RASSEGNA 01/12/2013 IL MERITO VA (DAVVERO) PREMIATO COME MIGLIORARE IL NUOVO METODO LE UNIVERSITÀ DEL MERIDIONE IN GUERRA UN MARE DI BUGIE SUL CNR A PORTA A PORTA "ECCELLENZE" PROPOSTE DAL CNR AL MINISTRO CARROZZA UNIVERSITÀ, GRADUATORIE ANCORA APERTE PER 10 GIORNI LA FAVOLA DELL'UNIVERSITÀ POPOLARE GRECIA:TREDICESIMA SETTIMANA DI SCIOPERO TOTALE DEGLI ATENEI CAVALCARE L'ONDA DELLA «DEMOCRAZIA APERTA» RICERCATORE SENZA TITOLI A GIUDIZIO TRE PROF I LIMITI DELLA SCIENZA FAI: SARDEGNA DOMANI! PER UN TURISMO RESPONSABILE I GRANDI SCIENZIATI ITALIANI PREMIATI DALLA RIVISTA NATURE QUEGLI INSULTI A PIANO E RUBBIA LA BIBLIOTERAPIA FUNZIONA SULLA MENTE E ANCHE SUL CORPO PER NON PERDERSI TRA LE PAROLE UN BUON LIBRO RENDE MIGLIORI A SCUOLA C’È UN ANNO DI TROPPO LA DOTTORESSA FA LA COLF DUE SU CENTO CON LA LAUREA ========================================================= AOUCA: È L'ORA DEI VAGITI AL POLICLINICO AOUCA: NUOVO REPARTO DI GINECOLOGIA ASLSS: NUOVA ALA SUD DEL CIVILE SASSARI. MALATTIE RARE, FINANZIATO IL PIANO DI ASSISTENZA SOLO NOVE REGIONI GARANTISCONO I LIVELLI ESSENZIALI D’ASSISTENZA ABILITAZIONI FASULLE PER NUTRIZIONISTI, 5 NEI GUAI STAMINALI, ASCOLTATE I NOSTRI RICERCATORI LA VERITÀ SULLE STAMINALI ANIMALISTI LE OPINIONI, I FATTI E LE CURE ECCO PERCHÉ ALLA FINE L'OBAMACARE FUNZIONERÀ UTILIZZO FARMACI BIOSIMILARI RIVOLUZIONA LA MEDICINA ODONTOIATRIA INDOLORE CON IL LASER A FIBRE OTTICHE GLI ITALIANI COLPITI DA PSORIASI SONO 2,5 MILIONI TUTTI DORMANO IL RACCONTO DI SÉ SERVE AL MALATO E GUIDA IL MEDICO ENERGETICA MA DIGERIBILE LA COLAZIONE DEGLI SPORTIVI I MISTERI DEL MALE NELLE CELLULE CEREBRALI MA SENZA I CATTIVI NON C’È STORIA AOUCA: PARKINSON A PAROLA ALLO SPECIALISTA STRESS E TROPPO COMPUTER ALLA BASE DEL MAL DI TESTA UN DOLORE IN AGGUATO PER CHI FA TROPPO SESSO ALLERGIE AI MEDICINALI: SONO SEMPRE DI PIÙ I PAZIENTI CHE NE SOFFRONO TUMORE AL SENO, UNA SOLA RADIOTERAPIA PER GUARIRE I "DIABESI" ITALIANI SONO OLTRE 2 MILIONI A PISA EFFETTUATO IL TRAPIANTO DI FEGATO NUMERO 1500 NUOVE LINEE GUIDA PER LA SALUTE ORALE DEI BAMBINI DENTISTA LOW COST CERCASI AIDS: 10 CONTAGI AL GIORNO.ITALIA PIÙ BASSA MORTALITÀ DEL MONDO TUMORI,'AGEISM': "AGLI ANZIANI NEGATE LE CURE PER ETÀ" TRAFFICO DI MEDICINALI CONTRAFFATTI: 200 MILIARDI OMS: I GRECI SI INFETTANO AIDS PER GLI AIUTI" CROMOSOMA Y QUASI INUTILE PER LA RIPRODUZIONE IL MICROBO CHE RESISTE ALLA STERILIZZAZIONE DELLE CAMERE PULITE IL PARADOSSO DELLA SUPER MEMORIA CHE CREA FALSI RICORDI ========================================================= ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Nov. ’13 IL MERITO VA (DAVVERO) PREMIATO Si prendano i 41 milioni dai 6 miliardi del Fondo di finanziamento ordinario Gianni Toniolo Quarantuno milioni sono una frazione infinitesima di ottocentomila milioni, il bilancio dello stato italiano. Segnalano, però, in modo quasi simbolico nell'esiguità della cifra, l'avvio di un cambiamento atteso e dalle forze più vive dell'università italiana: il merito è finalmente considerato, i risultati della ricerca contano nella distribuzione agli atenei delle risorse statali. Quarantuno sono i milioni promessi agli atenei che ottengono le migliori valutazioni da parte dell'Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione dell'Università e della ricerca). Di questo stanziamento non vi è traccia nella legge di stabilità licenziata dal Senato. L'Anvur, creata da una legge del novembre 2006, ha subito incontrato forti resistenze tanto che il suo regolamento è stato varato solo nel 2010. L'Agenzia ha il compito di valutare «la qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca pubblici e privati destinatari di finanziamenti pubblici». Lo stato vuole conoscere la produttività delle (poche) risorse che investe nella ricerca, per impiegarle nel modo migliore, soprattutto incentivando la qualità della ricerca. Per questo si è pensato che una piccola (molto piccola ma, si spera, crescente) quota dei finanziamenti agli atenei sia erogata tenendo conto della qualità del lavoro svolto da università ed enti di ricerca. Le valutazioni dell'Agenzia sono criticate da più parti. Un po' a ragione, molto a torto. I criteri adottati possono certo essere migliorati, tuttavia, la sola esistenza di un sistema di valutazione legato a finanziamenti premiali ha cominciato a creare un clima nuovo nell'università. Rettori, professori, candidati ai concorsi e membri delle commissioni giudicatrici, dipartimenti sanno che devono prendere sul serio la qualità del proprio lavoro, anche se misurata con criteri non sempre condivisi. Si sta lentamente diffondendo l'idea che lavorando meglio si ottengono fondi di ricerca aggiuntivi. È indispensabile consolidare nel tempo l'aspettativa che la buona ricerca «paga». Anche per incoraggiare una competizione per l'assunzione e la promozione dei docenti migliori, quelli in grado di produrre risultati ben valutati dall'Anvur e, dunque, di attrarre risorse aggiuntive. Le pianticelle appena sbocciate nel nuovo clima che la valutazione sta instaurando saranno bruciate dalla gelata prodotta dalla cancellazione dei 41 milioni, se la Camera non porrà rimedio alla dimenticanza del Senato. Il ministro Carrozza (Il Sole 24 Ore del 28 novembre) dice che i 41 milioni dovrebbero arrivare, magari in due anni. Perché due anni? Sono già tanto pochi quei milioni. La situazione della finanza pubblica è sotto gli occhi di tutti. Forse anche l'università deve continuare, come per il passato, a dare il proprio contributo alla riduzione della la spesa pubblica (non è saggio fare pagare ulteriori costi alle nuove generazioni ma questa sembra essere la nostra preferenza collettiva). Ma se così è si prendano i 41 milioni dai circa 6 miliardi e mezzo del Fondo di finanziamento ordinario delle università, allocato sulla base di criteri indipendenti dal merito. Il saldo di bilancio non cambia. Si tratta, per il finanziamento ordinario, di una riduzione del 6 per mille. Ammontare trascurabile, carico di significato. E il ministro si impegni a fare crescere nel tempo le risorse distribuite sulla base di valutazioni di merito, riducendo le altre. Se questo impegno diventasse credibile, si darebbe respiro e sparanza alle forze migliori dell'università. Gt14@duke.edu ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Nov. ’13 COME MIGLIORARE IL NUOVO METODO Daniele Terlizzese Se si digita su Google «premiare il merito» si ottengono, in meno di mezzo secondo, circa 1 milione e 250 mila risultati. Per distinguere in questa selva la retorica vuota dalle intenzioni serie bisognerebbe capire in quali casi chi parla di premiare il merito ha definito in che modo individuarlo, quali risorse usare, chi sono i destinatari del premio. Il ministero dell'Università e della ricerca sembrava sulla buona strada. Ha messo in piedi un'agenzia di valutazione autonoma (l'Anvur) che ha fatto un lavoro colossale in tempi relativamente rapidi, l'esercizio di valutazione della qualità della ricerca. Ha scelto un criterio di misurazione chiaro e non ambiguo (almeno per quel che riguarda la valutazione della ricerca; quanto alla didattica, l'altro fondamentale prodotto dell'università, c'è molto da fare). Ha indicato, per quest'anno e per quelli a venire, le quote del Fondo di finanziamento ordinario dell'università (FFO) destinate a premiare gli atenei migliori. Ha pubblicato delle graduatorie esplicite e impietose, con forti differenze nella qualità misurata tra le varie strutture. Ciascuno di questi passi è criticabile, certo; ma non è questa la sede per farlo. Qui preme valutare se alle intenzioni e agli impegni seguano fatti coerenti. In primo luogo, quando si premia il merito inevitabilmente si penalizza il demerito. In un paese che cresce, quando le risorse disponibili aumentano da un anno all'altro, è possibile premiare i migliori senza ridurre, in valore assoluto, le risorse a disposizione dei peggiori (sarebbe solo una riduzione in termini relativi). Se, però, l'aumento (percentuale) delle risorse è inferiore alla quota destinata a premiare il merito, una parte delle risorse da attribuire ai migliori deve necessariamente provenire da risorse sottratte ai peggiori; nel caso in cui l'aumento delle risorse sia nullo, il premio ai più virtuosi deve venire per intero dalla penalizzazione dei meno virtuosi. Ora, se andiamo a guardare il decreto ministeriale n. 700 dell'8 agosto scorso, che stabilisce in che modo attribuire la cosiddetta «quota premiale» dell'FFO del 2013, troviamo una «clausola di salvaguardia» secondo la quale non può determinarsi, per nessun ateneo, una riduzione dell'FFO complessivo in misura superiore al 5 per cento del valore dell'anno precedente. Questo però vuol dire che l'aumento della quota premiale dell'FFO indicato nella legge 98/2013 (il «decreto del fare»), dal 13,5 per cento quest'anno fino al 30 per cento nel 2021, appartiene più alla categoria della vuota retorica che a quella delle intenzioni serie: se supponiamo (in modo forse ottimistico) che l'FFO complessivo resti costante, la clausola di salvaguardia implica che non ne sarà mai disponibile, a fini premiali, più del 5 per cento. In secondo luogo, un premio dovrebbe migliorare la situazione di chi è premiato. Eppure il D. M. 700 recita: «A ciascun ateneo non potrà comunque essere disposta un'assegnazione dell'FFO superiore a quella dell'anno 2012». Nel migliore dei casi, l'ateneo premiato riceve le stesse risorse dell'anno precedente (non è chiaro se questa disposizione si applichi anche per gli anni a venire). In sostanza, limitando la penalizzazione dei peggiori e mettendo un tetto al premio dei migliori, di spazio per premiare il merito ne resta ben poco: è un po' come se i giudici di una gara distribuissero soltanto medaglie di bronzo, una per ogni partecipante. In terzo luogo, se la ricerca e l'istruzione superiore sono, come tutti sostengono, vitali per la crescita del Paese, ci si aspetterebbe che su di esse si investa, indirizzando le risorse sui migliori. Invece l'FFO complessivo si sta progressivamente riducendo. In particolare, nel 2013 ha subito un taglio del 4,7 per cento. Se quindi non si può scendere (per nessuno) più del 5 per cento, e ciascuno è già stato tagliato del 4,7 per cento, resta solo uno 0,3 per cento di possibile margine per trasferire risorse dai peggiori ai migliori, meno di 20 milioni per l'intera università italiana. È un margine esiguo. L'Italia è un paese che non ha l'abitudine di premiare il merito. Cominciare a farlo è indispensabile. Ma bisogna farlo sul serio, altrimenti si alimenta lo scetticismo di chi dice che è impossibile, e si offre buon gioco a chi vi si oppone perché sa che ne sarebbe penalizzato. Aboliamo le clausole di salvaguardia e i tetti; smettiamo di tagliare sull'università; e comunque, fino a che non l'avremo fatto, sfruttiamo al massimo lo spazio di differenziazione, concentrando le «risorse premiali» sui migliori, per esempio i primi due atenei in ciascuna delle tre classi dimensionali considerate dall'Anvur. _________________________________________ L’Unità 29 Nov. ’13 LE UNIVERSITÀ DEL MERIDIONE IN GUERRA. LEZIONI BLOCCATE LUCIANA CIMINO ROMA Niente lezioni universitarie ieri al Sud. Almeno 11 atenei del meridione hanno sospeso le attività per protesta contro la questione dei punti organico, la classifica che stabilisce la capacità di assunzione degli atenei. La tensione che covava nelle ultime settimane è esplosa ieri, in concomitanza con l'incontro tra il ministro all'Istruzione, Maria Chiara Carrozza e i rettori di 17 università del sud Italia, tra cui Napoli, Lecce, Reggio Calabria, Isernia, Bari. Studenti, rettori, docenti di ruolo e precari, personale amministrativo, sindacati: tutti uniti contro il rischio che la ripartizione del turn over per il 2013 possa dare il colpo di grazia al sud, tanto da rendere concreto il rischio di chiusura di alcuni corsi di laurea con la conseguente depressione del territorio in cui erano ubicati. «La strategia è lucida e diabolica - ha dichiarato il rettore di Foggia, Giuliano Volpe - vogliono chiudere le nostre università». «I problemi del Mezzogiorno continuano a non trovare adeguata percezione nelle linee programmatiche del Governo - dice il rettore dell'Università della Basilicata, Mauro Fiorentino - oggi manca una mediazione politica attenta che rilanci il fondamentale ruolo di presidio culturale e della legalità che le Università svolgono nelle aree più difficili del Paese». E così ieri mentre gli atenei bloccavano la didattica e gli studenti si riunivano in assemblea (con i precari del politecnico di Bari in "marcia funebre"), i rettori, con il supporto dei direttori generali, hanno sottoposto il loro documento alla ministra. Nel testo chiedono, «affinché siano assicurati omogenei standard qualitativi di alta formazione e ricerca e il diritto allo studio su tutto il territorio nazionale», l'introduzione di clausole di salvaguardia finanziaria che consentano di preservare gli equilibri di bilancio degli atenei nel 2014 e il recupero delle disparità causate dal Dm. Inizialmente la riunione con i "magnifici" avrebbe dovuto svolgersi a Napoli, dove era previsto un presidio di studenti e docenti. A meno di 24 ore però è stata spostata a Roma, al Miur. Un cambio di programma accolto con disappunto. « La ministra aveva paura di essere contestata dagli studenti o ha rinunciato per paura di essere sbugiardata?», chiede l'Unione degli Universitari (Udu). «Una riunione costruttiva», l'ha definita Carrozza dopo tre ore di confronto. «Soddisfatti» anche i rettori. «Incontro lungo e costruttivo - ha commentato Antonio Felice Uricchio, dell'Università Bari - Sono stati toccati tutti i temi che riguardano il finanziamento dell' università. Sono fiducioso che si possa arrivare a una definizione di regole eque». Alla fine non c'è stato accordo ma la condivisione di un metodo di lavoro con l'obiettivo di arrivare a un Patto nazionale per l'università e la ricerca. Quanto ai punti organico, la ministra ha ammesso «grosse difficoltà che dipendono dalle finanze dello Stato» pur riconoscendo che nella ridefinizione dei finanziamenti andrebbe valutato il contesto socio-economico di ubicazione delle università. Ha poi annunciato «la delega per un testo unico che riorganizzi la normativa del settore e un provvedimento che sto elaborando e che va condiviso». Deluse invece le organizzazioni degli studenti. «Siamo stufi di assistere al conferimento di deleghe al Governo - dice il portavoce nazionale di Link, Alberto C amp ailla - qualsiasi riforma dell'Università deve essere costruita all'interno di un vero dibattito con tutta la comunità accademica nazionale». Incontro rettori-Carrozza «Cambiare il decreto sui punti organici». I130 la scuola torna in piazza Napoli, Lecce, Re o Calabria, Isernia, Bari... Undici atenei sospendono le attività per protesta ____________________________________________________________ Il Mondo 29 Nov. ’13 POLITECNICO: AZZONE INSISTE SULL'INGLESE Le acque tornano agitate al Politecnico di Milano sulla vicenda del full english, cioè l'obbligo di usare l'inglese nei corsi di laurea magistrale e dottorati dal novembre 2014: una bandiera per il rettore Giovanni Azzone. Che però nel maggio scorso ha perso una prima battaglia al Tar, promossa da 100 professori guidati da Maria Agostina Cabiddu, che non vogliono rinunciare all'italiano. Immediato il ricorso, presentato dal Magnifico al Consiglio di Stato, che dovrà decidere il prossimo 11 marzo. Nel frattempo, che cosa succede in università? Tutto deve rimanere congelato e nessuna decisione andrebbe presa, almeno fino al termine dell'iter giudiziale, dal momento che il Tar ha annullato le deliberazioni dei vertici. Eppure, in queste settimane, Azzone sta girando nei consigli dei corsi di studio dove incontra i coordinatori: sono 38 per le lauree magistrali (il cosiddetto +2), a riporto delle sei school del Politecnico. L'obiettivo del rettore è spingerli a far approvare, a livello dei corsi, il passaggio al full english. Che potrà così apparire come una richiesta della base, da ratificare nelle singole school di riferimento e in ultima istanza nel Senato accademico. C'è chi sostiene che il numero uno dell'ateneo si sarebbe spinto fino a promettere incentivi e risorse a favore dei programmi che scelgono l'inglese, ma non ci sono conferme o delibere scritte. Più definiti appaiono invece gli orientamenti tra i docenti: l'area architettura e design è per l'inglese; variabile la situazione a ingegneria, dove sposano il full english gli energetici; i meccanici sono a favore dell'italiano; indecisi i gestionali. Per questa via, sicuro sarà il pantano nel quale finirà il Politecnico se a marzo arrivasse la seconda bocciatura dei giudici. Azzone intanto non fa passi indietro né cerca soluzioni intermedie, anche se perde per strada vecchi e influenti sostenitori, come il suo maestro Umberto Bertelè e Giampio Bracchi, sempre più freddi sulla questione, ____________________________________________________________ Newsletter 28 Nov. ’13 UN MARE DI BUGIE SUL CNR A PORTA A PORTA: QUALE IL MOTIVO? Tito Boeri, professore di economia presso l'Università Bocconi di Milano e direttore scientifico della Fondazione Rodolfo Debenedetti, interviene a Porta a Porta nella puntata del 21 novembre dedicata alla ricerca: capello bianco, aria determinata, visibile consapevolezza di appartenere a quella élite di economisti che aduggia il dibattito sulla ricerca con dotti consigli su come perseguire efficienza ed efficacia nell'azione pubblica attraverso nuovi investimenti, ma soprattutto attraverso tagli applicati selettivamente sulla base delle evidenze prodotte dalla valutazione. Che dire? Il discorso sul sistema di ricerca italiano pare a prima vista ineccepibile: carenza di formazione manageriale adeguata, scarsa attrattività del Paese documentata dai risultati dei bandi ERC, mancanza di valorizzazione dei centri di eccellenza attraverso una opportuna concentrazione delle risorse disponibili. Tutto vero. E quindi ecco di nuovo il ben noto refrain: servono scelte coraggiose sulle università (leggi chiuderne alcune e trasformarne altre in licei di secondo livello), bisogna concentrare i fondi sulle eccellenze, che possono innalzare il livello della produzione scientifica italiana, fino ad arrivare al colpo finale. Boeri ci comunica che la valutazione della VQR ci ha fatto scoprire cose importantissime, per esempio che al CNR il 30% delle persone sono inattive "dove inattive vuol dire che nel giro di sette anni queste persone non hanno prodotto un saggio che sia al di sopra di livelli e di standard minimi di ricerca". L'economista sarà anche dotto, ma certamente non sa leggere i numeri. Le cifre fornite dall'ANVUR non consentono in nessun caso di arrivare alla percentuale dichiarata, essendo il numero di prodotti mancanti di poco superiore al 10% di quelli attesi. Del resto l'informato economista aveva anche sbagliato il numero dei prodotti valutati nell'ambito della VQR, che non sono certo 15.000 ma 184.878. Che problema c'è? Numero più numero meno, il succo della storia non cambia. Invece cambia, eccome. Il 30% è una percentuale tre volte più alta del 10% e 15.000 è un numero decisamente molto più basso di 184.878. Ma gli economisti non erano bravi con la matematica? Inoltre: sa il dotto economista che il CNR ha attraversato con la VQR un momento di fortissimo scontro e aperto conflitto con gli organi di governo interni (in particolare, la scelta fatta da 700 Ricercatori dell'Ente di non trasmettere all'ANVUR le proprie migliori pubblicazioni, come proposto dall'ANPRI e da Articolo 33), che considerava (e considera) largamente inadeguati a gestire un ente di ricerca? Sa il "professore bocconiano" che una causa, forse la principale, del 10% di prodotti mancanti è l'incapacità dell'Ente di sostituirsi ai suoi 700 Ricercatori e sottomettere in loro vece le pubblicazioni richieste dall'ANVUR? Si interroga, l'economista, sui processi politici, organizzativi e sociali all'origine di certi risultati? Forse, invece di lanciare "numeri al lotto" sarebbe stato meglio informarsi sulla "vicenda CNR", di cui nessuno vuole veramente approfondire la natura dei problemi, e sarebbe utile capire perché. O forse dietro quelle evidenti bugie si nasconde un qualche "indicibile" disegno? Dai vertici del CNR, in ogni caso, nessuno ha sentito il bisogno di replicare al professor Boeri. ____________________________________________________________ Newsletter 28 Nov. ’13 ECCO LE "ECCELLENZE" PROPOSTE DAL CNR AL MINISTRO CARROZZA Il CNR ha reso noti, col decreto n. 120/2013 del Presidente Nicolais, i nominativi delle sue 11 candidature per l'assunzione, con chiamata diretta, presso gli Enti vigilati dal MIUR di "eccellenze" distintesi "per merito eccezionale" o insignite "di alti riconoscimenti scientifici in ambito internazionale" Le quattro "eccellenze" da inquadrare nel livello di Dirigente di Ricerca, in ultima fascia stipendiale (con un onere complessivo pari a quasi 135.000 euro pro capite), a meno di improbabili omonimie, sono Nadia Urbinati (accademica, politologa e giornalista italiana naturalizzata statunitense, titolare della catte- dra di Scienze Politiche alla Columbia University di New York, insignita nel 2009 del Lenfest Distinguished Columbia Faculty Award, già componente della Commissione per le Riforme istituzionali nominata dal premier Letta nel giugno 2013), Pico Caroni (docente di neurobiologia all'Università di Basilea, vincitore nel 2012 del Théodore-Ott Prize), Alexey Kavokin (fisico russo, esperto in ottica dello stato solido e fisica dei semiconduttori, attualmente docente alla University of Southampton e capo dello Spin Optics Laboratory dell'Università di San Pietroburgo, già componente del Panel di Valutazione CNR della Macroarearea "Scienze e tecnologie dei materia- li") e Duccio Cavalieri (Ricercatore e professore di microbiologia all'Università di Firenze e Responsabile di Biologia Computazionale alla Fondazione Edmund Mach). I 7 studiosi che il CNR vorrebbe invece assumere nel livello di Primo Ricercatore, sempre in ultima fascia economica (con un onere pro capite di circa 100.270 euro) sono Giovanna Rizzarelli (assegnista di ricerca di Letteratura italiana presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, in passato coordinatrice del progetto ERC Starting Grant "Anton Francesco Doni - Multimedia Archive of Texts and Sources"), Graziano Ranocchia (Primo Ricercatore a t.d. presso l'Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee del CNR, coordinatore dal 2009 del progetto ERC Starting Grant "Interactive Edition and Interpretation of Various Works by Epicurean and Stoic Philosophers surviving at Herculaneum"), Fabrizio D'Adda di Fagagna (biologo cellulare esperto nello studio dei processi di invecchiamento delle cellule, Primo Ricercatore a t.d. dell'Istituto di Genetica Molecolare del CNR e responsabile all'Istituto FIRC di oncologia molecolare dell'unita di ricerca "Risposta al danno al DNA e senescenza cellulare" dove coordina il progetto ERC 2012 Advanced Grant "A Novel Direct Role of Non Coding RIVA in DNA Damage Response Activation"), Vania Broccoli (professore straordinario di Embriologia e genetica dello sviluppo al San Raffaele di Milano, dove coordina il progetto ERC 2013 Advanced Grant "New experimental therapeutic approaches for Parkinson's disease by direct DA neuronal reprogramming"), Jed Oliver Kaplan (professore della Swiss National Science Foundation, Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna, esperto degli effetti dei cambiamenti climatici sulla vegetazione e coordinatore del progetto ERC 2012 Starting Grant "From Forest to Farmland and Meadow to Metropolis: What Role for Humans in Explaining the Enigma of Holocene CO2 and Methane Concentrations?"), Lapo Bogani (professore di fisica presso l'Università di Stoccarda dove coordina il progetto ERC 2013 Starting Grant "Optical Quantum Control of Magnetic Molecules") e Daniele Sanvitto (Primo Ricercatore a t.d. presso l'Istituto di Nanoscienze del CNR e coordinatore del progetto ERC 2012 Starting Grant "Polariton condensates: from fundamen tal physics to quantum based devices"). A parte la discutibile proposta del CNR di assumere a tempo indeterminato personale già a contratto con il CNR nello stesso livello di Primo Ricercatore, la qual cosa sa tanto di "stabilizzazione" ad personam in una situazione incandescente per la mancanza di prospettive per molti precari, segnaliamo che il prof. Lapo Bogani, non più di due anni fa, rinunciò all'assunzione a tempo indeterminato nel CNR, presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie Molecolari, livello di Ricercatore (vedi qui), lasciando "spazio" all'assunzione del primo degli idonei. Queste candidature del CNR, insieme a quelle presentate dagli altri Enti MIUR (qui, ad esempio, le quattro candidature presentate dall'INAF), saranno valutate dal Comitato di Esperti per la Politica della Ricerca (CEPR), un organo consultivo presieduto dal Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e composto da nove esperti nominati, su proposta dello stesso Ministro, con decreto del Presidente del Consiglio. Organo però pressoché fantasma (ci sembra di capire esplorando il suo sito web), che ha lavorato solo nel 2011, sotto il ministro Profumo, al punto che non è stato neanche aggiornato il nome del Ministro che lo presiede! Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. Entro il 29 novembre 2013, il CEPR esprimerà il proprio parere e predisporrà un'apposita graduatoria generale per il rilascio del nulla osta da parte del Ministro Carrozza. Il finanziamento sarà ripartito con decreto del Ministro in base alla graduatoria stilata dal Comitato. I contratti di assunzione dovranno essere stipulati entro il 20 dicembre 2013. ____________________________________________________________ Il Messaggero 30 Nov. ’13 UNIVERSITÀ, GRADUATORIE ANCORA APERTE PER 10 GIORNI Bonus, si riaprono le graduatorie Pasticcio bonus. Torna a pesare il voto di maturità e dunque si riaprono per dieci giorni le graduatorie per i test di accesso all'università. ROMA Il bonus della maturità non finisce mai di complicare le cose. Solo ieri è stato firmato dal ministro Maria Chiara Carrozza il decreto che spiega le modalità di accesso in sovrannumero ai corsi di laurea a programmazione nazionale. Il bonus, che è il premio in punteggio riconosciuto agli studenti nei test di ammissione alle università a numero chiuso, e che si basa sul voto dell'esame di maturità, è rientrato dalla finestra dopo essere stato estromesso al termine di mesi di polemiche e proteste degli studenti. Ma il Parlamento non ha voluto che il punteggio-premio fosse cancellato quando già i test erano cominciati, e quindi si è espresso per ripristinarlo, anche se solo per quest'anno. Oltretutto già le associazioni degli studenti minacciavano ricorsi. È stato anche deciso che la riammissione del bonus non dovesse cambiare le carte in tavola. E i ripescati non sostituiscono, ma si aggiungono, a chi è risultato ammesso soltanto in base ai test. L'esito è, evidentemente, complicato. LE DUE GRADUATORIE Secondo il decreto appena firmato, da ieri e fino alle 15 del 9 dicembre prossimo, è possibile comunicare i propri dati dell'esame di maturità. L'invito è per gli studenti che non l'avessero già fatto perché convinti che sarebbe stato inutile (vanno inseriti sul portale www.universitaly.it.). I candidati potranno iscriversi in sovrannumero in una sola sede. Ora ci saranno due graduatorie: una con i risultati dei soli test, un'altra con i ripescati, cioè gli studenti che grazie al bonus raggiungono il punteggio degli ammessi. La prima classifica ín teoria si è già formata il 30 settembre. Ma è in movimento, perché gli studenti stanno scegliendo sulle tre opzioni presentate, e quindi chi non sta "in testa" deve aspettare le decisioni degli altri. Poi il ministero deve formalizza- re l'altra classifica, quella che tiene in considerazioni dei risultati composti tra punteggio dei test e bonus. E ha indicato una data in calendario, il 18 dicembre: quel giorno, sul sito www.accessoprogrammato.miur.it ogni candidato potrà verificare la sua posizione. Troppo in ritardo per organizzare il proprio percorso universitario, secondo i tanti studenti che hanno protestato nei giorni scorsi. I PRIMI RIAMMESSI Per una volta almeno la giustizia è stata rapida. Il Tar, Tribunale amministrativo regionale, ha già di fatto riammesso - sollecitando il ministero - i primi 50 candidati a Medicina che avevano fatto ricorso coordinati dall'Udu, l'Unione degli universitari, e che con il bonus sono tornati "in quota". In tutto, sono stimati in almeno duemila i candidati alle facoltà a numero chiuso che dovrebbero rientrare con la norma salva- bonus. Questo non significa che i posti saranno altrettanti in più: mentre nella prima classifica c'è lo scorrimento, e quindi ogni rinuncia ha un sostituto, nella seconda non c'è scorrimento perché c'è già un sovrannumero. Tutti gli ammessi dovranno immatricolarsi entro il 31 gennaio. Per essere idonei il punteggio minimo è 20 (raggiunto ai test di preselezione da circa 48mila aspiranti matricole). Ma questo non basta, perché la media è stata molto più alta e a decidere quanti verranno ammessi sono i numeri stabiliti per ogni facoltà (più naturalmente, in via eccezionale, i riammessi grazie al bonus). 10.302 sono i posti per Medicina e Odontoiatria, 830 per Veterinaria, 8.787 per Architettura. Solo per i ripescati con il bonus c'è la possibilità di rimandare tutto al prossimo anno accademico. Si è tenuto conto del fatto che potevano già essersi iscritti a un'altra facoltà: nel caso di un cambio, si porteranno dietro il voto degli esami compatibili. Alessia Campione ____________________________________________________________ Il Foglio 30 Nov. ’13 LA FAVOLA DELL'UNIVERSITÀ POPOLARE Perché la retorica del diritto allo studio per tutti genera giovani evasori Con insopportabile banalità, giornali e televisioni definiscono "furbetti" studenti e famiglie che falsificano l’Isee (Indicatore situazione economica equivalente) per ottenere sconti nelle università. Troppo facile. Nei tre atenei romani il fenomeno sí è rivelato surreale: su 196 mila iscritti agli atenei pubblici, l'83 per cento presenta la dichiarazione Isee, e dal controllo di qualche centinaia di casi il 63 per cento risulta non in regola. Ma evasioni attraverso lo stesso meccanismo sono segnalate ovunque: dalla Liguria per i ticket sanitari alle case popolari di Oristano. Attilio Befera, direttore dell'Agenzia delle entrate, considera l'Isee un colabrodo, e ha minacciato guerra ai finti poveri di un paese che dichiara redditi medi lordi di 19 mila euro, con metà dei contribuenti che afferma di non arrivare a 15 mila. Dei guai combinati da Stefano Ricucci, l'aver popolarizzato il termine "furbetti" è tra i più seri; non solo per la pigrizia mentale con la quale viene propinato, ma perché impedisce di vedere le cose. Nelle università si tratta della somma tra l'Isee e le rette politiche degli atenei, due aspetti di un welfare universalista per il quale (in teoria) tutti hanno diritto a tutto, e più poveri si appare meglio è. L'Isee, introdotto nel 1998 dall'Ulivo, che né il centrodestra né i bocconiani né il governo lettiano hanno riformato, incrocia redditi e patrimoni con 60 livelli di "equivalenza": tutto autocertificato. Si arriva oltre i 90 mila euro; poi si è ufficialmente dichiarati paperoni. Quanto alle rette, a Roma si pagano a Ingegneria e Medicina 2.200 euro per l'ultima di 34 fasce Isee: ma in quella dei 19 mila euro "medi" ne bastano 650. Cifre che non trovano rispondenza nel mondo né nella logica. Qual è il risvolto della medaglia? A danno degli studenti, la mancanza di borse di studio per merito e dei mutui per pagare le rette rimborsabili nei primi anni di lavoro. Due meccanismi generalizzati all'estero, che incentivano la meritocrazia, l'autonomia dalle famiglie e la ricerca dell'occupazione, dove collaborano glì atenei, le banche che mettono i soldi e lo stato che li garantisce. L'Italia no: privilegia un pauperista diritto allo studio che spesso porta alla disoccupazione (magari finta) o a un reddito da tener basso per meglio navigare nell'Isee e in altre diavolerie burocratico-fiscali. ____________________________________________________________ Il Manifesto 30 Nov. ’13 GRECIA:TREDICESIMA SETTIMANA DI SCIOPERO TOTALE DEGLI ATENEI CONTRO I TAGLI PREVISTI DAL GOVERNO L'università batte Samaras Argiris Panagopoulos ATENE Mondo accademico avanti a oltranza. Il ministro pronto a ritirare il piano chiesto dalla troika Dopo dodici settimane di sciopero il personale dell'Università di Atene e del Politecnico ha costretto il governo a fare marcia indietro: dei 500 impiegati che si volevano licenziare ora Samaras ipotizza il solo trasferimento di 100 unità in altri uffici a un minor salario. Tutto il mondo accademico è compatto su un punto: nessun licenziamento a danno degli atenei pubblici per garantire meglio la funzione di quelli privati. Nel frattempo però il governo di Samaras e la troika hanno messo in ginocchio le università greche, ritardando l'iscrizione delle matricole e annullando in pratica gli esami, mentre il personale amministrativo dell'Università di Atene e del Politecnico resiste alle pressioni e continuerà fino a martedì una serie di scioperi prolungati contro il licenziamento della metà degli impiegati. La tenacia del personale e la solidarietà dei senati accademici di tutte le università, dei sindacati, di Syriza e gran parte degli studenti hanno fatto costringere il governo Samaras a trattare e infine ad arrendersi 11 ministro della Pubblica Istruzione Arbanitopoulos sembra essere costretto a una resa incondizionata se non procede ai tanto desiderati licenziamenti, mentre da parte loro e con molta ragione, molti impiegati non si fidano delle promesse del governo. Ieri le riunioni del personale del Politecnico e dell'Università di. Atene si sono svolte in clima di enorme tensione, anche perché i lavoratori hanno chiesto l'annullamento dei vertici del sindacato che avevano trovato positive le proposte del ministro! «Abbiamo resistito con una enorme battaglia contro il massacro dell'Università. L'unica soluzione è tornare lutti nei nostri posti di lavoro per far funzionare le facoltà insieme con í professori e il personale docente. Lo sciopero continua e il ministero mente dicendo che il 50% del personale è tornato al lavoro», insistevano ieri' pomeriggio gli impiegati in assemblea, mentre Arbanitopoulos telefonava disperato al rettore dell'Università di Atene Pelegrinis per costringete gli impiegati ad aprire l'ateneo. Secondo Arbanitopoulos università e politecnico rimangono chiusi illegalmente a causa di una minoranza del personale e di «manipoli» di Syriza e di Antarsya, la coalizione della sinistra extraparla mentare. Per il ministro l'apertura delle istituzione universitarie per permettere agli studenti di partecipare agli esami e non perdere il loro semestre è la pre- condizione per negoziare. Intanto Nuova Democrazia e Pasok hanno votato in fretta e furia una legge che permette agli studenti di partecipare a febbraio e a giugno del 2014 anche alle sedute degli esami saltate e che salteranno ancora se le università non aprono lunedì. Il giornale dell'armatore Alafouzos, la prestigiosa Kathimerint, ha chiesto ieri in prima pagina la testa di Arbanitopoulos per il solo fatto di aver fatto marcia indietro sui licenziamenti. Il ministro si è difeso sostenendo che ha assunto 454 docenti e ne assumerà altri 400. Anche per Syriza «le dimissioni del ministro rappresentano l'unica soluzione possibile». Anche gli studenti hanno risposto con occupazioni in tante Facoltà di fronte al pericolo che il governo utilizzasse per ennesima volta la polizia per risolvere í conflitti sociali. Vincendo sulla salvezza delle otto università, la Grecia può ottenere una grande vittoria contro la troika. Grazie a una fermezza così corale, il governo non ha osato aprire gli atenei con i manganelli, lasciando le ingenti forze di polizia schierate fuori dai cancelli. Clamorosa rimane l'unanime decisione dei membri del senato accademico e dei loro sostituti della grande Università di Salonicco «Aristoteleio» che hanno offerto al rettore le dimissioni in massa pur di ostacolare i licenziamenti del personale amministrativo. Nel vuoto sono caduti anche i tentativi di forzare gli scioperi attraverso le proteste degli studenti che volevano sostenere gli esami. Perfino l'organizzazione degli studenti di Nuova Democrazia (Dap) si è tenuta lontana dalle richieste del governo. Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Dic. ’13 di Luca De Biase CAVALCARE L'ONDA DELLA «DEMOCRAZIA APERTA» Jordan Raynor ha co-fondato Citizinvestor. La piattaforma consente alle autorità locali americane di lanciare un progetto e di chiedere ai cittadini di finanziarlo, detraendo quando devoluto a quel fine dalle tasse. Il 70% dei 21 progetti finora proposti sono stati finanziati. Si tratta di parchi, piscine, monumenti. La piattaforma trattiene il 5 per cento. E le autorità locali trovano una forma di relazione nuova con i loro cittadini. Intanto, spiega Joonas Pekkanen, esperto di "democrazia aperta", in Finlandia il governo chiede ai cittadini di partecipare alla stesura delle leggi. E in Irlanda la piattaforma CiviQ serve a rilevare l'opinione pubblica in modo più partecipato di quanto avviene solo basandosi sui sondaggi. Anche in Italia si moltiplicano le consultazioni. E le piattaforme per farlo stanno migliorando. L'onda dei media civici, le piattaforme che servono a migliorare la partecipazione dei cittadini alle decisioni sui temi convivenza, è una dinamica forte nell'ecosistema dell'innovazione digitale. Certo, non risolve i problemi di fondo della democrazia, dice Mary Kaldor, che insegna Global Governance alla London School of Economics: «La democrazia formale si è diffusa nel mondo negli ultimi anni. Ma i cittadini sono frustrati perché non sentono di poter influire davvero sulle decisioni che contano». Secondo Kaldor, le istituzioni devono migliorare la loro efficacia e, a quel punto, convinceranno i cittadini a partecipare di più. Anche con internet. Come in molti casi, anche in questo le tecnologie abilitanti funzionano solo nei contesti nei quali i protagonisti sanno cogliere l'opportunità. Negli altri assumono altre forme: talvolta sembrano dar luogo a operazioni velleitarie, talaltra assomigliano a foglie di fico. Ma l'onda è partita. E i cittadini per primi la possono cavalcare. ____________________________________________________________ Il Gazzettino 30 Nov. ’13 RICERCATORE SENZA TITOLI A GIUDIZIO TRE PROF .2,SSON Un laureato veneziano escluso dal concorso denunciò la commissione dell'Università di Verona: favorito un Ora insegna negli Usa Giarduca Amadori VENEZIA Prima di andarsene a lavorare negli Stati Uniti aveva denunciato il concorso universitario dal quale era stato escluso, sostenendo che era truccato a favore del "pupillo" di un professore. Ora, a distanza di cinque anni, il giudice per l'udienza preliminare di Verona, Isabella Cesari, ha disposto il rinvio a giudizio di due professori dell'Università di Verona, Marco Moschini, 50 anni e Silvano Zucal, 57, accusati di abuso d'ufficio e falso in atto pubblico. Un terzo docente universitario, Ferdinando Luigi Marcolungo, chiamato in causa in qualità di presidente della commissione giudicatrice, è già sotto processo per la stessa vicenda: la prossima udienza nei suoi confronti è fissata prima di Natale. Il concorso finito sotto accusa risale al settembre del 2008 e riguardava l'assegnazione di un posto di ricercatore alla facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Verona. A far scattare le indagini è stato un docente veneziano con residenza a Padova, Federico Perelda, 42 anni, il quale si è costituito parte civile con l'avvocato Luca Dagnoli di Brescia. Nel capo d'imputazione formulato dalla Procura, ai tre docenti universitari veronesi viene contestato di aver assegnato l'incarico al dottor Davide Poggi in violazione delle legge 230 del 2005 e delle norme del bando in quanto il vincitore conseguì il titolo di dottorato di ricerca in filosofia (ritenuto requisito preferenziale) soltanto nel successivo mese di aprile, cioè due mesi dopo la scadenza del bando. Il pm Gennaro Ottaviano contesta a Marcolungo di non essersi astenuto dal giudicare Poggi nonostante fosse stato il relatore della sua tesi di dottorato considerata come titolo preferenziale al concorso. Il tutto per agevolare quel candidato a scapito di altri, in primis il veneziano Perelda. L'accusa di falso si riferisce alla relazione conclusiva del concorso nella quale la commissione attestò che il vincitore era in possesso del titolo di dottorato, conseguito successivamente. Dopo il concorso non andato a buon fine a Verona, Perelda ha trovato lavoro all'Università di Bergamo e attualmente sta trascorrendo un anno negli Usa, all'Università di Notre Dame, nello stato dell'Indiana. La difesa dei tre docenti di Verona respinge le accuse rivolte ai suoi assistiti ricordando che una sentenza del Consiglio di Stato ha dichiarato la legittimità del concorso e che non vi era motivo che il professor Marcolungo si astenesse in quanto la normativa universitaria non lo prevede in casi del genere. Ora la parola passa al Tribunale. ____________________________________________________________ La repubblica 27 nov. ’13 I LIMITI DELLA SCIENZA La rivista "Nature Neuroscience" denuncia le norme italiane contro gli esperimenti sulle cavie, dopo le proteste degli animalisti I taglio dei finanziamenti, le condanne dell'Aquila, il caso Stamina, la legge sulla sperimentazione animale. Sono tutti episodi con un minimo comun denominatore: l'Italianon sembra essere un paese per scienziati. Alla conclusione arriva un duro editoriale che la rivista Nature Neuroscience dedica al nostro paese. "La ricerca biomedica italiana sotto attacco" è il titolo dell'articolo, che parte scrivendo: «Gli ultimi due anni sono stati un periodo molto duro per gli scienziati italiani». L'editoriale prosegue citando la nuova "legge miope" sulla sperimentazione animale come «uno degli ostacoli insuperabili», capace di «minare alle fondamenta quasi tutta la ricerca biomedica del paese». E conclude puntando il dito anche contro gli scienziati, «colpevoli di non aver spiegato in termini adeguati i metodi e i fini della loro ricerca, facendo sì che false informazioni e sfiducia si diffondessero tra la popolazione». Nature è un gruppo editoriale che ha sede a Londra e insieme alla rivista americana Science pubblica tutti i più importanti risultati scientifici ottenuti nel mondo. Nei suoi editoriali non è mai stata tenera con l'Italia. Lo scorso aprile ci ha accusato di avallare il metodo Stamina «usando i pazienti come animali da esperimento». Ma tra tante ombre, la rivista ha anche riconosciuto le nostre luci. Due giorni fa il direttore Philip Campbell era al Quirinale per consegnare i "Nature Award for Mentoring in Science" a tre importanti scienziati italiani, scelti Per la loro bravura nel formare giovani allievi. Michela Matteoli, premiata lunedì al Quirinale con due colleghi, fa ricerca sulle sinapsi del cervello all'università di Milano. Così prova a spiegare la contraddizione di un paese premiato per la bravura dei suo maestri ma additato (sempre secondo Nature Neuroscience) per "il profondo fossato che divide gli scienziati italiani dal loro governo". «La scienza in Italia ha delle punte di diamante nonostante i grandi ostacoli che la politica pone sul nostro cammino». Anche Campbell sottolinea la natura dottor Jekyll-mister Hide della nostra ricerca. «L'Italia sta diventando sempre più ostile alla scienza e agli scienziati, attraverso tagli dei fondi e restrizioni legislative. Questo non fa presagire bene per il vostro futuro economico». Eppure «il paese produce molti scienziati di valore mondiale. Spero che loro sentano la nostra solidarietà e che la corrente della politica viri in loro favore». I venti che tirano per ora sono piuttosto di guerra. E dopo la giornata da tregenda vissuta dal centro di Roma lunedì, con i malati di Stamina che hanno versato il loro sangue di fronte a Montecitorio, un'altra giornata di battaglia è prevista per venerdì a Milano. Il gruppo "Anima! Amnesty" ha organizzato una marcia verso l'Istituto Farmacologico Mario Negri, che utilizza animali per le sue sperimentazioni. Gli autobus degli attivisti partiranno da una decina di città. E dopo il precedente dello scorso 20 aprile, quando un gruppo di animalisti fece irruzione nel dipartimento di farmacologia dell'università di Milano liberando i topolini e un coniglio, questa volta la questura ha imposto il suo stop. "Per motivi di sicurezza - scrive Animai Amnesty su Face- book - non sarà possibile chiudere il corteo in prossimità dell'Istituto. Il punto d'arrivo è spostato a oltre un chilometro dal Mario Negli». «Lo scopo è quello di intimidirci, ma si otterrà l'effetto contrario». La controversa legge sulla sperimentazione animale nasce da una direttiva europea del 2010. Nonostante Bruxelles vietasse ulteriori inasprimenti delle norme, l'Italia ha inserito vari emendamenti restrittivi. Il testo modificato è uscito dal Parlamento il 6 agosto ed è stato approvato solo in via preliminare (quindi non è ancora effettivo) dal Consiglio dei Ministri giovedì scorso. Prevede il divieto di allevare e di usare in laboratorio cani, gatti e primati (già oggi 1'80% delle cavie usate in Europa sono topi e ratti) e obbliga a somministrare analgesici prima di ogni procedura, iniezioni incluse. La norma della legge 96 del 6 agosto 2013 che inquietagli scienziati e che ha spinto Nature Neuroscience a parlare di " attacco alla ricerca italiana" è però un'altra: quella che "vieta l'utilizzo di animali per gli xenotrapianti". Gli xenotrapianti sono trapianti di cellule od organi da una specie all'altra. Buona parte della ricerca oncologica oggi si svolge prelevando delle cellule dal tumore di un paziente e impiantandole nei topolini, per seguire nell'animale andamento della malattia ed effetto delle cure. «La nuova legge ostacolerebbe la ricerca di nuove terapie contro il cancro. Il problema riguarda gli xenotrapianti, ma anche i test di tossicità dei nuovi farmaci. In Italia un laboratorio su due, fra quelli che effettuano ricerca preclinica, vedrebbero il loro lavoro compromesso» spiega Pier Paolo Di Fiore, ex direttore dell'istituto di ricerca oncologica Ifom e professore all'università di Milano. Contro questa eventualità, i ricercatori dell'associazione "Pro Test" hanno manifestato il 19 settembre a Montecitorio e hanno organizzato conferenze nei prossimi giorni in varie città. Tutti i direttori degli Istituti di ricerca oncologica in Italia hanno firmato la petizione della Federazione italiana scienze della vita. Un'altra raccolta di firme su www.salvalasperimentazioneanimale.it ha raggiunto 13mila adesioni. Il 29 novembre la sede del Cnr ospiterà il convegno "Spera - Sperimentare per curare" per trovare metodi efficaci di comunicazione del ruolo della sperimentazione animale. «In realtà ci siamo sempre sforzati, eccome di spiegarlo» dice Matteoli, che lavora nel dipartimento assaltato ad aprile. «Ma di fronte all'uso dell'emotività non abbiamo strumenti. I servizi in tv parlano di sperimentazione mandando in onda immagini di gattini maltrattati. Ma noi usiamo topi, e seguiamo fior di controlli e precauzioni, previsti già dalla legge attuale». E proprio la mancanza di "comprensione reciproca" fra cittadini, ricerca e politica, sottolinea Nature,è il tratto comune che lega tutti gli episodi degli "anni orribili" vissuti dalla scienza in Italia. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Dic. ’13 FAI: SARDEGNA DOMANI! PER UN TURISMO RESPONSABILE Andrea Carandini Il paesaggio è stato creato nel Neolitico, quando l'uomo ha aperto nei boschi, allora onnipresenti, le prime radure, per abitare, coltivare i campi e allevare animali. Grande fu da allora il senso di colpa per quel disboscare e il desiderio di espiare le piante recise, trasformate in recinti, capanne e strumenti. Catone ha conservato la formula con la quale i Romani immolavano un porco al dio o alla dea sconosciuti, per farsi perdonare di aver aperto una radura, un lucus (de Agr., 139). Così durante 250 generazioni (tre all'anno) l'uomo, per motivi sacrali e civili, ha trasformato il paesaggio rispettandolo, ligio e libero rispetto alla tradizione, mentre in sole due generazioni, le ultime, ha intrapreso a rovinare questo gigantesco e plurimillenario patrimonio collettivo, come se il territorio fosse uno zero da cui partire e su cui poter tutto fare, inaugurando l'era del mostruoso. Viene in mente un grande sconfitto, Adriano Olivetti (V. Ochetto, A. Olivetti. La biografia, Ivrea 2013), difensore del primato della pianificazione e dell'urbanistica, ch'egli aveva derivato dalla pianificazione roosveltiana del 1933, e ricordiamo anche la politica che ha prevalso, quella degli interventi a pioggia, volti a placare l'avidità di corporazioni e clientele, al fine di ottenerne voti. Così ha prevalso nel Paese il costruire come un guazzabuglio di stili d'accatto. Questo Convegno nazionale del Fai Sardegna domani! conferma la ferma volontà di riconoscere la storia e la bellezza dei luoghi – espressa nel Piano paesaggistico regionale, approvato nel 2006, primo in Italia – e di intenderle come il racconto e la forma data dai millenni all'identità in divenire dei Sardi, quindi come il pilastro di uno sviluppo ecosostenibile nel prossimo futuro. L'esito drammatico della recente alluvione è dovuto al mancato rispetto delle leggi della natura e a una passata assenza di programmazione. Si è costruito su aree recentemente alluvionate, nelle aree di esondazione dei corsi d'acqua, dove erano terre tra le più fertili, da riservare all'agricoltura; per non dire delle arature, magari «a ritocchino», su aree elevate e in pendenza (come ha osservato A. Aru). D'altra parte, lo Stato nella legge di stabilità in discussione alle Camere, sta destinando per il rischio idro-geologico solo 180 milioni di euro per un triennio, cifra irrisoria rispetto ai 40 miliardi per 15 anni stimati come necessari nel 2012 dal ministero dell'Ambiente. Inoltre lo Stato ha richiesto imposte ecologiche di cui solo l' uno per cento è stato restituito alla tutela dell'ambiente. Nel passato si poteva immaginare una rinascita incentrata sull'industria. Anche in Sardegna si è puntato sui poli petrolchimici e sulla chimica di base, con un'idea di sviluppo eterodiretto, non fondato sulle peculiarità dell'Isola, e senza riguardo per la salubrità dei luoghi e la salute dei cittadini. Oggi, che siamo in una società post-industriale, i valori dei luoghi e delle persone devono tornare a essere il fulcro della rinascita economica, sociale e culturale del l'Isola, in una versione nuova, culturalmente e tecnologicamente sviluppata. Il paesaggio sardo è stato per troppo tempo disconosciuto. Dunque, ha bisogno, per ampie aree, di recuperi, ripristini e bonifiche, come altri luoghi ammalati d'Italia. Servono lavoratori specializzati e agricoltori intelligenti per una sua riconversione, quindi un investimento particolare in conoscenze e formazioni di altissimo livello.La Sardegna ha molte servitù, da quella militare a quella dei trasporti, ma quella alimentare non è da meno, visto che l'isola importa l'80% dei prodotti alimentari. Qualche segnale incoraggiante si coglie a questo proposito, ma è ancora flebile. Bisognerebbe tornare a una parziale autarchia alimentare; per non dire di quella energetica, per la quale Rifkin si batte. Ma a ciò si oppone la terra per gli animali, che oramai troppo prevale sulla terra per il cibo, così come si oppone la terra abbandonata. In Sardegna il consumo di territorio agricolo è stato negli ultimi decenni impressionante e ingiustificato. Le pianificazioni urbanistiche hanno previsto cubature e case non suffragate da reali bisogni, giacché nell'Isola si registra un preoccupante calo demografico e la ripresa dell'emigrazione, fenomeni non compensati dall'immigrazione extra- comunitaria e dalla presenza degli slavi nelle campagne. La cementificazione non ha prodotto un vero sviluppo. Infatti ha arricchito pochi, deturpando la Sardegna con migliaia di case. Nei 377 comuni, si registrano 802.149 case, di cui il 57,31% sono ubicate nei comuni costieri e proprio qui insiste il 73,43% delle case vuote oppure occupate per qualche settimana, che rappresentano un quarto del totale (208.458). Bisogna pertanto arginare l'occupazione di suolo agricolo, tutelando le coste e anche i paesi, i cui «centri matrice», identificati dalla Regione, sono in gran parte di straordinaria profondità storica (in molti casi si tratta di villae romane). L'edilizia deve rivolgersi, piuttosto, alla riqualificazione dell'edilizia storica, di quella in disuso e alla messa in sicurezza delle scuole e degli altri edifici pubblici. Nel marzo 2013 è stato siglato un protocollo fra il ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo e la Regione Sardegna riguardo alla parziale revisione della normativa del Ppr vigente. Così la Regione ha riconosciuto il ruolo che spetta allo Stato, avviando nell'interesse generale e nel rispetto delle normative, una corretta procedura di copianificazione. Questa procedura è stata però poi colpevolmente disattesa da un atto unilaterale della Giunta, con l'adozione preliminare del nuovo Piano paesaggistico dei sardi (Pps). Il Ministero ha denunciato la gravità dell'atto e, per bocca del Sottosegretario Borletti Buitoni, ha dichiarato la volontà di intervenire sul provvedimento. Azioni queste del Ministero, che il Fai ha subito sostenuto. Il piano paesaggistico affronta non solo la qualità del paesaggio ma, prima di tutto, la sicurezza del territorio. Nel Pps approvato dall'attuale giunta il 25 ottobre 2013 si infrangono o si allentano le regole poste dalla Legge Salvacoste nel 2004 e dal Ppr del 2006. Infatti, Il PPS permette di «resuscitare» tutte le lottizzazioni precedenti il 2004. Si tratta di progetti edilizi vecchi di anni, figli di una mentalità speculativa che la coscienza dei Sardi più sensibili ormai rifiuta, perché inutili allo sviluppo economico generale della Regione. L'abbattimento o l'allentamento dei vincoli relativi al reticolato idrico, minuto e maggiore, è di assoluta gravità. Le alluvioni degli anni scorsi di Capoterra e di Villagrande e quelle dei giorni scorsi ne sono la riprova. Infine, l'invasione capillare dell'agro con costruzioni svincolate dall'uso agricolo – il Pps consente la costruzione di un manufatto con destinazione abitativa in un lotto minimo di un ettaro – è da rigettare, non solo perché sottrae la terra alla sua destinazione naturale, ma perché manomette il territorio. Non vi è regione al mondo dove la natura, la storia e l'arte appaiano tanto monumentalmente squadernati in tutte le sue ere e civiltà: dalla foresta primaria, al Neolitico, all'architettura nuragica (7.000 presenze), alle città fenice – ricordo la vasta necropoli punico-romana di Tuvixeddu a qualche decina di metri da qui, speriamo finalmente messa al sicuro e che il Fai ha aperto nelle Giornata di primavera del 2012 –, fino alle archeologie industriale e mineraria, tra le più cospicue di Europa. L'intero globo potrebbe essere interessato a questa sorta di manuale del mondo, che fa spiccare l'unità e unicità dell'Isola, e che va offerto, bene presentato e narrato, a un turismo di qualità, ancora da sviluppare. Presidente del Fai ____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Nov. ’13 I GRANDI SCIENZIATI ITALIANI PREMIATI DALLA RIVISTA NATURE I ricercatori italiani sono di nuovo sul podio internazionale. Tre scienziati hanno ricevuto il «Nature Award for mentoring in Science» assegnato quest’anno per la prima volta in Italia dall’autorevole rivista scientifica britannica Nature . Nelle sette edizioni passate i riconoscimenti erano andati, tra gli altri, al Giappone e alla Germania. Ed è stato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a consegnarli ospitando al Quirinale la cerimonia, sottolineando con questo l’importanza e la considerazione che egli da tempo rivolge al mondo della scienza. I tre illustri scienziati sono il fisico teorico Giorgio Parisi dell’Università La Sapienza di Roma, il chimico Vincenzo Balzani dell’Università di Bologna e la neuroscienziata Michela Matteoli dell’Università statale di Milano. Tutti sono noti al di fuori dei nostri confini per i loro contributi alla ricerca ma anche per un’altra dote che questo premio riconosce come fondamentale: i tre studiosi sono stati infatti valutati come eccellenti maestri, creando intorno a loro una scuola. Questo è un aspetto rilevante. «Le scuole create dai tre scienziati — ha ricordato Luciano Maiani, presidente della giuria — sono ora vive nonostante le difficoltà in cui si trova il Paese e resteranno per lungo tempo ancora delle vitali palestre di studio per i nostri colleghi più giovani, quelli che saranno i maestri delle generazioni che verranno». Il premio mette in risalto, come ha ricordato Philip Campbell, caporedattore della pubblicazione, un aspetto determinante nella cultura di un Paese. Oltre le scoperte è altrettanto necessario che ci siano personaggi in grado di catalizzare intorno e trasmettere con il loro entusiasmo e le loro capacità gli interessi dei giovani facendo da riferimento e stimolo. Quanto sia accesa questa partecipazione lo ha dimostrato Michela Matteoli devolvendo l’ammontare del suo premio di 10 mila euro allo sviluppo di un laboratorio. «Oggi anche nel nostro Paese sta maturando un atteggiamento diverso, di maggior considerazione verso la ricerca che io continuerò a sostenere», ha ricordato il presidente Napolitano. E il premio lo ha evidenziato. La strada è ancora lunga ma il suo appoggio è prezioso. Giovanni Caprara ____________________________________________________________ La repubblica 28 nov. ’13 QUEGLI INSULTI A PIANO E RUBBIA CURZIO MALTESE VERGOGNA!». L'urlo dei senatori di Forza Italia contro Renzo Piano, Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo riassume da solo il senso di vent'anni all'insegna del rovesciamento d'ogni valore. E la frase storica di una giornata che non ne ha prodotta nessuna. Proviamo a guardarla, la scena, con occhi stranieri. Come la vedono nel resto del mondo civile, non assuefatti come i nostri da decenni di talk show dove tutto è uguale a tutto. Da una parte stanno un genio dell'architettura, il "Brunelleschi del ventesimo secolo" (New York Times), un premio Nobel per la fisica degno erede della tradizione di Enrico Fermi e una ricercatrice stimata nei circoli scientifici internazionali. Dall'altra un pugno di cortigiani miracolati senza un mestiere, ben rappresentati da Bondi e Gasparri, felici di riverire un padrone già piduista, datore di lavoro di boss mafiosi, ora condannato in via definitiva per frode fiscale, in primo grado per prostituzione minorile, sotto processo per corruzione di giudici e politici, considerato un «clown» da mezza stampa mondiale. E questi dicono a quelli «vergognatevi!». «Sublime» l'ha definito Piano, a ragione. Nella logica sotto-culturale del berlusconismo il tutto, s'intende, non fa una piega. Se Berlusconi vincerà ancora, probabilmente avremo una via di Palermo intitolata a Vittorio Mangano, eroe. E se il capo mandamento di Porta Nuova e killer della mafia è un eroe, ne consegue che un premio Nobel debba vergognarsi, e noi con lui. L'odio viscerale dei berluscones per chiunque si ostini a onorare il nome dell'Italia nel mondo è del resto antico quanto il berlusconismo. Prima di Rubbia e Piano, il bersaglio preferito degli strali dei cortigiani di re Silvio era Rita Levi Montalcini, anche lei macchiata da un premio Nobel. «Una vecchia rimbambita», «le porteremo le stampelle a casa» (Storace), «è molto meglio Scilipoti di quella là» (Bossi). La gloria scientifica, in effetti, rischia di rovinare all'estero la solida fama degli italiani come puttanieri, mafiosi, frodatori del fisco e corrotti, che per fortuna altri personaggi pubblici continuano a tenere ben alta e con malcelata fierezza. È questo disprezzo per l'eccellenza ad animare il livore sempiterno dei berluscones. Naturalmente poi bisogna cercare un pretesto. In questo caso si sono scagliati contro le troppe assenze dei senatori a vita, che pure in media sono stati presenti alle votazioni del Senato molto più del loro benamato leader Berlusconi. Il quale, peraltro, non ha neppure l'alibi di essere impegnato in studi cruciali per il futuro dell'umanità come Rubbia, o di avere una dozzina di cantieri aperti in tre o quattro continenti, come Piano. Per quanto, certo, il bunga bunga prenda un sacco di tempo e di energie. Il rovesciamento della realtà e dei valori è del resto tanto più efficace quanto più è radicale e insistito. Con l'aiuto dei talk show siamo, infatti, l'unica nazione nella storia della democrazia che sta discutendo da mesi se è proprio il caso di interdire dalle cariche pubbliche un delinquente. Si tratta del capolavoro finale dell'egemonia culturale berlusconiana di un intero ventennio. La totale perdita di senso delle parole. "Vergogna", secondo il dizionario italiano, "è il turbamento o il timore che si provano per azioni sconvenienti, indecenti, indecorose che sono o possono essere causa di disonore e rimprovero". Ma è evidente che onnailo Zingarelli, così come la Costituzione, è vecchio e va riscritto. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Dic. ’13 LA BIBLIOTERAPIA FUNZIONA SULLA MENTE E ANCHE SUL CORPO Non solo benefici psichici in senso stretto, ma risultati persino nella riabilitazione e nelle malattie croniche Leggere per imparare, per rilassarsi, per conoscere. Ma anche per diventare persone migliori, stare meglio con gli altri o addirittura per guarire. Sono sempre di più gli studi che mostrano come i libri siano fonte inesauribile di benessere, psicologico e non solo: una ricerca dell’Università svedese di Göteborg, condotta di recente su un gruppo di donne con patologie che riducevano la loro capacità lavorativa, ha dimostrato, ad esempio, che la lettura di romanzi porta in breve tempo a stare meglio e anche a fare passi avanti notevoli nella riabilitazione. Gli autori raccontano che la malattia aveva tolto la voglia di un buon libro perfino alle più assidue lettrici; poi, però, le donne hanno ricominciato a leggere, qualcuna storie che riflettevano la propria situazione, altre scegliendo testi di evasione pura. Tutte hanno ammesso di trovare sollievo nei libri e sono riuscite a tornare al lavoro prima del previsto. Un piccolo esempio di «biblioterapia», la cura con i libri che nel mondo anglosassone è diffusa, ma nel nostro Paese stenta a decollare, forse perché, nonostante una nobile tradizione letteraria, in Italia si legge poco, pochissimo (secondo gli ultimi dati Istat oltre metà degli italiani non finisce neppure un libro nell’arco di un anno). «La biblioterapia è nata agli inizi del ‘900 negli Stati Uniti, quando lo psichiatra William Menninger iniziò a prescrivere libri ai suoi pazienti, notando miglioramenti — spiega Rosa Mininno, psicologa e psicoterapeuta responsabile dell’unico sito italiano dedicato al tema (www.biblioterapia.it) —. Si tratta sempre di percorsi di lettura scelti, pensati apposta per il singolo paziente e per il momento che sta vivendo. Un libro non deve essere mai un’imposizione, ogni scelta va motivata: si possono suggerire volumi di diverso genere, dai romanzi al teatro, dalla poesia ai saggi che aiutano a comprendere meglio la propria condizione da un punto di vista clinico o filosofico. Fino ai grandi classici: Seneca, Tacito o Cicerone sono una fonte inesauribile di riflessioni. Il meccanismo con cui il libro “guarisce” è infatti la sua capacità di aprire la mente: la sofferenza, fisica o psicologica che sia, porta all’isolamento e il libro invece ci connette con il mondo. Attraverso le storie possiamo identificarci nei personaggi, per affinità o per contrasto, ed essere stimolati a comportamenti che aiutino a uscire dal disagio». La biblioterapia viene usata spesso in pazienti con malesseri psicologici (come disturbi d’ansia, depressione, problemi alimentari), ma può essere un valido sostegno anche in caso di malattie organiche, da quelle oncologiche a quelle cardiologiche. Francesco Bovenzi, presidente dell’Associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri e responsabile della Cardiologia presso l’ospedale di Lucca, sta conducendo uno studio su una trentina di ricoverati con patologie cardiache per verificare se la lettura di un volume di poesie raccolte allo scopo (intitolato «Il cuore ha bisogno di poesia») possa avere effetti positivi sulla salute dei malati. «Sono liriche semplici che toccano temi universali. Il gradimento dei pazienti è alto e, accanto alla valutazione degli effetti organici tuttora in corso, abbiamo già osservato un miglioramento nella relazione con i medici — racconta Bovenzi —. Non è poco, perché magari la poesia non dilata direttamente le coronarie, ma certamente può aiutare il paziente a stare bene, a recuperare un dialogo di fiducia con il curante e, di conseguenza, a seguire di più le terapie». «Un’atteggiamento psicologico positivo nei confronti della malattia, qualunque essa sia, serve per guarire prima e meglio. I libri, soprattutto se prescritti in un percorso ragionato, aiutano a trovare in se stessi le più efficaci capacità di reazione — dice Mininno —. Per di più servono alla prevenzione. Alcune esperienze nel Regno Unito hanno dimostrato che la biblioterapia in soggetti con ansia e attacchi di panico riduce gli accessi ai Pronto soccorso». Chiunque, poi, può leggere: lo dimostrano le esperienze condotte con successo su malati psichiatrici gravi, i progetti nelle carceri, i dati ottenuti in bambini e adolescenti che mostrano, ad esempio, come la biblioterapia aiuti a contrastare il bullismo. E perfino i tomi all’apparenza più ostili, come i classici latini, possono essere alla portata di tutti: il terapeuta può leggerne brani assieme al paziente e a volte basta stimolare la curiosità per veder fiorire l’interesse per testi che toccano emozioni universali, oggi come ieri. Ma, essendo «farmaci», anche i libri hanno «effetti collaterali»? «Certamente — risponde Mininno —. I libri di autoaiuto che promettono guarigioni lampo, ad esempio, sono pericolosi, perché illudono i pazienti di trovare per i loro problemi scorciatoie che non esistono. Tutt’altro significato possono avere i volumi che affrontano la condizione del paziente con chiarezza e senza false promesse. Bisogna essere cauti anche consigliando libri a chi potrebbe non essere capace di sfruttare in modo “creativo” le letture, finendo per vivere perennemente in un mondo irreale. Ci sono poi due generi di libri che non vanno mai prescritti, quelli violenti come gli horror o i testi di pseudoerotismo, che di fatto sono pornografici. I primi soddisfano il gusto del macabro, ma non servono per affrontare l’aggressività nel paziente come erroneamente alcuni credono; i secondi si vendono per la loro carica di morbosità, ma non aiutano a ritrovare un equilibrio sessuale». Non tutti i libri curano, insomma, né sono «buoni» per la nostra crescita interiore. Perché leggere fa bene anche quando non siamo malati, ma stiamo semplicemente cercando un testo (saggio o romanzo non fa differenza) che ci aiuti in un momento delicato dell’esistenza. In questo caso la scelta è più libera, ma secondo la psicologa, perché sia «giusta», oltre ad affidarsi al consiglio di operatori esperti del settore (dai bibliotecari agli ormai quasi estinti librai), bisognerebbe «saggiare» il libro senza fermarsi al titolo, sfogliando qualche pagina per capire di che si tratta. Perché «la vita è troppo breve per leggere brutti libri», come recita il motto di due terapiste londinesi, Ella Berthoud e Susan Elderkin, che poche settimane fa hanno pubblicato una guida alla biblioterapia, chiamata The novel cure («La nuova cura», ma anche «La cura del romanzo»): per ogni caso della vita si potrebbe trovare un aiuto in testi più o meno classici; ad esempio, se si è perso il lavoro potrebbe servire la lettura di Bartleby lo scrivano di Herman Melville e se ci si sente sopraffatti dallo stress e dalla mancanza di ideali si potrebbe ricorrere a Tess dei D’Urbervilles di Thomas Hardy. Purtroppo, visto l’amore italico per la lettura, questi sono consigli che rischiano di non trovare ascolto, come sottolinea Mininno: «In Italia tutti scrivono e pochi leggono. Per favorire l’avvicinamento ai libri, tanto preziosi per il nostro benessere psichico e fisico, servono di più piccole esperienze, dai gruppi di lettura alle serate tematiche nelle biblioteche. Senza contare che i buoni lettori si allevano fin da piccoli, insegnando il piacere di un bel libro ai propri figli». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Dic. ’13 PER NON PERDERSI TRA LE PAROLE Leggere è una delle caratteristiche più specifiche e cruciali dell’essere umano. Ma per una persona su dieci è molto difficile riuscirci: succede a chi soffre di dislessia, un disturbo del linguaggio che non incide affatto sull’intelligenza né su altre capacità (la lista di dislessici famosi e di successo è lunghissima), ma rende faticoso arrivare in fondo a una pagina e può trasformare la scuola in un calvario. Come aiutare i dislessici a superare le difficoltà? Oggi le possibilità sono parecchie, grazie alle nuove tecnologie e non solo. Una recente ricerca pubblicata su PlosL one , ad esempio, mostra che gli e- reader (ovvero, i vari strumenti di lettura elettronici) potrebbero rivelarsi utilissimi per questi soggetti: iricercatori hanno sottoposto a un centinaio di ragazzi delle scuole superiori con diagnosi di dislessia brani da leggere su carta o su un supporto elettronico, misurando la velocità di lettura e la capacità di comprensione del testo. Proprio chi aveva maggiori difficoltà nella lettura riusciva a comprendere meglio i testi usando lo strumento elettronico. Il «trucco», come spiega il coordinatore della ricercaMatthew Schneps dell’Università di Harvard, è usare caratteri abbastanza grandi da far sì che ogni linea di testo contenga poche parole. «Gli e-reader possono essere configurati in modo da ridurre i parametri che rendono complessa la lettura a un dislessico: secondo molte teorie, ad esempio, il disturbo è connesso a deficit nell’attenzione visiva e a uno scarso controllo oculomotorio — osserva Schneps—. Diminuire il numero di parole per ogni riga, da un lato “guida” meglio l’attenzione riducendo le distrazioni, dall’altro riduce lo “sforzo” dello sguardo nel seguire il testo; inoltre è meno confondente, perché consente di visualizzare solo poche frasi per volta e di non “perdersi” fra le parole, come accade più facilmente nella pagina scritta». Anche la vecchia carta stampata può diventare più «amica» di chi è dislessico, basta avere alcune accortezze. Una ricerca franco-italiana, ad esempio, ha dimostrato non molto tempo fa che una scrittura ben spaziata consente di dimezzare gli errori e aumentare del 20 per cento la velocità di lettura. I dislessici, infatti, sono molto sensibili al cosiddetto «affollamento percettivo»: se le lettere sono troppo vicine, si confondono e all’occhio del dislessico si «mascherano» le une con le altre, per cui aumentare gli spazi fra loro rende il testo molto più agevole da scorrere. Anche i caratteri scelti, la carta e l’impaginazione possono fare la differenza. In Italia una casa editrice, la Biancoenero , utilizza un carattere particolarmente chiaro in cui anche le lettere speculari non si confondono fra loro, la carta è color crema per non stancare la vista, i paragrafi sono ben distanziati. Tutti accorgimenti, questi, che fanno leggere meglio i dislessici. Che è come dire farli leggere di più: un libro che una persona senza questo disturbo finisce in un paio di giorni, per un dislessico può diventare un «incubo», che dura settimane e settimane. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Dic. ’13 UN BUON LIBRO RENDE MIGLIORI Aumenta l’abilità di relazione con gli altri I libri ci rendono persone migliori. Letteralmente. Lo ha scoperto l’italiano Emanuele Castano, della New School for Social Research di New York, secondo cui la letteratura aumenta la nostra capacità di empatia e relazione con gli altri. Castano, che ha pubblicato i suoi risultati su Science , ha fatto leggere a un gruppo di volontari brani tratti da libri che hanno vinto premi letterari e sono quindi considerabili esempi di letteratura «alta» (come Il camaleonte di Cechov o Corrie del Premio Nobel per la Letteratura di quest’anno, Alice Munro); ad altri ha fatto leggere testi non letterari oppure brani di romanzi «popolari», non insigniti di riconoscimenti ufficiali. Quindi sono stati condotti diversi test, per capire se la lettura avesse influenzato l’empatia dei partecipanti, misurando ad esempio la capacità di identificare le emozioni altrui grazie alla sola vista dell’espressione degli occhi. Il ricercatore ha indagato cioè la cosiddetta «teoria della mente», un complesso di abilità che sviluppiamo per essere capaci di relazionarci agli altri. Ebbene, leggere un buon libro aiuta a entrare più in sintonia con il mondo e probabilmente non è merito della lingua utilizzata dagli scrittori «bravi» ma, come spiega Castano, «deve essere qualcosa che risiede nel modo in cui l’autore scrive e presenta i personaggi e le situazioni, in quello che dice e quello che invece lascia interpretare al lettore». «Le categorie di romanzi “letterari” o “popolari”, usate per questo studio, sono preliminari — spiega ilricercatore —. Dobbiamo ancora individuare le differenze specifiche fra i testi e capire meglio le peculiarità che rendono un’opera in grado di “allenare” la nostra capacità di comprendere gli altri. Le teorie sono varie, e non è semplice standardizzare le caratteristiche di un libro, come invece vorrebbe laricerca scientifica per dare i suoi verdetti di causa-effetto». Secondo l’ipotesi di alcuni esperti, nei grandi libri troviamo personaggi che ci spiazzano, costringendoci in questo modo a vedere la realtà sotto altri punti di vista; se invece fatti e persone risultano prevedibili, come accade spesso nei romanzi di scarsa qualità, il nostro coinvolgimento intellettuale e «creativo» è necessariamente minore e non ci abitua a cambiare prospettiva, a capire l’altro nei suoi sentimenti e motivazioni mettendoci nei suoi panni. «L’empatia deve essere promossa anche e soprattutto nei bambini, dove questa capacità si va formando — prosegue Castano —. Per farlo esistono ottimi libri, ma anche metodi di lettura coinvolgenti. Una non profit californiana, con cui collaboriamo per valutare i risultati del loro approccio, usa ad esempio volontari che nelle scuole leggono a piccoli gruppi di bimbi dai 6 agli 8 anni, stimolandoli con domande mirate (chi sta pensando cosa, che emozioni prova il personaggio e così via)». Aggiunge Rosa Mininno, psicoterapeuta ed esperta di biblioterapia: «La lettura è fondamentale nei giovanissimi proprio per gli effetti sulle capacità di relazione. A molti ragazzi manca la capacità di comprendere che cosa prova l’altro in una situazione difficile, pensiamo ai casi di bullismo o stalking. Migliorare l’empatia significa anche prevenire questi comportamenti, oltre che favorire il dialogo interiore dei giovani. La lettura, contrariamente a quanto molti pensano, non è affatto un’attività solitaria e passiva. Un buon libro ci sprona al confronto e può essere condiviso, mentre piazzarsi di fronte al computer per intrecciare relazioni virtuali favorisce molto di più l’isolamento dei ragazzi». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Nov. ’13 LA DOTTORESSA FA LA COLF DUE SU CENTO CON LA LAUREA La crescita del fenomeno negli ultimi due anni ROMA — «Certo, a volte mi capita di pensare al giorno della mia laurea». Silvia Peticco quasi si commuove tornando a quella mattina di sei anni fa: persino i corridoi della Sapienza le sembravano luminosi con quel pezzo di carta in tasca (Scienze politiche) e quel sogno di lavorare nel teatro che finalmente si stava avvicinando. Per un paio di anni Silvia gira la Francia e la Spagna come assistente costumista. Collabora con Franca Squarciapino, un nome nel settore con tanto di premio Oscar per il Cyrano con Depardieu. Poi i primi scricchiolii della crisi e la decisione di tornare in Italia, a Roma. Laricerca di un lavoro nello stesso campo. Solo qualche contrattino precario e sottopagato, decisamente sottopagato. La ricerca di un lavoro qualsiasi, perché affitto e bollette non aspettano. Poi, vicina alla soglia dei 30 anni, la decisione. «Da un paio di anni faccio la baby sitter. Fissa con la stessa famiglia, i bimbi sono fantastici». Contenta? «Contenta è un parolone grosso. La verità è che non avrei mai immaginato di fare questo mestiere ma ci si adatta a tutto. Ho tanti amici che uno stipendio non ce l’hanno proprio. Mi invidiano». Le chiamano baby sitter di ritorno. E lo stesso discorso vale per le badanti e le colf, di ritorno pure loro. Perché nella vita precedente hanno studiato fino alla laurea, hanno lavorato come impiegate in un ufficio o in una fabbrica, magari hanno pure avuto una colf o una baby sitter che le aiutava. Poi, con la grande crisi, hanno perso il posto e sono finite dall’altra parte della barricata. La storia di Silvia non è ancora la regola ma nemmeno l’eccezione. Fino al 2011 fra le lavoratrici domestiche assunte a Roma la percentuale delle laureate era pari a zero. Nel 2012 — dicono le tabelle di Assindatcolf, l’Associazione sindacale dei datori di lavoro domestico — il dato è schizzato all’1,8%. Nel 2013 è salito ancora e le dottoresse badanti sono arrivate al 2%. Una tendenza che va di pari passo con l’aumento delle italiane che hanno scelto (scelto?) questo mestiere. Sempre considerando le nuove assunzioni fatte a Roma, le italiane sono passate dal 3,73% del 2011 all’8,62% del 2012, per toccare il 9,26% nell’anno in corso. Oltre alla laurea qualcuna — sono quasi tutte donne — ha addirittura un master. Molte cominciano pensando che si sia solo una toppa per far quadrare il bilancio di casa in attesa che il vento giri. Ma crescono le colf di ritorno che considerano la loro occupazione stabile, come dimostra l’aumento delle richieste per partecipare ai corsi formativi sulla cura di anziani e bambini. Nella grande crisi, del resto, quello domestico è uno dei pochi settori che tira per davvero. Nel 2011 il numero dei lavoratori è cresciuto del 3% rispetto all’anno precedente, remando controcorrente rispetto alla disoccupazione generale che cresce mese dopo mese. I contratti regolari sono circa 800 mila, ma considerando anche quelli in nero le stime arrivano a 2 milioni di occupati. Niente contratto, niente contributi, zero tasse. Un risparmio irresistibile per le famiglie che assumono e per le colf che vengono assunte. Anche perché, come spesso accade in Italia, chi fa tutto in regola ci guadagna poco o niente. «Per questo — dice Teresa Benvenuto, segretario nazionale di Assindatcolf, l’associazione dei datori di lavoro che organizza oggi un convegno alla Camera dei deputati — proponiamo di rendere totalmente deducibili dal reddito delle famiglie, già tassato, i contributi versati nonché l’intero costo dei lavoratori». Tornerebbero i conti per lo Stato? Da una parte avrebbe meno tasse dagli stipendi delle famiglie. Dall’altra incasserebbe di più perché una parte dei dipendenti in nero sarebbe messa in regola, aumentando così il numero di chi paga contributi e tasse. Ma il risultato finale resta un punto interrogativo. Lorenzo Salvia lsalvia@corriere.it ____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Dic. ’13 A SCUOLA C’È UN ANNO DI TROPPO Farebbe la felicità dei ragazzi e, secondo una parte consistente di pedagogisti ed esperti, anche il loro bene. Sarebbe una boccata d’ossigeno per le casse dello Stato: risparmio stimato, tre miliardi. Piace ai professori universitari e agli imprenditori. Contrari «senza se e senza ma» i sindacati degli insegnanti. I ministri dell’Istruzione da dieci anni a questa parte sono personalmente favorevoli, ma il dibattito politico è fermo da quando, nel 2001, fu sotterrata la riforma Berlinguer. Stiamo parlando di uscire da scuola un anno prima, a 18 invece che a 19 anni: in linea con gli altri Paesi europei e con gli Stati Uniti, nonché con il gigante cinese. Il modo più semplice sarebbe tagliare un anno di superiori. Finora il liceo di 4 anni è stato avviato a livello sperimentale solo da alcune scuole paritarie lombarde con l’ok del ministero. Visitando il liceo Guido Carli di Brescia il ministro competente, Maria Chiara Carrozza, ha detto che, se ci fosse stata questa possibilità ai suoi tempi, lei avrebbe volentieri «studiato in una scuola come questa». Alcuni presidi di licei e istituti tecnici statali, da Verona a Bari, l’hanno presa in parola: dall’anno prossimo la secondaria superiore di 4 anni parte anche nelle scuole pubbliche. In realtà, la rimodulazione dei cicli scolastici era diventata legge già nel 2000 (legge n. 30), ministro Luigi Berlinguer: le superiori rimanevano di 5 anni, ma medie ed elementari erano accorpate in un ciclo unico di 7 anni. La riforma fu seppellita da Letizia Moratti, arrivata a viale Trastevere nel 2001. Nemmeno la Gelmini volle esercitare le sue forbici sul percorso dalle elementari alle superiori. L’ultimo a esprimersi a favore di una riduzione del curriculum dei liceali è stato Francesco Profumo, che lo aveva indicato tra le priorità del 2013. Ma le forze politiche su questo tema sono in difficoltà, perché, come dimostra anche il destino della riforma Berlinguer, i sindacati fanno muro sulla riduzione di un anno, temendo il taglio degli insegnanti: «In questo momento non ci sono le condizioni, prima servono investimenti per la scuola», è la riposta della Flc-Cgil. Non è un caso che nei programmi dei partiti non si parli della riduzione da 13 a 12 anni del percorso scolastico, ma tutt’al più, nel programma del Pdl, si trovi l’anticipo a 5 anni della scuola elementare: un modo per raggiungere l’obiettivo del diploma a 18 anni aggirandone i costi politici. Fuori dai nostri confini ci sono altri Paesi, per la verità non molti, in cui la scuola inizia un anno prima: l’Inghilterra con Malta e Cipro, e l’Irlanda del Nord, dove addirittura si incomincia a 4 anni (gli Stati Uniti, invece, partono dai 6 come noi; idem la Francia, il Belgio, la Spagna, la Germania, l’Austria). Ma quest’ipotesi non incontra il favore dei pedagogisti. Spiega Susanna Mantovani, professore ordinario di Pedagogia generale alla Bicocca di Milano: «I Paesi che hanno i migliori risultati nei test Ocse, come per esempio la Finlandia, iniziano addirittura a 7 anni. E poi, avendo noi una buona scuola dell’infanzia, mi pare illogico tagliare un anno all’inizio del percorso scolastico solo perché il liceo in Italia è sacro». Luigi Berlinguer taglierebbe semmai l’ultimo anno di scuola elementare. O meglio: «Lo si potrebbe accorpare alla prima media — spiega a “la Lettura” l’autore dell’inapplicata riforma del 2000 — per un passaggio più morbido tra l’educazione primaria e quella secondaria-disciplinare. Ormai gli istituti comprensivi, dove elementari e medie si trovano anche fisicamente nello stesso posto, sono molti. Cinque scuole hanno chiesto questa sperimentazione, ma il ministero non ha dato il permesso». La soluzione più a portata di mano resta quella di rivedere i programmi delle superiori e tagliare a fine percorso. Non solo perché, come spiega Mantovani, che per anni è stata contraria a questa ipotesi, ma ora ha cambiato idea, oggi «i ragazzi sono stufi, privi di motivazione e questo dimostra che il vecchio impianto gentiliano è affaticato». L’ultimo «dovrebbe diventare un anno di passaggio — suggerisce — in cui si esce dalla gabbia dei programmi per incominciare a nuotare da soli: si potrebbe anche pensare che chi è pronto si iscriva subito all’università». Per Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli non è tanto questione di risparmi (per lo Stato) o di non perdere tempo nell’ingresso del mondo del lavoro: «Questo tema riguarda soprattutto i laureati, che si confrontano con i loro coetanei stranieri; molto meno invece i diplomati, che restano a lavorare in un ambito locale. E per i laureati i ritardi maggiori si accumulano all’università». Il punto è, secondo Gavosto, «che il nostro sistema distribuisce l’investimento sul capitale umano, cioè l’istruzione, in un modo che funzionava 50 anni fa. Oggi i ragazzi nell’ultimo anno di superiori si annoiano: vorrebbero andare all’estero e invece sono lì bloccati. Sarebbe molto più utile riservare un anno di istruzione o formazione da poter usare durante l’esperienza lavorativa, sul modello anglosassone o scandinavo dei prestiti di onore». Qualche esperimento di anticipare l’università al quinto anno di scuola superiore è in corso. Quello di Ca’ Foscari per esempio: in tre licei veneti durante l’ultimo anno si può frequentare anche un corso universitario. Chi passa l’esame ha un credito per l’anno successivo, insomma un esame fatto. Anche vista dal mondo accademico infatti, la riduzione del curriculum scolastico è necessaria. «È dimostrato — spiega Alberto De Toni, rettore dell’Università di Udine e responsabile istruzione e alta formazione della Conferenza dei rettori — che la divisione del percorso in due cicli diminuisce la dispersione scolastica e dunque il sistema 7+5 sarebbe più utile per gli studenti e le famiglie. In Italia viviamo poi anche il paradosso che, essendo l’istruzione obbligatoria fino a 16 anni e ricevendo invece i ragazzi la qualifica degli istituti professionali a 17, almeno il 20% dei ragazzi dei professionali lascia prima di ricevere la qualifica, alla fine del secondo anno. Se iniziassero un anno prima, a 16 anni potrebbero avere il diploma. Ridurre di un anno il curriculum scolastico poi è un bel risparmio anche sociale e per le famiglie e a 21 anni avremmo dei laureati (laurea breve) come nel resto d’Europa». Oltreconfine gli ultimi a passare da 13 a 12 anni di scuola sono stati i tedeschi. I Land hanno avviato in ordine sparso una (contestata) riforma che accorcia il percorso del cosiddetto Gymnasium (medie più liceo), portandolo da 9 a 8 anni. Ma i programmi sono rimasti gli stessi ed è aumentato il carico orario (e lo stress) per i ragazzi. Di qui, le critiche. In Francia la scuola dell’obbligo dura 11 anni (5 di elementari, 4 di medie, 2 di liceo), che diventano 12 per chi vuole fare l’università: in quel caso è necessario passare l’esame di maturità (il Baccalauréat ) che si consegue solo al termine del terzo anno di liceo (a 17-18 anni). Gli inglesi cominciano un anno prima, a 5 anni, ma la loro lower school (le elementari) dura un anno in più (6 in tutto). A undici anni passano all’upper school , divisa in 3 anni di scuola media e due di liceo, alla fine dei quali c’è il Gcse , l’esame che conclude la scuola dell’obbligo (a 16 anni). Seguono due anni di specializzazione pre- universitaria, dove si studiano solo 3-4 materie, e che si concludono a 18 anni. Infine gli americani: 12 anni di scuola dell’obbligo divisi tra elementari (5), medie (3) e liceo (4), ma l’ordinamento federale è molto poco vincolante. A parte l’età minima di 16 anni, tutto il resto (inizio del percorso accademico, programmi, insegnanti, finanziamento) lo decidono i board dei distretti scolastici, che hanno l’autonomia assoluta impensabile nei Paesi europei: per esempio in Kansas e in altri Stati della Bible Belt , la fascia di più intensa presenza di cristiani evangelici, le scuole non insegnano la teoria dell’evoluzione di Darwin perché confligge con il creazionismo. Senza arrivare a questi estremi, riscrivere i programmi e rimodulare la scuola in Italia forse sarebbe a portata di mano. Anche perché, a sentire Alberto De Toni, l’occasione per «internazionalizzare» il curriculum scolastico senza provocare sconquassi tra gli insegnanti ora ci sarebbe: «Se si arrivasse a ridurre il liceo a quattro anni — spiega De Toni — gli insegnanti in esubero potrebbero utilmente essere chiamati a insegnare negli Its, gli Istituti tecnici superiori ad alta specializzazione tecnologica, creati con la riforma Gelmini e partiti tra gli stenti (formano non più di 5 mila studenti) e senza fondi, che invece avrebbero bisogno di moltiplicare i posti per i ragazzi». Contrario è Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia generale e sociale alla Bicocca, che però rivoluzionerebbe l’intero ciclo di studi, cambiando quello che oggi è considerato il buco nero della scuola italiana, le medie, per farne invece il fulcro del percorso. «Partiamo dai bisogni dei ragazzi: manca una scuola della preadolescenza che aiuti i teenager a elaborare il periodo dagli 11-12 anni ai 15-16. Caricare su un tredicenne (e sui suoi genitori) il peso della scelta del proprio destino è sbagliato: come si fa, a quell’età, a scegliere il liceo coreutico o lo sportivo?». L’idea è dunque quella di un primo ciclo di cinque o sei anni; poi quattro anni di media unica con latino per tutti «perché aiuta a ragionare e a imparare l’italiano». Infine i tre anni di superiori: «Penso a un modello flessibile in cui si fanno delle ore di scuola, degli stage in azienda, magari anche un mese all’estero e si comincia anche a frequentare l’università». Ma così si va troppo lontano: una riforma che toccasse tutti gli ordini di scuola difficilmente uscirebbe intatta dal Parlamento. ========================================================= ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 1 Dic. ’13 AOUCA: È L'ORA DEI VAGITI AL POLICLINICO Domani mattina scatta il trasferimento: dalle 8 ricoveri e nascite a Monserrato Ginecologia e Ostetricia: finisce l'era del San Giovanni Ginecologia e Ostetricia dal San Giovanni al Blocco Q del Policlinico, tutto pronto per il grande trasferimento: domani alle 8 apre il nuovo reparto e chiude i battenti dopo 150 anni la struttura di via Ospedale. Stanno per entrare in funzione sei sale parto più una sala emergenze al top della tecnologia europea. Nel nuovo reparto di Monserrato, in queste ore, fervono i preparativi e - contemporaneAmente - si continua a lavorare normalmente al San Giovanni proprio per garantire la continuità dell'assistenza alle donne e in particolare alle partorienti. IL TRASFERIMENTO È bene ricordare ai pazienti che sino alle 7.59 di domani mattina i ricoveri routinari e le urgenze saranno accettate al San Giovanni di Dio. Un minuto dopo, alle 8, tutto cambia: i ricoveri, sia routinari sia le urgenze saranno effettuati nella struttura del Policlinico e cesserà del tutto l'attività di ricovero della Clinica ostetrica e ginecologica del San Giovanni di Dio. In parole povere, da quell'ora i ricoveri dovranno essere inviati solo ed esclusivamente al Blocco Q. Per garantire che tutto avvenga senza disagi e in assoluta sicurezza, saranno attive due equipe in contemporanea: una al San Giovanni, l'altra al Policlinico. VISITE AL POLICLINICO Per quanto riguarda le attività ambulatoriali. Le prenotazioni tramite Cup che saranno effettuate da lunedì, saranno indirizzate tutte al Policlinico. Attenzione: «Chi ha già una prenotazione ambulatoriale fissata al San Giovanni e non è stato avvertito della modifica della struttura accettante», avvertono dalla direzione dell'Azienda ospedaliero-universitaria, «dovrà presentarsi in via Ospedale e non dovrà recarsi al Policlinico». L'IMPEGNO DELLO STAFF SANITARIO Il trasferimento della degenza e delle attività sta comportando un grande sforzo per medici, infermieri, degli operatori sanitari della Clinica ostetrica e ginecologica ma anche per tutti gli altri dipendenti dell'Aou. Tutti gli uffici e le unità operative collaborano l'uno accanto all'altro. IL NUOVO REPARTO È composto da 36 posti letto per le degenze e quattro in day hospital e un organico di 150 operatori tra medici, ostetriche, infermieri e operatori socio-assistenziali. «La sala operatoria e tutte le sale parto sono dotate dei più sofisticati sistemi sanitari e di sicurezza». Di altissimo livello anche l'assistenza pre e post partum. «Un impianto logistico unico per modernità, umanizzazione, accoglienza e d organizzazione». C'è il collegamento diretto con la terapia intensiva neonatale, «a contatto di porta e quindi di immediato accesso al momento del bisogno». LO STAFF Per Ennio Filigheddu, direttore generale dell'Azienda ospedaliero universitaria, «il trasferimento è importante per tutta la sanità sarda». Il direttore sanitario Roberto Sequi parla «di un'operazione importante», grazie anche al grande lavoro e alla dedizione di tutto il personale dell'Aou. Dal punto di vista sanitario è stato fatto uno sforzo incredibile. Davvero ora la sanità è più vicino e al servizio del cittadino». Anche il direttore amministrativo Piero Tamponi è soddisfatto: «L'impegno di tutta la Aou per il miglioramento strutturale e infrastrutturale è teso a migliorare la qualità e l'offerta sanitaria». Gian Benedetto Melis, direttore della Clinica ostetrica e ginecologica, è in fibrillazione: «È un giorno importantissimo. E lo sarà ancora di più per le future mamme e i bambini che nasceranno in questa struttura moderna e accogliente». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Nov. ’13 AOUCA: NUOVO REPARTO DI GINECOLOGIA Da lunedì prossimo si potrà partorire anche al Policlinico Un passaggio storico, anche se era atteso già da un po' di tempo, e che si spera porti il capoluogo sempre più all'avanguardia dal punto di vista sanitario. Dalla settimana prossima, infatti, si potrà partorire anche al Policlinico di Monserrato. Lunedì, per l'esattezza, infatti apre il nuovo reparto di Ginecologia e Ostetricia del Blocco Q. Il vecchio reparto del San Giovanni di Dio, a Cagliari, chiude dopo 150 anni i battenti e si trasferisce nel nuovo edificio, più moderno e all'avanguardia con la nuova Terapia intensiva neonatale e la Puericultura. L'azienda ospedaliero universitaria del capoluogo sardo sta ultimando gli ultimi particolari tecnici per fare in modo che non ci sia alcun tipo di intoppo e tutto vada alla perfezione. Sino alle 7.59 del prossimo 2 dicembre i ricoveri ordinari e le urgenze saranno accettate al San Giovanni di Dio. Un minuto dopo, alle 8, si cambia e tutti i ricoveri ricadranno nella struttura del Policlinico, che da lunedì ospiterà anche le visite ambulatoriali. Tutto è stato organizzato al meglio per fare in modo che non ci sia nessun tipo di intoppo. Per garantire che il trasferimento avvenga in tutta sicurezza, infatti, per tutta la giornata saranno attive due equipe mediche in contemporanea, una al San Giovanni e l'altra al Policlinico. Dunque, un cambiamento tanto atteso che non potrà che aumentare la qualità offerta dall'azienda sanitaria per le pazienti di Cagliari e hinterland, e che allo stesso tempo sarà garantito nella più totale sicurezza. La nuova struttura ospita sei sale parto (una anche con la vasca per la nascita in acqua) più una attrezzata per i casi maggiormente delicati, 36 posti letto per le degenze e quattro in day hospital, con un organico complessivo di 150 operatori tra medici, ostetriche, infermieri e operatori socio sanitari. Grande soddisfazione è stata ovviamente espressa dal direttore generale dell'Azienda ospedaliero universitaria, Ennio Filigheddu, che mette in risalto proprio il fatto che i cittadini sardi avranno a disposizione servizi di ottimo livello: «Viene offerta ai sardi - ha detto Filigheddu - una qualità sanitaria ai vertici assoluti nel campo medico». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Nov. ’13 ASLSS: TAGLIO DEL NASTRO PER LA NUOVA ALA SUD DEL CIVILE SASSARI. Mentre l'ottanta per cento delle altre strutture non è a norma L'ospedale all'avanguardia La nuova Ala sud del Santissima Annunziata, inaugurata ieri a Sassari, è un fiore all'occhiello in Sardegna. Purtroppo è anche una mosca bianca della sanità sarda. Perché, l'80 per cento dei presidi ospedalieri dell'isola, non sono in regola per l'accreditamento istituzionale. Tradotto: strutture fatiscenti, per utilizzare le parole del manager Marcello Giannico e bisognose di ristrutturazione. Sino a diventare come i dieci piani della nuova ala sassarese: sette dedicati alla degenza, tre per servizi vari, 210 posti letto, sette anni di lavori e 25 milioni di euro. TAGLIO DEL NASTRO La forbice è passata tra le mani del governatore Ugo Cappellacci e dell'assessore alla sanità Simona De Francisci. Con loro l'arcivescovo Paolo Atzei, onorevoli eletti nel territorio e autorità militari. Assenti il sindaco Gianfranco Ganau e la presidente della provincia Alessandra Giudici. Rappresentati, rispettivamente, dagli assessori Michele Poddighe e Angelo Mura. Tutti accolti dal padrone di casa, il direttore generale dell'Asl Marcello Giannico: «Benvenuti in questa struttura d'avanguardia - ha detto - con otto unità operative, connesse per la prima volta con i servizi diagnostici e terapie intensive». Orgoglio anche per il presidente Cappellacci: «Un grande risultato - ha commentato - che premia gli sforzi e l'impegno di coloro che ci hanno lavorato». FIORE ALL'OCCHIELLO «Non solo per Sassari e il Nord Sardegna, ma per tutta la sanità regionale»: lo ha sottolineato Simona De Francisci, dispiaciuta perché il resto dei presidi ospedalieri sardi, l'80 per cento, non sono accreditabili a livello istituzionale. Non rispondono, cioè, ai parametri di qualità previsti dalla legge in tema di sicurezza per pazienti e operatori, impiantistica, normativa antincendio e sino all'adeguamento delle corsie, stanze da letto e bagni. Per esempio, il reparto Maternità e Infanzia dell'Aou di Sassari: «È uno dei problemi più grandi - ha spiegato l'assessore - e per il quale stiamo facendo un lavoro di riqualificazione, con 155 milioni di euro destinati alla sanità turritana e del Nord Sardegna». Come già accaduto per la Neonatologia e la Maternità di Cagliari, il nuovo reparto di Emergenza del San Martino di Oristano e gli altri interventi nei presidi di Carbonia e Nuoro. «Non accreditabile significa non agibile» ha poi aggiunto con rabbia Giannico. IL GIRO NEI REPARTI Padre Paolo Atzei ha poi benedetto i locali e i malati, già presenti nella struttura dal mese di aprile. Medicina d'urgenza al primo e secondo piano, poi Nefrologia, Oncologia, Lungodegenza, Dermatologia, Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva: tutti con stanze singole o doppie, bagno in camera, tv e aria condizionata. Un piano dedicato alla reception con spazi commerciali, punto informativo, bar e ristorante, due sottopiani per garage e impianti tecnici, duecento parcheggi. Antonio Brundu ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Nov. ’13 MALATTIE RARE, FINANZIATO IL PIANO DI ASSISTENZA Via libera dalla Regione ai contributi economici per l'acquisto di apparecchiature utili alla cura di particolari malattie rare, come la labiopalatoschisi (o labbro leporino) e sindromi di Marfan e Klippel- Trenaunay. Su proposta dell'assessore della Sanità Simona De Francisci, la Giunta ha approvato una delibera che stanzia 275mila euro, che saranno ripartiti tra le vari Asl proporzionalmente alla popolazione residente. In particolare, viene avviato un programma sperimentale rivolto ai cittadini sardi (dando priorità ai bambini) affetti da malattie rare che necessitano di prestazioni sanitarie aggiuntive come apparecchi ortognatodontici per gravi malformazioni maxillo-facciali, creme per il trattamento di gravi patologie rare a interessamento cutaneo e calze elastiche contenitive. La segnalazione del tipo di patologia è arrivata da una ricognizione effettuata dal Centro di riferimento regionale per le malattie rare (ospedale Microcitemico). Sarà la Asl competente per territorio a provvedere ad erogare le prestazioni previste. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Dic. ’13 SOLO NOVE REGIONI GARANTISCONO I LIVELLI ESSENZIALI D’ASSISTENZA Sono le prestazioni sanitarie cui hanno diritto tutti i cittadini, ma i Lea, ovvero i Livelli essenziali di assistenza , di fatto non sono garantiti dappertutto. Ancora una volta i più penalizzati sono coloro che vivono in Regioni con piani di rientro dal deficit sanitario, soprattutto campani, calabresi e pugliesi. Lo rileva il rapporto 2013 (dati 2011) sull’erogazione dei Lea del ministero della Salute, realizzato attraverso l’utilizzo di una serie di indicatori per valutare le attività di prevenzione, l’assistenza ai malati sul territorio, in ospedale e in situazioni di emergenza-urgenza. Il rispetto degli adempimenti, peraltro, consente alle Regioni di accedere ai finanziamenti integrativi nell’ambito del riparto del Fondo sanitario nazionale (non vi partecipano Province e Regioni a statuto speciale, ad eccezione della Sicilia). Ebbene, secondo l’indagine del ministero, sono nove le Regioni promosse: rispetto al monitoraggio del 2010 si aggiunge la Liguria a Veneto, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Basilicata, l’unica del Sud. Rimane critica, invece, la situazione in Campania, Puglia e Calabria che presentano valori non ancora sufficienti per la maggior parte degli indicatori analizzati. Rispetto all’anno precedente migliorano Lazio, Sicilia e Molise che risultano quindi «parzialmente inadempienti» insieme all’Abruzzo: possono “recuperare” assolvendo alcuni impegni soprattutto sul fronte della prevenzione (in particolare per le coperture vaccinali e i programmi di screening), dell’assistenza ospedaliera e residenziale. «Il sistema dei piani di rientro forse ha sortito effetti riguardo al contenimento del disavanzo, ma non è riuscito a colmare il gap tra Regioni nell’erogazione dei Lea — commenta Tonino Aceti, coordinatore del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva — . Il risultato? I cittadini non sempre accedono a servizi sanitari essenziali, ma spesso pagano più tasse e più ticket». Per migliorare le aree critiche, le Regioni con piani di rientro possono chiedere all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali di affiancarle. «A quelle che lo chiedono — spiega il direttore di Agenas, Fulvio Moirano — suggeriamo possibili soluzioni, poi spetta alle istituzioni locali recepirle o meno». L’indagine del Ministero rileva, inoltre, che nessuna Regione raggiunge la piena sufficienza rispetto alle vaccinazioni contro l’influenza per gli anziani. E sono ancora carenti, soprattutto al Sud, i programmi di screening per la diagnosi precoce dei tumori a mammella, cervice uterina e colon retto. Altre note dolenti: l’elevato ricorso ai parti cesarei e la bassa percentuale di pazienti con frattura del femore operati entro tre giorni. Questi ultimi dati sono confermati dal “Programma Nazionale Esiti” 2013, curato da Agenas. «Esistono differenze anche all’interno delle stesse Regioni tra le diverse strutture» riferisce Moirano. «Il metodo per misurare il mantenimento dei Lea andrebbe rivisto perché non è in grado di verificare del tutto l’accesso a prestazioni essenziali, per esempio l’effettiva erogazione di farmaci ospedalieri innovativi — fa notare Aceti —. Inoltre, non tiene conto della qualità e della tempestività dei servizi erogati; un esempio: secondo un rapporto del ministero della Salute, in Campania si possono attendere anche due mesi e mezzo per la chemioterapia». Sempre in Campania alcune associazioni di pazienti si sono rivolte al Tribunale amministrativo regionale per chiedere l’annullamento di un accordo sulla fornitura di sacche per stomie, cateteri e altri dispositivi per incontinenza e piaghe da decubito. «Risparmiare su questi ausili acquistando un solo tipo più economico, oltre a peggiorare la qualità di vita dei pazienti, può provocare danni come infezioni o piaghe, peraltro con costi maggiori per il Servizio sanitario» sottolinea Francesco Diomede, della Federazione italiana incontinenti. «E va ricordato — incalza Aceti — che i pazienti con malattie croniche o rare o che hanno una disabilità attendono ancora l’aggiornamento dei Lei, come pure quello del nomenclatore tariffario delle protesi e degli ausili». Maria Giovanna Faiella ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Nov. ’13 ABILITAZIONI FASULLE PER NUTRIZIONISTI, 5 NEI GUAI SASSARI. In Italia raggirati 476 professionisti, molti sono del Cagliaritano «Una trappola per dottori» SASSARI Sembrava un master modello per abilitarsi alla prescrizione delle cure dimagranti e guarire l'anoressia, con docenti di tutto rispetto. Peccato che a Roma, alla modica spesa di 3660 euro si conseguisse una qualifica professionale inesistente: quella di Etologo nutrizionista e alimentare. Una figura specialistica riservata ai laureati in medicina e in biologia. TRUFFATI IN TUTTA L'ISOLA Sono 46 i sardi che sarebbero cascati in questa trappola, molti dei quali cagliaritani, su un totale di 476 truffati provenienti da tutta Italia, per un giro d'affari che soltanto dal settembre 2009 al giugno 2010, su “soli” 130 aspiranti dietologi aveva fruttato agli organizzatori quasi mezzo milione di euro. Segnale inequivocabile che la crisi economica spinge soprattutto i giovani a buttare via denaro e tempo alla ricerca di attestati che si rivelano miraggi, non solo inutili ma anche fasulli. LE ACCUSE Con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa il pm Corrado Fasanelli ha chiesto al gup di Roma, Stefano Aprile, il rinvio a giudizio di cinque persone: il biologo nutrizionista Giacomo Goglia, 63 anni, di origine campana, i suoi figli Giuseppe e Paola Barbara, rispettivamente 46 e 48 anni, Maria Antonietta Tosti, romana di 63 anni e Isabella Cavanna, piacentina di 42 anni. Con l'aggravante per Giacomo Goglia di aver costituito e organizzato l'associazione. Per tutti, di aver abusato della prestazione d'opera. Il presunto raggiro era iniziato nel 2006. Gli imputati avevano costituito due associazioni, la Sinea e la Sisran. La prima si arrogava il diritto di tenere una sorta di albo, “archivio o anagrafe nazionale degli etologi”. La seconda pretendeva di essere l'unico ente designato al rilascio dei titoli. Certificati che naturalmente assegnava dopo la partecipazione al suo master. ABILITAZIONE FASULLA Tra gli insegnanti trovavano spazio esperti biologi, ginecologi e dermatologi. Ma anche pediatri, psicologi ed endocrinologi. Non mancava il materiale didattico per l'approfondimento di nozioni sul metabolismo umano, su diabete e obesità, anoressia e bulimia. Insomma, all'apparenza un corso ben organizzato con tanto di registrazione di marchio d'impresa all'Ufficio brevetti del Ministero dello sviluppo economico. Se ciò non fosse bastato, per convincere i più diffidenti si sbandierava anche l'accreditamento del ministero della Salute. Una garanzia presente sia sui diplomi sia sul timbro intestato alla società, ma assolutamente falsa secondo i magistrati. A tutto questo seguiva la promessa di abilitazione all'esercizio della libera professione. Tra le vittime della presunta truffa non ci sono solo medici e biologi, ma anche dottori in Psicologia, Farmacia, in Scienze tecnologiche alimentari, laureati in Scienze biologiche (triennale), in Scienze motorie, Tecnologie del fitness e Isef. C'è da chiedersi quanti tra questi nel frattempo, in perfetta buona fede, abbiano iniziato a prescrivere abusivamente trattamenti dietetici e consulenze nutrizionali, o ancor peggio cure per gravi disturbi dell'alimentazione, con il rischio non solo di nuocere ai pazienti, ma di finire essi stessi inconsapevolmente tra le maglie della giustizia. Salvatore Taras ____________________________________________________________ L’Unità 28 nov. ’13 STAMINALI, ASCOLTATE I NOSTRI RICERCATORI CARLO FLAMIGNI I malati e i parenti dei malati che protestano davanti ai palazzi del potere perché esigono (non chiedono, esigono) di poter utilizzare cure sperimentali sono, in ultima analisi, le stesse persone che esigevano di aver accesso alle cure anti-tumorali di un medico di Quel medico che proponeva loro e che oggi sappiamo essere del tutto prive di effetti terapeutici. Queste persone chiedono che sia lo Stato a farsi carico di queste terapie, il che significa che esiste, a questo proposito, un coinvolgimento collettivo: se non fosse così, credo che non interverrei sul merito del problema. Queste persone sono certe di essere nel giusto e di chiedere cose che hanno il diritto di ottenere. Sono in buona fede e hanno tutti i motivi del mondo per battersi per le proprie ragioni. Credo che sia giusto discutere con loro i motivi che inducono molti di noi a ritenere che siano invece nel torto, con la premessa che il verbo discutere implica il dovere di entrambe le parti di ascoltare (non fingere di ascoltare ) l'altra, disponibili sempre a considerare con grande attenzione le sue ragioni e anche (soprattutto) a cambiare idea. Debbo cominciare con una premessa, banale, ma necessaria: la medicina non è una scienza e non possiede verità assolute, è invece una disciplina empirica che vive sui consensi. I medici si confrontano continuamente con una serie di perplessità, molte delle quali prospettano soluzioni multiple e pertanto hanno bisogno di una selezione razionale: è utile un certo farmaco? Quando si deve considerare irreversibile uno stato comatoso? Quando considerare terminato uno studio sperimentale? Qual è la miglior definizione di un certo evento biologico? In questi casi è prassi affidare la soluzione del problema alle persone considerate più esperte e competenti, le quali decidono tenendo conto di alcune regole considerate adatte a quel particolare dilemma e scelte sulla base del principio di razionalità. Tutti i medici sono consapevoli del fatto che un consenso comincia a morire dal momento stesso in cui è stato formulato: nuove conoscenze, migliori interpretazioni delle conoscenze in nostro possesso, ci costringeranno in tempi più o meno brevi a modificare la maggior parte dei consensi, qualche volta in modo clamoroso, qualche volta in modo impercettibile. Ma fino a quando il nuovo consenso non verrà formulato, l'esistente è la nostra verità, l'unica alla quale possiamo ispirare le nostre scelte. Perché, questo è un altro problema fondamentale, il percorso del medico non è illuminato da una luce che arriva dall'alto e, quando va bene, tutto dipende dalla fiaccola che gli hanno messo in mano quando ha iniziato il suo cammino. I consensi non servono solo per stabilire se un determinato farmaco è utile o se invece i suoi effetti collaterali sono superiori a quelli ritenuti terapeutici, hanno anche altre finalità: ad esempio regolano la significatività delle esperienze e stabiliscono, solo per fare un esempio, che nessuna sperimentazione ha valore se non viene confermata, elencano le modalità necessarie per considerare utile e onesto uno studio clinico e via dicendo. Non accettare questa serie di regole è, ancor prima che stupido, disonesto: è disonesto affermare che la cosiddetta pillola del giorno dopo è embrionicida, perché l'Organizzazione Mondiale della Sanità, basandosi sui consensi dei suoi ricercatori, ha detto che non è così; è disonesto affermare che la gravidanza comincia dal concepimento, perché la stessa organizzazione ha stabilito che l'inizio della gestazione coincide con l'impianto dell'embrione in utero; è disonesto (ma anche molto stupido) affermare che i maschi della nostra specie diventano sterili perché le femmine della nostra specie prendono la pillola e poi riversano tonnellate di questi potenti ormoni nell'ambiente (insomma, fanno la pipi nei prati) e lo inquinano. Bisognerebbe tener conto di queste regole (e anche del fatto che una medicina senza regole certe si preannuncia come un vero disastro) quando si ragiona sulle medicine alternative, un'analisi che dovrebbe richiedere maggiore attenzione da entrambe le parti: perché è vero che alcune di queste medicine non riescono a dare alcuna prova della propria efficacia, ma è anche vero che alcune di esse (ad esempio le fitoterapie) ce le siamo dimenticate noi, posso stilare un elenco di molte pagine citando erbe che potrebbero avere capacità terapeutiche e che non sono mai state sperimentate. Ma lasciatemi dire alcune cose anche sulle cellule staminali: in questo Paese (e non accade purtroppo per tutti i possibili temi di ricerca) abbiano la fortuna di avere alcuni esperti considerati con grande rispetto da tutti gli scienziati del mondo. Ebbene questi esperti concordano nel dichiarare che non esistono prove dell'efficacia delle cellule staminali nella cura di alcune patologie, che non esiste a tutt'oggi una documentazione credibile della loro efficacia e che non è nemmeno possibile dichiarare che sono prive di effetti negativi. Per giustificare gli apparenti miglioramenti che sarebbero stati osservati nel corso di questi terapie sperimentali si possono elencare molte possibili cause, nessuna delle quali ha veramente a che fare col risultato di un effetto positivo delle cure. Ho letto, con molto dispiacere, che i nostri scienziati sono stati accusati delle cose più sgradevoli e strane, e lo trovo profondamente ingiusto. Sarei veramente stupito se scoprissi che qualcuno di loro ha interessi personali e trova vantaggio nel prendere un partito piuttosto che un altro: ne conosco più d'uno (ad esempio ho lavorato a lungo nel Comitato di Bioetica con la professoressa Cattaneo) e ho per loro rispetto e ammirazione Non ho alcun dovere nei loro confronti e non credo di essere conosciuto come persona dal giudizio facile, per cui vi prego di credermi se dico che si tratta di ricercatori pieni di umanità, dotati di una grande capacità di compassione, cittadini esemplari e trasparerenti. Per favore, ascoltateli. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Dic. ’13 LA VERITÀ SULLE STAMINALI Il metodo scientifico possiede gli anticorpi per proteggersi dai venditori di illusioni. Non seguirlo è criminale Michele De Luca Mai come in questi mesi le cellule staminali sono assurte agli onori della cronaca: se ne parla ovunque e, a onor del vero, quasi sempre a sproposito. Non solo in Italia, sempre a onor del vero. Nell'immaginario collettivo, complici alcuni ciarlatani, speculatori e fenomeni mediatici le cellule staminali sono viste come la panacea per tutti i mali, noti e persino ancora ignoti, e le regolamentazioni, incluse le famigerate GMP (Good Manufacturing Practice), un complotto ordito dalle industrie farmaceutiche per impedire ai pazienti di esercitare un presunto diritto alla "libertà di cura". Posizioni, queste, spesso sposate da incompetenti in materia e in qualche caso appoggiate, in modo più o meno velato, da alcune istituzioni dimentiche del fatto che dovrebbero essere le prime a tutelare la verità dei fatti e la salute dei pazienti. Credo sia utile provare, ancora una volta, a fare chiarezza. Qualche settimana fa un articolo dell'Economist ha suscitato reazioni di protesta per aver sostenuto che la scienza è inaffidabile perché sbaglia troppo. Nulla di più lontano dal vero. La scienza sbaglia perché dispone di un metodo che consente di avanzare nella conoscenza, e solo se si è in grado di scoprire gli errori ci si avvicina progressivamente a sapere come stanno le cose. Ci sono poi ambiti, come la medicina, dove si può sbagliare di più e dove gli scienziati possono più spesso cercare di mentire. Ma proprio per ovviare a questi problemi la scienza si è dotata di strumenti di auto-controllo assai efficaci e ha potenziato il metodo scientifico (ovviamente inviso a ciarlatani e speculatori), per esempio sviluppando la cosiddetta "medicina basata sulle prove di efficacia". Dati alla mano, la ricerca medica moderna dall'inizio del secolo scorso ha permesso, tra altre cose, un notevole allungamento della speranza di vita: anche in Italia, dato che con 81.5 anni siamo al secondo posto nel mondo, dietro al Giappone. Quali sono i pilastri della medicina basata sulle prove di efficacia? Sostanzialmente tre: una solida ricerca di base, una ricerca pre-clinica meticolosa e una sperimentazione clinica rigorosa in tutte le sue tre fasi, quest'ultima essenziale per garantire ai pazienti la sicurezza (fase 1) e l'efficacia (fasi 2 e 3) dei farmaci che vengono loro proposti. In buona sostanza stiamo parlando delle regolamentazioni così tanto discusse in questi mesi. Le cellule staminali, che sono alla base delle cosiddette terapie avanzate e della neonata medicina rigenerativa, sono entità più complesse dei farmaci tradizionali, richiedono competenze multidisciplinari e metodi più complicati di produzione. Quindi, a maggior ragione, devono sottostare alle regole della medicina basata su prove. Non è quindi sorprendente che le terapie avanzate siano oggi sottoposte quasi ovunque, almeno nei paesi più civili, alla stessa regolamentazione utilizzata per i farmaci. Chi propone una derubricazione delle colture cellulari a trapianti o chi si fa promotore di iniziative che tendono a mettere sul mercato terapie di non provata efficacia e non vagliate attraverso le tre le fasi della sperimentazione clinica mina alla radice il concetto di medicina scientifica, con potenziale danno per i pazienti che si dovrebbero e vorrebbero curare. Perché lo fa? Non ci sono che due motivi possibili, strettamente collegati tra loro: un movente di tipo economico-speculativo e la consapevolezza dell'improbabilità dell'efficacia delle terapie che si tenta di mettere comunque sul mercato. Ciò detto, scienziati di diverse parti del globo chiedono regolamentazioni più adatte, ritagliate su misura per le terapie avanzate basate su colture cellulari. Credo che questa sia una richiesta giusta, ragionevole proprio in funzione della differenza tra un composto chimico e una cellula. Il che non significa assolutamente, e mi preme ribadirlo, un allentamento delle regole o un'abolizione dei tre principi cardine della medicina basata sulle prove di efficacia (ricerca di base, ricerca preclinica e tre fasi di sperimentazione clinica). Come si può dunque conciliare l'irrinunciabile necessità di sicurezza ed efficacia con la peculiarità delle colture cellulari? Le regole attualmente applicate, originariamente pensate per i farmaci tradizionali, non sono in realtà del tutto ottimali per le terapie avanzate. Per esempio su alcuni controlli di processo, che risultano ridondanti se non addirittura inutili, soprattutto nel caso di terapie basate su cellule autologhe, cioè estratte dal paziente stesso e a lui destinate. Non è difficile, anche per i non addetti ai lavori, immaginare che i controlli necessari per un lotto di antibiotici utilizzati da milioni di pazienti sono per forza di cose diversi da quelli richiesti per la singola coltura di cellule isolate da un singolo paziente, e solo a lui destinate. Sarebbe dunque opportuno che le autorità regolatorie ripensassero alcune di queste regole, per consentire alle terapie avanzate, soprattutto se legate a malattie rare e fondate su un reale razionale scientifico di efficacia, di arrivare alle fasi 1 e 2 della sperimentazione (quindi allo sviluppo vero e proprio della terapia) con un impiego di mezzi economici e di energie inferiori a quelli necessari oggi per applicare tout court le regole del farmaco. Questo, senza che si riduca la sicurezza per il paziente, che rappresenta sempre il primo obiettivo di qualsiasi medicina moralmente sana. Accanto ad una semplificazione di alcune regole, sarebbe necessario applicare alle terapie avanzate basate su colture di cellule regole ancora più severe e stringenti sui razionali e sulla ricerca di base e pre-clinica, che giustifichino la prosecuzione dello sviluppo del prodotto fino all'applicazione clinica, anche se sperimentale. Questo perché la cellula è una entità più complessa di un composto chimico e le sue potenzialità terapeutiche meno immediatamente note. Tale cambiamento di prospettiva permetterebbe di ottenere almeno due risultati: rendere disponibili per i pazienti i prodotti di terapie avanzate a base di colture cellulari in tempi più brevi e con costi inferiori, e prevenire la diffusione di trattamenti come quelli tipo "Stamina", privi di qualsiasi plausibilità scientifica. Ricordiamoci che la vera compassione, in campo medico, sta nel fornire ai pazienti garanzie e informazioni a cui ancorare razionalmente le speranze che, per definizione, nella medicina scientifica possono essere basate solo su solide prove scientifiche. Tutto il resto non può essere in alcun modo definito né compassione né medicina. È solo illusione. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Dic. ’13 ANIMALISTI LE OPINIONI, I FATTI E LE CURE In merito all'articolo di cui all'oggetto, recentemente pubblicato da Il Sole 24 Ore: è innegabile che le opinioni siano opinioni e come tali vadano rispettate e che tutti, indistintamente, abbiano il diritto di esprimere le proprie. Tuttavia la veemenza con cui i firmatari dell'articolo trattano l'argomento mi fa tornare alla mente la “levata di scudi” a cui quasi costantemente si è assistito di fronte alle novità che hanno rivoluzionato il mondo scientifico nel corso dei secoli. Un esempio per tutti: il dott. Semmelweis, che un paio di secoli or sono per primo identificò nell'uso del NON lavarsi le mani prima di assistere una partoriente la fonte di mortali infezioni, venne ostracizzato dalla comunità scientifica che riteneva indegno e contrario a consuetudini radicate da secoli il solo pensare di “lavarsi le mani”. E in ambiti diversi dalla medicina, che dire di Galileo? Ciò che è consuetudine è sempre stato per l'uomo vero e affidabile e le mutazioni, vere promotrici del progresso scientifico, sono state spesso additate quali pericolose e dannose. Tra i “fanatici”, aggettivo che ricorre nell'articolo di cui all'oggetto e con cui gli autori omaggiano gli “animalisti”, vi sono sicuramente ricercatori, medici, veterinari, persone e studiosi in grado di sostenere le proprie opinioni con cognizione di causa. Mi permetto, al proposito, di dare un solo suggerimento ai firmatari dell'articolo: leggere almeno, proprio su una delle riviste da loro stessi citate, l'eccellente Nature, un lavoro pubblicato nel settembre u.s. da ricercatori anglosassoni i quali hanno ottenuto lo sviluppo, da cellule staminali pluripotenti umane, di sistemi organoidi cerebrali tridimensionali. Un risultato spettacolare e fondamentale per lo studio delle malattie cerebrali umane. Gli autori stessi sostengono che ottenere modelli in vitro del cervello umano sia l'unico modo per studiare e capire questo splendido organo, così dissimile da quello degli animali (ref: Nature, 19 settembre 2013 vol 501, pag. 373) Anche altri sistemi cellulari tridimensionali sono stati già approntati in vitro, ad esempio modelli di intestino, retina etc. Credo sia opportuno che tutti ci rendiamo conto che una nuova era si sta appalesando. Ai tempi di Aristotele e verosimilmente fino a qualche tempo fa, lo studio su animali era uno ancora uno dei pochi mezzi a disposizione. Ma pensare che al giorno d'oggi questo sia ancora tutto ciò su cui possiamo fare affidamento ritengo sia non solo anacronistico ma realmente dannoso. Le valvole cardiache prese da animali, i trapianti d'organo corredati dalla terribile terapia immunosoppressiva che gli sfortunati malati sono costretti ad assumere, le malattie su base genetica, terribili e devastanti e innumerevoli altre condizioni patologiche si apprestano a divenire retaggi di un passato in cui la bioingegneria, le conoscenze della genetica, la biologia molecolare non erano ancora disponibili per supportare l'ancestrale anelito dell'uomo ad una condizione in cui la sofferenza sia ridotta al minimo possibile. Non vi è dubbio che l'uso degli animali diverrà analogo al ricordo che abbiamo dei giochi equestri al Colosseo: retaggio di tempo passato ed uso non più consono alla coscienza attuale. dr. Luisa Mirone Gilberto Corbellini e Elisabetta Dejana RINGRAZIAMO LA GENTILE LETTRICE PER i suoi commenti. Se è innegabile che le "opinioni sono opinioni", è ancor più sicuro che le opinioni sono diverse dai fatti. Come già sottolineato nel nostro articolo, la gran parte dei cosiddetti metodi alternativi è stato introdotto dagli stessi ricercatori che al momento usano e hanno usato anche modelli animali. Come esempio possiamo prendere proprio l'articolo che cita, apparso su «Nature», sul lavoro fatto da un gruppo di ricercatori austriaci e inglesi che in parallelo usa e studia il cervello dei topi inducendone, inevitabilmente, il sacrificio (leggere un recente lavoro dello stesso gruppo su «Neuron», volume 79, pag. 254, e quasi tutti i loro lavori precedenti). Senza le conoscenze maturate sui roditori non avrebbero mai potuto sviluppare il modello descritto. Questi sono fatti, non opinioni. Per quanto riguarda i richiami a Semmelweiss e Aristotele, se la dottoressa si documentasse scoprirebbe come stanno le cose in merito agli sviluppi della sperimentazione medica, agli avanzamenti scientifici resi possibili dalla sperimentazione animale e all'evoluzione degli argomenti filosofici che mettono in discussione questa procedura sotto il profilo etico. Qualcosa può leggere nel libro a cura di Gilberto Corbellini, Storia della sperimentazione in biologia e medicina (Istituto dell'Enciclopedia Treccani). È singolare che si accusi proprio chi ha sviluppato e usa nuovi metodi, di non essere aperto al nuovo. O che si ricordino le vicende di Galileo o di Semmelweiss, per avvallare, a prescindere, qualunque cosa qualcuno "crede" sia nuova. Chi ha dei fatti da portare a supporto delle proprie teorie, non si appella ai casi in cui una novità è stata negata o ritardata da pregiudizi. Si dà il caso che in merito alla sperimentazione animale chi è chiuso dogmaticamente alle novità e prospettive di miglioramenti futuri sono proprio gli animalisti più fanatici. Ribadiamo, quindi, che non secondo la nostra opinione, ma nei fatti, i metodi alternativi sono già usati e sviluppati nella maggioranza degli istituti di ricerca. La ricerca sperimentale di ED fa uso di topi, ma anche di strumenti bioinformatici, genetica, lieviti, cellule in "cultura" e sistemi di genomica e proteomica. L'uso dei roditori, al di là degli aspetti etici, comporta dei costi molto alti e vi si ricorre solo quando è indispensabile. Infatti, i ceppi di topi usati sono altamente selezionati e richiedono ambienti controllati e privi di patogeni. Anche se, proprio per questi motivi, negli ultimi anni il numero dei topi utilizzati in ricerca si è ridotto quasi alla metà, purtroppo non è ancora possibile sostituirli con sistemi artificiali. Non è possibile riprodurre malattie genetiche ricostruendo un organo in vitro; non è possibile riprodurre la crescita e la disseminazione metastatica dei tumori; non è possibile artificialmente riprodurre malattie come la distrofia muscolare o la cavernosi cerebrale. Ce la faremo in futuro? Non lo sappiamo, ma sicuramente occorreranno moltissimo lavoro ancora e anni di sforzi. Quindi lo si dica: dobbiamo rallentare la ricerca su malattie importanti come il cancro o l'infarto o malattie genetiche come la distrofia di Duchenne o la cavernosi cerebrale perché vogliamo abolire l'uso dei topolini? Cosa direbbero – ma lo sappiamo – le persone con un figlio ammalato di leucemia o portatore di una malattia genetica grave, se comunicassimo loro che la ricerca di una terapia efficace sarà rimandata al momento in cui si potrà riprodurre in vitro la malattia? È necessario e sensato dialogare su questi temi, ma ci si deve ascoltare per capire le ragioni di tutti. Così hanno fatto gli agguerritissimi animalisti inglesi o tedeschi, con ricercatori e politici della comunità europea e da questo dialogo è derivata la attuale normativa a cui noi ricercatori ci atteniamo già da tempo. Infatti, il punto che si sollevava nell'articolo era la critica a norme restrittive e non giustificate che non solo non eliminano l'uso degli animali e non ne limitano le sofferenze ma addirittura le aumentano rallentando l'attività di ricerca. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Dic. ’13 ECCO PERCHÉ ALLA FINE L'OBAMACARE FUNZIONERÀ di Paul Krugman Non sono intervenuto nella polemica sui malfunzionamenti di HealthCare.gov, il sito che gestisce le sottoscrizioni al sistema sanitario introdotto dalla riforma di Obama, e non l'ho fatto perché non ho nulla da dire. La polemica non verte sulla riforma in sé: guardando all'esperienza degli Stati che hanno già una «Borsa delle assicurazioni», la struttura dell'Obamacare è praticabile. Il futuro della riforma dipende dalla capacità delle autorità di risolvere abbastanza bene e in fretta i problemi informatici e questo è un argomento su cui le mie competenze sono nulle. La mancanza di competenza, però, non ha impedito ad altri di commentare ogni minima inversione di tendenza nei sondaggi, ogni votazione alla Camera dei rappresentanti, e così via. Ma che ci volete fare, bisogna pur vivere. A questo punto, però, dispongo di informazioni sufficienti per azzardare qualche previsione: la faccenda, anche se con inciampi, andrà a buon fine. Le registrazioni gestite dagli Stati stanno andando bene. L'espansione del Medicaid, il programma di assistenza sanitaria pubblica per gli indigenti, va benissimo (e si sta espandendo anche in Stati che avevano rifiutato l'espansione). HealthCare.gov, anche se ha problemi, comincia a dare l'impressione che tra qualche settimana potrebbe funzionare sufficientemente bene da consentire a un gran numero di persone di registrarsi, o con le "Borse" statali o con le assicurazioni. Se tutto questo è giusto, a marzo, quando finirà la procedura di registrazione aperta, milioni di americani avranno una copertura sanitaria legale e le riforme saranno irreversibili. Il danno per la reputazione del presidente forse non sarà riparabile; le speranze di una vittoria travolgente dei Democratici alle elezioni di metà mandato del prossimo autunno forse sono sfumate, anche se non si può mai dire. Ma chi fa affidamento su un fiasco della riforma probabilmente ha sbagliato i conti. Voglio dire una cosa sulla prevista offensiva repubblicana contro l'Obamacare. Niente di originale, ma probabilmente userò termini più crudi di quelli che potete leggere altrove. In tre parole: sono degli idioti. Due scenari. Nel primo, il disastro di HealthCare.gov si rivela talmente ingestibile che il 31 marzo, quando scadrà il periodo di registrazione, il programma non riuscirà a partire. In quel caso i Democratici subiranno una schiacciante sconfitta. Nell'altro scenario, più probabile, il processo di registrazione diventa sufficientemente funzionale e il 31 marzo milioni di persone che prima non avevano copertura sanitaria o avevano assicurazioni più o meno inutili otterranno un'assistenza sanitaria. In quel caso la riforma diventerà irreversibile, la violenta opposizione dei Repubblicani si ritorcerà contro di loro e i Democratici otterranno una vittoria politica: non una vittoria ampia come se tutto avesse funzionato bene fin dal principio, ma comunque una vittoria. Nient'altro ha importanza. I Repubblicani possono vincere tutti i giorni per un mese sulle pagine dei giornali, ma tra un anno nessuno se ne ricorderà. L'unica cosa che i Repubblicani possono fare per influenzare il tutto sarebbe sabotare la legge. E lo stanno facendo, bloccando l'espansione del Medicaid. Ma non basterà, se le "Borse" delle assicurazioni cominceranno a funzionare anche solo passabilmente bene: quando la gente, compresi i giovani, si renderà conto di avere a disposizione una copertura sanitaria concreta a prezzi abbordabili, la propaganda politica non gli farà cambiare idea. Ovviamente potrei sbagliarmi. Forse mettere rimedio ai difetti del sito sarà più complicato di quanto ci immaginiamo. Una cosa però è sicura: l'offensiva propagandistica dei Repubblicani non sposterà una virgola. (Traduzione di Fabio Galimberti) ____________________________________________________________ Il Giornale 28 Nov. ’13 L'UTILIZZO DEI FARMACI BIOSIMILARI RIVOLUZIONA LA MEDICINA MODERNA È di pochi giorni fa la dichiarazione di Adrian van den Hoven (da settembre nuovo Direttore dell'Ega - European Generic Medicines Association), relativa all'introduzione del nuovo quadro regolatorio che sarà fondamentale per lo sviluppo dell'industria del Bio similare in Europa. Una revisione che, attraverso semplici aggiustamenti, potrebbe ridurre notevolmente i costi di sviluppo dei farmaci biosimilari, come ribadito più volte da Assogenerici (Associazione Nazionale Industrie Farmaci GenericiE quivalenti) l' organo di rappresentanza ufficiale dell'industria dei farmaci generici e bio similari in Italia. Per bio similare si intende un farmaco simile al medicinale bioteconologico in commercio a cui è scaduto il brevetto. Si tratta di farmaci follow-on biologics sottoposti a una rigoro sa regolamentazione e approvati sulla base della loro comparabilità conilloro prodotto di riferimento. Questi medicinali sono sempre più riconosciuti oggi, come gli unici in grado di trattare efficacemente malattie complesse tra cui il cancro e i disturbi autoimmuni. Entro il 2016, si stima che sette dei primi dieci prodotti farmaceutici in tutto il mondo saranno biologici. La differenza significativa tra biosimilare e farmaco di riferimento consiste nella «convenienza», perché questi farmaci assicurano un notevole risparmio sia peri pazienti sia per il sistema sanitario, garantendo ad un maggior numero di persone il fondamentale diritto alla salute. Per questo le parole di van den Hoven, che vanno ad amplificare gli sforzi verso una sanità più democratica, sono così importanti. Sandoz, società del Gruppo Novartis, da sempre rivolta alle esigenze dei malati, è diventata pioniere e leader globale nel campo dei farmaci biosimilari, L'UNIONE EUROPEA VARA UNA NUOVA NORMATIVA PER QUESTI MEDICINALI VANTAGGI Risparmi per i pazienti e anche per i servizi degli Stati membri Dal 2 settembre Adrian van den Hoven è il nuovo direttore generale della European Generic Medicines Association (Ega), l'associazione europea che riunisce le aziende produttrici di generici e biosimilari a partire proprio dalle competenze, derivate da un' esperienza decennale, nella produzione di farmaci bio tecnolo gi ci. Tre sono i farmaci bio similari commercializzati attualmente da Sandoz: ormone della crescita umano, ep o etina alfa e filgrastim, grazie ai quali l'azienda detiene una quota pari al 50 per cento dei principali mercati mondiali (fonte: Istituto Mondiale di Sanità). Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. ____________________________________________________________ Il Giornale 29 Nov. ’13 ODONTOIATRIA INDOLORE CON IL LASER A FIBRE OTTICHE Poco invasivo e antibatterico, è sempre più usato e non solo in chirurgia s Il laser negli ultimi anni è entrato in tante specialità della medicina come nuovo metodo di trattamento. Anche nell'odontoiatria ha fatto la sua comparsa per essere utilizzato con successo in diversi tipi di trattamento parodontale/piorrea, endodontico/ conservativo, di piccola chirurgia e patologia orale, di estetica dentale (sbiancamenti). Il Laser, Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation, consiste in un dispositivo che emette un fascio di luce di unico colore stimolato da delle radiazioni. Questo fascio di luce con le radiazioni provoca un maggior apporto sanguigno nella zona in cuiviene irradiato svolgendo un'azione di decontaminazione batterica, di riduzione dell'infiammazione e di produzione di nuovi tessuti, sempre in relazione al tipo di terapia che deve essere effettuata. Il trattamento è completamente indolore, minimamente invasivo e offre massimo comfort al paziente. I suoi benefici sono dimostrabili già dalla prima applicazione e non vi sono particolari controindicazioni. Il laser avendo una proprietà decontaminante antibatterica è importante per ridurre la profondità delle tasche parodontali e la piorrea (grave infiammazione cronica dei tessuti di sostegno dei denti con perdita degli elementi) oltre che a stimolare la guarigione più velocemente soprattutto se associato a sedute di detartrasi e levigatura radicolare. In chirurgia orale favorisce l' emostasi (riduzione del sanguinamento) e riduce il dolore ottenendo una maggiore precisione e pulizia nel campo operatorio. Utilizzato in sedute di conservativa/ endodonzia dimostra di essere un valido strumento anti-battericida preciso e sicuro da poter essere usato anche con i bambini. In caso di sbiancamento dentale favorisce la rimozione di macchie presenti sullo smalto senza essere aggressivo o danneggiare il dente. La tecnologia laser di ultima generazione è presente nelle Cliniche Favero, centri di odontoiatria implantologica ed estetica di alto livello, presenti nelle zone di Treviso, Oderzo, Cortina, Belluno e Padova nel nord-est, a livello nazionale a Milano, Roma e Cagliari, Napoli e all'estero a Londra. Il team medico preparato e aggiornato sulle migliori tecnologie e terapie odontoiatriche instaura un rapporto di collaborazione e fiducia con il paziente, adulto o bambino, garantendo il piacere di un'ottima salute orale e di un sorriso da voler mostrare ogni giorno (www.clinicafavero.it, numero verde 800 888 300, gafavero@tin.it). GPav ____________________________________________________________ Il Giornale 1 Dic. ’13 GLI ITALIANI COLPITI DA PSORIASI SONO 2,5 MILIONI Luisa Romagnoni Indagini standardizzate e personalizzazione della cura. Sono aspetti ai quali si guarda sempre più, per un trattamento efficace della psoriasi. Una patologia cronica della pelle (colpisce quasi 2,5milioni di persone in Italia e almeno 400mila nella sola Lombardia), spesso sotto diagnosticata e non adeguatamente trattata, soprattutto nella forma lieve-moderata (la più diffusa, interessa circa l'80 per cento dei pazienti). Il punto su questa tematica è stato fatto in occasione del convegno «Psoriasi: la terapia interattiva». Un evento tenutosi a Milano per valutare come migliorare l'approccio diagnostico e terapeutico della psoriasi, in base al principio della personalizzazione della cura, analizzando casi clinici, per arrivare ad una definizione di Linee guida lombarde. La psoriasi, anche nella sua forma lieve- moderata, può avere ripercussioni in altri ambiti corporei, oltre quello del derma. «Si parla di sindrome psoriasica perché i pazienti con psoriasi presentano in associazione anche altre patologie, come sindrome metabolica, ipercolesterolemia, iperglicemia, ipertrigliceridemia, sovrappeso. Inoltre, per circa il 30 per cento dei pazienti, ci può essere coinvolgimento articolare, con insorgenza dell'artrite psoriasica», spiega Gianfranco Alto mare, professore ordinario di dermatologia all'università degli Studi di Milano e responsabile del reparto di dermatologia e malattie a trasmissione sessuale presso l'istituto ortopedico Galeazzi di Milano . Arrivare ad una diagnosi precoce è dunque importante, perché l'artrite psoriasica porta a deformazione, erosioni e nel tempo problemi di immobilità». In merito alla diagnosi e controlli, l' obiettivo è fare in modo che tutti i pazienti possano sottoporsi a indagini standardizzate. «Raggiungere uno standard uniforme di cura non è un'operazione facile», commenta Altomare precisando che la terapia locale per la psoriasi lieve-moderata dovrebbe orientarsi verso quei trattamenti innovativi che hanno dimostrato maggiore efficacia e che, grazie a una più agevole applicazione, facilitano la continuità della cura. Il trattamento di vitamina D e corti costeroide ha ridato vita ai pazienti psoriasici ed è un'associazione vincente». ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Dic. ’13 TUTTI DORMANO Passare una parte consistente della vita nelle braccia di Morfeo sembra uno spreco inaudito. Ma nessun essere vivente sfugge a questo apparente paradosso evoluzionistico Luca Pani Dormire o non dormire questo è il problema. Se sia più conveniente per l'individuo e la specie passare tutta la vita sempre svegli e attivi, oppure se sia meglio cadere giornalmente nelle braccia lunghe e morbide di Morfeo. Dal punto di vista evoluzionistico, a un primo esame, sembrerebbe che passare circa un terzo della propria esistenza a dormire sia uno sbaglio fondamentale. Tanto è vero che Alan Rechtschaffen, pioniere nello studio della fisiologia del sonno commentava: «Se il sonno non assolve una funzione assolutamente vitale, allora è il più grave errore che l'evoluzione abbia mai commesso». E l'evoluzione non commette errori in quanto tali, perché ciò implicherebbe concetti come giusto o sbagliato, cui invece la pressione selettiva e la sopravvivenza del più adatto sono indifferenti, sistemati in quella nicchia di aristocratica insolenza dove si accomodano le teorie che si muovono sub specie aeternitatis. Non dormire pare uno di quei lussi che proprio non possiamo permetterci. Da sempre dormiamo tutti: pesciolini, topolini, cani, gatti, canarini, moscerini e naturalmente anche i primati pur con delle debite e interessanti differenze. Un topo dorme sino a 14 ore al giorno, un elefante meno di quattro, una balena se volesse potrebbe dormire anche 24 ore di seguito perché lo fa sempre con metà cervello mentre tiene sveglia l'altra metà (sonno uni-emisferico). Un essere umano dovrebbe dormirne circa 8 e mezzo preferibilmente tra le 23 e le sette con più o meno un'ora di tolleranza (dalle 22 alle otto). E chi può permetterselo ancora ogni notte? Eppure converrebbe abbracciare il cuscino molto seriamente, dato che ormai vari studi mostrano che le cellule cerebrali vengono danneggiate dal poco dormire. I moscerini della frutta mutati in una subunità di un canale al potassio, chiamati Shaker per il loro tremore continuo, hanno un ridotto tempo di sonno e di vita. Dormire serve a riparare e riorganizzare il cervello ed è meglio diffidare di coloro che, non essendo nati con un ridotto bisogno di sonno, vanno in giro a proclamare come un vantaggio competitivo il fatto di essersi "allenati" a dormire poco o niente. Se affermano di non dormire mai stanno mentendo e non sarebbero vivi. Se dormono tre-quattro ore per notte dal lunedì al venerdì, il che è fattibile ma riservato a pochissimi, chiedetevi dove sono durante i fine settimana e come stanno cercando di recuperare un debito pesantissimo e con un prezzo da pagare molto alto. Oltretutto non è dimostrato che nelle 20 ore in cui stanno svegli siano più efficienti. Anzi è dimostrabile il contrario. Se volete fare un pratico test del vostro debito di sonno, sappiate che il cervello possiede un contatore che ricorda tutte le ore perse: bevete in meno di un minuto un bicchiere di vino rosso a stomaco vuoto e senza aver bevuto caffeina nelle tre ore precedenti; se entro trenta minuti vi viene una marcata sonnolenza vuol dire che state dormendo meno di quanto il vostro patrimonio genetico vi consentirebbe. Esistono infatti molti geni che controllano il sonno, e ben oltre 70 mutanti sono stati identificati nel topo. Ma, a conferma dell'intoccabilità del ciclo, nessuno di loro è in grado di modificare la durata totale per più del 20 per cento. Per noi questo corrisponderebbe, anche se è poco scientifico, a degli estremi tra un minimo di sei ore e mezza a un massimo di 10, sopra o sotto dovrebbe essere patologico. Senza voler entrare nei dettagli delle mutazioni scoperte nella nostra specie è giusto però ricordare che un'anomalia in posizione 178 del gene che codifica per la proteina Prnp è associata all'Insonnia Familiare Fatale, il cui nome è auto esplicante per chi dubitasse ancora dell'importanza evoluzionistica del sonno. La stessa mutazione è presente anche nelle forme familiari della malattia da prioni di Creutzfeldt-Jakob, meglio nota come morbo della mucca pazza, caratterizzata da degenerazione corticale e demenza oltre che da insonnia; tanto che qualche studioso ha ipotizzato che dormire poco possa addirittura aumentare il rischio di ammalarsi di demenza. Con queste basi, negli ultimi anni, una serie crescente di evidenze ha effettivamente dimostrato che il sonno è fondamentale per consolidare le nostre memorie ma purtroppo senza specificarne il valore selettivo per la sopravvivenza. È infatti intuitivo che si possa vivere molto male non ricordando, ma nonostante questo si possa comunque vivere e ci si possa pure riprodurre trasmettendo le proprie mutazioni; le stesse che consentono di non dormire e di non ricordare, ai propri eredi; ma non basta. Gli scienziati sospettavano da qualche tempo che dovesse esistere qualcos'altro di più importante per spiegare il paradosso evoluzionistico del sonno. Un contributo per cercare di comprendere questo enigma l'hanno appena fornito Lulu Xie e colleghi sul numero del 18 ottobre scorso di «Science» dimostrando come, sebbene lo scopo finale del sonno resti ancora misterioso, mentre dormiamo il nostro cervello "pulisce" le scorie prodotte durante il giorno e lo fa con un'attività neuronale che è superiore a quella che abbiamo da svegli. Per fare questo, lo spazio interstiziale tra le cellule nervose aumenta di circa il 60 per cento mettendo in comunicazione il liquido cerebro-spinale con lo spazio sinaptico allo scopo principale di rinforzare la struttura delle terminazioni neuronali e rimuovere la Beta-amiloide in eccesso. È ancora poco per confermare una relazione diretta tra riduzione delle ore di sonno ristoratore e l'emergere dell'epidemia di demenze del mondo occidentale, ma suggestivo di riflessioni sull'alterazione dei cicli circadiani naturali e la sofferenza psichica umana. In effetti, prima di un episodio clinicamente rilevante gli psichiatri rilevano sempre un'alterazione del ciclo sonno-veglia su base cronica (più o meno lunghi periodi di insonnia) o acuta (bastano due notti in bianco di seguito) in individui predisposti. Il livello di insonnia può essere tanto meno grave quanto più l'individuo abbia predisposizioni su base genetica e familiare per disturbi del sonno e/o malattie psichiatriche. Visto il tempo necessario per aprire la gran parte delle migliaia di miliardi di sinapsi cerebrali, questi recentissimi risultati spiegano probabilmente come mai sia stato più conveniente selezionare una norma di sonno continuo per circa otto ore e non, invece, di due ore per quattro volte al giorno come, aneddoticamente, si racconta facesse Leonardo da Vinci e come auto- sperimentazioni umane dai risultati disastrosi in termini di stabilità emotiva e psichica suggeriscono di non provare neppure per scherzo a modificare la periodicità del nostro ciclo sonno-veglia. Altri aspetti meritano attenzione. Neuroimmagini funzionali consentono oggi di "vedere" l'attività cerebrale durante il sonno Rem e dimostrano come sia caratterizzato da paradossi di illogicità, allucinosi e fortissime emozioni nella totale impossibilità del corpo di muoversi, per cui lo studio del sonno sta aprendo la strada a quello, forse persino più importante della coscienza e – dunque – dell'incoscienza. Ed è interessante rilevare cosa succede nelle nostre scelte neuro-economiche dopo una singola notte in bianco. Dopo sole 24 ore di insonnia assoluta il cervello umano commette una serie di errori basati sulla convinzione, errata, che sia più facile guadagnare che evitare di perdere. La storia anche recente di alcuni trader piuttosto disinvolti potrebbe trovare ragione, tra le altre cose, su come avevano dormito, o piuttosto non- dormito, nelle notti immediatamente precedenti alla sbagliata gestione d'importanti decisioni finanziarie. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Dic. ’13 IL RACCONTO DI SÉ SERVE AL MALATO E GUIDA IL MEDICO A volte l’autore del libro «curativo» è il paziente stesso. Succede con la «medicina narrativa», nata per valorizzare il vissuto del malato e non considerare la patologia solo un mero fatto biomedico. Un volume uscito a settembre, medicina ( ed. narrativa in terapia intensiva Franco Angeli), scritto da Stefania Polvani, coordinatrice del Laboratorio dimedicina narrativa della Asl di Firenze, e Armando Sarti, direttore della Terapia Intensiva dell’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova, racconta i casi di pazienti seguiti con questo nuovo approccio, per far capire come raccontarsi possa diventare terapeutico. «La medicina narrativa migliora la pratica clinica, consente diagnosi più approfondite, favorisce le relazioni fra paziente, famiglia e medici, ottimizza la strategia curativa e la qualità del servizio, ma soprattutto ha un impatto sull’esito delle cure. I pazienti infatti seguono meglio le terapie e si riduce la loro sofferenza — spiega Polvani —. La narrazione aiuta il malato a dare un senso alle esperienze e il curante a conoscere la persona che ha davanti, costruendo percorsi di cura condivisi; inoltre, intercetta l’esigenza dei pazienti di raccontare la propria storia». Le esperienze di medicina narrativa sono sempre più diffuse, soprattutto all’estero. A Firenze il Laboratorio è attivo ormai da 10 anni; come spiega Polvani: «Oggi siamo abituati a pensare la malattia come un insieme di sintomi, cause e rimedi; raramente c’è la volontà di ascoltare il racconto dell’esperienza di malattia. Farlo aiuterebbe a migliorare l’assistenza, riconoscendo la necessità di prendersi cura del paziente come persona e non come caso da risolvere». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Dic. ’13 ENERGETICA MA DIGERIBILE LA COLAZIONE DEGLI SPORTIVI Differenze importanti fra professionisti e «amatori» Che si sia tra i fortunati che tra poco scieranno, o si pensi di sfruttare le imminenti vacanze natalizie per cominciare a rimettersi in forma correndo per le strade cittadine o andando in palestra, la “trappola” in cui non cadere è quella di ritenere che, poiché si fa del moto, si possa mangiare “impunemente”. A cominciare da quella prima colazione che tutti i nutrizionisti ci consigliano di fare sempre, e che è particolarmente importante per il “pieno” di energia necessario agli sportivi. Allora, come deve essere questo primo pasto giornaliero se si fa sport? «È verissimo che la colazione degli sportivi, nei giorni di allenamento, deve essere abbondante, arrivando a coprire il 25% del fabbisogno totale di calorie, contro l’abituale 15-20% — risponde Gianfranco Beltrami, medico dello sport e consigliere nazionale della Federazione medico sportiva italiana — e che deve essere un pasto sostanzioso e completo, ma anche equilibrato e digeribile, accompagnato da una abbondante idratazione. Attenzione, però, a non sopravvalutare quanto si “spende” in termini di calorie facendo attività fisica». Qualche esempio di spesa energetica “sportiva”? «Camminare speditamente a una velocità di 6 km all’ora per un’ora, o fare una partita di tennis, significa bruciare dalle 300 alle 400 calorie, mentre correndo a una certa velocità (circa 8 km all’ora) in un’ora si consumano 500 calorie» precisa il dottor Beltrami. Ma chi può definirsi uno sportivo? «Può dire di avere un buon livello di attività fisica chi fa sport almeno 4-5 volte alla settimana per almeno un’ora — dice l’esperto —. Diverso è il discorso per i professionisti: un calciatore, che fa due allenamenti al giorno, ha bisogno quotidianamente di almeno 3.500 calorie e può quindi concedersene 700 a colazione. La signora che ha fatto un’ora di Zumba ha bisogno al massimo di 2.500 calorie in tutta la giornata e a colazione dovrebbe restare sulle 400». Come deve essere la composizione della colazione da suggerire a chi fa attività fisica? «Il 50-55% dell’introito calorico dovrebbe arrivare dai carboidrati, il 25-30% dai grassi e il 20-25% dalle proteine. Il 50% suggerito per i carboidrati sta a metà tra le percentuali indicate da diete iperproteiche — che suggeriscono un 40-42% — e quelle proposte dalla dieta mediterranea, in cui i carboidrati arrivano al 65 %. Per me il 50-55 % resta la quota ideale da rispettare, non solo a colazione ma a tutti pasti o, comunque, complessivamente nella giornata». «I carboidrati a basso indice glicemico e cioè i cereali — aggiunge Beltrami —, molto meglio se integrali, servono per dare energia sulla lunga durata, ma gli sportivi — come peraltro tutti — devono mangiare anche cibi che forniscano energia di pronto consumo e quindi gli zuccheri, da ricavare soprattutto dalla frutta, che contiene tante vitamine e sali minerali importantissimi. Latte e yogurt li consiglierei scremati, perché quelli interi sono ovviamente più grassi e quindi potrebbero essere più difficili da digerire. Le proteine possono derivare da formaggi freschi e magri, dai salumi, come prosciutto e bresaola (da considerare, però, nel computo settimanale delle proteine animali) e dalle uova». I dolci sono “vietati” anche agli sportivi? «Non c’è nulla di vietato in assoluto, — afferma il medico dello sport —, ma io non li consiglio se non saltuariamente o in piccole quantità. Meglio una fetta di pane integrale con una fetta di prosciutto crudo. Ricordiamo che i nostri salumi, in particolare il prosciutto crudo ma anche il cotto, sono ben diversi dagli insaccati che si mangiano a colazione all’estero». Perché è importante la digeribilità nella colazione dello sportivo? «Perché — spiega Beltrami — i muscoli, quando si è impegnati in uno sport, hanno bisogno di sangue, che non deve essere richiamato dallo stomaco impegnato in una faticosa digestione. Se si fa colazione con molte proteine teniamo presente che ci vogliono anche tre ore per digerirle: se l’allenamento inizia dopo un’ora e mezzo o due dal risveglio, quindi, non esageriamo con i cibi proteici e i grassi». La colazione deve essere fatta prima di dedicarsi all’attività fisica, o dopo? «È sempre meglio prima, con un’unica eccezione: chi deve perdere peso. Durante il lungo digiuno notturno, che ci lascia a stomaco vuoto per 10, 12 ore, vengono bruciati gli zuccheri presenti sotto forma di glicogeno nel muscolo e nel fegato e se si impegna il corpo in un’attività fisica, per recuperare energie vengono mobilizzate anche le scorte di grasso — conclude l’esperto —. Ma lo sportivo di solito non è sovrappeso, o meglio, anche se pesa molto, questo è dovuto alla notevole presenza di massa magra, cioè di muscoli» . Daniela Natali ____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Dic. ’13 I MISTERI DEL MALE NELLE CELLULE CEREBRALI Spiegare la violenza esaminando il cervello Una pista promettente ma piena di rischi Nei primi mesi di quest’anno è stata attribuita a un neurobiologo tedesco, Gerhard Roth, la scoperta della sede del male: una regione oscura nel «lobo centrale» del cervello di stupratori, assassini e altri criminali. La notizia ha avuto una certa diffusione e suscitato qualche apprensione nel mondo scientifico finché Roth, tramite un comunicato dell’Università di Brema, ha dovuto precisare di non aver mai identificato il lobo centrale come luogo in cui il male si forma e si nasconde. «Un simile lobo non esiste», si legge nella nota successiva (la suddivisione classica del cervello è nei lobi frontale, parietale, temporale e occipitale) e la notizia della «macchia cerebrale» è risultata un fraintendimento. Tuttavia a questo punto si è accesa una nuova attenzione sulle ricerche che riguardano le relazioni tra cervello e comportamenti umani. Roth e il suo gruppo di ricerca studiano proprio la possibile connessione tra il comportamento e lo sviluppo del cervello. L’attenzione è rivolta soprattutto a capire se e in che modo traumi precoci possano costituire un fattore determinante nella condotta violenta. Tipologie diverse di comportamento potrebbero essere correlate a disturbi funzionali di alcuni centri del sistema limbico, tra cui la corteccia orbitofrontale. Esistono molte altre ricerche che suggeriscono che il cervello criminale sia diverso da quello non criminale, ma c’è un margine interpretativo nebbioso. A parte gli errori più grossolani, bisogna fare attenzione a non confondere correlazioni e nessi causali, predisposizioni e destini ineluttabili. Soprattutto quando ci si muove su terreni in continua evoluzione e che richiedono una semplificazione destinata ai non esperti. Ma anche agli esperti può accadere di confondersi. O di doversi misurare con situazioni sorprendenti quanto imbarazzanti. Siamo nel 2005 quando il neuroscienziato James Fallon studia le scansioni cerebrali di alcuni psicopatici. Non è solo il loro passato violento a renderli così diversi da chi non s’è mai spinto più in là di una risposta sgarbata o di un’aggressività contenuta, addomesticata con l’età adulta. Quell’abisso, simile a quello tra chi ha ucciso e chi no, che Georges Simenon racconta in Lettera al mio giudice , emerge anche dal confronto dei cervelli. Da molti anni Fallon cerca le radici del male, cioè una spiegazione neuroscientifica al comportamento feroce e criminale. Ha notato che nei soggetti con comportamenti molto aggressivi ricorre una caratteristica comune: una scarsa funzionalità in un’area dei lobi frontali e temporali. Niente di strano, perché la riduzione di attività cerebrale in queste zone suggerisce un difetto di ragionamento morale e una scarsa capacità di contenere gli impulsi. Contemporaneamente Fallon indaga l’Alzheimer e le sue correlazioni genetiche. Ha sottoposto alcuni pazienti a esami genetici e a scansioni cerebrali. Come gruppo di controllo usa i suoi familiari e il suo stesso cervello, le cui immagini sistema sotto a quelle degli individui affetti dalla patologia. In fondo alla pila di lastre ne vede una con le caratteristiche da psicopatico (abnormal ). Fallon pensa che sia finita lì tra l’Alzheimer per sbaglio. Controlla. Nessuno sbaglio dovuto al disordine, quella scansione non arriva dal gruppo degli psicopatici. L’identità dell’uomo della scansione è talmente sconvolgente che Fallon pensa che si sia rotta la macchina. Il tecnico di laboratorio controlla lo scanner. Nessun errore, nessuna confusione: è lui, James Fallon. Uno psicopatico, con quell’area cerebrale troppo angusta per contenere empatia e emozioni, gli ingredienti del comportarsi bene. Eppure lui è una brava persona. A parte qualche fissazione e qualche narcisistica manifestazione di promesse non mantenute, nessuno avrebbe sospettato che nel suo cervello si annidasse il male. O la sua correlazione neurologica. Fallon non si nasconde e non omette la sua scoperta. Il suo cervello è paurosamente simile a quello di un serial killer — non solo, scopre di avere il gene correlato al comportamento violento. Come può un uomo «buono» avere un cervello tanto «cattivo»? Fallon racconta la sua storia in un libro uscito a fine ottobre The Psychopath Inside («Lo psicopatico dentro», Penguin), riformulando in chiave neuroscientifica le domande sul male che ci poniamo da secoli. Prima di quella scansione, Fallon attribuiva alla genetica l’80 per cento del destino personale. Dopo, se l’è dovuta vedere con un’eccezione formidabile, e con la conseguente necessità di ripercorrere concetti come male, psicopatia, responsabilità. Il caso Fallon potrebbe essere considerato come un ennesimo sintomo della complessità del comportamento umano, della difficoltà di indicare le condizioni neurologiche sufficienti e necessarie della violenza. Non basta un cervello da cattivo a renderci cattivi insomma, perché il nostro comportamento non è un mero riflesso condizionato neurologico. Ogni scoperta neuroscientifica ci consegna un tassello per capire meglio il funzionamento del cervello, a patto di non trasformarlo in una caricatura, in una versione poco più presentabile della lettura della mano o di una ben lucidata sfera di cristallo. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Dic. ’13 MA SENZA I CATTIVI NON C’È STORIA È il «Giuda necessario» a creare la parola mentre il bene non è dimostrabile Mancano tre minuti alla mezzanotte del 25 maggio 1984. Al detenuto Peter LaFontaine viene concessa la possibilità di rendere un’ultima dichiarazione prima che sia eseguita la sua condanna a morte per mezzo di iniezione letale. Davanti ai parenti delle vittime e al procuratore che ha ottenuto per lui la pena capitale, l’uomo pronuncia un’unica frase: «Non so chi credete di uccidere, ma non sono io». Nel 1980, LaFontaine ha massacrato con ferocia inaudita due anziani coniugi nel corso di una rapina nella loro abitazione. Le prove contro di lui sono schiaccianti e la sua fedina è un crescendo di precedenti per violenza. Durante il processo, LaFontaine arriva a minacciare giudice, giuria e perfino il suo avvocato. Il tribunale impiega meno di una settimana per emettere una sentenza di condanna a morte, un record. LaFontaine viene tradotto nel braccio della morte. E qui gli viene diagnosticato un tumore celebrale. Negli Usa il condannato alla pena capitale deve giungere al patibolo nelle condizioni di salute ottimali, poiché la legge richiede la consapevolezza del valore della punizione che sta per subire, in ossequio a una sorta di estremo — e paradossale — scopo educativo. LaFontaine viene sottoposto a un delicato intervento chirurgico che gli salva la vita, ma la rimozione della massa tumorale produce un’amnesia. L’uomo non ricorda più nulla del passato, a cominciare dal crimine brutale per cui è stato condannato. Anzi, sostiene di non essere in grado di commettere simili atrocità. Oltre alla memoria, sembra sparita anche la sua indole violenta. Adesso è un uomo mite, dedito alla preghiera e alla lettura della Bibbia. Potrebbe sembrare una recita magistralmente architettata, ma neurologi e psichiatri si convincono che sia tutto reale e anche la macchina della verità gli dà ragione, per ben due volte. Peter LaFontaine sostiene, perciò, di essere innocente per un crimine commesso da un altro sé in passato. Il suo caso genera una domanda. Dove risiede la colpa? Nel corpo che ha compiuto le atrocità o nella coscienza delle stesse? Ed è possibile che l’operazione al cervello abbia rimosso, insieme al tumore e alla memoria, la parte malvagia dell’individuo? Oggi le neuroscienze cercano di individuare «l’area del male» all’interno del cervello. Ammettono, cioè, l’esistenza di una sorta di predisposizione fisiologica e genetica ai comportamenti più aberranti. Perciò, forse un giorno basterà una mappa del Dna per stabilire se un individuo è buono o cattivo. O magari porteremo i nostri figli da un chirurgo per far rimuovere la parte cattiva del cervello come oggi li portiamo dal dentista per l’estrazione di un dente cariato. Eppure la Natura sembrerebbe smentire l’origine biologica del male. L’immagine di una leonessa che aggredisce dei cuccioli di zebra ci induce a provare pietà per il più debole. Ma se con quella stessa carne la leonessa nutre i propri cuccioli, allora la valutazione muta radicalmente. Nel mondo animale il giudizio morale è sospeso, perché non esistono leoni vegetariani. E nel mondo umano? Secondo alcuni antropologi, l’unica distinzione possibile fra bene e male deriva dal fatto che solo quest’ultimo può essere dimostrato empiricamente, perché lascia riscontri evidenti dietro di sé — la scena di un crimine, per esempio. Il bene, invece, non si può provare. Infatti, come si fa a dimostrare che l’elemosina concessa al mendicante non è solo un modo per appagare il nostro bisogno di sentirci migliori degli altri, anche solo agli occhi di noi stessi? E che il sentimento che ci spinge è autentica filantropia e non superbia? La contraddizione è più evidente nel momento in cui l’uomo si racconta. Perciò è alla letteratura che spetta l’ultima parola. E dal punto di vista letterario, il male è assolutamente indispensabile. Ogni scrittore conosce la lezione: il bene trionfa, ma è il cattivo che fa la storia. Il «Giuda necessario», che genera il conflitto e quindi l’urgenza della parola, del racconto. Allora che sia il bene l’artificio, l’invenzione letteraria? Dovremmo risalire al momento esatto dell’evoluzione umana in cui è stato stabilito per la prima volta che una cosa era giusta o sbagliata. Sappiamo che la preistoria cessa nel momento in cui nasce la scrittura, ma l’invenzione è strettamente legata all’esistenza di qualcosa da documentare. La funzione del male in questo processo è basilare. Senza il male, l’umanità non avrebbe una Storia. Oppure questa si limiterebbe ancora a un piatto resoconto della realtà che ci circonda e non avremmo superato nell’evoluzione l’ominide che ritraeva la sua quotidianità sulle pareti di una caverna. Il che equivarrebbe a dire che ci siamo evoluti grazie al male? Man mano che avanza il nostro progresso, stabiliamo nuovi canoni per ripartire le cose giuste da quelle sbagliate. Tutto questo si riflette, inevitabilmente, nella letteratura di un’epoca. Rimanendo in America, un romanzo come A sangue freddo di Capote, per esempio, non sarebbe stato possibile prima del 1966. Nonostante le polemiche che suscitò quello sguardo opportunistico e voyeuristico sul male, che trasforma la cronaca in verità e non viceversa, in fondo è il prodotto di una società nata dal filmato dell’omicidio in diretta di Jfk. Le immagini di una testa che esplode colpita da un proiettile non vengono censurate, ma sono mandate e rimandate in onda in ossequio a un principio assoluto di libertà. Oggi l’America ha il suo primo presidente di colore, eppure evita di diffondere le foto del cadavere di Bin Laden per non turbare le coscienze. Perché, come muta la sensibilità riguardo al male, cambia anche il lessico. Alcune barriere semantiche vengono abbattute, altre erette. L’attenzione che oggi in Italia rivolgiamo, per esempio, al femminicidio lo fa apparire come un crimine moderno. Abbiamo già dimenticato quando gli attribuivamo la definizione, quasi romantica, di «delitto passionale». Ma, senza accorgercene, stiamo ripetendo lo stesso errore. La parola femminicidio scalfisce appena la superficie del problema. Sembra più il frutto di una scelta ideologica. È più adatta a definire una statistica piuttosto che un comportamento spregevole e vigliacco. Toglie identità alle vittime che diventano «femmine uccise», appunto. Una categoria, una specie. Ma, soprattutto, è una parola che lascia impunito il colpevole. Avete notato che si discute di femminicidio, ma non si parla mai del «femminicida»? Quando invece, come deterrente, servirebbe una definizione marchiante, come pedofilo. Escludendo i casi in cui ha un’origine patologica, il male ha radici culturali. L’unica arma per combatterlo è la parola. Perfino il togliere la vita a un altro essere umano, che è considerato universalmente il peggiore degli atti possibili, riceve una diversa considerazione se lo definiamo «eutanasia». Invece siamo ottenebrati dall’ansia di codificare il male o di attribuirgli un’origine biologica. Per assolverci. Ma il male è solo un elemento della nostra natura sociale. Per smentire le neuroscienze, ma anche coloro che si illudono di imbrigliarlo nella morale, basterebbe una semplice riflessione. Se rimanesse un solo uomo sulla faccia della terra, potrebbe ancora provare rabbia, odio, rancore. Ma non sarebbe né buono né cattivo. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 1 Dic. ’13 AOUCA: PARKINSON A PAROLA ALLO SPECIALISTA: «Una terapia congrua consente una discreta qualità della vita» Come si può combattere la malattia A volte stai bene e potresti scalare montagne, altre volte non sei in grado neppure di allacciarti le scarpe. Il Parkinson è così: a poco a poco inibisce i muscoli, debilita il fisico e massacra l'umore, ma «iniziamo a non definirlo più “morbo”, visto che una terapia congrua consente una discreta qualità della vita anche dopo 20, 30 anni dalla diagnosi». Parola del neurologo Antonino Cannas, responsabile del Centro Parkinson del Policlinico Universitario di Cagliari e organizzatore del convegno alla Cittadella, ieri mattina, in occasione della V Giornata nazionale sulla malattia di Parkinson. L'aula magna Boscolo, quasi al completo, ha riunito medici, pazienti e familiari per fare il punto su quella che solo in Sardegna interessa tremila pazienti, e che nel giro di 40 anni ha più che triplicato il numero delle diagnosi. Infatti, se negli anni Settanta il Parkinson colpiva in media 70 persone ogni 100 mila abitanti, oggi arriva a contarne circa 250: «Merito di una diagnosi sempre più accurata che consente di attribuire al Parkinson sintomi prima trascurati, come disturbi vescicali o dell'umore, oscillazioni della pressione, rallentamento motorio lateralizzato», ha spiegato Cannas, «ma anche “colpa” di un lungo elenco di farmaci, 150 al momento, in grado di anticipare l'insorgere della malattia». Anche l'ereditarietà gioca un ruolo importante - sono documentate 13 forme di Parkinson su base genetica - insieme ai fattori ambientali. L'età di esordio della patologia, solitamente compresa fra i 55 e 65 anni, può abbassarsi fin sotto i 30 o raggiungere gli 80: Raimondo Pala, presidente dell'associazione Parkinson Sardegna, ne aveva appena compiuto 43 quando, nel 2003, la malattia è entrata senza neppure bussare alla porta. «Quando sto bene lavoro in maniera dinamica, pratico sport e mi dedico ai fornelli», ha raccontato, «ma ci sono periodi in cui non riesco a infilarmi i calzini o a prepararmi un tè, e quando questo accade, a livello psicologico è devastante ancor più che nel motorio. È come se Mr. Hyde si impossessasse di me, e ci vuole una terapia fortissima perché ritorni Dottor Jackyll». Di Parkinson non si muore, ma i pazienti conoscono bene le tappe di un percorso degenerativo fino dipendere totalmente dai familiari: «Anche per questo abbiamo costituito l'associazione: per insegnare loro a gestire al meglio un parkinsoniano, oltre che per essere più forti noi, soprattutto rispetto a tematiche come la fisioterapia». Sebbene i soldi per i farmaci non manchino, infatti, poca attenzione viene ancora rivolta all'attività motoria, indispensabile per ridurre e rallentare gli effetti della patologia: «Solo un anno fa la Sanità ha omologato il Tai Chi Chuan nelle linee guida nazionali», ha commentato lo specialista Francesco Collu. L'attore Tino Petilli, fratello di una parkinsoniana, ha interpretato alcuni testi, mentre Pasquale Mura, 54 anni, ha suonato la pianola e l'armonica davanti alle sue maschere in legno. Ha il Parkinson da 15 anni, ma quando entra nella sua saletta, fra strumenti musicali e attrezzi di falegnameria, la malattia la lascia fuori. Michela Seu ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Nov. ’13 STRESS E TROPPO COMPUTER ALLA BASE DEL MAL DI TESTA INDAGINE DOXA. Tre italiani su quattro devono fare i conti con la cefalea ogni mese VEDI LA FOTO L e testimonianze su Facebook, i cinguettii su Twitter e le ore passate a chattare sul computer o attraverso il telefonino potrebbero avere una controindicazione. Ovviamente ad alte dosi. Secondo il 30% degli italiani, infatti, proprio la costante connessione con gli strumenti informatici potrebbe essere una delle cause del mal di testa. A dirlo è una ricerca condotta da Doxa Marketing Advice condotta su un campione significativo della popolazione che dimostra come la cefalea sia una compagna di viaggio, peraltro molto sgradita, per tante persone. LE CRISI Tutti gli italiani soffrono di mal di testa almeno una volta all'anno ma tre su quattro devono farci i conti praticamente ogni mese. E addirittura il 27% deve fare i conti con il disturbo ogni settimana. Perché arriva la crisi? Tra i fattori scatenanti, sotto accusa innanzitutto lo scarso riposo (soprattutto tra chi gestisce un'attività in proprio), l'ansia e lo stress (principalmente tra chi è senza lavoro), le preoccupazioni e le difficoltà economiche (in maggioranza tra le casalinghe) e gli eccessivi impegni quotidiani. Ma per più della metà degli italiani esiste anche il mal di testa da prestazione, quello che compare quando occorre dare il massimo, a scuola o sul lavoro. E per il 34% degli italiani la causa dei dolori è da riferire anche al tempo passato davanti al computer, al lavoro o a casa. Un italiano su tre ritiene infatti che il mal di testa possa essere figlio della costante connessione in rete per chattare, condividere e scambiare messaggi con amici e colleghi. STRESS «Sicuramente indice anche la situazione economica», precisa Massimo Sumberesi, direttore generale di Doxa Marketing Advice.«Lo scarso riposo generatore di mal di testa può essere infatti letto anche come causa di una generale preoccupazione per l'andamento degli affari. Anche il mal di testa dovuto ad ansia e stress, rilevato soprattutto nei disoccupati, può essere direttamente collegato alle difficoltà derivanti dall'aver perso il lavoro o di trovarne un altro. Peraltro un terzo degli italiani indica all'origine del proprio male: ad esempio le casalinghe, che si trovano a dover far quadrare il bilancio familiare». Dal punto di vista delle cure, ciò che si chiede è che il fastidio passi il prima possibile. Attenzione, però: bisogna conoscere il problema. «Se per gli attacchi saltuari, tipici della cefalea muscolo-tensiva, si può infatti ricorrere all'automedicazione con gli analgesici, in caso di attacchi ricorrenti di mal di testa è fondamentale rivolgersi al medico per una corretta diagnosi e terapia», precisa Gennaro Bussone, fondatore Centro Cefalee, Irccs Istituto Neurologico Besta. «Fatta questa necessaria precisazione sull'importanza di una corretta diagnosi, per chi soffre di mal di testa avere una soluzione rapida, efficace e sicura rappresenta il primo obiettivo. Oggi abbiamo a disposizione tra l'altro una formulazione di ketoprofene sale di lisina idrosolubile, che risponde proprio al bisogno di avere risposte alla necessità di avere un'azione rapida». Federico Mereta ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Nov. ’13 UN DOLORE IN AGGUATO PER CHI FA TROPPO SESSO Ci sono uomini che soffrono di cefalea da coito: capita a circa 7 persone su 100 tra quante soffrono di cefalea o emicrania. Il dolore è sordo, non intenso, e diffuso in tutto il cranio e tende a salire progressivamente nel corso dell'atto sessuale, per raggiungere l'acme durante l'orgasmo. I problemi tendono a manifestarsi soprattutto quando il desiderio è particolarmente elevato. Si pensa che il dolore nasca a causa del “furto” di sangue al cervello da parte dei genitali. Non esiste un trattamento specifico, anche se un antinfiammatorio o un analgesico possono essere utili. Attenzione però alla pressione: a volte il medico può indicare per la cura anche farmaci antiipertensivi, perché questa cefalea può segnalare un'ipertensione latente. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Nov. ’13 ALLERGIE AI MEDICINALI: SONO SEMPRE DI PIÙ I PAZIENTI CHE NE SOFFRONO Una persona su dieci in Italia è allergica ad uno o più farmaci. Addirittura negli ospedali, secondo gli studi condotti in tutto il mondo, le reazioni di questo tipo possono arrivare a colpire quasi due malati su dieci. In molti casi si tratta di ipersensibilità, ovvero una sorta di reazione eccessiva e spesso del tutto imprevedibile a composti presenti nel medicinale. Particolare attenzione va prestata soprattutto agli antibiotici, come ad esempio le penicilline e le cefalosporine, e ai sulfamidici. Secondo gli esperti, nella graduatoria dei medicinali che più spesso provocano reazioni allergiche, ci sono anche l'aspirina e gli altri farmaci anti- infiammatori non steroidei, che vengono frequentemente impiegati per trattare il dolore e l'infiammazione. Le reazioni possono essere di due tipi: immediate, che si verificano entro un'ora dall'assunzione dal farmaco, e possono portare a shock anafilattico, oppure manifestarsi come forme di orticaria. Consiglio pratico: prendete nota del farmaco e poi rivolgersi in centri di riferimento per la diagnosi, entro e non oltre le 2-3 settimane. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Nov. ’13 TUMORE AL SENO, UNA SOLA RADIOTERAPIA PER GUARIRE Tumore al seno, diagnosi precoce, intervento di asportazione minima, test del linfonodo sentinella, radioterapia intraoperatoria prima di richiudere. E ritorno alla vita quotidiana, guarite con danni quasi nulli. Ecco il nuovo percorso chirurgico che oggi si può applicare quando un cancro aggredisce il simbolo più importante della femminilità: il seno. L’ultima novità è la consacrazione scientifica della radioterapia intraoperatoria. Quanto lontani gli anni ‘80, quando il percorso chirurgico era devastante: asportazione totale del seno e dei muscoli sottostanti, via tutti i linfonodi del braccio dalla parte del tumore, cicli di chemioterapia e di radioterapia, basse probabilità di successo (si salvava meno del 40% delle pazienti). La sfera psicofisica della donna più che mutilata. Lo stesso tumore oggi colpisce di più (30 mila nuovi casi ogni anno), ma la guarigione tocca l’85% e senza mutilazioni sembra una malattia come un’altra. La radioterapia intraoperatoria è l’ultima carta vincente. A giocarla, ancora una volta nella storia della medicina, è stato Umberto Veronesi. E una pubblicazione sull’autorevole Lancet lo ha consacrato. Il direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo) ha dichiarato guerra totale al cancro nel 1952, quando scelse la specialità meno gratificante all’epoca per un giovane medico: l’oncologia. Consapevole, fin dal primo istante, che la salvaguardia dell’unità psicofisica dell’individuo è il quid vincente. Controcorrente in anni nei quali il dogma era «tagliare, tagliare, tagliare», e senza garanzie sul risultato. Il suo primo passo controcorrente, nel 1981, quando il mondo scopre la quadrantectomia (l’asportazione di un solo quadrante del seno): lo sconosciuto chirurgo italiano occupa la prima pagina del New York Times con ben otto colonne, dopo la pubblicazione sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine . Oggi, 32 anni dopo, un secondo passo chiave: la chiusura del cerchio in sala operatoria. Un tumore al seno diagnosticato in tempo (i controlli sono alla portata di tutti e non farli è un vero autogol) si risolve in sala operatoria. Questa volta è l’autorevole Lancet , insieme a Lancet Oncology , a pubblicare due studi, uno dello Ieo di Milano e l’altro dell’University College London , che confermano l’efficacia della radioterapia effettuata in sala operatoria, prima di ricucire l’opera del bisturi. L’idea di Veronesi risale al 2000, quando un gruppo di ingegneri e fisici romani riesce ad assemblare un macchinario per la radioterapia così piccolo e mobile da poterlo portare in sala chirurgica. Subito Veronesi ne intuisce i vantaggi: evitare alle pazienti di tornare in ospedale ogni giorno per 6 settimane per fare le sedute di radioterapia esterna, ridurre il campo dell’irradiazione del seno al solo quadrante che è sede del tumore, limitare al minimo la dose radiante alle zone vicine (con danni e nessun beneficio). E allo Ieo parte la sperimentazione. Si usa il metodo Eliot(Electron intra operative therapy): un acceleratore lineare con un braccio mobile che concentra il fascio di elettroni direttamente sull’area da irradiare per 3 minuti, subito dopo la rimozione della parte malata della ghiandola mammaria. Sono state selezionate 1.305 pazienti con tumore iniziale, candidate alla quadrantectomia: metà delle donne è stata trattata con Eliot durante l’intervento, l’altra metà con radioterapia esterna tradizionale. A 10 anni i due gruppi hanno mostrato un’identica sopravvivenza, intorno al 95%, anche se la percentuale di recidive è risultata lievemente più alta (2.5% rispetto a 0.4%) nel gruppo sottoposto a Eliot. Il lavoro dello Ieo è firmato da Umberto Veronesi e da Roberto Orecchia, direttore della Radioterapia. E ora? Le donne di nuovo si devono mobilitare. A livello internazionale. Perché? Bastano i numeri italiani per capire: solo 41 centri sono attrezzati per la radioterapia intraoperatoria e sono principalmente al Nord. Calabria, Campania e Puglia ne hanno uno solo. La Sardegna nessuno e da un’isola è difficile spostarsi. Basta per mobilitarsi. Mario Pappagallo ____________________________________________________________ Sanità News 28 Nov. ’13 I "DIABESI" ITALIANI SONO OLTRE 2 MILIONI Crescono le persone in sovrappeso, obese o con diabete in tutto il mondo. In Italia, secondo le più recenti stime ISTAT, è in sovrappeso oltre 1 persona su 3 (36%, con preponderanza maschile: 45,5% rispetto al 26,8% nelle donne), obesa 1 su 10 (10%), diabetica più di 1 su 20 (5,5%). Secondo i dati degli Annali 2012 dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD), oltre il 66,4% delle persone con diabete di tipo 2 è anche molto sovrappeso o obeso, mentre lo è "solo" un quarto delle persone con diabete tipo 1, il 24%. In pratica, sono in sovrappeso quasi 22 milioni di italiani, obesi 6 milioni, con diabete quasi 3,5 milioni: ‘veri diabesi’, ossia contemporaneamente obesi e con diabete, circa 2 milioni. “Questi numeri - dice Paolo Sbraccia, presidente eletto Società Italiana dell'Obesità (SIO) - ci fanno capire come diabete e obesità si sostengano a vicenda. L’obesità è considerata l’anticamera del diabete e la combinazione tra le due malattie rappresenta una vera e propria epidemia dei nostri tempi, per la quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha persino coniato il termine diabesità. L’associazione diabete-obesità deve preoccupare principalmente perché di diabesità si muore. Il rischio di morte raddoppia ogni 5 punti di crescita dell’indice di massa corporea, il BMI: un diabetico sovrappeso raddoppia il proprio rischio di morire entro 10 anni rispetto a un diabetico di peso normale; per un diabetico obeso il rischio quadruplica”. La diabesità quindi costituisce una pesante minaccia per la salute, per questo è necessario attuare politiche efficaci nel prevenirla. È noto come esercizio fisico e attività motoria possano rappresentare strumenti più che adeguati a questo scopo. “La conferma definitiva - prosegue Sbraccia - arriva probabilmente da uno studio pubblicato sul British Medical Journal del 1 ottobre 2013, condotto da Huseyin Naci, ricercatore alla London School of Economics and Political Science e alla Harvard University, e da John P. A. Ioannidis, professore alla Stanford School of Medicine. I risultati sono importanti a tal punto che allo studio è stato dedicato un editoriale anche dalla rivista Jama di novembre. Si tratta di una meta-analisi che ha riguardato oltre 300 mila persone; dimostra che l’esercizio fisico è efficace, in termini di riduzione della mortalità cardiovascolare o legata al diabete, quanto il trattamento farmacologico”. ____________________________________________________________ Sanità News 28 Nov. ’13 A PISA EFFETTUATO IL TRAPIANTO DI FEGATO NUMERO 1500 Il Centro trapianti di fegato di Pisa ha recentemente effettuato l'intervento numero 1500 ed è il primo in Italia ad avere raggiunto questo traguardo. L'unità operativa certificata diretta da Franco Filipponi, spiega una nota, ''conferma l'elevato livello scientifico e professionale ed esegue circa 100 trapianti all'anno''. Nato nel 1996, il Centro trapianti di Pisa è l'unico programma regionale di trapianto di fegato, capace di produrre sanità sia per pazienti toscani (circa la metà dei trapianti effettuati sono infatti su persone che vivono sul territorio regionale) che extra-regionali. Tra questi, l'80 % sono residenti nella provincia di Napoli (per ragioni epidemiologiche e condizioni igienico-sanitarie), mentre i rimanenti arrivano prevalentemente da Puglia, Calabria e Liguria. La Toscana è la regione più virtuosa d'Italia nelle donazioni, prosegue la nota diffusa dal centro trapianti pisano, ''e una delle migliori a livello mondiale con un tasso di donazione per milione di abitanti attestato a quota 46/47, ovvero circa il doppio (20/21) rispetto alla media nazionale che di una regione come la Lombardia, prima in Italia per numero di donatori per quantità di popolazione''. Attualmente in Europa i malati di fegato - a vario livello - sono circa tre milioni (mille in Italia e Spagna, 700 in Germania e nel Regno Unito, 1.300 in Francia) e il trapianto di fegato ha un'incidenza di circa 120/130mila euro. In Toscana, grazie a una convenzione, l'importo per un trapianto riconosciuto dalla Regione all'Azienda ospedaliero Universitaria di Pisa è pari a circa 90 mila euro. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 Nov. ’13 DENTISTA LOW COST CERCASI Attraverso i network gli studi possono ottenere condizioni migliori di quanto consentito ai singoli Adriano Lovera a Con la crisi che picchia sulle famiglie, gli italiani sono in fuga dalla poltrona del dentista. Nel corso di quest'anno, solo in Lombardia, un cittadino su tre sta rinunciando a curarsi, con un calo del 25% di fatturato per il settore. Ma se gli studi tradizionali sono in affanno, cresce l'esercito dei pazienti che cerca strade alternative per risparmiare. In tanti provano a rivolgersi al servizio sanitario nazionale: cure gratis ma con tempi di attesa lunghissimi. I 3.500 dentisti in forza al settore pubblico, sui 58mila totali, sono insufficienti per far fronte alla richiesta. Sembra sgonfiarsi, invece, il fenomeno dei viaggi verso l'est europeo. «Da un nostro sondaggio emerge che solo il 4% degli italiani è andato in paesi come la Croazia e metà di questi non lo rifarebbe» spiega Gianfranco Prada, presidente dell'Andi, associazione nazionale dentisti italiani, la principale rappresentanza di categoria (23mila associati). La vera guerra sui prezzi si fa negli studi di casa nostra. network low cost Prendono sempre più piede i network a basso prezzo. Vitaldent, Amico Dentista, Odontosalute, The Smile Factory, Doctor Dentist, Dentista.tv sono solo alcuni dei più noti. E tutti promettono il 30-40% di spesa in meno. «Non si risparmia così tanto e chi offre tariffe stracciate chiude dopo poco tempo. Oppure mette a rischio la qualità, usando materiali non certificati, non sempre sterilizzati a dovere o sfruttando neolaureati sottopagati» è il commento di Gianfranco Prada, dell'Andi. «Se fossimo così inaffidabili non si spiegherebbe il nostro successo» afferma invece Angelo Gottardo, a.d. di Odontosalute. «In 5 anni siamo passati da una clinica alle 14 attuali, metà in franchising e metà possedute direttamente, e i clienti sono balzati dai 5mila a 43mila l'anno» aggiunge. Le tariffe sono variabili, anche perché le tecniche per risolvere i più comuni problemi ai denti sono numerose. Ma dalla nostra indagine (tabella fianco) emerge che il risparmio è consistente. La prima visita è sempre gratuita. Per una devitalizzazione si riduce il costo del 15%, ma si arriva anche al 35% per la pulizia, al 37% per un'otturazione fino al 44% per un impianto in titanio. «Chi parla di materiali scadenti è in malafede. Sfido qualunque collega a non utilizzare strumenti prodotti in Cina, come ormai la gran parte degli oggetti di uso comune» afferma Maurizio Pedone, medico fondatore di Amico Dentista, insegna sotto cui lavorano 15 studi affiliati. «I prezzi si abbassano mettendoci meno tempo per terminanare le cure più complesse. Che non significa essere sbrigativi, ma razionalizzare i processi e rendere efficienti i tempi di lavorazione. In secondo luogo, con i gruppi di acquisto. Se siamo in 15 a ordinare i materiali da un fornitore, avremo un trattamento di favore rispetto al singolo studio. E questo si riflette sulle tariffe che possiamo proporre. Infine, mettendo insieme alcuni servizi, come la contabilità o il call center per le prenotazioni». ____________________________________________________________ Sanità News 26 Nov. ’13 NUOVE LINEE GUIDA PER LA SALUTE ORALE DEI BAMBINI Nuove linee guida nazionali per la promozione della salute orale e la prevenzione delle patologie orali nei bambini. Un problema importante, dal momento che in base ai dati disponibili, il 21,6% dei bimbi italiani di 4 anni e il 43,1% di quelli di 12 anni hanno le carie, "una diffusione ragguardevole, anche se sostanzialmente in linea con i traguardi dell’Oms", si legge nel testo pubblicato dal ministero della Salute. In pratica, calcolano gli esperti, solo in queste due fasce d’età 360 mila bambini italiani fanno i conti con almeno una carie. Il volume in 37 pagine, diffuso sul sito del ministero, raccoglie un lavoro di revisione resosi necessario "a seguito della pubblicazione di lavori scientifici internazionali che hanno portato alla riformulazione di nuove raccomandazioni che vanno a sostituire le precedenti in tema di malattia cariosa e gengiviti". Quanto alle "patologie delle mucose, invece, sono state formulate due nuove raccomandazioni aggiuntive a quelle contemplate nella versione pubblicata nell’anno 2008". Il documento rappresenta un atto di indirizzo "per quanti coinvolti nella gestione della salute del cavo orale ed in particolare per il pediatra, soprattutto di libera scelta, visto il ruolo che tale figura medica ha nella presa in carico dell’individuo in età evolutiva", notano gli autori. Tornando alla questione carie nei bambini, gli esperti sottolineano che, se le prestazioni effettuate nella fascia di età 0-14 anni in un anno (2006) sono state pari a 519.985, "appare subito evidente come queste abbiano coperto solo in minima parte la domanda". Infatti, i dati di prevalenza si riferiscono unicamente a due età campione, mentre le prestazioni si riferiscono al totale della popolazione pediatrica (0-14 anni). Inoltre il 75% circa dei bimbi di 4 anni e il 50% circa di quelli di 12 anni presenta più di una lesione cariosa, e dunque ha bisogno di più prestazioni odontoiatriche. "Dall’analisi dei dati reali (censimento delle strutture odontoiatriche, dati di prevalenza carie e dati di popolazione) è auspicabile e incalzante – scrivono gli esperti – la necessità di attuare, nella popolazione pediatrica italiana, idonee misure di prevenzione. Appare invece più complessa la possibilità di implementare l’offerta terapeutica pubblica in virtù dei costi e della forza lavoro che tale scelta comporterebbe. È verosimile, infatti, ipotizzare che nel prossimo futuro, applicando sul territorio nazionale un programma di prevenzione strutturato, coordinato e basato su linee guida nazionali, l’offerta terapeutica del Ssn si riveli adeguata, in virtù della riduzione della prevalenza di carie che ne risulterà". ____________________________________________________________ Repubblica 26 Nov. ’13 AIDS: 10 CONTAGI AL GIORNO. IN ITALIA LA PIÙ BASSA MORTALITÀ DEL MONDO I dati del del Centro operativo dell'Istituto superiore di sanità. Nel nostro paese 23.000 pazienti. Preoccupa il ritardo nella diagnosi. Uno studio identifica la 'miccia' che accende l'Hivdi VALERIA PINI Lo leggo dopo In Italia 10 casi di contagio da virus da hiv al giorno ROMA - Sono 23mila gli italiani che hanno contratto il virus dell'Aids. Secondo i dati del Centro operativo Aids dell'Istituto superiore di sanità, ogni anno ci sono circa 4mila nuove diagnosi di infezione da Hiv (3.800 nel 2012), una media di dieci ogni giorno. Ad aumentare il numero di casi sono i contagi che colpiscono le donne (il 21% del totale) e l'età in cui si scopre di essere malati (38 anni per i maschi e 36 per le donne). Nell'80% dei casi il virus viene contratto per via sessuale, mentre stanno diminuendo le infezioni per consumo di sostanze per via endovenosa. Ma c'è una notizia positiva: nel nostro paese la mortalità dovuta all'Hiv è la più bassa del mondo. Il tasso di letalità è infatti passato dal 100% del 1984 al 5,7% di oggi. Serve una diagnosi tempestiva. "Un malato di Aids ha le stesse aspettative di vita di una persona senza il virus se viene curata bene", spiega Adriano Lazzarin, direttore del dipartimento di malattie infettive dell'ospedale San Raffaele di Milano. A far preoccupare i medici è il ritardo con cui viene diagnosticato il virus. "La malattia - spiega Massimo Andreoni, primario di malattie infettive al Policlinico universitario Tor Vergata - nel 25% dei casi circa viene scoperta quando si presentano i primi sintomi. Questo significa che sono passati anni dal momento del contagio. Gli italiani più colpiti da Aids sono maschi eterosessuali, che non sanno di essere a rischio e quindi non effettuano il test, o lo fanno troppo tardi". Nel 21% cento dei casi , le donne scoprono di essere malate durante una gravidanza, che a volte porta a un aborto volontario. In tutto sono 35mila le donne con Hiv. Quasi il 40% di loro si è ammalata per un rapporto sessuale non protetto con il partner stabile. Adolescenti a rischio. I teen ager sono fra le categorie più a rischio. Negli ultimi dieci anni è cresciuto di un terzo il numero degli adolescenti che in tutto il mondo ha contratto il virus. Oggi sono 2 milioni i ragazzi sieropositivi. Spesso hanno meno possibilità degli adulti di accedere alle terapie e alle informazioni necessarie per curarsi. Come per gli adulti, la maggior parte dei casi anche in questa fascia di età si concentra nell'Africa sub-sahariana, dove si stima che solo il 10% dei ragazzi maschi e il 15% delle femmine sappia se è stato o no contagiato. In Italia invece si stimano 400 nuovi casi l'anno sotto i 25 anni, mentre nella fascia di età 10-19 sono alcune decine. La 'miccia' che attiva il virus. INtanto va avanti la ricerca per trovare nuove cure. Uno studio internazionale ha identificato la principale 'miccia' che attiva il virus Hiv. La ricerca, guidata da scienziati delWestmead Millennium Institute di Sydney, ha scoperto che l'Hiv si nasconde in cellule del sistema immunitario in attesa delle condizioni per riprendere l'attacco all'organismo. E' una scoperta che aiuta a capire come mai i trattamenti correnti non riescono a sradicare il virus, anche dopo averlo soppresso per anni. Gli studiosi hanno esaminato cellule di otto pazienti che avevano ricevuto terapia antiretrovirale per periodi fino a 12 anni. "La barriera primaria a una cura è un pool considerevolmente stabile di cellule CD4 infette. Queste mandano segnali che attivano altri tipi di cellule immunitarie o cellule-T - incluse le 'cellule killer' - quando l'organismo è attaccato da un'infezione", scrive la responsabile dello studio, Sarah Palmer. Le cellule-T sono la miccia che accende la 'bomba a orologeria' dell'Hiv. E' quindi importante sapere quale genere di cellule-T possono attivare il virus conclamato. "L'Hiv inserisce il suo Dna nell'organismo e può restare in sonno per anni prima che le cellule-T si riattivino per combattere una nuova malattia. Quando si risvegliano e si moltiplicano, producono anche Hiv, e questo succede a più riprese nei pazienti", spiega ancora Palmer. I risultati suggeriscono che la terapia antivirale impedisce all'Hiv di moltiplicarsi, costringendo il virus ad aspettare finché le cellule-T in cui si è insediato si moltiplicano. Cominciando la chemioterapia antivirale entro tre mesi dall'infezione riduce la riserva di cellule-T infette. Nella prossima fase, la ricerca tenterà di 'risvegliare' le cellule infette "per spurgare il virus dalle cellule". ____________________________________________________________ Repubblica 28 Nov. ’13 TUMORI, ALLARME 'AGEISM': "AGLI ANZIANI NEGATE LE CURE PER ETÀ" Lo rivela uno studio di eCancer Medical Science, diffuso dall'Osservatorio delle malattie rare: "Solo la metà dei pazienti di età compresa tra i 71 e gli 80 anni riceve trattamenti all'avanguardia". Nasce una rete di associazioni per monitorare il fenomeno. L'esperto: "Rivolgersi a centri ad alta specializzazione"di VALERIA PINI Lo leggo dopo L'ageism è la discriminazione in base all'età nei trattamenti disponibili TROPPO ANZIANI per ricevere cure oncologiche adeguate. A lanciare l'allarme è l'Osservatorio malattie rare che denuncia il fenomeno dell'ageism, una forma di discriminazione in base all'età nei trattamenti disponibili. E' l'oncologia, con terapie che a volte, e spesso erroneamente, sono ritenute non tollerabili dai più anziani, uno dei reparti dove l'ageism trova terreno più fertile. Un altro paradosso: il 60 per cento di tutte le forme tumorali si manifesta proprio nella terza età. Secondo l'Osservatorio malattie rare un esempio sono le sindromi mielodisplastiche, un gruppo di malattie del sangue pre-leucemiche. Quando si aggravano possono svilupparsi in leucemia acuta e si manifestano prevalentemente dopo i 70 anni, con un'incidenza in questa fascia di età di 12 volte superiore rispetto alla popolazione più giovane. Un'analisi di eCancer Medical Science, che ha valutato l'impatto dell'ageism sugli standard diagnostici e terapeutici in 12 studi, rivela che solo la metà dei pazienti di età compresa tra i 71 e gli 80 anni riceve trattamenti all'avanguardia rispetto al numero di pazienti con meno di 40 anni che ne hanno, invece, accesso. Una discriminazione che si estende anche ai protocolli sperimentali: stando ai risultati raccolti nell'indagine, chi partecipa ha almeno 10 anni in meno rispetto all'età effettiva dei pazienti affetti da tumore ematologico fornendo, di conseguenza, dati non rappresentativi e limitati. Rivolgersi a centri ad alta specializzazione. Un fenomeno quello dell'ageism e della possibilità di garantire cure a tutte le età che è sentito anche da molti medici. "Il problema dell'accesso a cure standard e, allo stesso tempo, a protocolli di ricerca clinica disegnati su misura per i pazienti anziani è oggi molto sentito tra gli oncologi e gli ematologi", spiega Francesco Bertolini, direttore di divisione all'Istituto europeo di oncologi. "Il paziente anziano va ascoltato attentamente e spesso i trattamenti più efficaci possono essere proposti e effettuati con successo anche oltre barriere anagrafiche che fino a qualche anno fa sembravano insormontabili". I consigli. Che fare allora quando ci si ammala e si è superata una certa età? A chi conviene rivolgersi? "E' importante - conclude Bertolini - richiedere un parere clinico ai centri di alta specializzazione che hanno più esperienza clinica con i pazienti più anziani. Per molte patologie questi centri stanno inoltre disegnando e attivando protocolli cuciti sulle specifiche esigenze dei pazienti più anziani". La rete di associazioni. Ora Life beyond limits, una rete di associazioni per la tutela dei diritti dei pazienti onco-ematologici coordinata da Celgene Corporation, vuole sensibilizzare i medici e l'opinione pubblica su questo tema. Gestita da un comitato direttivo di esperti nel campo delle sindromi mielodisplastiche (smd), Life beyond limits vuole capire le ragioni di questo problema. Le mielodisplasie in Europa interessano prevalentemente pazienti con età media di 70 anni, ma pochissimi sono inclusi negli studi clinici per capire l'efficacia delle terapie. "Una forma di razzismo". "L'ageism è l'equivalente del razzismo e sessismo - dice Valeria Santini, professore associato di ematologia presso la facoltà di Medicina dell'università di Firenze, l'unica italiana nel comitato direttivo del progetto internazionale Life beyond limits - significa fare discriminazioni sulla base dell'età. E' un problema profondo, radicato da molti anni. I pazienti oncologici più anziani sono pazienti fragili ma la loro valutazione non si basa solo sull'età anagrafica. Escludere a priori un paziente molto anziano dalle terapie è un errore di base. Un ruolo importante dovrebbero averlo i medici di famiglia. Spesso accade che il paziente ultraottantenne sia scoraggiato dal fare ulteriori terapie proprio in questa prima visita e non viene nemmeno mandato dallo specialista. A torto, perché molti di questi pazienti possono essere trattati con le terapie oggi a disposizione anche per i più giovani. Sta aumentando il numero dei pazienti ultraottantenni, ma purtroppo esistono ancora realtà ospedaliere che attuano una sorta di selezione all'ingresso". In alcuni casi è bene non fare la terapia. A volte però non fare la terapia è la scelta più appropriata. "E' vero, ma è necessaria una valutazione geriatrica che con strumenti oggettivi aiuti a capire se il paziente molto anziano potrà beneficiare da terapie, a volte aggressive, oppure no. Le comorbilità come, ad esempio, diabete avanzato, cardiomiopatia grave, insufficienza renale, possono essere motivo di esclusione delle terapie. Non è da trascurare il declino cognitivo del paziente e la presenza della rete sociale, considerando anche se l'anziano vive da solo oppure ha famigliari o una badante che possa aiutarlo a rispettare le visite e nell'aderenza alle terapie. Questi non sono aspetti da sottovalutare". ____________________________________________________________ Repubblica 26 Nov. ’13 TRAFFICO DI MEDICINALI CONTRAFFATTI: 200 MILIARDI un affare da 200 miliardi l'anno L'allarme arriva dalla Svizzera e i falsi non riguardano più farmaci contro la disfunzione erettile o anabolizzati: in circolo anche antitumorali privi del principio attivo e uno sciroppo pediatrico per la tosse contenente del liquido antigelo per auto di FRANCO ZANTONELLI Lo leggo dopo Sono a rischio soprattutto i paesi in via di sviluppo LUGANO - Un business criminale da 200 miliardi di dollari all'anno, con il vantaggio, oltretutto, di un rischio relativo di incorrere nei rigori della legge. Il traffico di medicinali contraffatti preoccupa sempre di più i principali attori del sistema sanitario mondiale, dai governi ai ricercatori fino alle case farmaceutiche, che ne hanno discusso, a inizio settimana, a Ginevra. "Ad approfittare di questo gigantesco affare ci sono bande di malavitosi e cellule terroristiche", ha spiegato al quotidiano elvetico Le Temps Bernard Leroy, direttore dell'Istituto Internazionale di Ricerca contro la Contraffazione dei Farmaci, un organismo che opera in stretto contatto con le Nazioni Unite. A detta di Leroy se fino a poco tempo fa il fenomeno, pur essendo preoccupante, si poteva ritenere sotto controllo, visto che la falsificazione riguardava, essenzialmente, prodotti contro la disfunzione erettile o anabolizzanti, oggi è stato compiuto un pericoloso salto di qualità. Sul mercato si trovano, infatti, come è successo lo scorso anno negli Stati Uniti, medicamenti da utilizzare per la cura dei tumori privi del principio attivo, quindi assolutamente inefficaci. Oppure, ancora più grave, il caso di uno sciroppo per la tosse ad uso pediatrico, venduto ad Haiti, a Panama e in Nigeria, contenente del liquido antigelo per automobili. "Per dare un'idea di quanto il traffico sia vasto basti pensare che, solo la scorsa estate, sono state intercettate 500 milioni di confezioni di medicinali, fabbricate in Cina e in India e destinate all'Africa", dice ancora Bernard Leroy. Anche l'Europa, in particolare la Svizzera, sta diventando una piattaforma importante, di questo gigantesco affare illecito e pericoloso. "In ottobre, all'aeroporto di Zurigo - ricorda l'esperto - sono stati sequestrati un milione di campioni di falso Xanax, uno degli ansiolitici più diffusi, che stavano per prendere la via dell'Egitto". Inoltre, sempre stando a Leroy, la decisione della Commissione Europea di autorizzare l'acquisto, online, di medicinali ha avuto, come conseguenza, l'esplosione dell'offerta di falsi, sulla rete. L'aspetto più inquietante della situazione riguarda, però, il rischio penale basso, per chi vende medicamenti contraffatti. Molto più basso ma altrettanto redditizio del traffico di droga, sigarette o armi. Oggi ne approfittano bande di pochi elementi, appartenenti alla criminalità o al terrorismo, domani potrebbero farci un pensiero le varie mafie. "A quel punto diventeremmo come il Messico, dove la mafia ha messo le mani sull'intera società", mette in guardia Bernard Leroy. ____________________________________________________________ Repubblica 26 Nov. ’13 OMS: I GRECI SI INFETTANO AIDS PER GLI AIUTI" Aids ad Atene, lo scivolone Oms: Poi la marcia indietro dell'Organizzazione mondiale della sanità: "Solo un errore tipografico". Dal rapporto però emergono le pesanti conseguenze dell'austerity imposta dalla troika sulla situazione sanitaria ellenica di ETTORE LIVINI Lo leggo dopo Esame per l'Hiv ad Atene MILANO - La crisi greca manda in tilt anche l'Oms. L'Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato lunedì scorso un ponderoso studio sugli effetti dell'austerity sui sistemi sanitari dei paesi in crisi. E nel "case study" su Atene ha buttato lì tra le righe una vera bomba sociale: il 50% dei nuovi malati di Aids nel paese sono persone che si infettano volontariamente con il virus dell'Hiv solo per riscuotere i 700 euro al mese di "aiuti" e per avere accesso privilegiato alle forniture di medicinali. Il tam tam della rete ha come ovvio diffuso in ogni angolo del mondo l'analisi della World Health Organization, in cui si stigmatizzavano pure il boom dei suicidi e dei problemi neurologici legati alle difficoltà economiche nazionali. Peccato che l'Oms avesse utilizzato come fonti alcuni discutibili studi di organizzazioni domestiche (senza solide basi scientifiche) ripresi per dovere di cronaca e senza verifiche dalla rivista "The Lancet". Tanto che stamattina, con una retromarcia clamorosa, il portavoce dell'organizzazione ha smentito il rapporto fresco di stampa: "Si è trattato di un banale errore tipografico. Sono saltate un paio di frasi e il concetto è uscito distorto - ha detto - non esiste nessuna prova che l'aumento di casi di Aids in Grecia sia legato a casi di gente che si inocula il virus per motivi economici". Lo scivolone sul rapporto, gravissimo per la credibilità dell'Oms, non basta però a nascondere le pesanti conseguenze dell'austerity sulla situazione sanitaria ellenica. Il complesso welfare sotto il Partenone, per dire, prevede che dopo un anno di disoccupazione si perdano i diritti all'assistenza gratuita. Cosa che in una nazione dove il tasso dei cittadini senza lavoro viaggia al 27% (al 59% tra i giovani) lascia scoperta una fetta importante degli 11 milioni di abitanti. I malati di Hiv, al di là del giallo dell'Organizzazione mondiale della sanità, sono triplicati negli ultimi dieci anni anche perché i programmi di prevenzione, specie presso i tossicodipendenti, sono stati tagliati per mantenere gli impegni di bilancio con la Troika. Nel 2011, ultimo dato ufficiale a disposizione, il numero di persone che hanno contratto il virus è aumentato del 52%. E il Centro europeo per il controllo delle malattie ha ammesso che l'epidemia sta peggiorando e che "nei primi otto mesi del 2012 il numero di infezioni tra i tossicodipendenti ha per la prima volta superato quelli che hanno contratto la malattia per via sessuale". Il rapporto dell'Oms citava tra gli effetti collaterali dell'austerity un'impennata dei suicidi (+40% nella prima metà del 2011) e un aumento dei problemi neurologici, figli - sostiene il rapporto - anche di un taglio del 40% delle spese sanitarie elleniche in quattro anni e della possibile perdita di 26mila posti di alvoro tra medici e infermieri. La lezione di Atene, conclude l'organizzazione, deve valere anche per l'Italia: l'aggiustamento nei conti "non deve andare a scapito degli investimenti nella sanità". ____________________________________________________________ Repubblica 26 Nov. ’13 CROMOSOMA Y QUASI INUTILE PER LA RIPRODUZIONE Una biologa americana, in una ricerca pubblicata su "Science", analizza a fondo il Dna maschile. Nella fecondazione assistita ricostruita in laboratorio, l'Y si è rivelato quasi del tutto superfluo. I geni che erano ritenuti indispensabili alla procreazione sono solo due, e i ricercatori puntano a sostituirli di ELENA DUSI 26 novembre 2013 La domanda se l'è posta una donna. Che cosa, di un uomo, è necessario per avere dei figli? Essendo la donna in questione una biologa (Monika Ward dell'università delle Hawaii a Honolulu), la risposta è andata a cercarla nel Dna. In particolare si è messa a scandagliare quel cromosoma Y che è simbolo maschile per eccellenza, distingue gli uomini dalle donne ed è responsabile della formazione di testicoli e spermatozoi. I risultati dei suoi studi, pubblicati su Science, contengono una notizia metà buona e metà cattiva (almeno se considerata dal punto di vista maschile). Da un lato infatti il cromosoma Y è quasi del tutto inutile ai fini della riproduzione. La Ward e il suo gruppo sono riusciti a ottenere dei cuccioli di topolino usando solo due geni. Considerando che l'uomo ha 24mila geni, il contributo maschile alla procreazione nel test di Honolulu è stato davvero minimo. Guardando il bicchiere mezzo pieno, però, gli studi della Ward hanno dato l'ennesimo colpo di piccone a una teoria che da un decennio terrorizzava gli uomini, e non solo: quella secondo cui il cromosoma Y è solo un relitto dell'evoluzione, una brutta copia del cromosoma X destinata a perdere geni al ritmo di 4 o 5 ogni milione di anni e - avendone in tutto 78 per quanto ne sappiamo - condannata al deperimento e all'estinzione. La Ward e i suoi collaboratori hanno dimostrato che, ancorché pochi, i geni indispensabili alla procreazione restano saldi al centro del cromosoma Y. La paura che i maschi della specie umana potessero estinguersi era nata da un'osservazione. Circa 300 milioni di anni fa (quando il cromosoma X e quello Y si sono differenziati nel corso dell'evoluzione dei mammiferi), l'Y aveva un migliaio di geni. Oggi questi frammenti di Dna si sono ridotti a 78, almeno per quanto ci è possibile contare. Nonostante il sequenziamento completo del Dna umano sia stato completato nel 2001, infatti, metà del cromosoma maschile resta pieno di "N", cioè di sezioni illeggibili. Il problema dell'Y è la solitudine. Mentre gli altri cromosomi sono presenti nel nucleo delle cellule in due copie - una ereditata dal padre, una dalla madre - l'Y dei maschi ha di fronte a sé un partner molto differente da sé, predominante per dimensioni e funzioni e con il quale il dialogo è ridotto quasi a zero: quel cromosoma X di cui invece le donne hanno due copie. Il dialogo e lo scambio di informazioni fra le due copie di uno stesso cromosoma permettono la correzione reciproca degli errori che normalmente si accumulano sulla doppia elica. Non avendo un partner a cui ricorrere per riparare i suoi danni - secondo quanto sosteneva la teoria dello sgretolamento - il cromosoma Y sarebbe stato destinato ad accumulare mutazioni diventando sempre più corrotto. Oggi in realtà si è capito che il cromosoma solitario è in grado di ovviare al suo solipsismo duplicando dentro di sé molte versioni di uno stesso gene, fabbricando copie corrette da usare in caso di mutazione. Anche se l'esperimento di Honolulu ha ridotto al minimo il contributo maschile alla riproduzione, i ricercatori sono stati costretti a usare una tecnica di procreazione assistita molto spinta. "I risultati ottenuti sui topi non possono essere applicati agli uomini" scrive la Ward. Con i soli due geni lasciati in funzione nel cromosoma Y, infatti, i testicoli dei topolini erano in grado di produrre spermatozoi molto immaturi. Iniettare in una cellula uovo questi precursori dei gameti maschili presenta molte difficoltà e ha un'alta probabilità di dar vita a una prole malata. Anche nel concludere il suo articolo, Science ci lascia con una notizia buona e una cattiva. La buona è che la riproduzione "minimalista" che sfrutta solo due geni è molto inefficiente. Resta dunque indispensabile per gli uomini usare l'Y tutto intero. La cattiva è che la Ward continuerà ad approfondire la questione: "È possibile secondo noi eliminare del tutto anche quei due geni. Basterà trovare dei ricambi adeguati". ____________________________________________________________ Le Scienze 25 Nov. ’13 IL MICROBO CHE RESISTE ALLA STERILIZZAZIONE DELLE CAMERE PULITE Un batterio scoperto di recente si trova a proprio agio nelle camere pulite in cui vengono assemblate le sonde spaziali, resistendo alle procedure di sterilizzazione che sterminano gli altri microbi. Questo organismo potrebbe sopravvivere a un viaggio su Marte? di Clara Moskowitz In cima a una piattaforma all'interno di una camera bianca nella base dell'Agenzia spaziale europea (ESA) nella Guyana Francese, i tecnici andavano faticosamente a caccia di microbi vicino al razzo Ariane 5 che avrebbe lanciato il telescopio spaziale Herschel nel maggio 2009. Solo organismi insoliti possono sopravvivere alle ripetute procedure di sterilizzazione nelle camere bianche (note anche come “camere pulite”), senza contare la grave mancanza di nutrienti. Ma l'attenta ispezione era stata fruttuosa, rivelando un tipo di batteri che in precedenza era stato osservato solo una volta. Due anni prima, lo stesso problema era emerso a 4000 chilometri di distanza, nella camera pulita del Kennedy Space Center della NASA, in Florida, dove si stava preparando il lancio di Phoenix, il lander destinato a Marte. Dopo le due scoperte, i gruppi hanno unito le forze per analizzare il batterio, scoprendo che era così diverso dagli organismi conosciuti da costituire non solo una nuova specie, ma addirittura un nuovo genere, che hanno descritto in un articolo pubblicato in luglio sull' “International Journal of Systematic and Evolutionary Microbiology”. )“E' la prima segnalazione di batteri isolati in due diverse camere pulite, e in nessun altro posto", dice Parag Vaishampayan, il microbiologo del Jet Propulsion Laboratory della NASA che ha diretto il gruppo che ha fatto la scoperta al Kennedy Space Center. I ricercatori hanno chiamato il batterio Tersicoccus phoenicis: tersiin latino significa pulito, e coccusderiva dal greco e descrive la forma a bacca di questo genere; phoenicis, il nome della specie, rende omaggio al lander Phoenix. Gli scienziati hanno scoperto che condivide meno del 95 per cento della sua sequenza genetica con il suo più vicino parente batterico, un fatto che - insieme alla composizione molecolare unica della sua parete cellulare e alcune altre proprietà - è sufficiente per classificare T. phoenicis come membro di un nuovo genere. I ricercatori non sono ancora sicuri se il microrganismo viva solo in camere pulite o sopravviva anche altrove, ma prima della scoperta èsemplicemente sfuggito alle rilevazioni, dice Christine Moissl-Eichinger dell'Università di Regensburg in Germania, che ha identificato la specie dello spazioporto dell'ESA a Kourou. Alcuni esperti dubitano che Tersicoccus phoenicis se la passerebbe bene in un posto diverso da una camera pulita. "Credo che questi batteri siano poco competitivi e non se la cavino bene in condizioni normali", afferma l'astrobiologo della Cornell University Alberto Fairén, non coinvolto nell'analisi del nuovo genere." Ma quando nelle camere pulite si elimina sistematicamente quasi tutta la concorrenza, cominciano a prevalere." Solo il più resistente dei microbi può sopravvivere all'interno di una camera pulita, dove l'aria è rigorosamente filtrata, i pavimenti puliti con detergenti certificati e le superfici trattate con alcool e acqua ossigenata, per essere poi riscaldate a temperature sufficientemente elevate da uccidere quasi ogni essere vivente. Chiunque entri nella stanza deve essere vestito da capo a piedi con una tuta, guanti, stivali e una maschera, in modo che l'unica superficie esposta sia l'area attorno agli occhi. Inoltre, chi volesse entrare può farlo solo dopo aver calpestato un nastro adesivo sul pavimento per rimuovere i detriti dalle suole, e passando sotto una doccia d'aria per allontanare la polvere restante. "E ' il posto più pulito della Terra", dice Vaishampayan. Gli scienziati si fanno tutti questi scrupoli per garantire la "protezione planetaria", che di solito significa proteggere gli altri pianeti dalla contaminazione da microrganismi provenienti dalla Terra. La maggior parte dei paesi in grado di viaggiare nello spazio ha deciso di seguire le linee guida dell'International Council for Science’s Committee on Space Research per ridurre le possibilità che i loro veicoli trasportino organismi della Terra su altri pianeti. Le procedure servono anche a evitare di scambiare microbi terrestri per extraterrestri. Raccogliere informazioni sul tipo di microbi presenti nell'impianto di assemblaggio dei veicoli spaziali aiuta a ottenere informazioni che in futuro, nel caso di microbi trovati su Marte, ci permetteranno di verificare che effettivamente sono marziani, oppure no. Il fatto che microbi come T. phoenicis si siano dimostrati abbastanza resistenti da sopravvivere in ambienti sterili non significa necessariamente che siano capaci di contaminare un altro pianeta. E le probabilità che un veicolo spaziale come Phoenix faccia passare una specie come questa per vita marziana sono molto basse, dicono gli esperti. "E' un rischio minimo se si considera che le parti del veicolo spaziale impegnate nel prelievo e nella conservazione dei campioni sono eccezionalmente pulite, se non sterili", spiega Peter Smith, principal investigator di Phoenix. “L'ambiente della superficie di Marte ha una pressione molto bassa, è privo di acqua ed esposto a una forte radiazione ultravioletta e di raggi cosmici. In altre parole, è un posto terribile per tutta la vita, anche per i microbi delle camere pulite." Ma organismi del genere potrebbero superare il viaggio dalla Terra a Marte, e sopravvivere sul Pianeta Rosso una volta arrivati? Per rispondere, gli scienziati hanno inviato spore dei batteri Bacillus subtilis eBacillus pumilus sulla Stazione spaziale internazionale nel febbraio 2008, collocandole all'esterno del laboratorio orbitante per un anno e mezzo. L'esperimento, chiamato PROTECT, ha sottoposto gli organismi al vuoto dello spazio, a sbalzi di temperatura estremi e a una raffica di radiazioni. Anche se molte spore sono morte, alcune sono sopravvissute, dimostrando che certi microrganismi potrebbero sfruttare con successo un passaggio fino a Marte. Gli effetti più dannosi erano dovuti alla radiazione ultravioletta al di fuori dell'atmosfera protettiva della Terra. Per sopravvivere, “dovevano nascondersi oppure inventarsi un ingegnoso meccanismo di riparazione dei danni al DNA”, spiega Vaishampayan, che ha lavorato all'esperimento PROTECT. Non c'è alcuna prova che T. phoenicis abbia effettivamente accompagnato Phoenix su Marte, ma è possibile. “Questo genere ha sicuramente già viaggiato di recente fino a Marte in una o più delle nostre sonde: vive comodamente nelle camere pulite dove si assembla la navetta, no? Forse addirittura milioni o miliardi di anni fa a bordo di meteoriti milioni o miliardi", dice Fairén. "Quindi, se questi microbi possono effettivamente sopravvivere su Marte, devono essere già lì.” In definitiva, la scoperta di batteri resistenti come T. phoenicis dimostra solo quanto è robusta la vita. La scoperta suggerisce che "una volta che la vita ha origine su un pianeta, ha un grande potere di adattamento e può sopravvivere a una grande varietà di stress ambientali", afferma Dirk Schulze-Makuch della Washington State University, non coinvolto nello studio del nuovo organismo. "Ovviamente, la domanda da un milione di dollari è: a quali condizioni la vita può avere origine?". (La versione originale di questo articolo è apparsa su scentificamerican.com il 20 novembre. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati) ____________________________________________________________ Le Scienze 25 Nov. ’13 IL PARADOSSO DELLA SUPER MEMORIA CHE CREA FALSI RICORDI memoria autobiografica eccezionale sono soggette alla creazione di falsi ricordi. Anzi, quando l'evento da ricordare è circondato da stimoli di informazione mistificanti, le distorsioni della memoria sono molto più frequenti in questi soggetti che in quelli normodotati Avere una memoria da Pico della Mirandola non evita di cadere vittima di falsi ricordi, anzi: una memoria di ferro rende addirittura più inclini a distorcere i ricordi. A questa conclusione è arrivata una ricerca pubblicata sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” in cui un gruppo di psicologi e neuroscienziati dell'Università della California a Irvine ha studiato un gruppo di soggetti dotati di una memoria autobiografica molto superiore al normale. Precedenti studi hanno mostrato che l'affidabilità della memoria di queste persone – che ricordano i dettagli più insignificanti degli eventi quotidiani della loro vita, fin dall'infanzia, e spesso anche il giorno della settimana in cui sono avvenuti – è solitamente molto elevata, dato che le loro affermazioni si sono rivelate corrette nel 97 per cento dei casi in cui era possibile controllarle. Lawrence Patihis e colleghi hanno messo a confronto le prestazioni di 20 soggetti dotati di capacità mnemonica superiore con quelle di 38 volontari con una memoria media, sottoponendoli a esercizi mnemonici come i test di identificazione e riconoscimento di parole viste per brevi istanti, o la descrizione di fotografie o video che ritraggono un crimine. In alcuni di questi esercizi i ricercatori fornivano inoltre surrettiziamente informazioni che non erano presenti nelle immagini, per controllare se e quante di esse sarebbero state poi "ricordate" dal soggetto. Un altro test controllava infine la formazione di ricordi di eventi mai avvenuti, come la visione di filmati, in realtà inesistenti. Dall'analisi dei risultati è apparso che le prestazioni dei soggetti dotati di memoria eccezionale erano superiori a quelle dei soggetti normali nei compiti in cui i ricercatori non avevano introdotto stimoli fuorvianti, pressoché uguali di fronte al tentativo di far ricordare eventi mai avvenuti, ma addirittura peggiori di quelle dei normodotati quando lo stimolo da ricordare era corredato da elementi di disinformazione. "E' un paradosso affascinante”, ha osservato Patihis. “In assenza di disinformazione, hanno una memoria autobiografica dettagliata e quasi perfetta, ma sono vulnerabili alle distorsioni non meno di chiunque altro." Ciò potrebbe essere spiegato – concludono i ricercatori - dal fatto che questi soggetti ricostruiscono i ricordi attraverso associazioni di idee e stimoli, associazioni che però incorporano facilmente gli elementi di disinformazione a cui si è stati esposti. ____________________________________________________________ Le Scienze 26 Nov. ’13 I CANALI NEURALI DELLA DIPENDENZA DALL'ALCOOL Piccole mutazioni nel gene che controlla la struttura dei canali ionici dei neuroni fanno sì che i neuroni del nucleo accumbens si attivino spontameamente anche quando non dovrebbero, accendendo il desiderio di consumare alcool (red) Un leggero cambiamento nel meccanismo di attivazione dei canali ionici di uno specifico gruppo di neuroni – a sua volta legato a una piccola mutazione in un singolo gene - è all'origine di alcune forme di consumo eccessivo di alcool. Ad appurarlo è uno studio condotto sui topi da un gruppo di ricercatori di cinque università britanniche (l'Imperial College di Londra, la Newcastle University, la Sussex University, l'University College di Londra e l'Università di Dundee), che firmano un articolo pubblicato su “Nature Communications”. Il gene in questione, noto comeGabrb1, codifica per i recettori dei canali ionici attivati dal GABA, uno dei più importanti neurotrasmettitori con una funzione inibitoria dell'attivazione dei neuroni del nucleo accumbens, una struttura coinvolta nel controllo delle emozioni piacevoli e nel sistema della ricompensa. Il gene è stato identificato nel corso di uno studio sistematico sull'influenza delle mutazioni genetiche sul consumo di alcool. Per verificarne l'effettivo coinvolgimento i ricercatori hanno creato un ceppo di topi transgenici portatori di mutazioni in quel gene. Si è così constatato che, a differenza dei topi normali - che non mostrano alcun interesse per l'alcool e che tra un abbeveratoio con acqua e uno con acqua e alcool preferiscono sistematicamente il primo – i topi con una mutazione al geneGabrb1 preferiscono in modo netto la miscela acqua- alcool, che arriva a costituire quasi l'85 per cento della loro assunzione quotidiana di liquidi. Le mutazioni in grado di produrre questa alterazione comportamentale – tutte puntiformi, ossia tali da interessare uno o pochissimi nucleotidi – fanno sì che i neuroni possano attivarsi anche quando il recettore non è legato alla molecola di GABA normalmente necessaria per far scattare l'apertura del canale ionico, e quindi all'attivazione del neurone. “La mutazione altera la struttura del recettore e provoca la creazione di un'attività elettrica spontanea nella zona 'del piacere' del cervello, il nucleo accumbens”, ha detto Quentin M. Anstee, primo firmatario dell'articolo. “L'aumento del segnale elettrico dovuto a questi recettori, fa aumentare talmente il desiderio di bere che i topi si impegnano moltissimo per ottenere l'alcool e per molto più tempo di quanto ci saremmo aspettato." Ora i ricercatori intendono stabilire se il gene abbia un'influenza simile anche negli esseri umani, pur tenendo ovviamente conto che nelle persone lo sviluppo dell'alcolismo è molto più complicato e legato anche fattori ambientali.