che il loro computer era stato rubato, o perfino che si trovava in soffitta a casa dei genitori. Ma la maggior parte delle volte il materiale era conservato su floppy disk o altri supporti non più leggibili dai calcolatori di oggi. Per ovviare al problema dell’obsolescenza digitale, i ricercatori di Vancouver chiedono che la rivista che pubblica l’articolo si faccia carico della preservazione dei dati, di cui in genere l’articolo pubblicato è un semplice sunto. «Solo così — conclude Vines — eviteremo di perdere materiale a ritmi tali da restare a bocca aperta, e potremo permettere alla futura generazione di scienziati di avvalersi dei risultati del passato». ____________________________________________________________ Le Scienze 19 Dic. ’13 LE 10 SCOPERTE PIÙ IMPORTANTI DEL 2013 SECONDO "SCIENCE" La rivista "Science" fa il consueto bilancio in campo scientifico dell'anno che si sta per chiudere. Le scienze biomediche sono state protagoniste con importanti risultati nell'immunoterapia contro i tumori, nella clonazione di embrioni umani, con i nanobisturi per manipolare i geni, solo per citarne alcuni. Non mancano però importanti scoperte per i raggi cosmici, che si originano dalle supernove, come dimostrato grazie al telescopio spaziale Fermi, e nuove prospettive per le celle fotovoltaiche a basso costo, a base di perovskite (red) biologiageneticaastrofisicaimmunologiatecnologianeuroscienzemicrobiologiamedicina Immunoterapia efficace contro i tumori, mini-organi artificiali e nuove tecniche di imaging per studiare il cervello, celle fotovoltaiche a basso costo e nuove prove del collegamento tra supernove e raggi cosmici: sono alcuni esempi dei risultati di grande rilievo ottenuto in campo scientifico nel 2013. Com'è ormai tradizione, a fine d'anno la rivista “Science” passa in rassegna i dieci studi che promettono di lasciare un segno nella nostra conoscenza, dal mondo estremamente piccolo a quello estremamente grande. Eccoli qui, uno per uno. 1. Immunoterapia contro i tumori. La ricerca sul cancro è forse quella che in ambito biomedico ha più deluso le aspettative negli ultimi decenni, con risultati tutto sommato modesti rispetto ad annunci e previsioni forse un po' troppo ottimistiche. Il 2013 ha però mostrato che la strada dell'immunoterapia potrebbe essere finalmente quella giusta. L'immunoterapia definisce innanzitutto un nuovo paradigma di cura, perché ha come obiettivo non tanto la massa tumorale in sé ma il sistema immunitario del malato, che viene “ingegnerizzato” per reagire al cancro. L'idea viene da lontano, dalla fine degli anni ottanta, quando vennero identificati sulla superficie dei linfociti T, cellule del sistema immunitario, specifici recettori chiamati CTLA-4. Pochi anni dopo, l'immunologo James Allison, ora all'Anderson Cancer Center di Houston, scoprì che questo recettore mette un freno all'azione del sistema immunitario. Il blocco di CTLA-4, si pensò, avrebbe consentito all'organismo di lanciare un attacco immunitario di notevole portata e intensità contro il tumore. Nei primi anni novanta, un gruppo di ricercatori giapponesi ha identificato un altro “freno” del sistema immunitario, denominato PD-1. La ricerca in questo campo ha subito poi un'accelerazione nel 2011, con la terapia dell'antigene chimerico (CAR), che viene attualmente testata in numerosi trial clinici. Le aziende farmaceutiche, prima caute, stanno investendo somme considerevoli sull'immunoterapia: Bristol-Myers Squibb ha ottenuto risultati incoraggianti sul melanoma metastatico, grazie all'associazione del trattamento anti-CTLA-4 con il farmaco ipilimumab. Quest'anno finalmente anche gli scettici si sono convinti dei risultati delle numerose sperimentazioni cliniche. Risultati che tuttavia sono solo un punto d'inizio per una nuova strada. Per continuare a percorrerla, occorre trovare biomarcatori che permettano dI identificare i pazienti che possono beneficiare al meglio dell'immunoterapia. 2. CRISPR, il bisturi genetico. Cinquanta pubblicazioni in dieci mesi: è in pieno sviluppo lo sfruttamento di una nuova tecnica che permette di attivare, disattivare o sostituire geni con grande precisione e facilità. Questa specie di nanochirurgia genetica, denominata CRISPR (daClustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats), resa possibile da un “nanobisturi” scoperto di recente: si tratta di una proteina batterica denominata Cas9, accoppiata a una sequenza di RNA. 3. Celle solari a perovskite. Una nuova generazione di celle fotovoltaiche, più economiche e facili da produrre rispetto a quelle tradizionali in silicio, sono basate sulla perovskite, un minerale composto da ossigeno, titanio e calcio. Il tallone d'Achille di questa tecnologia è sicuramente l'efficienza, che attualmente non supera il 15 per cento, contro il 20-25 per cento delle celle tradizionali. Ma era del 3,8 per cento solo quattro anni fa, e c'è da scommettere che migliorerà ancora, grazie al forte sviluppo di cui è protagonista. 4. Progettare vaccini con la biologia strutturale. La possibilità di osservare e manipolare le molecole con precisione sempre più grande sta dando i suoi frutti anche nel campo della progettazione di vaccini. A maggio, un gruppo di ricercatori dello statunitense National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) ha tracciato nei minimi particolari il meccanismo di azione di un anticorpo in grado di legarsi a una specifica proteina, denominata proteina F, sulla superficie del virus respiratorio sinciziale (RSV), e di inibire così l'infezione da parte di questo virus che nel mondo uccide circa 160.000 bambini ogni anno. A novembre, lo stesso gruppo di ricerca ha dimostrato che il risultato ottenuto in precedenza può essere sfruttato per progettare una proteina F da usare come immunogeno, il principale componente di un vaccino. Le prime sperimentazioni fanno ben sperare che sia questa la strada giusta per trovare un vaccino contro l'RSV. 5. CLARITY, il cervello trasparente. Non poteva che chiamarsi "chiarezza" (clarity, in inglese) una nuova tecnica diimaging che rende il tessuto cerebrale trasparente e quindi i neuroni e le altre cellule cerebrali perfettamente visibili. Questo risultato, che rappresenta un progresso notevole per le neuroscienze, è reso possibile dalla rimozione delle molecole lipidiche che costituiscono le membrane cellulari dei tessuti cerebrali, molecole che diffondono la radiazione luminosa rendendo meno nitide le immagini. Questa nuova tecnica permette di sostituire i lipidi con un gel trasparente, lasciando intatto il resto delle strutture cellulari. Chiaramente, si tratta di un processo di preparazione che può essere effettuato solo post mortem.  6. I mini-organi. Abbozzi di fegato, mini-reni e anche cervelli: sono questi i minuscoli “organoidi” che ora è possibile realizzare in vitro, come hanno dimostrato alcune ricerche pubblicate nel 2013. Lasciate in un terreno di coltura senza ulteriori interventi esterni, le cellule staminali pluripotenti indotte (iPS), ottenute riprogrammando cellule adulte allo stato staminale, crescono in modo incontrollato, formando una massa disorganizzata di cellule cardiache, neuroni, denti e peli. I ricercatori hanno però capito come dirigere il differenziamento delle staminali in tessuti strutturati, fino a riprodurre organoidi con alcune funzionalità tipiche degli organi pienamente sviluppati. Se si guarda in prospettiva, si tratta probabilmente del primo passo sulla lunga strada verso la realizzazione di organi funzionali che possano servire da “pezzi di ricambio” per animali ed esseri umani. Ma ci sono vantaggi molto più immediati. I mini-cervelli per esempio hanno consentito di chiarire alcuni meccanismi cruciali della microcefalia, una condizione patologica in cui il cervello non raggiunge un pieno sviluppo.  7. Raggi cosmici dalle supernove. Dopo tanti anni di ipotesi e prove parziali, finalmente nel 2013 è arrivata la conferma, grazie a uno studio con una forte partecipazione italiana e basato sulle osservazioni del telescopio spaziale Fermi della NASA che scruta il cielo nei raggi gamma: i raggi cosmici che colpiscono la Terra provengono dalle supernove, le esplosioni che interessano le stelle giunte al termine del loro ciclo vitale. Ricostruire il loro percorso all'indietro fino alla sorgente non è stato facile. I protoni, che costituiscono la quasi totalità dei raggi cosmici, sono particelle elettricamente cariche, quindi sono deviate dai campi magnetici. La strategia degli scienziati è stata quindi la ricerca della “firma" nei processi che seguono l'emissione dei protoni. Ogni supernova produce protoni che vengono accelerati dall'onda d'urto che accompagna l'esplosione di supernova. I protoni poi si scontrano tra di loro, producendo altre particelle elementari chiamate pioni, le quali a loro volta vanno incontro a un processo di decadimento, con la produzione di coppie di fotoni di alta energia. Questi ultimi sono stati rilevati proprio da Fermi nello spettro di radiazione dei resti di due supernove denominate IC 433 e W44 nella nostra galassia. 8. Embrioni umani clonati. Il 2013 è stato un anno cruciale anche nel campo della ricerca sulle cellule staminali, uno studio ha dimostrato infatti di aver clonato embrioni umani e di averli usati come fonti di queste cellule. La tecnica impiegata nello studio, denominata trasferimento del nucleo di cellule somatiche (SCNT), è la stessa usata per clonare la pecora Dolly nel 1996 e successivamente ripetuta su topi, maiali, cani e altri animali. Ma non è mai riuscita nell'essere umano, se non per la produzione di embrioni di scarsa qualità, non in grado per esempio di produrre cellule staminali. Nel 2007 però un gruppo dell'Oregon National Primate Resarch Center a Beaverton clonò, proprio con la SCNT, embrioni di scimmia in grado di produrre staminali, dimostrando che nei primati è fondamentale il ruolo della caffeina. Questa sostanza sembra infatti in grado di stabilizzare le molecole cruciali negli ovociti umani. Ora la SCNT si è dimostrata efficace anche nell'uomo, ma quanto sarà utile per la ricerca biomedica? È la domanda ricorrente, considerando che la riprogrammazione di cellule somatiche adulte in cellule staminali pluripotenti è una tecnica alternativa per ottenere cellule staminali affidabile e non gravata da questioni etiche, come invece la clonazione. 9. Perché dormiamo? Per lasciare spazio alle "pulizie". Uno studio sui topi ha dimostrato che il cervello ha un sofisticato sistema di autopulizia, che sfrutta l'espansione in volume di una rete di canali tra i neuroni che permette al liquido cerebrospinale di scorrervi in misura maggiore. Questo processo permette di smaltire prodotti di scarto come le proteine beta amiloidi e avviene con maggiore efficienza durante il sonno, con una diminuzione delle dimensioni delle cellule fino al 60 per cento, che lascia più spazio ai canali. Questo risultato suggerisce che l'effetto ristoratore del sonno sia legato almeno in parte a questo meccanismo di smaltimento dei prodotti di scarto del metabolismo, con potenziali implicazioni per la il mantenimento della funzionalità cerebrale. Anche se saranno necessarie conferme sperimentali da studi su altre specie e soprattutto sull'essere umano, l'idea delle "pulizie notturne" spiegherebbe anche perché la deprivazione di sonno è un fattore di rischio per lo sviluppo di patologie neurologiche. 10. Un universo batterico nel nostro organismo. il corpo umano contiene mille miliardi di cellule batteriche, ospitate per lo più nell'apparato digerente e in particolare nell'intestino, che formano quello che viene chiamato biota. Gli scienziati stanno chiarendo molti processi utili al mantenimento dello stato di salute, soprattutto quelli coinvolti nel processi di digestione e delle difese immunitarie, che coinvolgono proprio il biota intestinale. Alcune terapie antitumorali, per esempio, necessitano del buon funzionamento dei microrganismi del nostro intestino per essere efficaci, come dimostrato quest'anno da uno studio pubblicato su "Nature". Altri collegamenti prima sconosciuti riguardano la mancanza di specifici ceppi batterici e l'insorgenza di un tumore del fegato riscontrato con più frequenza nei soggetti obesi, come dimostrato in due studi pubblicati su "Science". In futuro, la medicina sempre più personalizzata dovrà tenere conto di questo universo batterico che alberga nel nostro intestino. ____________________________________________________________ Repubblica 22 Dic. ’13 CARTA CANTA: IL CERVELLO PREFERISCE IL LIBRO, Il partito di Gutenberg non si rassegna all’elettronica Il cervello preferisce il libro, dicono alcuni scienziati. L’ebook si è fermato persino negli Usa. E in Italia frena il ministero dell’Istruzione MICHELE SMARGIASSI L’ultimo supporto tecnologico per l’apprendimento si chiama Bio-Optical Organized Knowledge, è compatto, portatile, funziona a luce solare, contiene enormi quantità di informazione accessibili grazie a unplug-indetto “indice” e mantenute in sequenza da un device detto “rilegatura”, ha loswitch-on automatico all’apertura della “copertina” e si sfoglia in modalità touch...Che gran trovata, questo B.O.O.K. E che tenacia, il partito di Gutenberg che non si rassegna alla lettura elettronica. Quest’apologia ironica del libro tecnologicamente avanzato, avvistata e tradotta da Stefano Bartezzaghi, gira da tempo in rete. Ma la lobby delle pagine ha armi più serie, e può vantare risultati concreti. Nell’impero dei gadget, il Giappone, 61 lettori su cento non hanno interesse a comperare unebook. Negli Usa, dove uno su tre possiede un tablet o un ereader, la vendita di libri digitali si è fermata da un anno sulla soglia del 30 per cento dei titoli e del 15 per cento delfatturato. Qualcosa vorrà anche dire il precipitoso ritorno su carta, fra pochi giorni, del Newsweek, ilmagazine americano migrato su schermo due anni fa. E ancora: quasi due adolescenti su tre, in Inghilterra, preferiscono i libri stampati perché «mi piace tenerli in mano» e «li puoi prestare agli amici». La lettura come esperienza materiale e fisica è, per il linguista americano Andrew Piper, il primoatoutdella resistenza cartacea: nel suoIl libro era lì: la lettura nell’era digitaletraccia una teoria del libro di carta come “oggetto affidabile” e fa l’elogio della sua “finitudine” di oggetto fisico. Per finire, nel numero di novembre dell’edizione americana, Scientific American lancia l’ultimo sasso in piccionaia con sei pagine che sotto il titolo «Perché il cervello preferisce la carta » ricapitola studi che sostengono come «la carta abbia ancora i suoi vantaggi», di vario genere. Un testo letto su un libro, sostiene l’articolo, è come un paesaggio che l’occhio percorre e la mente memorizza topograficamente, gli otto angoli della pagina come punti cardinali: spessoricordiamo di una citazione che «era a destra in basso». Mentre “scrollando” la colonna della lettura a schermo il paesaggio si fa uniforme e la bussola impazzisce. Allora la patria dell’ebook s’è già pentita? «Questi colpi di freno vengono dall’America, dopo un’indigestione di tecno-lettura, ma sono aggiustamenti, cautele di chi è andato molto avanti », spiega Paolo Ferri, docente di tecnologie didattiche alla Bicocca: «in Italia, dove non abbiamo neppure preso il biglietto d’andata, non avrebbe senso cavalcare già l’onda di ritorno... ». Il fatto è che le cautele dei gutenberghiani d’America da noi piovono come benzina sul fuoco di una sfida politico-pedagogica accanita. È in corso da mesi un braccio di ferro tra editori, industria informatica e governo che ha per campo di battaglia un servizio delicatissimo, la scuola, e per posta un mercato enorme, quello dei libri di testo. Lo scenario è noto: l’attuale ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, ha sconfessato la fretta digitale del suo predecessoreFrancesco Profumo, che aveva fissato per quest’anno scolastico l’addio definitivo al libro di carta e il passaggio al tutto-elettronico; lo ha fatto in nome di un approccio “graduale”, che di fatto però lascia sui banchi quel che già c’è da alcuni anni: un ibrido multiforme di carta, cdrom, collegamenti Web, lavagne elettroniche, laptop e (pochi)tablet, in variabilissima e soggettiva mistura. Un convegno promosso dalla Normale di Pisa lo scorso novembre doveva stipulare una pace cooperativa fra le parti, ma ha solo constatato le differenze fra gradualisti e impazienti. Tra questi, scatenato è Agostino Quadrino, editore digitale indipendente: «Altro che gradualità, dobbiamo recuperare terreno. I ragazzi già apprendono il mondo su canali digitali. L’editoria scolastica tira il freno perché non è pronta e ha paura di perdere il mercato. Ma il libro di testo cartaceo, se ha avuto un ruolo quando la cultura era un bene scarso ed elitario, oggi è imposizione di uniformità, un modello autoritario di sapere». «Noi siamo pronti, e lo siamoda quando nessuno ce lo chiedeva », ribatte con energia Giuseppe Ferrari, direttore editoriale della Zanichelli. «Non produciamo solo pdf dei libri di carta, abbiamo elaborato contenuti e schemi mutimediali, laboratori interattivi, tutorialonline, tutto fornito gratuitamente a chi compra il libro di carta. Noi eravamo pronti anche nell’ipotesi Profumo. Ma la scuola è pronta? ». E qui apre una tabella sul suo pc: «Ecco, nel 2012 abbiamo venduto 1,2 milioni di libri multimediali. Sa quanti studenti hanno scaricato i contenuti digitali inclusi? Solo 23 mila. Il due per cento. Un decreto ministeriale non basta, il digitale non è una bacchetta magica che risolve i problemi della scuola, finché a scuola non si afferma un paradigma didattico che è ancora tutto da inventare». Se la scuola frena, la società non accelererà. Alla fine il campo dove il libro digitale, non solo scolastico, deve vincere la sua prima battaglia sembra essere quello, l’aula. Dove alcune esperienze d’avanguardia non compensano una realtà di edifici in cui Internet a banda larganon c’è, ilwi-finon ne parliamo, e una legge di stabilità che stanzia pochi milioni per ovviare. Un sistema scolastico «dove seicentomila insegnanti di età media elevata, spesso bravi e preparati, sono disincentivati ad aggiornarsi», insiste Ferri. Che ne ha anche per gli editori, però: «Hanno fatto passi verso il digitale, ma diseguali, timidi e spesso volutamente di bassa qualità, per sfiducia verso le capacità di chi li dovrebbe utilizzare in classe ». Byte contro carta: messa così sembra una querelle tra antichi e moderni. Andrebbe forse letta alla luce di McLuhan, come una faglia storica fra media concorrenti. A Pisa il pedagogista Roberto Maragliano ha messo in guardia: «Non è una sfida tra tecnologia e natura, anche la stampa è una tecnologia». Quando una tecnologia nuova ne sfida una precedente, le ruba molte funzioni, ma gliene lascia alcune, che la vecchia sa ancora “fare meglio”. Un’equazione, sostengono molti docenti di matematica, la risolvi più velocemente con carta e matita che sullo schermo. Date tempo agli ingegneri dei software e non sarà più così, replicano i tecnoentusiasti. Ma questo significa che non sappiamo ancora, per riprendere la profezia di Victor Hugo sul libro stampato di fronte al libro di pietra che era la cattedrale gotica, quando «questo ucciderà quella». Secondo Paolo Ferri, docente alla Bicocca, gli aggiustamenti in America seguono anni d’indigestione da tecno-lettura Il terreno dove il digitale vuole vincere la sua sfida è la scuola Ma nei nostri istituti non c’è né banda larga né wi-fi  ____________________________________________________________ Repubblica 22 Dic. ’13 DAI TOMI AI BIGLIETTI LÌ C’È LA NOSTRA STORIA ANTONELLO GUERRERA Parla Ian Samson, autore di un saggio sul ruolo secolare di un materiale che molti danno per finito In Giappone esiste un’espressione,yokogami-yaburi. Significa strappare un foglio di traverso. Ma anche, in senso idiomatico, «perversione ». La carta, insomma, è sacra, anche in un paese così tecnologico. Non potremo mai farne a meno, perché «chi brucia i libri finirà per bruciare gli uomini», ammoniva Heine nell’Almansor. E, nonostante ladigital revolution, ne utilizziamo sempre di più. Tanto che, dal 1980 a oggi (dati dell’Economist), il consumo di carta nel mondo è cresciuto del cinquanta per cento. Ecco dunque L’odore della carta(Tea), un’acuta, schietta e millenaria elegia di questo antichissimo materiale a cura dello scrittore inglese Ian Sansom. Certo, magari oggi non avremo la carne «ricoperta di pergamena», come annotava Sartre nel 1963. E poi adesso i politici cinguettano su Twitter, invece di sventolare un foglio al cielo come fece Chamberlain, prova del funesto appeasementnazista del 1938. Ciononostante,sostiene Sansom, solo la carta riesce a dare un senso al mondo. «E l’uomo, senza di essa, perderebbe la sua identità». E perché, Sansom? «Perché è la vera prova della nostra esistenza. E la pervade in ogni suo momento. L’uomo e la carta incarnano un connubio indissolubile. Dal 105 d.C., quando il cinese T’sai Lun annuncia il processo della sua produzione, a Gutenberg. Libri, contratti, leggi, mappe, appunti, documenti: è tutta roba che sarà molto difficile sostituire in futuro. La carta resta uno dei materiali più economici, durevoli, flessibili, oltre che di sterminata diffusione. Dobbiamo amarla e rispettarla, come diceva William Turner. Sa, ogni giorno leggo della morte dei libri. Ma la sera, quando vado a letto e svuoto le tasche dei pantaloni, mi accorgo che sono stracolmedi carta». Ecco, i libri. Che ne sarà di loro? «Vivranno ancora a lungo, molto a lungo. Non a caso sono l’anima degli ebook reader e dei nuovi dispositivi elettronici. Che, se nota bene, altro non fanno che copiare la carta, nel formato e nelle funzioni. Oggi questi nuovi aggeggi non sono né carne né pesce – oltre che per certi versi mostruosi. Siamo molto lontani da scenari di esperienze augmented come i “superfilm odorosi” del Mondo Nuovo di Huxley. La vera era digitale è ancora molto lontana.Siamo solo agli inizi». E allora che epoca è la nostra? «Per fare un paragone, mi sembra molto simile al periodo 1455-1510, quando nessuno sapeva che cosa avrebbero generato le nuove tecnologie di stampadi Gutenberg. L’altra rivoluzione poi sarebbe arrivata solo nel XIX secolo». Difatti lei nel libro sostiene che molte “rivoluzioni” dello scorso millennio, da quella protestante a quella scientifica, dalla caduta dell’ancien régime a quella della Cortina di ferro, sono avvenute grazie alla circolazione dei libri. Tuttavia, anche quella digitale è una grande rivoluzione, non trova? «Lei dice? Io non sono così ottimista. A volte ho l’impressione che Internet sia dominato da grandi aziende ed estremisti. La circolazione delle idee su carta sarà anche più lenta. Ma il pensiero ha bisogno di tempo». A questo proposito, colpisce lo studio nipponico – che lei riporta nel libro – sulle differenze tra i pedoni che usano mappe di carta e quelli che si affidano agli smartphone. Questi ultimi commettono molti più errori di orientamento. Il che sembra l’assurdo contrappasso delle mappe cartacee e gigantesche inDel rigore della scienza di Borges. «Esatto. Ma il problema è più ampio. La conoscenza “cartacea”, che ci accompagna da duemila anni – e in forma di libro da circa cinquecento –, si è sempre basata sull’essenzialità. Nel senso che dobbiamo cercarle noi le informazioni, perché la conoscenza è fatica. Ora, con le nuove tecnologie, la conoscenza è così a buon mercato che abbiamo tutto sui cellulari. Ottimo, direte voi. Una catastrofe, aggiungerei io. Oggi sappiamo il prezzo di tutto, ignorandone però clamorosamente il valore». E che valore avranno i libri di carta in futuro? «Le edizioni economiche probabilmente scompariranno, soppiantate dagli ebook. Ma sempre più editori stanno riscoprendo il pregio e la cura delle loro nuove uscite. Perché un libro di carta ne vale due di ebook. Se ne sono accorti anche i teenager inglesi. Perché un libro lo possiedi, occupa spazio, lo puoi guardare. E ti guarda anche lui. È un oggetto, anzi, è una persona. Gli ebook non si possono neanche prestare. Mentre il libro di carta è un oggetto di scambio, per condividere cultura e conoscenze. Oltre che un baluardo contro chi vorrebbe riscrivere la storia. Questa è la sua grande forza». Almeno, però, gli ebook non consumano carta. «E io le rispondo: la produzione di un ebook reader le pare che rispetti l’ambiente? Tutta la nostra vita è poco ecologica. L’importante è fare un utilizzo saggio delle risorse che ci restano. Riciclare carta. Riutilizzarla. E rispettarla. Noto che molte università stanno cercando di rinunciare alla carta. Ma sbagliano. Così rischiano di autodistruggersi». ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 Dic. ’13 CLIC, E SIAMO MENO INTELLIGENTI Lo studio di Manfred Spitzer sfata molti miti sulle qualità dell'apprendimento con i nuovi strumenti. Al contrario sarebbero quasi tutti nocivi in termini di tempo e anche di qualità Roberto Casati Se c'è un libro che va letto tra i tanti apparsi negli ultimi mesi sulla questione della società digitale e in particolare sull'introduzione massiccia del digitale a scuola, è quello di Manfred Spitzer. (Mi auguro che sia già sul tavolo della Ministra Carrozza, che da scienziata conosce il significato e i criteri di una ricerca sperimentale e immagino interessata a una politica evidence based per la scuola.) Spitzer offre una rassegna completa delle ricerche sperimentali sull'uso di schermi e apparecchi digitali in genere nell'apprendimento. Potrei riassumere il libro con uno slogan. Le nuove tecnologie non ci rendono stupidi: ci impediscono di diventare intelligenti. Spitzer prende l'avvio dal problema della demenza senile e dei suoi enormi costi per la società. Sembra che si parta da lontano, ma la constatazione è semplice. La demenza, la perdita della mente, è una discesa. Quanto in basso si scende dipende da quanto in alto si era saliti. Quanto in alto si era saliti dipende a sua volta da quanto si è imparato nel corso della vita, e in particolare nell'infanzia e adolescenza. Siamo nati per imparare, ma dobbiamo rispettare alcuni vincoli imposti dalla struttura del cervello e dalle fasi della sua maturazione. Le ricerche degli ultimi anni mostrano quanto i media digitali siano distanti dall'optimum pedagogico, se non controproducenti. Per esempio, non possiamo imparare una lingua da un televisore: i Teletubbies fanno regredire le comptenze linguistiche. I programmi di brain train non servono a nulla se non a ingannare il tempo (serve di più fare jogging). L'uso intensivo dei social network tende a isolare gli adolescenti, a creare sentimenti negativi, e disturba il sonno che è un fattore chiave per l'apprendimento. Il multitasking (o meglio, task switching) intensivo, contrariamente a ogni aspettativa, favorisce la tendenza a lasciarsi distrarre da stimoli irrilevanti. Scrivere a mano aiuta a imparare a leggere, mentre usare un'interfaccia digitale rallenta l'apprendimento della lettura: un clic con un mouse o su un'icona è un gesto senza struttura. Imparare a contare sulle dita facilita l'apprendimento della matematica. Il computer a casa sottrae tempo ai compiti e alla lettura e porta a una netta diminuzione dei risultati scolastici. Un'interazione manipolativa con cose materiali è fondamentale per lo sviluppo di un cervello che è per un terzo dedicato al l'azione e per un altro terzo alla visione. Lo sviluppo dell'autocontrollo e della capacità di organizzarsi sono ritardati dalla possibilità di ottenere tutto e subito con un clic. Sono invece favoriti dal bilinguismo (il cervello del bilingue deve sapere in ogni istante che non deve usare un vocabolo dell'altra lingua). Per chiudere il cerchio, il multilinguismo è un fattore ritardante nell'insorgenza della demenza senile. Questo dato da solo dovrebbe far pensare a lungo i politici. Invece di buttare al vento (mi rifiuto di usare il termine «investire») i denari pubblici per comprare materiali come le Lim e tablet si dovrebbe investire nell'assunzione di insegnanti madrelingua e promuovere l'inglese o lo spagnolo veicolare.  I fautori del digitale massiccio a scuola pensano che questo permetterebbe quantomeno di educare alla «competenza digitale». Ma anche questo è un miraggio. La differenza tra me e un liceale è che io so fare una ricerca utile di informazioni perché so già un sacco di cose in genere e ho competenze altamente specializzate nel mio settore, che mi mettono a disposizione svariate euristiche per capire se quello che trovo è robaccia o oro colato. Se poi devo informarmi su un soggetto che non conosco, un'ora di lavoro serio su un motore di ricerca mi porta da un articolo di wikipedia alle fonti secondarie e da entrambi alle fonti primarie. Quando arrivo alle fonti primarie, mi aiuta una lunga dimestichezza con altre fonti primarie – devo già leggere ogni anno centinaia di articoli da riviste specializzate e rapporti, conosco la differenza tra uno studio e una ricerca, so come si misura la significatività di un dato, o come è fatto un argomento valido. Ma non c'è una competenza «generica» di utilizzo della rete come miniera di informazioni, e meno che mai una competenza «magica» che si instaurerebbe per il semplice fatto di avere tra le mani un tablet con l'accesso alla rete. Anzi, siamo chiaramente al punto in cui l'uso del digitale allontana i nostri figli dalla possibilità di crearsi proprio quella base solida di competenze che permetta loro di capire come distinguere il grano dal loglio. La stampa ama le guerre di opinione e i dibattiti. I poteri pubblici devono comportarsi con responsabilità, guardare i dati, e verificare se chi vuole vendere tecnologia ha dalla sua dati solidi. Non ci sono conferme empiriche dell'efficacia didattica dei nuovi media, soltanto narrazioni. E ci sono ormai molti dati empirici che indicano con forza che i nuovi media digitali farebbero meglio a stare fuori dalla scuola o a entrarci con grandissima prudenza, se vogliamo veramente una «società fondata sulla conoscenza», e non creare una o due generazioni con un ritardo nell'apprendimento che minaccia di essere irrecuperabile.  Manfred Spitzer, Demenza Digitale, Corbaccio, Milano, pagg. 332, € 19,90 ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Dic. ’13 I PERICOLI PER LA SCUOLA DELLE NUVOLE VIRTUALI Alcuni distretti scolatici americani, come quello di Hillsborough, in New Jersey, stanno introducendo in via sperimentale materiali di Google — tablet Nexus 7, applicazioni dedicate, una versione di Google Play modificata per le scuole — in tutte le classi dal «kindergarden» alla quarta elementare: un’iniziativa che rivoluziona il modo d’insegnare e il rapporto dei bambini con l’apprendimento. Esperimento interessante e, certo, non unico: sono moltissime le scuole che hanno già adottato gli iPad della Apple mentre da anni Bill Gates finanzia con la sua fondazione filantropica, oltre alla lotta alle malattie endemiche in Africa, anche quella contro il decadimento del sistema scolastico Usa. Che lui cerca di rilanciare, a partire dallo Stato di Washington (quello della sua azienda), con potenti iniezioni di software . Soprattutto quello firmato Microsoft, ovviamente.  Ancora una volta iniziative interessanti, sostenute da uno sforzo d’innovazione sicuramente ammirevole. Ma anche una rivoluzione tecnologica e culturale che rischia di provocare disorientamento e danni di lungo periodo per via di una gestione piuttosto casuale delle nuove soluzioni. Dietro le quali non c’è quasi mai una riflessione approfondita da parte dei responsabili scolastici sull’impatto che l’universo digitale sta avendo sulla formazione dei ragazzi e sui programmi scolastici. A proporre, sviluppare e incanalare, sono le aziende digitali: le società della Silicon Valley sono i soggetti che ne sanno di più, quelli più in grado di guardare lontano, è vero. Ma i loro interessi non possono coincidere con quelli dei responsabili di un sistema scolastico.  Una conferma viene da un altro caso che investe, ormai, gran parte del mondo dell’istruzione Usa. Parliamo dell’elaborazione dei dati degli istituti e di quelli dei risultati degli studenti, ormai trasferiti in un universo impalpabile. I dati, in sostanza, emigrano dai vecchi registri cartacei alle cloud : quelle nuvole virtuali zeppe di informazioni che continuano a moltiplicarsi nell’etere fino a diventare l’archivio digitale delle nostre vite. Nulla di strano se lo fanno anche le scuole. Ma ora quelle nuvole sono in mano ad aziende informatiche che non fanno mistero di voler realizzare profitti utilizzando i dati degli studenti. Dati che vengono depositati nella cloud senza alcuna precauzione né garanzie circa il rispetto della privacy degli allievi. Qualche giorno fa la stampa Usa si è improvvisamente accorta di questa nuova minaccia: ha scoperto, ad esempio, che solo nel 7 per cento dei casi le scuole che affidano dati a società private chiedono loro di non venderli. La cosa curiosa è che la scoperta non è venuta da un’indagine giornalistica né da un’iniziativa ministeriale o da un garante della riservatezza. No: tutto nasce da un’indagine della Fordham University, l’accademia dei gesuiti Usa. Dopo la pubblicazione dello studio si sono mossi in tanti. Per gli attivisti dello «Student Privacy Project» quella di affidare i dati a società private è una scelta «priva di basi legali e tecniche» mentre Microsoft, che ha cofinanziato la ricercadella Fordham, riconosce che il problema è reale, ma vorrebbe che a risolverlo fossero le stesse aziende con l’autoregolamentazione.  ____________________________________________________________ Repubblica 18 Dic. ’13 LA STABILITÀ TAGLIA I CONTRATTI PER LE SPECIALIZZAZIONI MEDICHE. E L'Udu protesta: "Ma fondi a atenei privati" La manovra, in discussione alla Camera, prevede fondi insufficienti per i contratti nell'area medica ma garantisce una pioggia di milioni per i policlinici privati di SALVO INTRAVAIA SPECIALIZZAZIONI mediche col contagocce e finanziamenti in arrivo per i policlinici degli atenei privati. A denunciare la situazione che si prospetta con la prossima legge di Stabilità è l'Unione degli universitari. Secondo l'organizzazione studentesca quella che una volta si chiamava legge Finanziaria "prevede un drastico sottofinanziamento del capitolo di spesa relativo ai contratti di formazione specialistica dell'area medica e sanitaria, con la prospettiva di coprirne nel 2014 soltanto 2.500, a fronte di oltre 7mila necessarie. "Tutto questo è inaccettabile", dichiara Gianluca Scuccimarra, coordinatore nazionale dell'Udu. "Una simile riduzione delle risorse priverà, di fatto, migliaia di giovani medici della possibilità di specializzarsi, costituendo un blocco assurdo all'accesso alla professione; tanto più in un periodo di forti pensionamenti nel settore della sanità pubblica, che soffrirà nei prossimi anni di drastiche carenze di personale". Anche gli ordini dei medici hanno denunciato di recente la situazione. Ogni anno, a fronte di circa 7mila e 500 laureati in medicina, per le specializzazioni vengono messi a disposizione parecchi posti in meno: nel 2012/2013 appena 4.500. L'accesso è alle scuole di specializzazione è numero chiuso. E, continuando di questo passo, tra neospecializzati e pensionamenti, fra alcuni anni per curare gli italiani sarà necessario chiede aiuto ai medici stranieri. "L'Area medico-sanitaria  -  continua Scuccimarra  -  prevede già dei forti sbarramenti all'accesso universitario. Con questa politica sulla formazione post-laurea si condiziona ancora, e gravemente, il futuro dei neolaureati, degli studenti, e di tutto il sistema sanitario nazionale". Ma quello che non va proprio giù agli studenti è che il governo ha deciso di "finanziare lautamente i policlinici privati". Nella legge di Stabilità sono infatti previsti 400 milioni di euro "in favore dei policlinici universitari gestiti direttamente da università non statali". Per l'esattezza, saranno erogati "50 milioni di euro per l'anno 2014 e 35 milioni di euro annui per ciascuno degli anni dal 2015 al 2024", dice il testo del disegno di legge passato alla Camera per la definitiva approvazione.  In Italia, sono tre le università non statali che offrono un corso di laurea in Medicina: l'università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, la Libera università "Vita-Salute S. Raffaele" di Milano e l'università Campus Bio-Medico della Capitale. Di queste tre, soltanto due hanno in gestione un policlinico: il Gemelli di Roma gestito dall'università del Sacro Cuore e l'omonimo policlinico del Campus Bio-medico. Sarà il ministro dell'Economia di concerto con il collega della Salute che con proprio decreto stabiliranno "il riparto del predetto importo tra i policlinici universitari gestiti direttamente da università non statali".  ____________________________________________________________ Repubblica 19 Dic. ’13 ABBANDONO SCOLASTICO, ITALIA TRA I 5 PAESI PEGGIORI D'EUROPA I dati della Commissione Ue: nel 2012 il tasso di rinuncia all'istruzione è rimasto alto (17,6%), in controtendenza rispetto alla media continentale del 12,7%. Numeri allarmanti nel Mezzogiorno ROMA - L'Italia è tra i paesi peggiori d'Europa per abbandono delle aule: lascia i banchi troppo presto il 17,6% degli alunni, con punte del 25% nel Mezzogiorno. A renderlo noto è l'Anief (l'associazione che riunisce gli insegnanti italiani), che sottolinea come ci stiamo allontanando troppo dalla media dei 28 Paesi dell'Ue, scesa quest'anno al 12,7%, e all'obiettivo comunitario del raggiungimento del 10% entro il 2020. Sono ancora cinque le nazioni ancora molto lontane da questa meta; tra loro anche l'Italia, che per numero di 18-24enni che hanno lasciato gli studi prima del tempo è riuscita a fare peggio anche della Romania, che è al 17,4%. "Non può consolarci sapere - continua l'Anief - sempre dalla Commissione europea, che in Spagna lasciano la scuola prima del tempo, acquisendo al massimo il titolo di licenza media, il 24,9% dei ragazzi. E che anche Malta (22,6%) e il Portogallo (20,8%) sono degli esempi da evitare".  Nel quadro europeo, invece, sono sicuramente da prendere a modello quei 12 Paesi dell'Unione che hanno già raggiunto e superato l'obiettivo del 10% di dispersione, con largo anticipo. Ma anche nazioni più grandi, come Germania, Francia e Regno Unito dove, nonostante la popolazione numerosa, si è prossimi al raggiungimento della soglia.  Tornando all'Italia, la situazione risulta particolarmente critica in Sicilia, Sardegna e Campania, dove vi sono aree con punte di abbandoni scolastici del 25%. Mentre la fascia di età in cui c'è il picco degli abbandoni rimane quello dei 15 anni, quando i ragazzi frequentano il biennio delle superiori. Ma le associazioni di categoria, oltre a constatare la drammaticità dei dati, lanciano anche una polemica nei confronti delle nostre istituzioni: "L'allontanamento dall'Europa in merito alla dispersione scolastica - ha detto Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir - non è un dato casuale. Ma è legato a doppio filo ai tagli a risorse e organici della scuola attuati negli ultimi anni". In particolare, secondo l'Anief, negli ultimi sei anni sono stati cancellati complessivamente 200mila posti, sottratti 8 miliardi di euro e dissolti 4mila istituti a seguito del cosiddetto dimensionamento (poi ritenuto illegittimo dalla Consulta). "Ora -sottolinea Pacifico - siccome è scientificamente provato che i finanziamenti sono correlati al successo formativo, questi dati non sorprendono: più si taglia e più la dispersione aumenta". Dall'associazione fanno sapere anche che s'inizia a registrare un calo dell'interesse alla formazione anche in ambito universitario, con le immatricolazioni che sono scese al 30% dei neo diplomati. Anche in questo caso, polemizza l'Anief, punta il dito sulla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea. E alla perdita dei ricercatori, sempre più orientati verso l'estero. Con il risultato che il numero di giovani che oggi raggiunge la laurea rimane tra i più bassi dell'area Ue.  Come se non bastasse, poi, in Italia la spesa in istruzione è sempre più misera: tanto che (dati Ocse alla mano) il nostro Paese si piazza per investimenti nella scuola al 31esimo posto tra i 32 considerati. Solo il Giappone fa peggio di noi. Per non parlare degli stipendi degli insegnanti, tra i più bassi: con 32.658 dollari l'anno nel 2010 nella scuola primaria (contro i 37.600 della media Ocse), 35.600 dollari nella scuola media (39.400 Ocse) e 36.600 nella secondaria superiore contro 41.182 dell'area Ocse. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 22 Dic. ’13 I TEORICI DELLA COSPIRAZIONE IN 500 CONTRO LE SCIE CHIMICHE ? «Non è condensa, sono veleni con obiettivi segreti» DAL NOSTRO INVIATO MODENA — Alle 9 del mattino in piazza Sant’Agostino si rincorrono nubi bianche, figlie di una pioggia notturna da poco cessata, ma c’è chi guarda il cielo con aria accigliata e regala il primo allarme di giornata: «Quanto a scie chimiche, anche oggi non si scherza...». Massimo Ridolfi, editore, una quarantina di anni, l’aria di chi sa trasformare un marciapiede in un palco, non vuole sentirsi dare del «leader», ma è lui il capofila di tutto. Giornalisti e tv non sono apprezzati: «Occultano la verità, parlano d’altro». Meglio un’intervista cucinata in casa. L’attivista accende la videocamera e Ridolfi praticamente ci entra dentro: «Il Nuovo Ordine Mondiale (sì, con le maiuscole, ndr ) ha paura di noi. La loro forza è l’omertà, ma noi la romperemo e ridaremo consapevolezza alla gente: diremo a tutti che ci stanno avvelenando, uccidendo!». Attorno a Ridolfi ci sono 21 attivisti. Passa sferragliando un bus. Si alza un volo di piccioni. Ma sono solo le 9. A mezzogiorno saranno quasi in 500. Hanno addosso pettorine gialle con la scritta «Basta scie chimiche», qualcuno le mascherine antigas. Ci sono modellini di aerei che sparano incenso che stordisce. E slogan alla Modugno: «Per un blu dipinto di blu: contro le scie chimiche anche tu».  La notizia è che in un sabato prenatalizio di una città dinamica e con pochi grilli com’è Modena si materializzano, come uscite dal nulla, centinaia di persone (bimbi in carrozzina compresi, cagnolini a parte), pronte, gioiosamente cariche, ad invadere pacificamente le vie del centro storico per lanciare il loro grido d’allarme contro la «peste del secolo»: le scie chimiche. Un mostro, raccontano, che viene dal cielo. Lo sputano gli aerei. E sbaglia chi pensa sia innocua condensa. In realtà, denunciano Ridolfi e l’associazione «Riprendiamoci il pianeta», quei fumi che disegnano traiettorie bianche nei cieli altro non sono se non l’esito «finale e micidiale» di «un piano criminoso mondiale» che punta «ad alterare il clima per inconfessabili obiettivi economici, commerciali e pure bellici» attraverso le irrorazioni chimiche rilasciate «da aerei cisterna privi di riconoscimento». Veri e propri veleni, tipo bario, alluminio e polimeri sintetici, che si presentano con la forma di «lunghi e appiccicosi filamenti» e che «sono fonte di malattie e di mutamenti climatici dagli effetti devastanti». Una strategia occulta, di cui Nato, Usa, poteri forti e chi più ne ha più ne metta tirerebbero da sempre le fila, facendo leva sull’omertà dei mezzi di comunicazione.  Pensieri forti. Ma, a voler essere benevoli, a dir poco di nicchia. La teoria delle scie chimiche, decollata a metà degli anni 90 dagli Usa e amplificata dalla Rete e da alcune trasmissioni tv, non vanta alcun credito da parte della comunità scientifica, ha collezionato una serie infinita di smentite da governi e autorità di mezzo mondo, viene definita priva di riscontri empirici e soprattutto va a sbattere contro una banalissima obiezione: «Ma chi sarebbe così stupido da avvelenare il pianeta, avvelenando anche se stesso?». Per molti, è semplicemente una bufala. Volante, naturalmente.  Li chiamano «complottisti», Ridolfi e i suoi, gente che vede ombre ovunque. A guardarli stamane sembrano un’allegra brigata di amici. Sono organizzati, c’è pure il servizio d’ordine (due attivisti, ricetrasmittente incollata alla bocca: «Non si sa mai...»). Un corteo pacifico, colorato. Tanti giovani, molte donne. Pensionati. Studenti. Mamme con bimbi. Vengono da Udine, Roma, Firenze, Padova, Bologna, Reggio Emilia. Assortimento trasversale. Gente comune. Gli organizzatori sconsigliano le interviste alla stampa. Si parla attraverso slogan preconfezionati: ad ognuno viene consegnato una sorta di breviario da recitare. Un po’ militarizzati. Capita a chi si considera depositario di verità sconvolgenti. E drammaticamente incompreso. Si sentono sott’attacco, tutta colpa di questo Nuovo Ordine Mondiale. E allora, via, davanti alla sede dell’Arpa (chiusa il sabato) a gridare: «Bugiardi, bugiardi, basta con le scie». Poi all’Accademia dei cadetti e sotto la Ghirlandina: «Non siamo mica matti, non vogliamo il cielo a scacchi». I modenesi guardano e non tutti mettono a fuoco: «Chi è che scia?...». Ma chi lo ferma Ridolfi? «Dicono che siamo da Trattamento sanitario obbligatorio, ma noi fermeremo gli aerei della morte». Anche al cagnetto hanno messo la pettorina anti-scie: e lui, baldanzoso, sgancia la sua personalissima scia in mezzo alla via Emilia. In cielo nuvoloni bianchi, ancora. Brutto segno.  Francesco Alberti ____________________________________________________________ Le Scienze 19 Dic. ’13 USARE IL NUCLEARE PER FERMARE IL RISCALDAMENTO GLOBALE I reattori a fissione, secondo molti esperti, sono una delle poche tecnologie disponibili in grado di intervenire in tempi rapidi sull'aumento delle emissioni di gas serra, combattendo efficacemente il riscaldamento globale in atto. Ma i problemi da risolvere non mancano di David Biello Quando l'Atlantic Navigator è entrata nel porto di Baltimora, ai primi di dicembre, aveva nella stiva gli ultimi pezzi di alcuni degli ordigni nucleari accumulati dall'Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Negli ultimi 20 anni, più di 19.000 testate atomiche russe sono state smantellate e processate per ottenere combustibile nucleare destinato alle centrali degli Stati Uniti. In effetti, più di metà del combustibile a base di uranio che ha alimentato gli oltre 100 reattori statunitensi in quell'arco di tempo proveniva da armi nucleari riciclate. Ma oltre a ridurre il rischio di un conflitto nucleare, i reattori degli Stati Uniti sono serviti a tenere a bada un'altra minaccia globale: il cambiamento climatico.  L'elettricità a bassa emissione di anidride carbonica prodotta da questi reattori fornisce il 20 per cento dell'energia del paese e, secondo le stime di James Hansen, ricercatore dell'Earth Institute della Columbia University, ha evitato la dispersione in atmosfera di 64 miliardi di tonnellate di gas serra, oltre a fuliggine e altri inquinanti prodotti dagli impianti a carbone, salvando circa 1,8 milioni di vite. E' per questo che Hansen e molti altri, tra cui l'ex segretario per l'energia Steven Chu, pensano che l'energia nucleare sia una tecnologia cruciale per evitare un cambiamento climatico catastrofico. Non possiamo bruciare tutti questi combustibili fossili”, ha dichiarato Hansen a un gruppo di giornalisti il 3 dicembre, osservando che finché saranno la fonte energetica più a buon mercato si continuerà a utilizzarli. “Il carbone è responsabile di circa metà delle emissioni globali. Sostituendo questi impianti con reattori nucleari moderni e sicuri, si otterrebbe rapidamente un taglio consistente delle emissioni”. Hansen si basa su alcuni dati oggettivi: la riduzione più marcata dell'inquinamento da gas serra fu registrata tra gli anni settanta e gli anni ottanta quando gli Stati Uniti passarono dai combustibili fossili alla fissione nucleare per produrre elettricità, diminuendo le  emissioni di gas serra di circa il 2 per cento all'anno. Il pianeta deve ridurre l'inquinamento del 6 per cento ogni anno per evitare un cambiamento climatico “pericoloso”, secondo le stime pubblicate di recente da Hansen e colleghi su PLoS One. “Su scala globale, è difficile prevedere in che modo si possa raggiungere ragionevolmente l'obiettivo senza il nucleare”, ha aggiunto Jeffrey Sachs, direttore dell'Earth Institute della Columbia University. Il problema è che nel mondo non si stanno costruendo abbastanza reattori nucleari. Un futuro nucleare? Secondo la World Nuclear Association, la Cina guida la classifica della costruzione di nuovi reattori, con 29 impianti in fase di realizzazione e altri 59 previsti. E la Cina non si è limitata ai tipici reattori che impiegano acqua e barre combustibili di uranio: ha costruito di tutto, dai reattori ad acqua pesante, progettati in Canada, a piccoli reattori veloci sperimentali. Ma anche se tutti i reattori previsti diventassero operativi, il paese farebbe ancora affidamento sulla combustione del carbone per più del 50 per cento della suo fabbisogno di energia elettrica; nel migliore dei casi, i reattori nucleari cinesi garantirebbero allo sviluppo del paese circa la stessa quantità di energia prodotta attualmente dalla rete di impianti nucleari degli Stati Uniti. In più, il nucleare richiede emissioni di gas serra per la costruzione, per la produzione di materiali come l'acciaio e il cemento, e per l'arricchimento dei minerali di uranio necessari per ottenere il combustibile nucleare.  Secondo il National Renewable Energy Laboratory degli Stati Uniti, questo si traduce, nell'arco della vita operativa dell'impianto, in emissioni di gas serra stimate in circa 12 grammi equivalenti di anidride carbonica per chilowattora di elettricità prodotta, un valore paragonabile a quello delle turbine eoliche - che richiedono ugualmente acciaio, plastica e terre rare per la costruzione - e inferiore a quello dei panelli fotovoltaici. In altre parti del mondo, il nucleare viene gradualmente abbandonato. Dopo le fusioni multiple di Fukushima Daiichi seguite al sisma e allo tsunami del 2011, il Giappone potrebbe non riattivare più i suoi impianti. La Germania ha ancora intenzione di fare a meno dell'energia nucleare e anche la Francia ha annunciato piani per ridurre la sua dipendenza dai reattori. Negli Stati Uniti, cinque nuovi reattori nucleari in costruzione sostituiranno i quattro obsoleti chiusi nel 2013, ma se altri impianti vecchi come quello di Oyster Creek, nel New Jersey, continueranno a rimanere spenti, il numero di reattori complessivo potrebbe essere destinato a diminuire. Uno dei maggiori problemi sono i costi. La costruzione di impianti nucleari di grandi dimensioni richiede un'enorme quantità di denaro per garantire sicurezza e affidabilità. Per esempio, negli Stati Uniti ottenere dal nucleare un quarto del fabbisogno di energia richiederebbe la costruzione di circa 1000 nuovi reattori, per sostituire quelli vecchi e per ampliare la rete esistente. Se si tiene conto di quanto è stato investito per i due reattori AP-1000 in costruzione in Georgia, agli attuali prezzi di mercato un simile progetto richiederebbe un investimento di 7000 miliardi di dollari, anche se il costo complessivo potrebbe diminuire di un ordine di grandezza. Un'altra idea per tagliare i costi è iniziare a costruire piccoli reattori con il cosiddetto schema modulare. La Tennessee Valley Authority spera di procedere con lo sviluppo di questo tipo di reattori installandone uno nel sito di Clinch River, nel Tennessee, il sito dove gli Stati Uniti tentarono di costruire il loro primo reattore veloce commerciale. Questo reattore, mai completato, fa parte dell'eredità della fallimentare fase di ricerca e sviluppo di un nuovo tipo di reattori, come l'Experimental Breeder Reactor, in attività nell'Idaho per circa 30 anni. “È un peccato che gli Stati Uniti abbiano sostanzialmente bloccato la ricerca e lo sviluppo nel campo dell'energia nucleare avanzata”, sottolinea Hansen. “Oggi un paese come la Cina avrebbe opzioni diverse dal carbone”. Una nuova alba? I reattori nucleari stanno iniziando a richiamare un'attenzione da parte del mondo scientifico che mancava almeno dalla fine della guerra fredda. Sono in fase di sviluppo nuovi modelli che usano un fluido refrigerante alternativo, diverso dall'acqua, come il reattore raffreddato a sale fuso del Transatomic Power o il modello a piombo-bismuto liquido dell'Hyperion Power.  I concetti alternativi hanno attratto finanziamenti da parte di investitori del calibro di Bill Gates. Il Transatomic Power ha vinto anche il primo premio degli investitori del mercato dell'energia nel convegno dell'Advanced Research Projects Agency–Energy (ARPA-E) del 2013. “La potenza intellettuale di ciò che è stato realizzato nel campo del nucleare permetterebbe di realizzare progetti radicali, in grado di soddisfare le richieste più stringenti”, ha detto Gates nel 2012, sottolineando che le capacità di modellizzazione dei computer attuali permetterebbero innovazioni ancora più spinte. “Con la fissione, hai un'energia milioni di volte superiore a quella che si ottiene dagli idrocarburi: è un vantaggio enorme”. Con più denaro a disposizione per lo sviluppo di nuovi progetti e con il finanziamento pubblico per la loro costruzione, magari nell'ambito di un ampio pacchetto di misure per l'energia pulita, il nucleare potrebbe essere uno dei pilastri di un triplice approccio per tagliare le emissioni di gas serra: perseguire una maggiore efficienza energetica, produrre elettricità a basso contenuto di carbonio e usare le auto elettriche (purché siano ricaricate con elettricità proveniente da sorgenti pulite e non bruciando carbone). “Le opzioni per la produzione di energia pulita su larga scala non sono molte”, nota Sachs, e includono il geotermico, l'idroelettrico, il nucleare, il solare e l'eolico. “Ogni nazione dovrebbe scegliere una strada in cui la maggior parte dell'energia deriva dalle fonti presenti in questa lista e non dal carbone”. Finché paesi come la Cina o gli Stati Uniti impiegheranno reti di grandi dimensioni per distribuire l'elettricità, sarà necessario generarla da nucleare, carbone o gas, che sono disponibili in ogni momento. I tentativi di eliminare gradualmente l'energia nucleare privilegiano il gas naturale, come previsto nell'innovativo progetto della Germania detto Energiewende (transizione energetica), per incrementare solare, eolico e altre fonti rinnovabili, eliminando al contempo i 17 reattori della nazione.  La Germania spera di sviluppare la tecnologia per immagazzinare l'elettricità in eccesso da fonti rinnovabili in forma di gas da bruciare successivamente, secondo uno schema noto come “potere al gas. La prospettiva peggiore è che lo spegnimento degli impianti nucleari possa portare alla costruzione di ulteriori impianti a carbone, come avvenuto negli Stati Uniti alla fine dell'era della costruzione di centrali atomiche per generare elettricità negli anni ottanta. Hansen sostiene che nel contesto di una popolazione mondiale in aumento, la disponibilità di un'energia abbondante e pulita è un elemento fondamentale per superare la povertà: iniziando a ridurre i gas serra, il nucleare è una delle tecnologie attualmente più promettenti, e c'è spazio per significativi miglioramenti e innovazioni. Al contrario, il gas naturale è un combustibile che ci porterebbe al disastro, anche se venissero attuate forme di cattura e immagazzinamento dell'anidride carbonica. Il mondo dovrebbe immediatamente compiere una transizione verso rinnovabili e nucleare. Ma rimangono ancora ostacoli significativi, non ultimo il tempo - alcuni decenni - necessario per la progettazione, l'autorizzazione e la costruzione degli impianti con le tecnologie nucleari esistenti, per non parlare delle idee innovative. Ciò può significare che nel breve periodo la tecnologia nucleare avanzata non potrà contribuire molto agli sforzi per combattere il cambiamento climatico, il che lascia, come unica opzione nucleare a breve termine, la tecnologia convenzionale, che tra l'altro ora è poco impiegata su scala globale. Senza contare che gli impianti degli Stati Uniti non hanno eliminato la minaccia degli ordigni nucleari, nonostante 20 anni di programmaMegatons to megawatts. La Russia mantiene un numero stimato di 8500 testate nucleari e gli Stati Uniti circa 770. Tuttavia, come ha scritto Hansen in un commento alla sua analisi, “gli ambientalisti devono riconoscere che indirizzare le politiche mondiali verso una soluzione energetica basata esclusivamente sulle rinnovabili non farà altro che garantire il dominio dei combustibili fossili nella produzione di energia elettrica destinata a garantire la richiesta di base, ovvero minima, dell'utenza, rendendo improbabile che possa esistere un'energia abbondante e a buon mercato e poco plausibile che i combustibili fossili vengano finalmente abbandonati”. (La versione originale di questo articolo è stata pubblicata suscientificamerican.com il 16 dicembre. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati) ========================================================= ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 16 Dic. ’13 SANITÀ, DOPPIA CURA SUI CONTI Da costi standard e Patto per la salute garanzie di sostenibilità Medici a go-go in Sardegna, al lumicino in Lombardia. Bolzano che doppia l'Abruzzo per dirigenti non medici e la Liguria rispetto alla Campania per il personale sanitario non medico. Mentre è ormai agli sgoccioli la partita dei costi standard 2013 di Asl e ospedali, ma deve ancora aprirsi quella per il 2014, le Regioni presentano fondamentali di spesa e di struttura sulle montagne russe. Segno che i costi standard – e il prossimo «Patto per la salute» – dovranno riportare ordine nei comportamenti e nella spesa locali. Anche perché l'accesso alle cure sotto la crisi è a rischio e la sostenibilità del Ssn in bilico: dal 2006 al 2012 i disavanzi hanno toccato quota 32 miliardi. Quasi tutti nelle otto regioni commissariate o sotto piano di rientro dal deficit, cui fanno capo il 40% degli italiani. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 16 Dic. ’13 COSTI STANDARD E «PATTO» LE CURE DELLA SANITÀ IN ROSSO In sette anni accumulato un deficit pari a 30 miliardi Neanche il tempo di festeggiare lo scampato pericolo dei tagli già pronti con la legge di stabilità per il 2014, che appena arrivato il nuovo anno, stappato lo spumante, sarà subito tempo di magra per la salute degli italiani. Perché sarà tempo di dieta – o di razionalizzazione, a seconda dal punto di vista – per i bilanci sanitari locali. Arrivate ad accumulare in sette anni, tra il 2006 e il 2012, la bellezza di 29,5 miliardi di deficit nelle pieghe dei bilanci di Asl e ospedali, le Regioni dovranno far di lesina. E, in conseguenza delle loro scelte, a stringere la cinghia saranno gli italiani. Che già versano una fiche da 4,5 miliardi l'anno per pagare i ticket, soprattutto nelle Regioni commissariate o sotto schiaffo da parte del Governo con 24 milioni di cittadini nelle briglie. Contribuenti e imprese angariati da maxi addizionali Irpef e Irap ai livelli massimi. E che, se non bastasse, spendono di tasca propria per la salute altri 29,39 miliardi. Come dire che i costi totali della salute, tra spesa pubblica e privata, valgono 140 miliardi l'anno. Mentre la crisi incalza e le famiglie si impoveriscono: 9 milioni di italiani (e 5 milioni di famiglie) rinunciano o alle cure o le rinviano. È in questo quadro spesso al limite del collasso, con le strutture pubbliche a loro volta alle prese con un'improbabile quadratura del cerchio dell'assistenza dopo le cure da cavallo da Berlusconi-Tremonti a Mario Monti, che sul Ssn piomberà il nuovo «Patto per la salute». Accompagnato dalla spending review di Carlo Cottarelli, che porterà con sé anche il tentativo di incidere sulla corruzione (5 miliardi di costo in più) contro cui invoca una lotta all'arma bianca anche la Corte dei conti. Perché se la legge di stabilità ha lasciato indenne la quota di 109,9 miliardi del Fondo sanitario per il 2014, a dare una spuntatina alla spesa inutile e improduttiva, o peggio, sarà appunto il «Patto» a mettere in chiaro dove e come dovrà affondare il bisturi dei tagli. Presto detto, peraltro, perché gli obiettivi sono da sempre noti e ben individuati. Farcela, è chiaro, sarà altra cosa. E dunque, prepariamoci. Gli ospedali, soprattutto quelli piccoli almeno sotto gli 80 posti letto, verranno messi in cura dimagrante: chiusure, accorpamenti, riconversioni. Prevedibile un'altra riduzione di almeno 10-15mila posti letto per ricoveri acuti, anche se poi i governatori in qualche modo potranno fare da sé. L'altra carta sarà quella delle cure più diffuse sul territorio – vale a dire fuori ospedale – le mitiche cure h24 con equipe di medici di famiglia e specialisti. Va da sé che se si sguarnisce l'ospedale e il territorio non decolla, sarebbe un disastro ancora peggiore di quello di oggi. Tanto più che i medici di base, visto l'atto di indirizzo delle Regioni sul rinnovo delle convenzioni, già sono sulle barricate. Altro capitolo sotto osservazione sarà quello dei farmaci. Chissà poi che non si spuntino le unghie ai baroni universitari, e, altra notizia positiva, si dia spazio ai giovani ricercatori e ai medici a spasso. E proprio i medici, come tutto il personale, avranno un paragrafo a loro dedicato nel «Patto». A perdere? Si vedrà. Certo è che tra i buchi neri dell'assistenza sanitaria nelle strutture pubbliche, dopo la scure di questi anni, blocco del turn over, pensionamenti ed esodi vari, stanno mettendo in ginocchio l'assistenza. Ma ci sono anche troppi primariati, reparti doppione, troppe clientele politiche, insomma, da abolire. Come dire che il «Patto» potrà essere un'occasione, ma anche un rischio, a seconda di dove e come colpirà. D'altra parte quei 29,5 miliardi di disavanzi in sette anni, in grandissima parte sono stati prodotti nelle 5 Regioni commissariate (Lazio, Campania, Abruzzo, Molise e Calabria) e nelle 3 sotto piano di rientro dal debito (Piemonte, Puglia e Sicilia). Che poi sono tra quelle che meno hanno garantito i livelli essenziali di assistenza. E dove la spesa ha avuto andamenti che neanche sulle montagne russe. Con escursioni per singoli settori a livello generale, che non sempre si spiegano: la spesa per il personale in due anni è scesa dell'1,5%, quella per beni e servizi è salita dall'1,4, la medicina di base è aumentata dello 0,9 e quella per i farmaci in farmacia ha perso addirittura il 9,1. Segno che qualcosa non va nella governance generale. E non solo. P.D.Bu. R.Tu. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 16 Dic. ’13 CONTI DI ASL E OSPEDALI SULL'OTTOVOLANTE Tra le Regioni restano forti differenze nella distribuzione di medici, dirigenti e altri ruoli Paolo Del Bufalo Roberto Turno La Sardegna con il 72% di medici in più della Lombardia in rapporto alla popolazione. Bolzano con il doppio dei dirigenti dell'Abruzzo sempre rispetto ai residenti. La Liguria con il 70% in più di personale sanitario non medico (infermieri, tecnici, ostetrici) della Campania. Ma anche la Sicilia che per i farmaci spende più del doppio di Bolzano. E Lombardia e Lazio che destinano ai privati accreditati un quarto della loro spesa sanitaria pubblica, oltre due volte i costi di un pacchetto di mischia come Toscana, Umbria, Emilia, Marche e Sardegna. Benvenuti sull'ottovolante della spesa di Asl e ospedali, dove ogni regione fa da sé. In omaggio al federalismo e alle scelte locali, ma anche non raramente senza alcun motivo. Un pianeta, il Ssn, che varrà il prossimo anno 110 miliardi con 695mila dipendenti (dati 2011) e un giro d'affari che, grazie all'apporto della filiera della salute nel suo complesso, vale l'11,2 del Pil. Un volàno formidabile per l'economia nazionale grazie al contributo delle imprese. Ma anche, stando ai bilanci del Ssn, un potenziale imbuto di sprechi e uscite non sempre giustificate. Almeno 1,5 miliardi di sprechi, per esempio, si calcolano per le spese non sanitarie: lavanderie, mense, utenze telefoniche, gas, luce, acqua, pulizie, che valgono oltre 4 miliardi l'anno. Poco meno del costo dei ticket per gli italiani. Per non dire delle gare taroccate, degli acquisti fuori ordinanza, del coacervo di promozioni non dovute, di consulenze, attività intramoenia illegittime. Tutte le onde anomale, insomma, di quel mare magnum dei conti di Asl e ospedali che non tornano mai. Soprattutto da Roma in giù. E sui quali – scommessa in tutti i sensi miliardaria – dovrebbe ora calare impietosa l'accetta dei costi standard e della spending review. «Mi accontenterei di risparmiare 15 miliardi in cinque anni e investirli sulla salute», sostiene il ministro Beatrice Lorenzin. Vedremo cosa farà Carlo Cottarelli, commissario alla spending. Certo è che i costi standard, perfino quelli per un 2013 ormai finito, sono appesi a un filo. In settimana i governatori tenteranno di trovare una quadra, altrimenti si sposterebbero 200-300 milioni che lascerebbe nell'imbarazzo un gruppetto di regioni, prime Liguria e Basilicata. E poi c'è la partita del benchmark da rifare per il 2014. Come dire: i costi standard, e i loro effetti, sono tutti da vedere alla prova. Anche se il primo risultato sarà di mettere spalle al muro le regioni canaglia. Già qualcosa, ma non i 30 miliardi di risparmi che vaticina il leghista Luca Zaia. Costi standard difficili da mettere a fuoco, però, con le Regioni in ordine sparso sulle voci di spesa, dove ognuna fa da sé senza una base comune. E proprio la voce del personale è sintomatica, anche se rispetto al 2011, ultimo anno di cui sono disponibili i dati disaggregati, c'è in agguato l'effetto della legge 122/2010 di Tremonti-Brunetta, che ha previsto un salasso dal 2011 al 2013 e che ha come conseguenza, assieme ai blocchi del turn over, una riduzione media stimata già nel 2012 di almeno il 4% degli organici. Per il Ssn si dovrebbe tradurre in circa 18mila unità, di cui almeno 5mila medici. Ma che le Regioni siano andate da sempre, e vadano tuttora, in ordine sparso è scontato. Certo, ognuna fa per sé, con proprie scelte politiche. A volte giustificate, altre no. Lombardia e Veneto, per esempio, dove più si indirizza la mobilità degli italiani in cerca di cure fuori casa, hanno meno personale medico, e non solo, ma ne avrebbero più bisogno. Il contrario della Calabria. O ancora: se la Toscana ha un'alta percentuale per abitante di personale sanitario non medico, dipende anche dal forte impulso dato alle cure fuori ospedale. Come non avviene in Campania, Calabria, Sicilia o Lazio, che hanno poco personale anche perché la scure dei piani di rientro sta riducendo all'osso organici e servizi. Peccato che nelle regioni canaglia i conti non vadano bene e non tornino mai. E tra ticket e maxi-tasse, a pagare sono sempre gli stessi. Gli assistiti e i contribuenti onesti. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 Dic. ’13 AOUCA: BLOCCO R, CI SONO 50 MILIONI Ospedale universitario, gara d'appalto nel 2014 POLICLINICO. Previsti quattro nuovi corpi, ieri l'inaugurazione del Blocco Q   I progetti sono già stati acquisiti, la gara d'appalto partirà nei primi mesi del 2014, la strada per la creazione dell'Ospedale universitario è già tracciata. Cinquanta milioni di finanziamento per realizzare il blocco R messi a disposizione dalla delibera del Cipe, quaranta sono già disponibili. Serviranno per creare quattro nuovi corpi: ospiteranno i reparti di Urologia, Ortopedia, Dermatologia, Oculistica, Ematologia e Genetica. Manca solo la firma dell'Accordo di programma tra Governo, Regione e Università. LE CERTEZZE DI FADDA «Da parte nostra c'è piena disponibilità a venire incontro alle esigenze della Sardegna per la realizzazione della nuova struttura», assicura il sottosegretario alla Salute Paolo Fadda. «Accelereremo al massimo l'esame dei documenti che ci verranno presentati». Il Policlinico di Monserrato cresce ancora: l'obiettivo è riunire al suo interno tutte le cliniche sparse per Cagliari. «Non basta costruire strutture, ci vuole sicurezza per il personale», sottolinea Fadda. «Per questo abbiamo approvato un provvedimento che proroga tutti i contratti a termine e fissa le regole per stabilizzare i precari». LA VISITA DI CAPPELLACCI Calzari verdi e cuffietta intonata come vuole la prassi, il governatore della Regione Ugo Cappellacci visita il neonato reparto di Ostetricia e Ginecologia al terzo piano del blocco Q. Gian Benedetto Melis gli fa strada tra i corridoi: «La scelta cromatica è azzardata ma convincente», fa notare il direttore sanitario davanti alla sala parto dalle pareti color zaffiro. Cappellacci annuisce: «C'è una bella atmosfera, sembra di essere a casa». Dopo l'apertura - quindici giorni fa - col trasferimento dal San Giovanni di Dio, arriva anche l'inaugurazione ufficiale con tanto di taglio del nastro. «Questo centro si candida come eccellenza sul piano della sanità regionale, nazionale e non solo», afferma il governatore. «È un motivo d'orgoglio per l'Isola». CARDIOLOGIA E OTORINO Prima il trasferimento della Terapia intensiva dalla clinica Macciotta, due settimane fa l'ultimo passaggio che ha chiuso il cerchio della Neonatologia. «È un tassello importante che si inquadra in un percorso di ammodernamento delle strutture sanitarie dell'Isola», spiega l'assessore alla Sanità Simona De Francisci. «Stiamo riqualificando e accreditando interi reparti». Il prossimo passo porterà a Monserrato anche la Cardiologia e l'Otorinolaringoiatria. «Stiamo portando avanti questo progetto di accorpamento delle cliniche universitarie sparse nel territorio, secondo noi fondamentale per migliorare tutta l'assistenza e la qualità della didattica», osserva il rettore Giovanni Melis. IL TAGLIO DEL NASTRO Al battesimo ufficiale non manca nessuno, in prima fila Ennio Filigheddu, direttore dell'azienda ospedaliero-univeristaria, Vassilios Fanos, direttore della Neonatologia e della Terapia Intensiva, qualche rappresentante dei Riformatori (Michele Cossa, Franco Meloni), Cesare Moriconi del Pd, il presidente dell'ordine dei medici Raimondo Ibba, il sindaco di Monserrato Gianni Argiolas. Sara Marci ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 Dic. ’13 COSTI DELLE REGIONI A CONFRONTO: OGNI SARDO SPENDE 45 EURO L’ANNO di Alfredo Franchini LO STUDIO DELL’ECONOMISTA PEROTTI   CAGLIARI Un fiume di denaro, un esempio di federalismo sbagliato. Quanto costa la politica delle regioni italiane? Molto, moltissimo e, con una distanza siderale dai costi standard, perché ci sono troppe differenze tra le varie regioni. Parliamo dei costi delle istituzioni e quindi dei consiglieri regionali, degli ex consiglieri in pensione, del personale e del contributo ai gruppi. Assemblee d’oro. In Italia i Consigli regionali costano un miliardo l’anno, i compensi lordi dei consiglieri sono circa 230 milioni di euro cui vanno aggiunti 170 milioni per pensioni e vitalizi dei consiglieri cessati. I contributi ai gruppi arrivano a cento milioni. Numeri elaborati dall’economista Roberto Perotti su lavoce.info. Dopo aver fatto la premessa che la politica ha sempre un costo - solo le dittature non sopportano quel tipo di spese - qui siamo in presenza di un sistema a picco che ha utilizzato denaro destinato all’attività politica per altri fini. Il parlamento isolano. I dati si riferiscono al 2012 e la Sardegna per spese complessive, (73.970.000 euro), si piazza al quarto posto dopo il Consiglio regionale della Sicilia (156.107.000), del Lazio (83.893.000) e della Calabria (78.933.000). L’isola precede Lombardia (68.452.000), Campania (66.358.000) e Veneto (51.606.000). Vitalizi. Se si scorpora il dato sardo si scopre che il costo degli ottanta consiglieri è stato di poco superiore ai 19 milioni, cui si aggiungono 16 milioni per i consiglieri cessati dal servizio, (pensioni e vitalizi), 28 milioni per tutto il personale. Il contributo ai gruppi, su cui si stanno sviluppando diverse inchieste giudiziarie, è stato di 4.281.000 euro. Assieme alle spese varie si arriva al costo totale, cioè all’indice di spesa che le regioni ritengono necessaria per consentire ai propri consiglieri di svolgere al meglio il proprio lavoro. La media italiana della spesa totale di ogni singolo consigliere varia dai 410.000 euro della Valle d’Aosta e i 415 mila euro del Trentino a un milione di euro per un consigliere del Piemonte, uno e mezzo per la Calabria e addirittura 1.700.000 in Sicilia. I sardi si trovano anche qui nella parte alta della graduatoria: 925 mila pro capite. (Non significa che quei soldi siano andati al singolo consigliere, è il risultato delle spese complessive). Stipendio. La spesa dei 1.117 consiglieri delle regioni italiane varia, come si può osservare nella tabella pubblicata in alto, dai 118.000 euro in Emilia, ai 140 mila della Valle d’Aosta ai 244.000 del Piemonte, 270 mila del Lazio e 281.000 della Calabria; in Sardegna il costo è di 240 mila euro. Costi fissi. «Se vi sono dei costi fissi», spiega Roberto Perotti, «ci si aspetterebbe che nei consigli più piccoli il costo totale medio per consiglieri fosse stato più alto. I dati, invece, indicano l’esatto opposto: più grande il Consiglio, più alto il costo totale medio per consigliere», spiega il docente dell’Università Bocconi. «Sembra che vi siano quindi notevoli diseconomie di scala: se siano dovute a sprechi o altri fattori è difficile dire. E’ però interessante notare che una regione medio grande come l’Emilia, usualmente considerata bene amministrata, in totale spende per ciascun suo consigliere 650 mila euro, molto meno della media nazionale. (La Sardegna ne spende 925 mila). Con lo stesso numero di consiglieri (e una popolazione inferiore), la Calabria spende quasi due volte e mezzo l’Emilia». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 15 Dic. ’13 TROPPA MEDICINA E DIMENTICHIAMO CHE SIAMO MORTALI Nel mio ospedale in questi giorni è stato fatto un piccolo miracolo: un uomo non più giovane, con il diabete e tanto d’altro, riceve un trapianto di fegato, rene e pancreas. Sarebbe morto di lì a poco, le possibilità di guarirlo erano poche, lo si è fatto lo stesso. Adesso quell’uomo sta bene. Se c’è una chance anche remota di riuscirci, è giusto andare avanti, e lo si deve fare sempre. Non solo: oggi si muore soprattutto di cuore, di malattie respiratorie croniche, di cancro e di diabete e la metà di quelli che muoiono così ha meno di settant’anni. Sono tutte morti evitabili. Per loro — e per i bambini, che muoiono ancora di asma, tumori e diabete anche nei Paesi ricchi — si dovrebbe fare di più. Ma non è sempre così.  «Viene uno con trecento malattie: perché deve morire in rianimazione dopo mesi di ventilazione meccanica? Non è umano, siamo mortali e dovremmo poterlo accettare». È un infermiere che parla, hanno buon senso gli infermieri. Siamo mortali, ma ce ne dimentichiamo e alla medicina (e ai medici) chiediamo sempre di più. È giusto? Forse no. E spendere fino al 30 per cento del budget della Sanità per gli ultimi sei mesi di vita di persone molto malate e molto anziane è quasi certamente un errore. Quelle persone muoiono comunque, ma muoiono disperate.  Una signora di 88 anni con un’occlusione delle coronarie vent’anni fa sarebbe morta nel suo letto vicino ai suoi cari, li avrebbe potuti salutare e loro se ne sarebbero ricordati per tutta la vita. Adesso non è più così. A 88 anni, con un dolore al petto, la signora finisce al pronto soccorso (è successo ad Anna) e poi in una sala di emodinamica. Lì, con un catetere, le liberano le coronarie dai trombi e ci mettono una molletta — stent — per tenerle aperte. Dopo una certa età però risolvere un problema vuol dire quasi sempre farne saltar fuori un altro, spesso più grave. Anna, finito l’intervento, ha i piedi freddi (nel liberare le coronarie possono partire emboli che arrivano giù, fino alle gambe, e limitano il flusso del sangue). «Vedremo…», dicono i medici. Ma i piedi vanno sempre peggio, si formano delle piaghe che poi si infettano, febbre e dolori insopportabili. Anna in ospedale non può più stare, ma ha bisogno di medicazioni tutti i giorni e di antibiotici endovena, difficile farlo a casa. Segue un mese d’inferno, i dolori alle gambe non la lasciano mai. Una sera, Anna ha mal di testa e perde conoscenza, la Tac rivela un’emorragia cerebrale (è per via degli anticoagulanti, che le hanno dato per evitare che lo stent si chiudesse). La portano in rianimazione. Dopo un po’ si riprende, ma si esprime con fatica, non muove più il braccio destro e nemmeno la gamba da quella parte. I piedi vanno sempre peggio. «Bisogna amputare — dicono i medici — a livello della coscia, almeno a sinistra , poi si vedrà».  Anna non capisce, non può decidere. L’amputazione alla fine si fa. Dopo l’intervento non c’è più urina: un po’ perché gli emboli sono finiti anche nei reni e un po’ per l’infezione. Serve la dialisi, quattro ore al giorno per tre giorni alla settimana, ci si deve organizzare. Anna vive ancora tre anni senza poter comunicare. Quello che resta del suo corpo è stato in balia di tante persone anche per le cose più intime, i familiari sono sfiniti dalla fatica e senza più un soldo.  Ne valeva la pena? Penso di no. Ci si sarebbe dovuti fermare prima; la molletta nel cuore a una donna di 88 anni con le coronarie molto malate forse non andava messa. Ci sono farmaci che migliorano il flusso di sangue in quelle arterie e tolgono il dolore. Non è detto che allunghino la vita (ma questo a quell’età non succede nemmeno con gli stent ), ma si muore molto meglio. E non è che Anna sia stata particolarmente sfortunata. Cose così e anche peggio capitano ogni giorno in tutti gli ospedali di tutti i Paesi del mondo. I medici lo sanno benissimo e fanno poco o nulla.  È più facile non decidere. Continuiamo a prescrivere statine a persone con più di ottant’anni, perché proteggono dall’infarto. Ma di qualcosa si deve pur morire, se di volta in volta chiudiamo ogni possibile via d’uscita (exit strategy ) avremo sempre più tumori e sempre più ammalati di Alzheimer. Anche con la demenza l’organismo ha il suo modo per uscire di scena: non si deglutisce più bene, viene una polmonite da aspirazione di materiale alimentare e di solito si muore. O meglio si moriva, adesso non più. I medici fanno un foro nello stomaco e ti alimentano in quel modo lì. Per la polmonite, se è grave, ci sono macchine che respirano per te, però ti devono sedare e metterti un tubo in trachea e legarti a una macchina. Negli Stati Uniti il 50 per cento di chi ha qualche forma di demenza legata all’età muore incosciente e pieno di tubi. Davvero è così che ciascuno di noi vorrebbe morire?  Fare il medico è rianimare, certo, ma anche saper sospendere le cure quando sono inutili. Ho visto persone di più di ottant’anni con il diabete, già diversi by-pass al cuore, un tumore all’intestino con metastasi alle ossa e ai polmoni, tenute in vita con la dialisi e il respiratore artificiale. Un ammalato così non ha nessuna prospettiva. E allora perché si va avanti?  ____________________________________________________________ Il Giornale 18 Dic. ’13 CON IL TUMORE SI CONVIVE L'Italia al vertice nella sopravvivenza a cinque anni del malato neoplastico Luigi Cucchi In Italia i pazienti oncologici sopravvivono più a lungo rispetto alla media europea. Lo dimostralo studio Eurocare-5, condotto dai ricercatori dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e dell'Istituto Superiore di Sanità e pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Oncology. Questa indagine è la più vasta sulla sopravvivenza per tumore, copre oltre i130% della popolazione europea adulta (461 milioni) e il 77% di quella infantile (59 milioni). É stata studiatala sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi di oltre 10 milioni di adulti e 60.415 bambini europei. L'Italia si è dimostrata essere trai Paesi dove a 5 anni dalla diagnosi di un tumore si sopravvive di più. Le differenze maggiori si osservano peri tumori dello stomaco, del rene, del colon e della mammella. «Molte le differenze in Europa. La sopravvivenza varia a seconda del Paese in cui rivive: in p articolare in Europa occidentale risulta più elevata rispetto ai paesi dell'Est Europa. Ciò dipende dalla diffusione della diagnosi precoce, dal tipo di trattamento e dallo stile di vita dei pazienti», afferma Giuseppe De Leo, presidente dell'Istituto Tumori di Milano, precisando che i dati dell'indagine provengono dai registri di tumore di29 paesi europei. Nell' ambito del progetto Eurocare, l'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano conduce inoltre studi più approfonditi per spiegare le cause di queste disuguaglianze di sopravvivenza, coordinati dalla dottoressa Sant e studi specifici sui tumori rari, per i quali è indispensabile una collaborazione internazionale, coordinati dalla dottoressa Gatta. Con il progetto Eurocare si sta sorvegliando la sopravvivenza dei pazienti oncologici europei da oltre 20 anni. «É confortante sapere che in Italia la sopravvivenza dei malati di cancro è fra le più alte d'Europa - afferma Francesco De Lorenzo, presidente della Federazione italiana delle Associazioni di volontariato in oncologia (sono oltre 500 ed attive da più di dieci anni), inoltre al di là delle pur gravi disuguaglianze esistenti, in Italia è sempre garantito l'accesso ai trattamenti farmacologici anche più costosi, cosa che non avviene in diversi paesi d'Europa. Paradossalmente però - precisa De Lorenzo - questo risultato comporta delle aggiuntive attività di carattere assistenziale da parte del Servizio sanitario nazionale (Ssn). In Italia infatti vivono attualmente più di 1,3 milioni di persone sopravvissute al cancro da più di 5 anni e poco sappiamo del loro reale recupero di condizioni di vita normale. L'esplosione dei pazienti liberi da malattia rende evidente la necessità di un nuovo equilibrio tra cura del cancro e recupero di uno stato di salute soddisfacente. Occorrono studi clinici prospettici sul decorso della malattia dopo il completamento della terapia primaria, fase che nei paesi anglosassoni viene definita come «survivorship», e che comprende aspetti relativi alla qualità di vita, riabilitazione, fino alle cure terminali, per poter dare risposte di sistema». Queste ricerche richiedono risorse finanziarie e sono ora una priorità per le associazioni scientifiche e le istituzioni sanitarie. Da anni Favo, in considerazione del numero crescente di malati lungo sopravviventi e della cronicizzazione della malattia, sta lavorando con i maggiori Istituti di cura italiani per individuare condizioni che assicurino ai malati di cancro il diritto alla riabilitazione, intesa come ripristino dell'integrità o del miglioramento di tutte le funzioni lese dal tumore o dai suoi trattamenti per una migliore qualità di vita possibile. Per decenni si è parlato di riabilitazione come terapia mirata al recupero di una funzione lesa mentre va intesa nel senso più ampio di riabilitazione psicologica, nutrizionale e sociale. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 Dic. ’13 CURE PERSONALIZZATE PER MIGRANTI E NO Riccardo Pozzo Basata sul sequenziamento del genoma umano, la medicina personalizzata è quella nuova branca della medicina, che a cavallo tra genetica, genomica e diagnostica molecolare, permette di pianificare strategie terapeutiche personalizzate per i pazienti, l'uso di farmaci e programmi efficaci di prevenzione. Viene intesa come customization of healthcare, perché tiene conto delle differenze individuali in tutti gli stadi della cura: dalla prevenzione, attraverso la diagnosi e la terapia, fino ai controlli post-terapeutici. Considera la salute dei pazienti secondo le caratteristiche individuali del makeup biologico all'interno di specifici contesti socioculturali e ambientali. Sono i singoli individui a divenire destinatari di un'analisi genetica informativa basata su big data, che permette di conoscere le loro predisposizioni a patologie genetiche multifattoriali, le loro attitudini personali e fisiche e infine le loro suscettibilità ai farmaci secondo il paradigma P4 per una medicina predittiva, preventiva, personalizzata e partecipata. In sostanza, è un'alternativa alle medicine blockbuster disegnate per trattare la maggioranza di pazienti con condizioni comuni (one-size-fits-all). Un forward look, uno sguardo in avanti, su possibilità e limiti per il cittadino europeo della medicina personalizzata è stato proposto nel novembre 2012 dalla Biomedical Unit della European Science Foundation a cura di Liselotte Højgaard, presidentessa degli European Medical Research Councils. Vista la gravità della questione, tuttavia, la formulazione finale ha tenuto conto delle riflessioni dei presidenti di tutti e quattro gli standing committees della European Science Foundation (ancora in vita fino al 31 dicembre 2014), ossia Milena Žic-Fuchs (scienze umane), Mats Gyllenberg (fisica e ingegneria), Sir Roderick Floud (scienze sociali) e Reinhart Ceulemans (scienze della vita). Si tratta, insomma, di un caso paradigmatico di come procedere per decidere della rilevanza presso gli stakeholders di un'innovazione nel settore biomedico.  Tanto per cominciare, grazie ai sistemi di biofeedback i cittadini potranno facilmente controllare parametri relativi alla loro salute senza dover ricorrere a indagini laboratoristiche o a visite mediche (costose in termini economici e di tempo) per monitorare variabili come pressione arteriosa, colesterolo e glucosio. In questo senso, la medicina personalizzata significa empowerment per i cittadini. La proof of principle, tuttavia, manca ancora. La si aspetta nel 2018. Per un'introduzione del programma si pensa al 2018 e per implementation e raffinamento al 2023. Il problema, oggi, è l'enormità dei costi a fronte di effetti assai piccoli in termini di allungamento delle aspettative di vita delle (poche) persone in terapia secondo la medicina personalizzata. Questa pertanto la principale raccomandazione dell'opuscolo di evitare promesse roboanti sulle potenzialità della medicina personalizzata nelle prime fasi di pianificazione e realizzazione. Questione sulla quale le scienze umane e sociali sono chiamate a prendere la parola in quanto si tratta della sostenibilità di una ricerca e della sua applicazione sull'intero della popolazione. Alla fine, si tratta della questione etica se tutelare la privacy di uno porti a danneggiare la salute di un altro e della questione politica di come prevenire disuguaglianze e assicurare che fattori come etnia, cultura, contesto socioeconomico e gender trovino adeguato rispecchiamento nei dati. Oltre alla qualità dei dati, alle infrastrutture, e ai modelli di rimborso, la medicina personalizzata deve mettere a disposizione dei metrics for stakeholders quantification. La medicina personalizzata ha infatti come obiettivo la delimitazione di subpopulations per le quali un particolare principio attivo risulta più efficace. Un ambito nel quale la medicina personalizzata troverebbe utile applicazione da subito va forse visto nella ricerca sulle malattie delle povertà e la salute dei migranti. In Italia se ne occupano l'Istituto Nazionale per la Promozione della Salute delle Popolazioni Migranti e per il Contrasto delle Malattie della Povertà secondo le tre direttrici principali della ricerca clinica, ricerca sui modelli assistenziali e formazione degli operatori socio-sanitari, e il Progetto Migrazioni del Cnr per gli aspetti demografici, socioeconomici, giuridici e culturali.  © RIPRODUZIONE RISERVATA Personalised Medicine for the European Citizen. Towards more Precise Medicine for the Diagnosis, Treatment and Prevention of Diseases, a cura Liselotte Højgaard, ESF Forward Looks, viol. 25, European Science Foundation, Strasbourg 2012, pagg. 62, www.esf.org./flooks. ____________________________________________________________ Sanità News 18 Dic. ’13 ANCORA UNA PROROGA PER LA CHIUSURA DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI Servirà una nuova proroga per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari ma, dopo mesi di lentezza, le regioni hanno spinto sull'acceleratore e quasi tutte hanno consegnato i programmi per realizzare le strutture che sostituiranno gli ex manicomi giudiziari. E' quanto emerge dalla relazione sulla chiusura degli Opg, elaborata dai ministeri della Salute e della Giustizia, appena trasmessa al Parlamento, in base all'art. 3-ter comma 8-bis del decreto legge 211/2011. Secondo il documento che monitora "lo stato di attuazione dei programmi regionali relativi al superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari", inviato oggi ai Presidenti di Camera e Senato, le stime per la chiusura di strutture che lo stesso Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva definito "autentico orrore indegno di un paese appena civile", non erano realistiche. Non tenevano in considerazione i 'tempi congrui' che sarebbero stati necessari dal punto di vista tecnico per avviare i piani regionali. Piani che, attraverso appalti pubblici, prevedono la costruzione dei nuovi Rems, ovvero 'residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza', pensate per ospitare poche persone per volta e di competenza del Ministero della Salute, e non più della Giustizia, come oggi avviene. Sono 1016 in tutta Italia le persone uscite dagli ospedali psichiatrici dal 2010 al 2012 mentre nei manicomi giudiziari ne restano circa 900. E' quanto si legge sulla relazione sulla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari trasmessa al Parlamento. Alcune sono state dimesse per aver scontato la pena, altre per migliorate condizioni di salute mentale, tutte comunque ora a carico dei rispettivi servizi territoriali regionali. Trentuno provengono dal Piemonte, 226 dalla Lombardia, 53 dal Veneto, 43 dalla Liguria, 45 dall'Emilia Romagna, 62 dalla Toscana, 15 dall'Umbria, 17 dalle Marche, 124 dal Lazio, 21 dall'Abruzzo, 4 dal Molise, 126 dalla Campania, 54 dalla Puglia, 22 dalla Basilicata, 98 dalla Calabria, 75 dalla Sicilia. Ma se da una parte le dismissioni sono molte, altrettanti sono i nuovi arrivi nei sei Ospedali psichiatrici giudiziari che esistono tuttora in Italia. ''E molto spesso - spiega Giovanni Cogliandro che per il ministero della Salute ha seguito l'iter della relazione - ad entrare sono detenuti comuni, perché la diagnosi di malattia mentale viene fatta non solo in sede di giudizio, ma anche nei penitenziari stessi''. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 22 Dic. ’13 DSM: I NOSTRI DÈI SONO I FARMACI , NON LE MALATTIE Pubblicato in America e tradotto in tutto il mondo, il Diagnostic and Statistical Manual , meglio conosciuto come Dsm , è un formidabile atlante della psiche umana e dèi suoi malanni, dai disturbi più rimediabili alle peggiori psicosi. Non è solo uno strumento di lavoro pratico, come moltissimi altri manuali, ma un vero e proprio Codice, che stabilisce un confine certo tra ciò che è normale e ciò che è patologico, con conseguenze anche giuridiche importantissime. Ogni edizione del Dsm , come si può facilmente capire, genera un notevole numero di ripercussioni, e si può considerare un vero e proprio evento.  È normale che tutte le enciclopedie, a ogni aggiornamento, non si limitino a correggere gli errori del passato, ma tendano ad aumentare la mole delle conoscenze. Ma nel caso specifico del Dsm , il rischio di dar vita a decine di malattie mentali prima sconosciute non è innocente. Una volta stabilito che un dato comportamento è una patologia, ne conseguono una diagnosi, e soprattutto una terapia farmacologica. Quella che ne può venire fuori, è una società esageratamente medicalizzata, senza risparmiare i bambini e gli adolescenti con le loro famigerate sindromi.  Esplicito fin dal titolo: Primo, non curare chi è normale , l’atto d’accusa di Allen Frances è doppiamente significativo: in primo luogo chi l’ha scritto è uno dèi più autorevoli psichiatri americani; Frances è stato inoltre a capo dell’équipe di studiosi che ha curato la quarta edizione del Dsm . Il suo, dunque, in una certa misura è un tradimento, un’abiura. Ma la filosofia alla base dèi lavori per la quinta edizione del Dsm lo ha così turbato da ripensare a fondo tutta la questione e farlo scendere sul terreno di una spinosissima polemica. Quello di Frances, si badi bene, non è uno dèi tanti attacchi alla psichiatria che si sono succeduti nel secolo scorso (il più celebre, dal punto di vista filosofico, rimane senza dubbio l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari).  Al contrario, Frances è uno psichiatra convinto della necessità di affrontare i mali reali con tutto l’accanimento e tutti i farmaci necessari. D’altra parte, è convinto che non tutti i dolori siano malattie che richiedono la loro pasticca. Ci ricorda che «siamo una specie dalla pelle dura», che può contare su una naturale capacità di recupero e sul potere lenitivo del tempo. Ma ci stiamo abituando a una «medicalizzazione della normalità» che si riflette direttamente nell’incredibile numero di tonnellate di psicofarmaci che nel mondo occidentale si ingurgitano ogni giorno. Frances ha ragione, e il suo ragionamento ha il merito di fotografare una delle più sconcertanti mutazioni antropologiche del nostro tempo.  Forse però l’unica responsabile di questo doping planetario non è la volontà di potenza della psichiatria. Anche il rapporto fra pazienti e farmaci andrebbe indagato, cercando di capire come il consumo dèi farmaci si sia trasformato in una vera e propria devozione personale, molto simile alla bhakti degli induisti. In un suo celebre aforisma Carl Gustav Jung, che viveva ancora in un mondo con pochissimi farmaci, affermò che gli antichi dèi si erano trasformati in malattie.  Oggi è necessario aggiornare l’intuizione: i nostri dèi sono le molecole, i princìpi attivi dèi farmaci, efficaci o meno a seconda dèi riti, dèi sacrifici, della fede che si riserva loro. Come un romano del tardo impero cercava il favore di Iside, così noi ci trasformiamo in fedeli del Tavor. E questo nuovo politeismo chimico è la grande religione dèi nostri giorni. Gli psichiatri dovrebbero occuparsene a fondo, magari inserendolo nel Dsm . Ma esiste un farmaco che curi la fede nei farmaci?  ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 Dic. ’13 PERICOLO INTRUGLIO STAMINA I Nas confermano: lo pseudotrattamento è dannoso. Il ministro Lorenzin deve dirlo con chiarezza per il bene di tutti Michele De Luca Sul fatto che sul cosiddetto "metodo Stamina" sia giunto il momento di fare definitivamente chiarezza nessuno nutre più dubbi. Anche le modalità con cui farlo pensavo fossero ormai chiare a tutti: sottoporlo al vaglio della comunità scientifica. In tal senso, come copresidente dell'Associazione Luca Coscioni, sono firmatario, con decine di validissimi colleghi, di una petizione online che nel giro di pochi giorni ha raccolto più di 4.000 firme, in cui chiediamo l'immediata pubblicazione sia del metodo sia della relazione della commissione. Il "rapporto choc su Stamina" pubblicato giovedì da «La Stampa», basato su verbali dei Nas e sulla relazione del comitato ministeriale di esperti, è inquietante. Non solo perché si dice che nei campioni sequestrati ci sarebbero solo tracce di cellule staminali mesenchimali e nessuna cellula nervosa: su questo non avevamo dubbi e lo ripetiamo da mesi. La vera gravità sta nel pericolo serio di quello che può provocare l'infusione di questa "pozione", il cui contenuto sarebbe sconosciuto persino ai pazienti che la ricevono, visto che i moduli per il consenso informato in realtà non conterrebbero informazioni corrette, il che è al limite dell'incredibile. Anziché staminali miracolose, dunque, sostanze misteriose, frammenti di tessuti in grado di causare micro embolie polmonari e cerebrali e potenziali virus, dovuti alla mancanza di adeguati screening virologici sui donatori e alle sostanze utilizzate per la coltura, tra cui il famigerato siero bovino, ammesso nelle cell-factory che lavorano in Gmp solo in presenza di un certificato di provenienza da aree non a rischio di Bse, meglio conosciuta come sindrome della mucca pazza. Tutti questi dati dovrebbero essere facilmente ricavabili dalle informazioni contenute nei protocolli consegnati da Stamina per l'avvio della sperimentazione e dal materiale messo a disposizione della commissione ministeriale. Documenti che continuano ad essere secretati. A questo punto è lecito chiedersi cui prodest?. Qualunque scienziato che abbia esperienza nel campo delle terapie avanzate, partendo da questi dati, non avrebbe potuto esprimere un giudizio diverso da quello di inconsistenza scientifica e di pericolosità espresso dalla commissione. In Germania o negli Stati Uniti, solo per fare qualche esempio, la vicenda si sarebbe immediatamente chiusa e il trattamento sarebbe stato vietato. Ma il caso Stamina è scoppiato in Italia e i giudici del Tar del Lazio, anziché difendere l'operato della commissione scientifica e del Ministro della salute che si sono preoccupati di tutelare i cittadini, hanno deciso di dare credito a Stamina e di mettere a repentaglio la salute dei pazienti in nome di una manifesta imparzialità di giudizio di alcuni membri del comitato. Sarei davvero curioso di sapere su quale razionale si sono basati questi giudici nel prendersi la responsabilità di sospendere il blocco di un trattamento pericoloso e di destinare nuove risorse pubbliche alla costituzione di un nuovo comitato di esperti che non potrà che confermare quanto già detto dal comitato precedente. Invece di perdere altro tempo prezioso a formare una nuova commissione, il ministro Lorenzin dovrebbe fermare immediatamente, con un decreto urgente e inequivocabile, la somministrazione della "pozione", impedendo a giudici senza competenza scientifica di imporre "trattamenti" potenzialmente pericolosi. Levando dall'imbarazzo strutture pubbliche quali gli Spedali Civili di Brescia. E soprattutto tutelando la salute della gente. Altro che diritto alla cura! È vero che la salute è un diritto sancito dalla nostra Costituzione, ma fornire cure reali e non immaginarie, o peggio al di fuori della legalità, è un dovere di chi le propone. Dal canto suo, la magistratura dovrebbe affrettarsi a verificare quali e quante leggi e normative ha infranto in questi anni Stamina e per quali e quanti reati può essere chiesto il rinvio a giudizio per i suoi vertici e collaboratori. A mio avviso, anche su questo fronte si è già perso troppo tempo. Sarebbe anche ora che il Parlamento, anziché legiferare ad hoc per legalizzare, o addirittura de-regolare (come stava succedendo nel Marzo 2013), un trattamento senza basi scientifiche e totalmente al di fuori dalle normative vigenti, si decidesse a fare sua volta chiarezza e a regolamentare in modo inequivocabile le terapie avanzate a base di colture di cellule staminali, le terapie consolidate e l'uso compassionevole di terapie non ripetitive, per fornire uno strumento legislativo unico ai giudici del lavoro, che, lo ripeto, non possiedono nessuna competenza tecnica per prendere decisioni in merito a questioni mediche e scientifiche. Tale strumento legislativo dovrebbe fare tesoro della lezione che il caso Stamina ci ha insegnato: da un lato evitare che casi simili possano accadere di nuovo recependo i principi basilari della medicina basata sulle prove di efficacia (una solida ricerca di base, una ricerca pre-clinica meticolosa e tre fasi di sperimentazione clinica rigorosa), dall'altro tenere conto della peculiarità delle terapie avanzate a base di cellule staminali, a cui non possono essere applicate indiscriminatamente le regole utilizzate per i prodotti farmaceutici. Bisogna ritagliare una normativa che sia più rigorosa nei razionali e nelle evidenze pre-cliniche, ma anche più adatta alla peculiarità delle terapie avanzate rispetto ai farmaci classici. Il tutto per garantire sicurezza ed efficacia e per non mettere a rischio il futuro delle terapie avanzate.  Quindi, a ciascuno il proprio lavoro. I letterati, o pseudo tali, si occupino di dissertare su argomenti di cui sono competenti; gli scienziati di ricercare con rigore e di proporre, quando possibile, nuove cure sicure ed efficaci; i politici di tutelare la cittadinanza e di legiferare con cognizione di causa ed in maniera chiara, senza lasciare spazio a quei dubbi interpretativi che consentono ai giudici di emettere sentenze spesso contradditorie; i giudici di emettere sentenze con altrettanta cognizione di causa e basandosi sul principio di cautela, soprattutto in campi sui quali non hanno e non possono avere le adeguate competenze tecniche. Incapacità di distinguere scienza e alchimia, ignoranza scientifica, razionali non verificati, regole non ottimali, medicina basata sull'emotività più che sulla scienza, speculazioni commerciali e prescrizioni mediche per sentenza mettono a repentaglio il futuro stesso della medicina rigenerativa e delle terapie a base di cellule staminali. Ed è veramente un peccato. Su questa nuova branca della medicina vengono riposte tante speranze ed il metodo scientifico è l'unica arma che abbiamo per proteggerla, onde evitare che si trasformi in un mero mercato delle illusioni. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 22 Dic. ’13 AI MALATI DI STAMINA CELLULE DI ALTRE PERSONE UNA CURA PERICOLOSA» Il rapporto degli esperti del ministero «Ha sempre dichiarato di agire senza fini di lucro, per uso compassionevole, ma di fatto la sua azione era tesa ad ottenere da ogni paziente o familiare somme fino a 50 mila euro». È una nota del procuratore di Torino, Raffaele Guariniello. Si riferisce a Davide Vannoni, presidente della Stamina Foundation, psicologo, «inventore» di un metodo basato sulle staminali. Secondo l’inchiesta torinese, la Stamina avrebbe chiesto dai 30 mila ai 50 mila euro da versare come donazioni perché «questi trattamenti in Italia sono fuori legge». Chi non pagava non riceveva cura. Agli atti le documentazioni dei bonifici: causale «contributo donazione». Molti pazienti, o loro familiari, si sono indebitati per poter usufruire delle infusioni del metodo Stamina. Nel pacchetto c’era anche l’offerta di mettere in «banca» le cellule prelevate: con 7.000-8.000 euro all’anno si tenevano da parte, congelate, per infusioni future. Le carte dell’inchiesta, formalmente chiusa nell’agosto 2012 con 12 indagati, vedono come protagonista Vannoni e alcuni medici. Le vittime sarebbero una settantina. Ieri, al quinto piano del Palazzo di giustizia di Torino, c’è stato un vertice. La richiesta di rinvio a giudizio è pronta, ma bisogna ancora ascoltare qualche persona e acquisire qualche carta per vedere se aggravare l’ipotesi di reato: all’associazione a delinquere, truffa, somministrazione di farmaci pericolosi, si potrebbe aggiungere l’omicidio colposo. E questo dopo le segnalazioni legate al decesso di pazienti.  Agli atti, tra i vari documenti, spicca un video con una giovane donna affetta da Sla, paralizzata in un letto, che si alza e cammina dopo il trattamento. I depliant della Fondazione fatti circolare tra pazienti paraplegici, con numeri del genere: oltre mille casi trattati, recupero del danno dal 70 al 100% (72 recuperi su 90 ictus curati). La testimonianza di un paziente ricoverato nell’ospedale di Stato della Repubblica di San Marino, sentitosi male dopo la puntura lombare per il trattamento, che viene invitato a ritrattare, a scrivere che era «in stato confusionale».  E ancora: 60 cartelle cliniche di pazienti trattati con il metodo Stamina esaminate dai periti del procuratore. «Non c’è prova di alcun miglioramento» è scritto. Stessa frase dopo l’esame delle 36 dei pazienti infusi agli Spedali Civili di Brescia. Il rapporto degli esperti, depositato lo scorso 4 dicembre, scrive: «assenza di qualsiasi oggettivo miglioramento delle condizioni dei pazienti», oltre a «una evidente trasandatezza nella compilazione dei dati clinici». E quel «decesso sospetto di un malato di atrofia muscolare multi-sistemica, patologia simile al Parkinson che solitamente non determina rischio di morte repentina» che ha allertato Guariniello . «Dalla trasmissione di virus all’insorgenza di tumori», i rischi delle infusioni Vannoni già elencati nell’inchiesta di Torino.  Nono solo. «Il metodo Stamina farebbe presupporre l’uso di Siero Fetale Bovino nei terreni di coltura», dicono i verbali del tavolo tecnico 2012 composto da Istituto superiore sanità, Agenzia italiana del farmaco (Aifa), Centro nazionale trapianti e carabinieri del Nas. Emergono timori su possibili «danni neurologici» e altri «effetti collaterali dopo infusione, da verificare nel tempo». Il timore è «Mucca pazza». Altra gravissima «pericolosità» evidenziata: «Sono infuse a un paziente le cellule prelevate da altro paziente o addirittura da altri 3 pazienti, senza alcun razionale biologico».  Massimo Dominici, dell’università di Modena e Reggio Emilia, è il ricercatore che ha esaminato i campioni della Stamina Foundation prelevati dai Nas a Brescia. Lo scopo era «ottenere un differenziamento neuronale mimando» il protocollo descritto dal brevetto di Davide Vannoni ed Erica Molino. La conclusione: «Il razionale biologico è piuttosto scadente... e la dose infusa la si potrebbe definire omeopatica». A parte possibili virus e batteri.  C’è poi un paziente con una doppia veste, quella di malato e quella di dirigente regionale della sanità lombarda, firmatario di documenti importanti per accreditare il laboratorio di Brescia che ospiterà il metodo. Lo scrive il rapporto, datato 9 luglio 2012, successivo all’ispezione al laboratorio di Brescia. Il malato in lista per le prime infusioni è un dirigente della Regione Lombardia, settore servizi sanitari. È Luca Merlino. Scrive il rapporto: «La collaborazione fra l’Ao Spedali Civili di Brescia e la Stamina Foundation si sarebbe instaurato a seguito di contatti con Fulvio Porta, coordinatore del progetto, e Luca Merlino, dirigente della Regione Lombardia che tra l’altro risulta avere stesso nome, cognome e data di nascita di uno dei pazienti in cura».  Riavvolgiamo il film su Stamina. Si parte dai trattamenti in un sottoscala di via Giolitti a Torino dietro «donazione» di migliaia di euro a un laboratorio di un ospedale di Brescia, a inchiesta per truffa in corso, dove si cura gratis un paziente speciale. Al momento, nessun guarito. Altrimenti sarebbe già ripreso e intervistato da ogni tv del mondo . E Vannoni che grida al complotto.  Mario Pappagallo ____________________________________________________________ Corriere della Sera 22 Dic. ’13 COSÌ GUARITORI E SANTONI GIOCANO CON LA DISPERAZIONE La promessa di rimedi prodigiosi per mali incurabili Senza i fallimenti della medicina, la setta di Stamina verrebbe confinata alla stregua di un fenomeno eccentrico capace di mobilitare solo frange minoritarie e lunatiche. Ma la disperazione alimenta il Medioevo che si è installato nei sotterranei psicologici della metropoli. Nel cuore della modernità prosperano sentimenti arcaici. Colmi di rancore, di rabbia, di furore: è il mondo parallelo della disperazione moderna.  Poi ci sono organi come il Tar (Tribunale amministrativo regionale) che danno una mano a chi crede che i medici «ufficiali» siano tutti corrotti, che la scienza sia una mistificazione, che le cure sono ostaggio di un establishment farmaceutico che impedisce con disumanità assoluta la diffusione di nuove cure. Vale poco l’allarme della scienziata Elena Cattaneo, neo-senatrice a vita, che pone domande semplici, elementari: cosa c’è dentro l’intruglio che si somministra ai malati che si aggrappano al metodo Stamina? Perché nascondono carte, documenti, protocolli, statistiche, numeri che possano dimostrare l’efficacia della cura? Perché quei malati che, resi furibondi dalla disfatta della medicinaufficiale, occupano le strade, urlano davanti al Palazzo la loro rabbia, non risparmiano davanti alle telecamere lo spettacolo atroce di gesti estremi, protagonisti inconsapevoli di un sabba in salsa pulp che sconvolge l’opinione pubblica?  Perché la disperazione è terribile, straccia ogni razionalità, distrugge ogni argomento logico. Quando la scienza che si credeva onnipotente mostra tutta la sua desolata impotenza, le menti regrediscono, si rituffano nell’attesa miracolistica di un elisir nascosto. Un Medioevo di paranoia, di complottismo, di frustrazione perché insieme agli eroi e ai santoni che potrebbero salvare con i loro rimedi miracolosi, la nuova mitologia antiscientifica prevede sempre l’azione malvagia di un centro occulto che, per salvaguardare guadagni favolosi accumulati sulle spalle dei malati abbandonati a se stessi, perseguita i «buoni», i portatori della salvezza. Ecco come i ciarlatani passano per martiri, i guaritoti per dissidenti oppressi e minacciati.  La disperazione afferra tutti, analfabeti e acculturati, chi vive ai margini e chi sta nel centro pulsante della società. Nel mondo parallelo dell’oncologia questo concentrato pazzesco di avvilimento e di sfiducia, di rabbia inconsolabile e sgomento per una scienza che sembra muta, estranea e indifferente, in questo mondo saltano i confini che delimitano la «normalità» della vita, l’emotività suggerisce passi che non avresti mai affrontato nella placida routine di una vita al riparo del rischio. Chi scrive questo articolo stava già consultando l’orario degli aerei con destinazione L’Avana perché nel mondo parallelo dell’oncologia si era diffusa, e continua a diffondersi, la voce che un veleno ottenuto dallo scuotimento dello «scorpione blu» di Cuba contenesse spettacolari virtù anti-tumorali. Perché non provarci, se contro il cancro al polmone della persona che ti è più cara hanno fatto fallimento la chemioterapia e la radioterapia? Dubbi e scetticismo svaniscono, e si intraprende un ultimo viaggio della speranza, mettendo a tacere l’ostilità per i ciarlatani, i venditori di fumo, gli spacciatori di speranze fasulle. Svanisce anche la diffidenza verso chi, i depositari del veleno dello scorpione blu, si rifiuta di trasmettere alle autorità sanitarie mondiali dati attendibili sulle «guarigioni» ottenute con quel taumaturgico veleno. Come è accaduto con la «cura Di Bella», con i malati che inveivano contro il Grande Complotto Chemioterapico e non chiedevano ai guaritori dati certi, numeri verificabili, risultati accertabili. Un’altra illusione. Un’altra battaglia atroce e assurda. Con i medici «ufficiali» trattati come manutengoli delle grandi case farmaceutiche ingrassate con il business mondiale della chemio. Come è accaduto in America dove sette lunatiche e pazzotiche si scagliano contro le cure regolate dai «protocolli» trasmettendo il messaggio che il cancro si può sconfiggere con la «forza della mente».  Esistono siti e blog che sono seguiti da migliaia di persone esasperate, furiose, pronte ad avventarsi contro i sacerdoti della «medicina ufficiale» e di quella che chiamano la «menzogna oncologica». In uno dei siti più seguiti, commentati da parenti di malati che non ce l’hanno fatta, si diffonde l’ideologia del bicarbonato come rimedio sicuro (abbinato con il limone) contro il cancro. Nessuna evidenza scientifica conforta questa superstizione, ma ad esser messa sul banco degli accusati è la scienza stessa, vista come arma in mano a una combriccola di medici arroganti e corrotti dediti all’occultamento dei rimedi che possono salvare milioni di vite umane. Attorno a Stamina si è formato questo stesso nucleo incandescente di furore e di ira incontenibile. Non c’entra la libertà di cura. C’entra la losca propensione a spillare quattrini con le risorse pubbliche. Si esige, con la forza conturbante dei malati in carrozzella che gridano la loro collera contro le istituzioni che li stanno «uccidendo», che le sperimentazioni ricevano congrui finanziamenti. Altro che libertà di cura. Si è invece formato un sottofondo culturale che getta via ogni conquista della scienza.  Oggi milioni di giovani genitori sono sottoposti al messaggio terroristico secondo cui nei vaccini somministrati ai bambini si annidano pericoli mostruosi. Dovrebbero leggere un formidabile romanzo di Philip Roth, Nemesi , per capire che orrore rappresentassero le epidemie di poliomelite e che cosa atroce fosse fino a pochi decenni fa la sorte di tantissimi ragazzi in tutto il mondo che non conoscevano ancora i benefici del vaccino antipolio.Qui la scienza e la medicina hanno trionfato. E dove invece fallisce, la reazione disperata si aggrappa a tutto ciò che appaia come rimedio alternativo. Il Medioevo nel cuore delle nostre città. Un sottosuolo ribollente che non può essere ignorato da un’élite placidamente soddisfatta della propria superiorità illuministica. Un partito della disperazione che trova ascolto persino nei Tar che mettono sul banco degli imputati i medici. Oggi, nell’Italia del Duemila.  Pierluigi Battista ____________________________________________________________ Corriere della Sera 15 Dic. ’13 TESTA E TORACE I «PUNTI DEBOLI» NEGLI INCIDENTI CON LA MOTO Servono prevenzione e una rete di «trauma center» L e lesioni alla testa e al torace , non quelle alla colonna, sono le principali responsabili dei decessi negli incidenti motociclistici. La protezione di queste due zone del corpo dunque è fondamentale e l’utilizzo di un dispositivo come l’airbag ad esempio può ridurre in modo significativo l’energia trasmessa nell’impatto e quindi l’entità e la gravità delle lesioni. Non solo. La passione per la moto richiede grande attenzione soprattutto per chi è più avanti con l’età.  Sono le principali conclusioni dello studio retrospettivo effettuato dal Trauma Team dell’ospedale Niguarda di Milano. Sono stati analizzati 928 incidenti motociclistici, a dire degli specialisti di Niguarda la più ampia casistica mai presa in esame in Italia, tutti seguiti nell’ospedale milanese nell’arco di 8 anni. Quello che emerge è che l’incidente su 2 ruote è l’eventualità più frequente, rappresentando circa il 30% delle richieste di intervento. La maggior parte degli incidenti in moto si è verificata nei giorni lavorativi, dalle 8 alle 10 del mattino e dalle 18 alle 20 di sera. La fascia d’età più coinvolta è quella tra i 18 e i 54 anni (oltre l’83%), seguita dai minorenni (9,9%) e dagli over 54 (circa 6%). In particolare i centauri più a rischio sono proprio questi ultimi.  «Il 4,4% degli incidenti mortali riguarda ragazzi sotto i 18 anni di età; il 6,5%, motociclisti tra i 18 e i 54 anni, mentre il 15,5% dei centauri ha più di 54 anni, un dato che denota una fatalità più che raddoppiata per i motociclisti più anziani» spiega Osvaldo Chiara, direttore del Trauma Team.  Lo studio si sofferma anche sui tipi di lesione maggiormente riscontrati. «Nonostante la protezione del casco, la testa ha riportato traumi nel 27% dei casi — sottolinea Chiara — . Ma è il torace la zona più esposta: le lesioni in quest’area, dove organi come fegato, milza e reni spesso riportano gravi conseguenze, hanno riguardato il 30% dei motociclisti con un rischio relativo, che si conferma più elevato per gli ultra-cinquantaquattrenni».  A proposito di protezioni, lo studio evidenzia che il 94% dei motociclisti indossa il casco, ma l’80% non ne porta nessuna per il torace, l’addome e per gli arti superiori e inferiori. Il Trauma Team di Niguarda inizierà adesso anche uno studio prospettico sui nuovi incidenti, per capire esattamente la biomeccanica del trauma. Questo dovrebbe fornire indicazioni utili sulle parti del corpo più esposte al trauma e su come proteggerle in modo efficace.  Nei traumi gravi da incidenti motociclistici infatti la prevenzione è un punto dolente. Ma resta ancora molto da fare anche sotto l’aspetto dell’organizzazione dell’assistenza. Nei traumi complessi bisogna infatti stabilizzare le funzioni vitali del paziente e trattare le sue lesioni, possibilmente entro un’ora dall’evento, secondo il concetto della cosiddetta “golden hour” mutuato dagli Stati Uniti dove negli anni ‘80 è nato il modello dei Trauma Center seguito ormai un po’ in tutto il mondo.  In Italia, la Conferenza Stato-Regioni ha stabilito fin dal 2002 la costituzione di una rete di unità operative per acuti (Centro traumi) che trattino il paziente traumatizzato grave, collegate con altri ospedali del territorio. La rete è stata chiamata Sistema integrato di assistenza ai pazienti traumatizzati (SIAT).  Finora però solo Emilia Romagna, Lombardia, Liguria, Marche e Lazio hanno provveduto sia dal punto normativo che operativamente.  «In alcune Regioni, come il Friuli Venezia Giulia e il Veneto, — spiega Giuseppe Nardi, responsabile dell’Unità operativa complessa Shock e Trauma dell’ospedale San Camillo Forlanini di Roma — la parte normativa è un po’ carente, ma di fatto c’è un sistema funzionante. La Toscana ha il sistema di Area Vasta, in cui l’assistenza ai traumatizzati segue la ripartizione di tutta la Sanità regionale per macro-aree del territorio». In Sicilia hanno deliberato l’istituzione dei SIAT nel 2012 e in Abruzzo quest’anno.  Di cosa c’è bisogno? «Delle risorse — dice Nardi — e di una normativa nazionale che stabilisca il criterio della centralizzazione dei traumi in pochissimi ospedali di riferimento. Ma soprattutto manca un Registro traumi nazionale, una carenza che è una vera vergogna per l’Italia» .  Ruggiero Corcella ____________________________________________________________ Sanità News 18 Dic. ’13 AL VIA UN NUOVO DOCUMENTO SULLA DIAGNOSTICA PER IMMAGINI Un altro importante documento sulla organizzazione dell'erogazione delle prestazioni di diagnostica per immagini e' stato condiviso e sottoscritto nei giorni scorsi presso il Ministero della Salute da tutte le categorie professionali e scientifiche interessate (Associazione Italiana Fisica Medica, Associazione Italiana di Medicina Nucleare ed Imaginig Molecolare, Associazione Italiana di Neuradiologia Diagnostica ed Interventista; Associazione Italiana Radioterapia Oncologica, Societa' Italiana Radiologia Medica, Sindacato Nazionale Radiologi; Federazione Nazionale dei Collegi dei Tecnici Sanitari di Radiologia Medica). Il Tavolo tecnico dell'Area Radiologica e' stato insediato dal Sottosegretario di Stato alla Salute, Paolo Fadda, d'intesa con il Ministro Beatrice Lorenzin. Il documento - spiega il Ministero - nell'individuare ed analizzare la complessita' dell'Area radiologica, delinea i capisaldi dell'organizzazione, del management, delle prestazioni in Area Radiologica, evidenziando funzioni, ruoli e responsabilita' dei professionisti medici, tecnici e fisici coinvolti. Si conferma e si esalta l'importanza strategica dell'unitarieta' e della complessita' dell'insieme dell'Area della diagnostica per immagini svolto da componenti tra loro complementari e interfunzionali non separabili quali quella clinica e quella tecnica. ''E' un contributo fondamentale ed innovativo - afferma il Sottosegretario Fadda - che da' indicazioni organizzative chiare e definite in un settore centrale nel processo di attuazione del diritto alla salute, qual e' quello della diagnostica per immagini nel quale oltre all'evoluzione scientifica e tecnologica debba essere valorizzato ed apprezzato l'indispensabile apporto professionale. Il documento contribuisce ad avviare un processo di chiarezza nei ruoli e nelle responsabilita' dei diversi attori (medici radiologi, fisici medici e tecnici sanitari di radiologia medica) rispondendo cosi' alle esigenze formulate dalle Regioni anche dopo i recenti casi di intervento della Magistratura. Il metodo adottato insieme al Ministro Lorenzin, di coinvolgimento da coprotagonisti di tutte le organizzazioni sindacali e professionali interessate, si conferma valido per affrontare e risolvere i problemi che assillano la Sanita'. Infatti l'apporto scientifico e professionale di tutte le componenti e' un valore aggiunto indispensabile''. ____________________________________________________________ Sanità News 12 Dic. ’13 DATI ALLARMANTI SULLA SANITA’ ITALIANA NEL RAPPORTO AIOP Lievitazione dei ticket sanitari (22% dal 2009 al 2012) per diagnostica e visite specialistiche, aumento dei ticket dei farmaci (63% dal 2009 al 2012), incremento del ricorso al pagamento delle prestazioni intramoenia (51% dal 2011 al 2012), lievitazione delle addizionali Irpef regionali (dal 2009 al 2012 ha toccato punte del 77%). E accanto a tutto questo, una spesa ospedaliera pubblica pari a 61,6 miliardi, in un quadro generale di spesa sanitaria che risulta la piu' bassa (7% del Pil), rispetto alla media Ocse (7.8% del Pil) e dei Paesi G7 (8%). In un quadro del genere, diventa sempre piu' difficile sostenere il sistema sanitario italiano. A lanciare l'allarme, attraverso i dati del 2012, e' l'Associazione italiana ospedalita' privata (Aiop), che ha presentato l'11esimo rapporto Ospedali&Salute. In particolare quest'anno l'indagine si e' soffermata sulle ripercussioni che questa situazione ha sulla vita e le scelte dei pazienti, attraverso un sondaggio condotto su un campione di 2.000 caregiver. Ne e' emerso un appesantimento oggettivo della spesa sanitaria sostenuta dai pazienti e dalle loro famiglie, al quale si affianca una percezione soggettiva del sovraccarico dell'assistenza dalla quale derivano le scelte in termini di priorita' delle cure. Si scopre cosi' che nel 2012 5,5 milioni di famiglie hanno rinunciato o rimandato le cure dentarie, 4,7 milioni le visite specialistiche e 2,9 milioni di famiglie gli esami di laboratorio. Secondo l'Aiop sono due le strade principali da seguire per riformare il sistema. La prima e' il riconoscimento di un finanziamento equo per tutti gli operatori, pubblici e privati, dove questi ultimi, che rappresentano il 27,3% dell'attivita' complessiva, costando pero' solo il 14,4% della spesa totale, sono soggetti a una sottotariffazione del 20% circa rispetto agli ospedali pubblici, che beneficiano tra l'altro del contributo da parte delle Regioni per ripianare i disavanzi di bilancio, colmando quindi le sacche di inefficienza. Secondo una simulazione effettuata da Aiop, una riduzione del 33% delle inefficienze all'interno della spesa degli ospedali pubblici si riuscirebbe a riassorbire il recupero della sotto-tariffazione applicata agli ospedali privati accreditati, generando addirittura un risparmio. In termini pratici, se dalla spesa per gli ospedali pubblici si potessero eliminare 4 miliardi di inefficienze, si scenderebbe da 52,7 miliardi a 48,1 miliardi, mentre se quella per i privati accreditati aumentasse da 8,9 miliardi a 10,6 miliardi si arriverebbe a una spesa complessiva di 58,7 miliardi invece degli attuali 61,6, con un risparmio del 4,6% rispetto a oggi. La seconda strada, immediatamente percorribile, consiste nell'inserire trasparenza e semplificazione nella gestione dei sistemi sanitari regionali, a partire dalla compilazione obbligatoria di bilanci trasparenti e confrontabili per tutti gli ospedali pubblici. "Assicurato un finanziamento equo e misurabile - afferma il presidente Aiop, Gabriele Pelissero - in relazione alla qualita' e alla quantita' delle prestazioni erogate, sara' finalmente possibile dare un vero contenuto al principio di responsabilita' degli amministratori e contemporaneamente ridurre i vincoli burocratici che limitano l'autonomia manageriale. Nei mesi a venire, seguiremo le proposte della seconda spending review con l'auspicio che, in accordo con il ministro Lorenzin - conclude - si possa attivare un risparmio tutto interno al sistema per liberare risorse che in esso devono essere reinvestite". ____________________________________________________________ Sanità News 18 Dic. ’13 L’ATTIVITA’ FISICA OVER 50 ALLONTANA LA DISFUNZIONE ERETTILE L'attivita' fisica deve entrare a far parte di una terapia giornaliera pensata per limitare l'impatto dei sintomi urinari (LUTS) causati dall'ingrossamento della prostata e allontanare problemi di disfunzione erettile. A suggerirlo gli esperti e diversi studi condotti a livello internazionale che indicano come, per gli uomini over 50, mantenersi in movimento praticando uno sport vero e proprio o anche facendo le scale, uscendo a fare shopping, o le stesse attivita' "casalinghe" come portare fuori la spazzatura, mettere in ordine a casa e spolverare siano un valido aiuto a mantenersi attivi anche sessualmente e a ridurre la severita' dei sintomi urinari fra coloro che gia' ne soffrono a causa dell'ingrossamento della prostata tipico dell'eta'. "La scelta del giusto sport puo' fornire benefici anche nel combattere i sintomi delle basse vie urinarie, fastidi collegati all'iperplasia prostatica benigna, ossia all'ingrossamento della prostata, che colpiscono circa 7 milioni di italiani con il progredire dell'eta'. Recenti scoperte scientifiche hanno evidenziato il legame che esiste fra disfunzione erettile e sintomi urinari e i meccanismi comuni alle due condizioni che possono coesistere anche nel 70% dei pazienti di eta' piu' avanzata" spiega Giuseppe Morgia, Direttore della Clinica Urologia e della Scuola di Specializzazione in Urologia dell'Universita' di Catania. Il meccanismo che lega lo sport al sesso e al benessere maschile e' lo stesso che lega l'attivita' sportiva al buon funzionamento del sistema cardiovascolare. Disfunzione erettile e malattie cardiache, infatti, dipendono entrambe da un ridotto afflusso di sangue verso il pene e il cuore. L'esercizio fisico aiuta a contrastare la comparsa di malattie dei vasi sanguigni, combattendo la formazione di placche lipidiche (grassi) a livello delle arterie, responsabili dell'insufficiente irrorazione dell'organo. Lo sforzo fisico, inoltre, e' in grado di liberare particolari sostanze chiamate endorfine che influenzano positivamente il mantenimento di una soddisfacente vita sessuale. "Una corretta attivita' fisica e' fondamentale per il benessere fisico e psichico dell'uomo over 50 ma anche per il suo apparato sessuale e urinario, a patto di scegliere l'attivita' giusta" commenta Giuseppe Morgia "Un colloquio con lo specialista potra' aiutare ad identificare il giusto mix di ingredienti per combattere contemporaneamente disfunzione erettile e sintomi urinari attraverso l'assunzione di una terapia giornaliera indicata per entrambe le condizioni, come il tadalafil, e un programma di attivita' fisica adatto all'eta' oltre a corretti stili di vita". Fra le attivita' sportive piu' indicate per chi ha problemi di erezione o soffre di patologie prostatiche, vi sono il jogging e trekking che, se praticati con moderazione, sono attivita' aerobiche che consentono quindi di favorire il miglior funzionamento del cuore e dell'apparato respiratorio, il nuoto che migliora significativamente la resistenza allo sforzo, la frequenza cardiaca e il ritmo della respirazione, la palestra ad esempio alternando sedute dedicate alle performance di cuore e polmoni (attivita' aerobiche), stretching ed esercizi di rilassamento, con attivita' dedicate al potenziamento dei muscoli, preferendo pero' attrezzi come tapis roulant alla cyclette. Anche il golf, attivita' aerobica che non richiede sforzi fisici particolarmente intensi e concentrati non ha particolari controindicazioni, salvo il fastidio per chi soffre gia' di problemi alla prostata di dover urinare spesso e correre al bagno che puo' ostacolare il sereno svolgimento di una competizione. Fra gli sport in cui invece si deve prestare piu' attenzione: il ciclismo e la mountain bike che, sia per la posizione che si assume sul sellino, sia per i sobbalzi soprattutto su percorsi accidentati possono avere ripercussioni negative sul benessere maschile fino a diventare un potenziale fattore di rischio per la disfunzione erettile. Lo stesso vale per l'equitazione che per i continui sobbalzi e microtraumi che si ripetono nell'area del perineo possono avere effetti negativi sul benessere dell'apparato sessuale e riproduttivo maschile.   ____________________________________________________________ Corriere della Sera 15 Dic. ’13 DURANTE IL SONNO , CI FACCIAMO IL LAVAGGIO DEL CERVELLO Alcune cellule nervose si rimpiccioliscono, per lasciare passare i liquidi che drenano le sostanze tossiche La notte per l’uomo è un periodo in cui nell’organismo tutto cambia rispetto al giorno, dal metabolismo all’attività del cervello, con modifiche necessarie per la nostra sopravvivenza.  Anche quando la notte non c’è, o dura pochissimo, come nelle estati polari, abbiamo comunque bisogno di buio, riposo, sonno: un tempo per ricaricare le batterie, in cui però non siamo affatto inattivi, anzi.  Tutto inizia quando il sole tramonta: è allora che la ghiandola pineale nel cervello comincia a produrre la melatonina. «È un “ormone del riposo”, che segnala al corpo di mettersi nella modalità di risparmio energetico: la temperatura interna si abbassa, l’attività degli enzimi si riduce, il metabolismo rallenta. Così ci prepariamo al sonno» chiarisce Roberto Manfredini, cronobiologo e direttore della sezione di Clinica medica dell’Università di Ferrara.  «Addormentarsi però non è come schiacciare un bottone: è difficile crollare appena si mette la testa sul cuscino. Se ci impieghiamo 15-20 minuti da quando spegniamo la luce è normale — interviene Federica Provini, neurologa del Centro di Medicina del Sonno del Dipartimento di Scienze Neurologiche dell’Università di Bologna —. Peraltro la primissima fase di dormiveglia è molto interessante: si perde il contatto con la razionalità, le percezioni sono distorte e il cervello fa associazioni bizzarre. È un momento di estrema creatività: moltissime intuizioni geniali possono arrivare in questa fase. Niels Bohr ipotizzò la struttura dell’atomo proprio nel dormiveglia».  Quando finalmente ci addormentiamo, la temperatura corporea si abbassa ancora, così come la frequenza cardiaca e la pressione, per mettere a riposo l’organismo. Nel cervello però ferve l’attività: un recente studio pubblicato su Science dimostra che proprio di notte è dieci volte più efficiente il sistema linfatico, che smaltisce i rifiuti metabolici del cervello, ripulendolo dalle tossine accumulate di giorno. Alcune cellule cerebrali, probabilmente quelle gliali che servono a mantenere vitali i neuroni, si rimpiccioliscono durante il sonno: lo spazio fra queste cellule aumenta del 60% e ciò consente l’ingresso di una maggiore quantità di fluidi, che aiutano a drenare sostanze tossiche e scorie.  Il sonno, indispensabile per tutti gli esseri viventi forse proprio per questo effetto di “pulizia” cerebrale, è scandito da cicli di circa 60-90 minuti in cui si alternano tre fasi: nelle prime due il sonno è man mano più profondo, la terza è la fase Rem (da rapid eye movements ) in cui si sogna. Una volta completato il ciclo si ricomincia daccapo, per circa 4-5 volte. «La durata delle diverse fasi non è omogenea nel corso della notte — spiega Provini —. All’inizio infatti le fasi non-Rem, di sonno profondo, in cui complessivamente passiamo il 65% del tempo di sonno, sono molto più lunghe. Questo accade perché durante il giorno accumuliamo via via la necessità di sonno e all’inizio del riposo è quindi massimo il carico di stanchezza del nostro organismo: abbiamo estremo bisogno di recuperare energia e per questo passiamo più tempo nel sonno maggiormente ristoratore. Non solo: si è anche appurato che le aree cerebrali usate maggiormente durante il giorno e quindi più “stanche” (ad esempio, le aree motorie se si è fatta attività fisica, ndr ) si addormentano prima e più profondamente, proprio perché devono recuperare molto. Dalle 3 di notte in poi si allungano invece le fasi Rem, dalle quali è più facile svegliarsi: sono quelle in cui si sogna e verso le 6 arrivano a durare anche 50 minuti. Per questo è più probabile ricordare i “lunghi” sogni del mattino che quelli fatti a notte fonda».  Il numero di ore di sonno necessarie per ciascuno di noi è variabile: esistono i “brevi dormitori”, vispi e arzilli dopo 4 ore di riposo, ma anche chi sta bene solo se dorme almeno 9 ore. Ci accorgiamo di dormire a sufficienza se poi, durante il giorno, “funzioniamo” bene; l’importante è che il sonno non sia frammentario, perché ogni volta che ci svegliamo dobbiamo ricominciare daccapo il “viaggio” nelle diverse fasi del sonno e inevitabilmente passiamo meno tempo nel sonno profondo e ristoratore. «Non sappiamo invece con precisione perché si sogna, ma è un’attività indispensabile e lo fa anche chi pensa di non sognare» dice la neurologa.  E mentre il cervello dorme e sogna, neppure il corpo riposa: nelle prime ore del mattino nell’uomo inizia ad aumentare la produzione di testosterone, che ha poi un picco 3-4 ore dopo, al risveglio, e sembra connesso alla comparsa delle erezioni notturne, così come a un incremento del desiderio sessuale nel primo mattino. «Anche il cortisolo viene prodotto a partire dalle ore 2-3 di notte e ha un picco intorno alle 8: ha un effetto immunosoppressivo e questo spiega perché malattie come l’artrite reumatoide siano particolarmente fastidiose al risveglio, tanto che oggi si usano formulazioni di farmaci che consentono il rilascio dei principi antinfiammatori durante la notte — riprende Manfredini —. In prossimità del risveglio e in concomitanza con la fase Rem si incrementa anche l’attività del sistema nervoso autonomo: crescono pressione arteriosa e frequenza cardiaca, il tono dei vasi aumenta e le arterie, soprattutto le coronarie, riducono il loro lume dal 4% in chi è sano, fino all’8% in pazienti con disfunzioni dell’endotelio, il tessuto che ricopre internamente i vasi. A questo si aggiungono la tendenza a una maggiore aggregazione delle piastrine, ancora più probabile in presenza di placche di aterosclerosi, e la riduzione dell’attività di enzimi che “sciolgono” gli eventuali trombi. Al mattino perciò abbiamo la convergenza di almeno una decina di elementi negativi: in chi è sano non è un problema, ma in soggetti più a rischio ciò può innescare infarti e ictus, non a caso più frequenti nelle prime ore del giorno». Ma che cosa accadrebbe se fosse sempre notte? «Sono stati condotti molti esperimenti anche in Italia, nelle grotte di Frasassi, per capire che cosa accade ai ritmi circadiani se manca il sincronizzatore principale, la luce — risponde il cronobiologo —. Di certo ci “sfasiamo” e percepiamo il tempo diversamente, come fosse più lento, perché il ciclo “naturale” dell’uomo in una notte perenne si manterrebbe, così come la necessità di riposo, ma sarebbe un po’ più lungo: avremmo cioè un giorno fra le 24 e le 25 ore. Ciò spiega perché tolleriamo meglio viaggiare attraversando i fusi orari verso Ovest: di fatto allunghiamo la giornata, assecondando il nostro orologio biologico». E, forse, spiega anche perché le giornate ci sembrano sempre troppo corte.  LA MEMORIA SI ADDORMENTA 20 MINUTI PRIMA Il cervello non si addormenta tutto assieme, di colpo: la prima zona a cadere nel sonno è l’ippocampo, sede dei processi di memoria. Lo ha appena scoperto Lino Nobili del Centro di Medicina del Sonno dell’ospedale Niguarda di Milano. «L’ippocampo si addormenta fino a 23 minuti prima del resto del cervello — dice Nobili — e questo spiega perché, ad esempio, spesso dimentichiamo l’ultima pagina letta o quello che abbiamo detto prima di dormire. Nel dormiveglia perciò la memoria è già spenta: è probabile che succeda perché è una capacità utilizzata continuamente durante il giorno e quindi è più “stanca” del resto del cervello. A seguire si addormentano le aree frontali del giudizio e le posteriori visive, e ciò spiega perché in questa fase si possono avere anche allucinazioni visive». Le regioni più pronte al risveglio sono quelle del movimento, forse perché nell’eventualità di un pericolo improvviso occorre essere pronti a fuggire; «non a caso il sonnambulismo, in cui il cervello dorme ma il corpo è in movimento, è fra le parasonnie più frequenti», conclude Nobili.  ____________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Dic. ’13 CERVELLO E SALUTE, L’ETÀ NON SI MISURA IN ANNI ? Secondo i nuovi studi l’anzianità «percepita» conta più della data di nascita A vere quarant’anni, cinquantacinque, settanta o ottantacinque, sembra che siano oggi solo espressioni verbali, utili ma non decisive, orientative ma non descrittive. «Ognuno ha l’età che si sente addosso», si sente anche dire spesso e se questa frase viene presa con spirito e parsimonia sembra essere quella che meglio descrive la situazione. Non stiamo parlando ovviamente di gravi patologie, e soprattutto stiamo parlando del nostro tempo, nel quale la vita si sta allungando di più di un trimestre ogni anno che passa. Molti anziani vivono così una vera e propria «età guadagnata». Con un bonus particolare per le donne, che vivono in media sei-sette anni più dei maschi. Lo conferma una recente ricerca pubblicata dalla Population and Development Review , rivista scientifica americana che ha messo in relazione l’età anagrafica con altri fattori che contribuiscono a determinare l’«età reale»: salute, tasso di disabilità, funzioni cognitive. E lo confermano anche i risultati di una ricerca pubblicata poco tempo fa sul British Medical Journa l, relativa a coppie di gemelli: dei due viveva di più quello che si sentiva (e appariva) più giovane.  Allora l’età non conta? Conta, conta, ma come un disegno potenziale, che se non viene sviluppato e portato in primo piano nemmeno si vede. Queste sono parole di speranza, ma non sono dolciastra melassa o follia consolatoria, sono un invito a viversi la vita secondo le proprie aspirazioni e le proprie aspettative; i propri sogni direi. È questa una grande nuova libertà, e anche un poco una nuova responsabilità.  Due sono le forze portanti di una giovinezza protratta: la progettualità e l’attività. Mai chiudersi gli orizzonti e sentire il proprio futuro accorciarsi. Dietro abbiamo una vita e perché non pensare di averla anche davanti? Se c’è la passione, ovviamente, e magari più passioni. In fondo è la passione che dà spessore alla nostra vita e ne determina la dimensione reale: non necessariamente una vita lunga, ma una vita piena, libera e calda, e in questo il cervello conta molto. A fronte del dilagare di consigli di tutti i tipi per invecchiare meglio, il mio motto è: «Mangiare di tutto con moderazione, fare sport senza esagerare, adoperare il cervello senza paura di esagerare».  Perché il cervello? Non lo sappiamo, ma si è osservato da più parti che il cervello deve gestire sostanze che controllano in qualche modo il procedere dei nostri anni, e anche in caso di gravi patologie neurodegenerative chi ha vissuto adoperando di più il proprio cervello sta decisamente meglio. Prima o poi capiremo perché, e ne faremo un caposaldo della nostra condotta.  Nel frattempo che fare? Non strafare in niente, ma semmai straimmaginare, se il verbo esistesse, e aspettarsi tanto dai giorni a venire e «affacciarsi» su quelli. In fondo gli anni sono fatti di giorni. Non mangiare troppo né troppo poco, bere con moderazione e non fumare, sono i punti essenziali, ma anche andare dal medico e curarsi. Non curarsi è da stupidi, non da eroi. Ascoltare i consigli del medico e farsi le analisi prescritte. Sembra ridicolo, ma molti appassiscono tristemente per non avere osservato queste elementari precauzioni, magari facendosi forti del fatto di essere sempre stati sani.  Avere buoni geni non guasta certamente, ma avere un buon rapporto con se stessi è ancora più importante. In fondo tutte le religioni hanno spinto a farsi una sorta di «esame di coscienza», in solitario o con qualche «saggio». Penso che sia fondamentale. Ogni sera guardarsi nello specchio e dire: «Puoi guardarti a testa alta? Hai fatto quello che si deve, ovviamente, ma anche quello che ti senti di fare? Hai guardato il mondo e te nel mondo? Hai pensato che se ti trascuri, psicologicamente o fisicamente, puoi procurare un inatteso dolore alle persone che ti sono più care? Hai messo in moto qualche piccolo nuovo meccanismo e hai seminato qualche seme? Ti piacerebbe che dopo morto si parlasse di te come ora vorresti che si parlasse di te? Come tu, nel tuo intimo, parli di te? Sai immaginare come chi ti conosce parlerà di te?». Così facendo anche la morte si esorcizza e diviene uno dei tanti episodi della vita. In fondo la paura della morte è la paura della (brutta) vita. È della vita e di una eventuale sua malaconduzione che si deve avere paura.  E soprattutto è importante poter dire «Ho vissuto», senza sprecare occasioni e opportunità, senza rinunciare per paura. Nessuno ci vuole più bene di chi si aspetta tanto da noi. Compresi noi stessi.