RASSEGNA 03/11/2013 GRECO: ATENEI RICCHI E POVERI, L'ERRORE DEL TURN OVER L’UNIVERSITÀ SENZA MERITO MA IL MERITO (COME SEMPRE) PUÒ ATTENDERE CRUI: CERTIFICARE QUALITÀ SENZA INCENTIVI PUNIAMO ECCELLENZE» LA PROTESTA DEI RETTORI CONTRO I TAGLI AL MERITO «SEGNALE DISASTROSO» DOCENZE «FRENATE» DAI CONCORSI CAMMELLI (ALAMALAUREA): «MAI PIÙ LAUREATI SENZA ESPERIENZA» LE UNIVERSITÀ SARDE A UN BIVIO: FUSIONE O FEDERAZIONE? UNICA: TRASPARENZA, GLI STUDENTI BOCCIANO I PROF INTESA REGIONE-ATENEI PER L'INSERIMENTO DEI GIOVANI PIÙ BRAVI MEDICINA, FUGA IN ROMANIA LICEO IN 4 ANNI, IL «MODELLO MILANESE» PIACE I DOLORI DI ONIDA, SAGGIO PER DECRETO ONIDA: LA VERITÀ, TUTTA LA VERITÀ SUI CONCORSI PUBBLICI IL BONUS MATURITÀ CAMBIA ANCORA GÒDEL E DIO: LA DIMOSTRAZIONE ADESSO CE" IMPARIAMO A FAR RINASCERE L'ENERGIA RAGIONARE È DIVENTATO UN LUSSO BIG DATA, BIG ERA, BIG CHANGE! SARDO: UNA LINGUA, DUE STANDARD. A SCUOLA SICILIA: UNA SFIDA A TRE PER CAPITALI CULTURA ========================================================= IN EUROPA CURE SENZA CONFINI MA CON TANTI DUBBI DA SCIOGLIERE 7 MILIARDI DI RISPARMI DALLA INFORMATIZZAZIONE DELLA SANITA’ L’OCCASIONE PER INNALZARE LA QUALITÀ DELL’ASSISTENZA SANITÀ. ALMENO 14MILA I POSTI LETTO DA ROTTAMARE SARDEGNA: OSPEDALI, POSTI LETTO A RISCHIO DE FRANCISCI: SARDEGNA AVANTI MA SERVE AIUTO LAZIO: RIMBORSO PER CHI NON RIESCE A PRENOTARE IN TEMPO UTILE SANITÀ, MARONI IN TRINCEA SUI COSTI STANDARD SANITÀ, UNA CENTRALE UNICA PER GLI ACQUISTI SANNO ASCOLTARE DI PIÙ I PAZIENTI L’AVANZATA DEI MEDICI DONNA E LA MINISTRA CHIEDE SCUSA PER IL FLOP DELL’OBAMACARE USA: RIFORMA SANITARIA NEL CAOS AMBU.«NON SIAMO MEDICI DELLA MORTE MA SARTI PER LE TERAPIE SU MISURA» ONLINE IL PRIMO MOTORE DI RICERCA PER LA SCELTA DELL'OSPEDALE SANITÀ, ECCO LE ECCELLENZE SARDE PADRI E DUBBI, BOOM DI TEST DEL DNA IN ITALIA UN FIGLIO SU DIECI È ILLEGITTIMO NUOVO ASSETTO DEL POLICLINICO: CHIUDONO DODICI UNITÀ OPERATIVE A BARI IL CAPELLO CRESCE E’ LA PRIMA VOLTA LA RICERCA FARMACEUTICA HA UN RUOLO STRATEGICO LE ANALISI? LE FA IL BATTERIO I RAZZISMI SI COMBATTONO NEL CERVELLO. E NELLA CULTURA UNA PREVALENZA DI MANCINI TRA I SOGGETTI CON DISTURBI PSICOTICI DAL SAN RAFFAELE UN GUANTO ROBOTICO PER LA RIABILITAZIONE SCOPERTI NEURONI CHE RICONOSCONO LE IMMAGINI LA MEMORIA DEL FUTURO, COSÌ COSTRUIREMO I NOSTRI RICORDI MALATTIE REUMATICHE, GRANDI PROGRESSI NEI TEMPI DI DIAGNOSI PASSO VERSO LA TERAPIA STAMINALE DELLA SCLEROSI MULTIPLA UNICA: SCOPERTA LA DINAMICA DELL’ALCOLISMO ========================================================= ____________________________________________________________ L’Unità 29 Ott. ’13 PIETRO GRECO: ATENEI RICCHI E POVERI, L'ERRORE DEL TURN OVER PREMIATE O PENALIZZATE LE UNIVERSITÀ NON SULLA BASE DEL MERITO FORMATIVO, MA SOLO SULLA BASE «DEI CONTI IN ORDINE». Imposto un notevole trasferimento di «punti organico» dalle università del Sud alle università del Centro e del Nord. E poiché, nel linguaggio ministeriale, un «punto organico» equivale a un docente, significa che, come se ad agire fosse un Robin Hood alla rovescia, molte risorse umane vengono sottratte agli «atenei poveri» del Mezzogiorno d'Italia e conferite agli «atenei ricchi» del Centro e del Settentrione. Diciamolo chiaramente. C'è un duplice errore nel processo che ha portato alla elaborazione della tabella che il ministero dell'Istruzione ha reso pubblica nei giorni scorsi che riduce in numeri le disposizioni contenute nel decreto ministeriale «Decreto criteri e contingente assunzionale delle Università statali per l'anno 2013» del 9 agosto scorso che regola il turn over dei docenti negli atenei pubblici. Si tratta di due grossi errori che il ministro, Maria Chiara Carrozza, si è detto disponibile a correggere, che giungono a valle di uno sbaglio ancora maggiore deciso dai governi che hanno preceduto quello di Enrico Letta: il taglio del turn over dell'80%. Il che significa che per ogni 5 docenti che vanno in pensione, le università pubbliche possono assumerne sole 1. Protratto per vari anni, questo vincolo abbatte ulteriormente e drasticamente la capacità formativa delle università in un paese, l'Italia, in cui il numero di giovani laureati (19% nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni) è la metà della media Ocse (40% circa) e sideralmente lontana dalla media di paesi come la Corea del Sud (64% di laureati) o di Giappone, Canada, Russia dove la media sfiora il 60%. Obiettivo strategico dell'intero Paese (e non solo delle università italiane) dovrebbe essere quello di diminuire il pauroso gap cognitivo che si è determinato tra l'Italia e la gran parte del resto d'Europa e del mondo. Il vincolo del turn over al 20% è un potente fattore di peggioramento del sistema dell'alta formazione. A questo errore strategico si sommano i due errori contenuti, ad avviso non solo di chi scrive, ma di molti rettori e di molti osservatori, nella recente tabella resa pubblica dal ministero. Il meccanismo, più o meno, funziona così. Il taglio dell'80% del turn over si applica al sistema universitario pubblico nel suo insieme. Insomma, se da tutte le università italiane escono in cento, possono entrare in totale solo in venti. Fermo restando a scala nazionale il taglio draconiano, c'è un meccanismo fondato su criteri meramente economici che consente alle singole università che hanno i «parametri in ordine» di evitare il taglio del turn over, di converso impedisce a chi ha i «parametri in disordine» di raggiungere anche la quota davvero misera del 20%. Facciamo due esempi, per capirci. La Scuola Sant'Anna di Pisa, di cui il ministro Maria Chiara Carrozza è stata rettore, risulta avere i parametri a posto e avrà la possibilità di assumere un numero di docenti triplo rispetto a quelli che andranno in pensione: un turn over positivo superiore al 200%. Al contrario, l'Università di Bari o l'Università Federico II di Napoli potranno concedersi un turn over di poco superiore al 5%. In pratica, per ogni cento posti lasciati da chi è andato in pensione a Bari o a Napoli ne potranno essere coperti solo sei o sette. Dove sono i due errori? Beh, problemi di legittimità a parte del decreto, il primo errore da correggere risiede nel fatto che l'offerta formativa di un università può aumentare o diminuire non in base al merito scientifico o didattico (a Bari, per esempio, le performance di merito sono aumentate nell'ultimo anno), ma in base solo a parametri economici e/o burocratici. Non è un bel messaggio che viene dato ai giovani e alle università che frequentano. Il secondo errore è ancora più grave. Il meccanismo, infatti, sposta «risorse umane» importanti dagli atenei poveri del Sud d'Italia verso gli atenei ricchi del Centro e del Nord. Con un triplice effetto indesiderabile. Sottrarre l'opzione della conoscenza alla parte del paese, quella meridionale, che ne ha più bisogno. E non solo in termini economici, ma anche culturali e civili: la conoscenza e i suoi luoghi sono il primo presidio sia contro la povertà sia contro l'illegalità. Imporre ai giovani meridionali che si vogliono laureare di migrare verso il Centro e verso il Nord del paese, con aggravio di disagi per loro e di costi per le loro famiglie. Costi e disagi aggravati dal fatto che il Mezzogiorno è l'area che è stata più colpita dalla crisi e che, come ci ha documentato di recente lo Svimez, ha visto diminuire la propria produzione di ricchezza del 25% negli ultimi anni. Il terzo effetto indesiderabile è che, con un simile spostamento territoriale dell'offerta formativa, i giovani che vogliono iscriversi all'università saranno disincentivati e rinunceranno. Col risultato di aumentare lo «spread cognitivo» con il resto del mondo. L'Italia - e non solo il suo Mezzogiorno - non se lo può permettere. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Nov. ’13 L’UNIVERSITÀ SENZA MERITO Saltano i 41 milioni di euro per gli atenei migliori La Camera ha dato il via libera al «pacchetto scuola». Ora andrà al Senato per l’approvazione finale. Tra i delusi dal provvedimento, ci sono i rettori: i 41 milioni promessi per gli atenei più virtuosi non saranno assegnati. Tra gli aspetti positivi: lo studio dell’inglese già dall’asilo e i fondi per i libri «fai da te» digitali Borse di studio e apprendistato Le nuove misure per la scuola Il sì della Camera. Sfumano i 41 milioni per gli atenei virtuosi ROMA – A dieci giorni dalla scadenza del decreto legge approvato a settembre, la Camera dei deputati dà il via libera al pacchetto scuola. Ora il provvedimento passerà all’esame del Senato, per l’approvazione definitiva che deve avvenire entro l’11 novembre. Sulle cifre — i 400 milioni complessivi — e sulle coperture finanziarie — l’aumento delle accise su alcolici e birra — non cambia molto. Sui dettagli, dai libri digitali fai da te all’inglese obbligatorio fin dalle scuole materne, ci sono invece grosse novità. Ma sullo sfondo restano alcune delusioni pesanti: come quella dei rettori, che si aspettavano 41 milioni aggiuntivi per le università virtuose. I fondi, già disponibili presso il ministero delle Finanze, sono risorse destinate agli investimenti e non possono quindi essere dirottate sul fondo per le università, attribuito agli atenei anche in base al merito certificato dall’Anvur. «Abbiamo invano cercato una soluzione contabile che ci permettesse di usare quei soldi, che altrimenti rischiamo di perdere. Ma non è stato possibile», spiega la deputata pd Manuela Ghizzoni, nuova relatrice del provvedimento alla Camera dopo le dimissioni del pidiellino Giancarlo Galan. Intanto però arrivano i primi soldi per risollevare il diritto allo studio. Le borse di studio Cento milioni finanzieranno il fondo per le borse di studio degli studenti universitari a partire dal 2014 e per gli anni successivi: uno stanziamento non temporaneo, quindi, che il ministero si impegna a pubblicizzare attraverso opuscoli informativi da inviare per e-mail entro il 31 marzo a tutti gli studenti degli ultimi due anni delle superiori. Altri quindici milioni copriranno le spese di trasporto e pasti degli studenti meritevoli ma privi di mezzi, con un occhio di riguardo a quelli con disabilità. L’edilizia Ottocentocinquanta milioni per ristrutturare o tirare su di sana pianta le scuole del nostro Paese: il mutuo che l’Italia contrarrà con la Banca di sviluppo europea costerà 40 milioni di euro all’anno per i prossimi trent’anni, ma dovrebbe permettere un risanamento generale delle strutture, in base alle esigenze dichiarate dalle Regioni. Arte e musica È uno dei pochi capitoli di spesa revisionati dopo l’esame alla Camera: invece che 6 milioni alle borse di studio per studenti iscritti alle istituzioni all’Alta formazione artistica, musicale e coreutica, lo stanziamento è stato scisso. Tre milioni andranno a quelli che sono stati ribattezzati i premi per gli studenti–artisti, altri due milioni (in aggiunta ai 3 già previsti) agli istituti superiori di studi musicali non statali ex pareggiati e un altro milione alle accademie di arte non statali. Approvata anche una regolarizzazione dei docenti di queste scuole. Assunzioni e graduatorie L’unica graduatoria che viene toccata è quella dei dirigenti scolastici: si trasforma da graduatoria di merito in graduatoria ad esaurimento, con l’obbligo di assumere i 2.386 presidi in lizza prima di bandire un nuovo corso-concorso, che sarà la nuova modalità per selezionarli. Per le assunzioni, sarà definito un piano triennale di immissioni in ruolo per un totale di 69 mila docenti e 16 mila Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari). Via libera anche all’assunzione a tempo indeterminato di oltre 26 mila insegnanti di sostegno, che alle superiori come alle medie, apparteranno a un’unica classe di concorso. L’orientamento Si comincia all’ultimo anno delle medie, si prosegue negli ultimi due anni di liceo o istituto professionale. Si chiama orientamento ed è uno dei cardini del decreto, che punta con 6,6 milioni a fare degli studenti di oggi dei lavoratori domani: a partire dal triennio 2014-2016, al via la sperimentazione con formazione in azienda e contratti di apprendistato. Il bonus maturità Con il via libera alla Camera, più vicino l’ingresso degli esclusi dal bonus maturità nelle università a numero chiuso. Gli studenti reintegrati saranno iscritti, subito o l’anno prossimo, nelle università secondo il punteggio complessivo ottenuto e l’ordine di preferenza indicato al momento del test. Valentina Santarpia ____________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Nov. ’13 MA IL MERITO (COME SEMPRE) PUÒ ATTENDERE Quei tentativi falliti di introdurre sistemi di valutazione della qualità dell’insegnamento e dei docenti Si fa presto a dire merito. La storia recente della scuola e dell’Università italiana è costellata di tentativi spesso già falliti o almeno corretti di valutazione della qualità dell’insegnamento, degli insegnanti stessi e degli studenti. Anche senza arrivare a copiare dal sistema americano che — vedi la California — ha classifiche per tutto dalle facoltà agli insegnanti che sulla base della valutazione vengono assunti o licenziati e anche esposti all’opinione pubblica in elenchi che ne misurano i risultati, ogni volta che si ripropone la questione di dare un «valore» al lavoro svolto in classe o negli Atenei, la strada per arrivarci in Italia si fa subito impervia. L’ultimo episodio di ieri è un pasticcio amministrativo che ha fatto saltare ben 41 milioni di fondi aggiuntivi da distribuire sulla base della valutazione della ricerca nelle singole facoltà: finanziamenti non disponibili alla fine e dunque per quest’anno il lavoro fatto dall’Anvur, l’agenzia di valutazione delle Università resta lettera morta. Certo potrà servire, come ha detto il suo presidente Stefano Fantoni, «anche ai ragazzi per orientarsi nella scelta degli studi» sapere se nella tale facoltà si fa ricerca davvero oppure no. Eppure proprio il lavoro dell’Anvur primo tentativo così vasto di valutare la qualità della ricerca in Italia, presentato lo scorso luglio, è stato accolto negli Atenei con qualche freddezza e non poche critiche, tanto che si è dovuto addirittura cambiare in corsa il metro di misurazione per le facoltà matematiche. L’analogo tentativo di valutare anche la didattica nelle Università avanza tra mille difficoltà e ancora non c’è accordo sul sistema di valutazione: e pensare che tutto dovrebbe essere pronto nel giro di due anni. Per quanto riguarda gli studenti delle Università — dove per lo meno negli ultimi anni si è data una stretta ai fuoricorso con aumento delle tasse principalmente ma anche considerando l’eccesso di studenti «parcheggiati» un criterio negativo nella valutazione dell’Ateneo ai fini della ripartizione del turn over dei docenti — alla fine la valutazione spetta al mercato. E raramente i risultati sono felici, tanto che di recente il ministro Carrozza ha promesso: «Vorrei proporre un unico sistema di valutazione per gli studenti dalla scuola primaria all’Università, nell’ultima analisi Ocse c’era un dato drammatico: la media dei laureati italiani ha competenze paragonabili a quelle di uno studente di scuola secondaria del Giappone. È necessario cambiare rotta». Ma se si passa alla scuola non è nemmeno chiaro chi debba essere valutato: gli studenti, gli istituti o gli insegnanti. Intanto bisognerebbe intendersi su che cosa è il merito: è la performance, cioè il risultato alla maturità o ai testi Invalsi, «o il merito — come ritiene Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli (che a febbraio presenterà il suo lavoro sulla valutazione nelle scuole medie) — è invece la somma del talento e dell’impegno che porta a risultati diversi a seconda del punto di partenza (condizione sociale e famiglia di origine) dei ragazzi?». Negli ultimi anni si sono susseguiti tentativi di misurare gli insegnanti. Una sperimentazione venne fatta dal ministro Gelmini (governo Berlusconi): in trenta scuole si è provato a far valutare gli insegnanti da una commissione interna alla scuola stessa. Il ministro Profumo (governo Monti) ha preferito lasciar perdere. Il tentativo sicuramente più importante degli ultimi anni sono i test Invalsi, prova annuale per misurare l’apprendimento in alcune classi, ora introdotti anche nell’esame di terza media. Quest’anno il 3 dicembre verranno presentati anche i risultati del monitoraggio internazionale dell’Ocse, il rapporto Pisa sull’educazione con i dati raccolti nel 2012. Ma l’Invalsi è stato poco accettato nella scuola, dagli insegnanti: non si tratta solo delle proteste del primo anno che poi non si sono più ripetute. È piuttosto il fatto che ci sono scuole in cui gli insegnanti non volendo la valutazione fanno copiare gli studenti. È successo che anche quest’anno l’Invalsi sia stato costretto a oscurare i risultati di alcune scuole perché i risultati erano palesemente falsificati. Finora il tentativo più riuscito di attestare il merito sono gli esami di ammissione per le facoltà come medicina: con il concorso nazionale — pur contestato — la selezione in entrata gli studenti evita le raccomandazioni. Eppure anche per il test l’idea dell’ormai famoso bonus maturità, pensato nel 2006 dall’allora ministro Giuseppe Fioroni, è partito soltanto quest’anno tra correzioni e tira e molla che hanno costretto ad allargare il numero di posti nelle facoltà. E l’anno prossimo sarà abolito, per essere ripensato. Del resto non c’è da stupirsi: anche sul criterio di ingresso alla professione di insegnante negli ultimi quindici anni ogni tentativo di cambiamento è stato rivisto per ritornare a concorsi e concorsoni, graduatorie e sanatorie che fanno perdere il conto di come e quando gli insegnanti sono stati selezionati. Gianna Fregonara ____________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Nov. ’13 CRUI: CERTIFICARE LA QUALITÀ SENZA INCENTIVI COSÌ PUNIAMO LE NOSTRE ECCELLENZE» MILANO — «Non possiamo morire di cavilli amministrativi». Stefano Paleari, presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane e alla guida dell’ateneo di Bergamo, rinuncia al suo proverbiale equilibrismo («sono considerato un diplomatico, anche nella valutazione e nei giudizi») per commentare la notizia che dal decreto scuola sono spariti i quarantuno milioni di euro previsti per gli atenei virtuosi. I soldi c’erano, ma un problema tecnico non ha permesso lo stanziamento. Cosa la amareggia di più? «Mi si può spiegare che è un fattore tecnico, che ci sono delle ragioni precise e insormontabili, ma sono stato a Stoccarda da poco, dove l’ateneo ha 26 mila studenti e i finanziamenti statali sono sette, otto volte quelli italiani. È stupefacente vedere come a fronte di una volontà politica precisa di trovare le risorse per valorizzare il merito, e addirittura in presenza di quei fondi, poi non se ne sia fatto nulla». Lei lo aveva chiesto in una lettera indirizzata lo scorso settembre al premier Enrico Letta e al ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza: un segnale al merito e ai giovani. «Sì, due proposte semplici da inserire nella legge di stabilità. Ci sembrava che il messaggio fosse stato recepito. Leuniversità si sono sottoposte alla valutazione della loro attività di ricerca sulla base di parametri internazionali da parte dell’Anvur, l’agenzia di valutazione dell’università e della ricerca: ci aspettavamo che a questo corrispondesse una sensibilità finanziaria correlata ai risultati, non una distribuzione a pioggia. Questa è cultura delle punizioni. Quale messaggio stiamo dando ai giovani?». Lo dica lei. «Sono segnali pessimi. Dal 2009 a oggi il costo dell’università è passato da sette miliardi e mezzo a sei miliardi e mezzo di euro, il numero dei ricercatori è sceso da 62 mila a 52 mila: chi è uscito per ragioni di anzianità non è stato sostituito. Siamo l’unico comparto della pubblica amministrazione che ha subito questa riduzione di finanziamenti e di organici. Cos’altro dobbiamo fare? Ovvio che poi i ragazzi se ne vanno. In tutto il mondo, non soltanto in quello occidentale, l’università è considerata uno dei pilastri sui quali costruire la competitività del Paese. Perché in Italia è l’ultima delle preoccupazioni?». Non si può dire, però, che la crisi stia risparmiando qualche settore... «In Germania l’università costa 25 miliardi all’anno, in Francia venti, in Inghilterra, malgrado quanto paghino gli studenti, lo Stato finanzia per dieci miliardi. E, restando in Germania, realtà che conosco giacché faccio parte del board dei rettori europei, laggiù non solo studiare costa di meno, ma il rettore ha la possibilità di modulare gli stipendi dei ricercatori sulla base del merito». Perché la cultura del merito fa così paura? «Posso dire che oggi i ragazzi costruiscono la loro posizione nella società aperta sulla base dell’impegno profuso e in funzione delle loro qualità. La loro generazione è estremamente competitiva. Ma l’affermazione della qualità e del merito può avvenire solo se trova collateralmente gli incentivi per essere promossa, altrimenti si trasforma in cultura della punizione». Elvira Serra @elvira_serra ____________________________________________________________ Corriere della Sera 3 Nov. ’13 LA PROTESTA DEI RETTORI CONTRO I TAGLI AL MERITO «SEGNALE DISASTROSO» Zanonato: faremo rientrare quei fondi ROMA — Quello che nelle prime ore sembrava un mormorio di disappunto, si sta trasformando in un coro di polemiche: il taglio dei fondi attesi dalle università virtuose nel decreto scuola, approvato giovedì sera alla Camera, ha scatenato la rabbia dei rettori di tutta Italia, e non solo, che minacciano un’inaugurazione dell’anno accademico burrascosa. «Non può esistere un rilancio in un Paese che taglia 41 milioni destinati agli atenei migliori — attacca il rettore della Statale di Milano Gianluca Vago —. È un segnale disastroso, proprio per i giovani migliori, in un momento in cui diversi Paesi in Europa e nel mondo stanno offrendo loro condizioni molto più vantaggiose delle nostre». E anche da Bologna arrivano segnali di insofferenza e l’annuncio di forme di protesta per attirare l’attenzione del governo. Che a dire il vero si sta già muovendo: il ministro per i Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini ha assicurato che cercherà di recuperare quei fondi, sbloccando l’impasse tecnica che impedisce di stornarli dalla voce «investimenti» a quella per le spese correnti degli atenei, mentre il ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato ha ribadito: «Adesso ci muoveremo perché questi finanziamenti alle università rientrino». Spiega il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi: «Cerchiamo di rimetterli nella legge di Stabilità, sono fondamentali sia per i bilanci delle università sia perché rappresentano l’elemento di valutazione e merito, cosa di cui c’è un gran bisogno». Ma resta il fatto che le risorse promesse e poi sparite hanno il sapore amaro dell’ennesima occasione mancata. «Hanno ragione i rettori a protestare: il taglio dei 41 milioni che erano stati promessi agli atenei virtuosi è scandaloso», sottolinea il presidente del Veneto Luca Zaia parlando da «presidente di una Regione che vede le università di Padova, Verona e Venezia, stabilmente nella top five Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della Ricerca, ndr ) delle eccellenze nazionali». Incalzano pure i sindacati: «Si può comprendere la rigorosa attenzione al contenimento dei costi, ma è indice di grave miopia non capire che la spesa per dare più efficacia al sistema di istruzione è un investimento necessario al Paese», dice il segretario scuola Cisl Francesco Scrima. E Domenico Pantaleo, della Cgil, puntualizza: «Il punto vero è che non ci sono risorse per un sistema al collasso: molte università del Sud e qualcuna del Nord rischiano il default». Mentre Marcello Pacifico, dell’Anief, ricorda: «Così non ci agganceremo mai alla competitività degli altri Paesi europei». Protesta anche l’Unione studenti universitari: «Quarantuno milioni di euro potrebbero essere sfruttati per un piano di investimenti reale per le residenze universitarie», sottolinea il presidente Gianluca Scuccimarra. Il compito di mediazione del ministro Maria Chiara Carrozza, stretta tra obiettivi da raggiungere e conti da far quadrare, non è certo facile: «Ma se fossi nei suoi panni— prova a consigliarle l’ex ministro all’Istruzione Beppe Fioroni, Pd — partirei da quattro mosse per riconoscere il merito: formazione continua dei docenti; riconoscimento del merito degli studenti di scuola superiore; un sistema di valutazione serio per i migliori cervelli; un piano che premi le migliori scuole». Ma ormai il decreto scuola è in dirittura d’arrivo e non c’è più tempo per apportarvi modifiche: il provvedimento approderà in Senato martedì 5 novembre e dovrà uscirne con il via libera definitivo entro l’11, pena la decadenza. Valentina Santarpia ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Ott. ’13 DOCENZE «FRENATE» DAI CONCORSI Meglio lasciare agli atenei la libertà di assumere quando serve e chi Dario Braga Il malfunzionamento dei concorsi universitari è stato addotto come motivazione per introdurre una fase nazionale abilitante che precedesse le selezioni locali. Tuttavia, la grande operazione delle abilitazioni nazionali per i ruoli di professore è ora in stallo. Anni di blocco delle carriere, limiti di accesso oggettivamente molto bassi (in alcune aree), e la perpetua sindrome da "ultima spiaggia" dei concorsi italiani, hanno "ingolfato" il sistema. Ai commissari, impegnati "anche" nelle normali attività universitarie (ricerca, docenza, e tanta burocrazia di contorno) è stato chiesto di trovare il tempo per valutare centinaia e centinaia di prodotti di ricerca. Per alcune abilitazioni il tempo richiesto per la sola lettura delle pubblicazioni si è subito dimostrato superiore ai limiti imposti dalla fisica. Da qui le proroghe dei termini, fino all'ultima con scadenza a fine novembre. A questo stato di cose, poco tranquillizzante, si è aggiunta la sovrapposizione con la seconda tornata di abilitazioni bandita ottimisticamente dall'ex ministro Francesco Profumo con scadenza per presentare domanda al 31 ottobre. Bel guaio. Che fare se il primo turno non è finito? Potrebbero gli interessati fare nuova domanda e poi ritirarla? Le norme parlano chiaro: chi ha fatto domanda per un'abilitazione (la prenda o non la prenda) "salta il turno" successivo. Ma che fare se c'è già chi mette in giro la voce (ad arte?) che la prima abilitazione potrebbe essere annullata o bloccata dai ricorsi? Un'ulteriore tempesta amministrativa alla quale seguirà, se e quando, una stagione di concorsi locali con tempi lunghissimi e ampia materia per avvocati e tribunali amministrativi. Non ne usciremo mai. E se il problema fosse proprio lì? Nei concorsi? Qual è l'idea base di un concorso? La competizione tra più persone in possesso di titoli confrontabili per svolgere la medesima mansione, si direbbe. E infatti molti sono convinti che i docenti universitari siano intercambiabili: un chimico vale l'altro, un fisiologo, un economista vale l'altro e via dicendo, come nella scuola, basta che insegnino bene e con passione. Invece non è così, perché insegnare è solo metà del lavoro universitario. All'università chi fa ricerca insegna e chi insegna fa ricerca. È il necessario, continuo "travaso" tra conoscenza da trasmettere e conoscenza da acquisire, facendo ricerca alla frontiera di una conoscenza, appunto. Già questa considerazione potrebbe bastare per capire perché la scuola e l'università sono diverse, ma ce ne sono altre. Il docente-ricercatore oggi deve anche procurarsi i finanziamenti per fare ricerca, quindi scrivere progetti, e collegarsi ad altri ricercatori nel mondo, alle imprese siano esse sociali o industriali, agli enti locali, ai ministeri. E poi deve occuparsi di trasferire al mondo quanto produce con terapie e cure, invenzioni e scoperte, ma anche con musica, teatro, cinema, storia e letteratura. Il docente-ricercatore, poi, partecipa direttamente alla gestione della macchina universitaria: rettori, prorettori, direttori di dipartimento, presidenti di scuole, coordinatori di dottorato eccetera sono professori universitari. Come si può pensare che – con questa molteplicità di compiti – l'accesso alle carriere universitarie sia basato sul "paradigma concorsuale" come quello di altre figure del pubblico impiego? Faccio un esempio calcistico: nessuno penserebbe di assumere un terzino per... concorso, così come nessuno penserebbe che un ottimo attaccante possa andare bene anche se la squadra ha bisogno di un portiere. Lo capiscono tutti. Così come nessuno (primo tra tutti il paziente...) sarebbe contento di sapere che, per la cardiochirurgia toracica, è stato scelto un ottimo gastroenterologo, quello con l'H-index migliore. Ricercatori e studiosi non sono intercambiabili. Intendiamoci, tanti reclutamenti e tante promozioni all'università sono fatti male, molti – troppi – meritevoli sono stati schiacciati e persi, e molto spesso nel pieno rispetto delle procedure concorsuali, anzi, a volte, proprio grazie alle procedure concorsuali che hanno fornito completa copertura a scelte non trasparenti. Che cosa fare quindi? Si potrebbe forse provare l'unica strada che non abbiamo ancora imboccato: lasciare che le università assumano chi serve e quando serve per poi valutarle e finanziarle sulla base dei risultati ottenuti nella formazione e nella ricerca. Questi risultati dipenderanno dalla qualità del personale assunto e promosso in maniera trasparente. Prorettore alla Ricerca Alma Mater Studiorum Università di Bologna prorettore.braga@unibo.it ____________________________________________________________ Libero 1 nov. ’13 CAMMELLI (ALAMALAUREA): «MAI PIÙ LAUREATI SENZA ESPERIENZA» ALESSANDRO GIORGIUTTI «L'Italia non dovrà mai più sfornare un laureato che a 25 anni non ha mai fatto un lavoro», ha detto recentemente il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza. Su questo punto, qualche passo in avanti negli ultimi anni è stato fatto. Se nel 2004 solo venti studenti su cento (ancora non interessati dalla riforma che introduceva il 3+2) arrivarono alla laurea dopo aver fatto tirocini e stage durante il loro corso di studi, nel 2012 la percentuale è salita al 56 per cento. In settori quali le professioni medico-sanitarie, l'insegnamento e la chimica farmaceutica i laureati che hanno svolto un'attività di tirocinio formativo sono ormai più di 80 su 100. Gli stage sono pratica diffusa anche per chi studia educazione fisica, agraria, geologia e biologia (li fanno oltre il 70 per cento dei ragazzi), mentre spicca in negativo la situazione degli studenti di giurisprudenza: solo il 13 per cento dei laureati ha alle spalle un'esperienza sul campo. Nel complesso, tra chi ha conseguito il suo titolo di studio nel 2012, il 22 per cento ha dedicato più di 400 ore del suo tempo a "far pratica". Con buoni riscontri, una volta lasciate le aule universitarie per entrare nel mondo del lavoro. «A parità di condizioni, l'aver partecipato a un tirocinio si traduce in un vantaggio per lo studente. A un anno dalla laurea, le probabilità di trovare un impiego aumentano del 12 per cento, sia dopo il primo livello sia dopo il secondo livello di studi», spiega a Libero il professor Andrea Cammelli, direttore del consorzio universitario Almalaurea, che monitora annualmente la situazione dei laureati italiani e ha recentemente pubblicato i dati sopra citati. Ovvio, pertanto, che la proposta di portare questa percentuale al 100 per cento, come dichiarato dal ministro Carrozza, lo trovi «molto favorevole», per l'opportunità che darebbe a tutti gli studenti di «sposare teoria e pratica», ma ad una condizione: quella di scegliere con criteri rigorosi le aziende chiamate ad "ospitare" i ragazzi: «Se il laureando farà il suo stage in un'azienda che funziona male, per esempio certi enti pubblici poco efficienti, non imparerebbe certo ad utilizzare al meglio le sue competenze». Ecco perché, continua Cammelli, il tirocinio va preparato da imprese e università in sinergia: «Abbiamo riscontrato che gli stage che funzionano meglio sono quelli studiati e organizzati insieme da docenti universitari da una parte e personale dell'azienda dall'altra: solo questo lavoro comune si traduce poi in un reciproco arricchimento, per gli atenei e per le imprese». Quindi, se «l'obiettivo del ministro Carrozza è giusto», bisogna poi «perseguirlo con particolare attenzione, per evitare che lo studente venga alla fine semplicemente parcheggiato dietro una macchina fotocopiatrice o perda il suo tempo alla macchinetta del caffè...». Per rimarcare l'importanza dello stage di qualità (dunque pianificato da professori e imprenditori in stretta collaborazione) Cammelli cita il grande Aleksandr Solzenicyn, che nel racconto "Una giornata di Ivan Denisovic" scrive: «Il lavoro è come un palo, ha due capi. Se lavori per uno che se ne intende gli dai la qualità, ma se lo fai per uno stupido basta accontentarne l'occhio». Forse si potrebbe dire che un semplice aumento statistico del ricorso ai tirocini curricolari accontenterebbe l'occhio, ma non sarebbe benefico per i ragazzi, se questi fossero catapultati in un ambiente di lavoro di scarsa qualità. Andrea Cammelli [Imago] Sono spariti gli apprendisti Al loro posto i finti stagisti» ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 29 Ott. ’13 LE UNIVERSITÀ SARDE A UN BIVIO: FUSIONE O FEDERAZIONE? di EUSEBIO TOLU “Sassari e l’intera area del centro nord non possono vedere cancellati 450 anni di storia e di cultura” “Serve subito una svolta Non lasciamo che i nostri giovani migrino verso altre sedi soltanto perché offrono maggiori servizi” Le Università della Sardegna sono in bilico. Fusione o federazione, questo è il dilemma. La discussione peraltro è solo agli inizi. Qualcuno ritiene che la soluzione debba essere ricercata nel contesto di un nuovo riassetto istituzionale dell’intero territorio della Sardegna. Praticamente una riforma istituzionale della regione, con le province, le aree metropolitane, le associazioni dei comuni. Un disegno di competenza della politica, che non coincide con quello dell’Università. L’Università deve semplicemente fare il suo dovere, in armonia con i compiti istituzionali affidatigli, di formazione, di ricerca e di trasferimento tecnologico. Per questi compiti l’Università non può non rivendicare il sacrosanto diritto di riaffermare il suo essere "luogo privilegiato del sapere", dove la conoscenza trova quella libera espressione di creatività, capace di dare il giusto impulso e la giusta accelerazione ad un corretto programma di sviluppo economico e sociale del territorio. In questo contesto, la vita di migliaia di giovani, dei nostri giovani, appunto "in formazione", si muove strettamente in simbiosi con la vita delle Università, e per molti versi quindi ne dipende. Proprio così, sarebbe sufficiente questa osservazione perché l’Università debba essere considerata come il riferimento culturale delle politiche del prossimo futuro. Non vi è dubbio che l’Università debba ripensare a se stessa e assumersi l’onere di fare proprie le critiche che riceve, che debba guardarsi allo specchio e meditare il perché la sua immagine agli occhi della gente non sia più quella di un tempo. Ma noi quella Università, con i suoi 450 anni di storia e di lustro che non vogliamo in alcun modo siano cancellati, la vorremmo, al contrario, competitiva ed efficiente, pulita e trasparente, accessibile e di qualità. Discutere dell’Università come patrimonio dei cittadini sassaresi e dell’intera area del centro- nord Sardegna diventa allora semplicemente superfluo, ma è necessario adeguare il ruolo svolto dall’Universitàad una possibile ricaduta sullo sviluppo del territorio, e d’altro canto lo stesso territorio deve essere attrezzato per migliorare il livello dell’offerta organizzativa e strutturale. La realizzazione di questo progetto non può però prescindere da un lavoro coordinato, che veda l’Università impegnata con le istituzioni del territorio, i centri di ricerca, le imprese e i sindacati, il sistema creditizio. In questa prospettiva i diversi soggetti dovrebbero agire di concerto nell’ambito di un nuovo patto sociale, che si propone di potenziare da un lato la crescita dell’economia e dall’altro il rilancio dell’Università di Sassari, visti come mezzo per tenere insieme le ragioni della competitività e della coesione sociale. Bisogna solo crederci e ciascuno si assuma le proprie responsabilità. Coraggio, è necessaria la svolta. Non facciamo che i nostri giovani migrino verso altre sedi soltanto perché offrono più servizi, non facciamo che ancora una volta suoni questo campanello d’allarme. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Ott. ’13 UNICA: TRASPARENZA, GLI STUDENTI BOCCIANO I PROF Le associazioni chiedono maggiore chiarezza sui voti ricevuti dai docenti dell'Ateneo cittadino «I dati che emergono dai questionari di valutazione della didattica, vengono pubblicati in maniera aggregata, in questo modo i picchi negativi si mitigano». A chiedere maggiore trasparenza sui voti ricevuti dal personale docente sono gli studenti dell'ateneo cittadino. Proprio in questi giorni, infatti, come ogni anno, gli universitari vengono chiamati in causa, a giudicare i loro professori attraverso un questionario online. «Poter consultare le valutazioni ricevute dai singoli docenti è l'oggetto di una battaglia che stiamo portando avanti da anni », spiega Marco Meloni, rappresentante degli studenti della lista Unica 2.0. Gli ultimi dati disponibili, diffusi dall'Università, riguardano il secondo semestre dell'anno accademico 2011/2012, per tutti gli altri c'è da attendere perché l'anno accademico si conclude ad aprile dell'anno successivo, in questo caso. «Gli uffici stanno elaborando i dati relativi all'ultimo anno, ma dai numeri emerge un trend di crescita che rappresenta il giudizio positivo degli studenti sull'attività didattica», comunica Giovanni Melis, Rettore dell'ateneo cagliaritano. «È per noi comunque uno stimolo per migliorare, pur nella consapevolezza dell'attuale situazione di crisi generale». L'ultimo grafico disponibile, infatti, mostra come dal primo semestre dell'anno accademico 2009/2010, al secondo semestre dell'anno accademico 2011/2012 gli studenti siano sempre più soddisfatti: da una percentuale di gradimento del 70,77% di 4 anni fa, si è passati a una percentuale del 75,78%. «Il grafico non entra nel merito del giudizio dato al singolo professore», controbattono però gli studenti. «Alcuni docenti pubblicano sul loro sito web l'esito delle valutazioni, altri invece non lo fanno», sottolinea ancora il rappresentante degli studenti. «Quello che noi chiediamo e lo faremo anche durante il prossimo Consiglio di corso, è che vengano resi pubblici». I dati raccolti dal Nucleo di valutazione dell'ateneo mostrano interessanti punti di forza e criticità delle facoltà. Per esempio, per quanto riguarda il carico di studio e l'organizzazione del corso, i più insoddisfatti sono gli studenti di Economia, i più soddisfatti, invece, quelli di Lettere. «Il personale docente è effettivamente reperibile per chiarimenti?», recita una domanda del questionario. Gli studenti di Architettura rispetto ai loro colleghi di altre facoltà sono i meno soddisfatti. «Il docente stimola l'interesse verso la disciplina?», chiede ancora il questionario. In questo caso sono gli studenti di ingegneria a dare il voto più basso ai loro docenti. Di quali docenti si tratti non è dato saperlo. «Sarebbe auspicabile che chi di dovere si rendesse disponibile a rendere fruibili i dati dei questionari di valutazione, nelle forme che ritiene opportune, che siano positivi o negativi, in un'ottica costruttiva e di miglioramento dell'offerta», commenta Matteo Atzori, rappresentante degli studenti nel Nucleo di valutazione d'ateneo. (ve. ne.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 1 Nov. ’13 INTESA REGIONE-ATENEI PER L'INSERIMENTO DEI GIOVANI PIÙ BRAVI Protocollo firmato dall'assessorato al Lavoro e dalle Università di Cagliari e Sassari Un progetto per lo sviluppo Favorire l'inserimento dei giovani qualificati con titoli di studio elevati nel tessuto produttivo isolano per sostenere la crescita, lo sviluppo e la competitività. È lo scopo del protocollo d'intesa per la sperimentazione dei “dottorati di ricerca in esercizio di apprendistato di alta formazione”, sottoscritto fra l'assessorato regionale del lavoro, Mariano Contu, il rettore dell'Università di Cagliari, Giovanni Melis, ed il delegato dell'Ateneo di Sassari, Giorgio Garau. «Con questo accordo - ha affermato Contu - si sperimenta una nuova tipologia di apprendistato, fortemente innovativa per la nostra Regione, una delle prime attivate in Italia. Il progetto è finalizzato tra l'altro alla crescita professionale e all'inserimento nel mondo del lavoro dei giovani apprendisti-dottorandi, alla condivisione di saperi e di esperienze fra le Università, i Centri di ricerca ed il mondo imprenditoriale; ma soprattutto alla creazione di figure professionali qualificate nell'ambito dei processi di innovazione, ricerca e sviluppo tecnologico». Possono avere accesso al dottorato in apprendistato le persone di età inferiore ai 29 anni già in possesso del diploma di laurea magistrale, di laurea specialistica. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Ott. ’13 MEDICINA, FUGA IN ROMANIA UNIVERSITÀ. Sempre più difficile superare i test d'accesso, molti scelgono di espatriare Ogni anno cinquanta giovani emigrano per studiare Per tanti aspiranti medici i test d'ingresso rappresentano uno scoglio insormontabile. Così, ancor prima di correre il rischio di rimanere incagliati, in molti decidono di cambiare rotta e puntare il timone altrove. Oltre Adriatico, per l'esattezza, in Romania. Anche quest'anno, infatti, decine di studenti di tutta l'Isola hanno già completato l'iscrizione nelle facoltà della terra di Dracula. «Fonti ministeriali rumene fanno sapere che sono circa cinquanta gli studenti sardi che risultano già iscritti per l'anno accademico 2013/2014», spiega Francesco Vitale, dell'agenzia di consulenza “Studiare in Romania”. Le richieste di informazioni, invece, sono molte di più, centinaia ogni anno. Anche i “cervelli” sardi, ormai, non aspettano più l'ingresso nel mondo del lavoro per darsi alla fuga. La escogitano fin dall'università. Perché studiare a Timisoara, Bucarest o Arad? «I test d'ingresso ci sono anche qui e le lauree non le regalano, semplicemente ci sono meno candidati e la vita costa meno», spiega Gaetano Vario, responsabile della “Tutor University”. I COSTI DI ISCRIZIONE I costi di iscrizione variano: da 2.700 euro all'anno nelle università private a 5mila in quelle pubbliche. «Ogni anno dalla Sardegna arrivano in Romania un centinaio di ragazzi», continua Vario. «Inizialmente contattavano un'agenzia di servizi, ora, invece, sono gli stessi studenti a dare le informazioni ai loro amici, hanno creato delle vere e proprie subagenzie». Dare supporto alle matricole è diventato un business. Che promette bene, oltretutto, dal momento che in Italia da quest'anno è stata introdotta la graduatoria a livello nazionale e la competizione si è allargata. «SI VIVE BENE» Inoltre, a detta degli studenti, in Romania si vive benissimo. A raccontarlo sono Chiara Puxeddu, 20 anni, e Nicola Marras, di 26, due ragazzi cagliaritani che si sono conosciuti all'università. «Frequento il secondo anno di medicina in lingua inglese all'università di Arad», racconta Chiara. «Ho deciso di studiare all'estero perché, ahimè, non sono riuscita a superare il test d'ingresso. Questa scelta mi ha fatto crescere e mi ha aperto gli occhi su un altro mondo. Mi trovo molto bene e non torno spesso in Sardegna, per Natale verranno i miei genitori». Le tasse non sono basse ma la spesa è accettabile: «Pago 4mila euro all'anno», dice Chiara, «ma vitto e alloggio qui costano meno». Nicola Marras, ex studente di Scienze politiche, ha deciso di cambiare percorso. «Studio odontoiatria e non ho nessuna intenzione di chiedere il trasferimento a Cagliari. Studiare in un'altra lingua non è stato un problema, ho fatto un corso di due mesi a Cagliari prima di partire e poi uno di un mese in Romania». NON SI TORNA INDIETRO Non sarà il caso di Chiara e Nicola ma per tanti studiare all'estero è diventato un escamotage per poter chiedere il trasferimento. «Nell'ateneo cagliaritano il fenomeno è limitato: l'anno scorso hanno chiesto il trasferimento da università rumene una decina di studenti», rispondono dalla facoltà di Medicina. «Ma le istanze sono state tutte respinte, perché, come stabilito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, lo studente non può evitare di sostenere il test d'accesso». Ottenuta la laurea, però, i neodottori possono esercitare in tutti i Paesi dell'Unione europea. Veronica Nedrini AMBIZIONI FRUSTRATE Molti candidati, pochi posti Rispetto agli anni scorsi, la graduatoria di accesso alle facoltà di Medicina e Odontoiatria è nazionale. I posti messi a disposizione per la sede di Cagliari sono stati 218 per entrambe le facoltà. Si sono iscritti in 1877 ed hanno partecipato in 1723. I cagliaritani risultati idonei in base alla graduatoria nazionale sono stati 156. Gli altri posti sono andati a studenti di altre regioni. IL PIÙ VECCHIO HA 52 ANNI La classe migliore? Quella dell’85 Il concorrente più vecchio tra i partecipanti ai test d’ingresso alle facoltà di Medicina e Odontoiatria ha 52 anni. Non ha superato la prova. Quello idoneo più grande ne ha 40 anni. Il concorrente idoneo più giovane ha 18 anni. La classe più brava è quella del 1985 che con 12 partecipanti vanta 3 idonei, quella più numerosa, quella del 1994 con 724 presenti e 68 idonei. L’INCOGNITA DEI PUNTI Punteggi minimi e massimi Quest’anno il punteggio minimo per entrare in graduatoria è stato di 41,30. Per raggiungerlo erano possibili le seguenti combinazioni: 35 esatte e 25 sbagliate (risposta a tutti i quesiti) (pt 42,5); 30 esatte (la metà dei quesiti) e 21 in bianco (pt 41,4). Rispondendo ai soli quesiti di Cultura e Logica (30 esatte e 30 in bianco) lo studente entrava in graduatoria (pt 45). CAGLIARI AL 25° POSTO In fondo alla graduatoria nazionale Cagliari mantiene il 25° posto del 2012. Nella graduatoria nazionale ha piazzato 156 candidati su 218 ministeriali 72,56% ossia 62 in meno. Nel 2012 nell’ipotesi di graduatoria nazionale, Cagliari avrebbe piazzato 189 candidati su 218 (86,70%) - 29 in meno (nel 2011 erano 123 candidati su 197 (62,44%). Nella foto Luigi Demelia, coordinatore del corso di laurea di Medicina. I “RIPETENTI” Molti ci riprovano da anni Degli studenti presenti nel 2013, 65 hanno partecipato alla selezione anche nel 2009, di questi uno (0,64%) è risultato idoneo; 104 si erano già cimentati nel 2010 (5 idonei, il 3,21%); 235 ci provarono anche nel 2011 (16 idonei, il 10,26%); 669 c’erano anche nel 2012, di questi 75 ( 48,08%) sono finalmente riusciti a conquistare l’agognata iscrizione. Nella foto la prova del 2010. ____________________________________________________________ Il Giornale 29 Ott. ’13 LICEO IN 4 ANNI, IL «MODELLO MILANESE» PIACE Ecco le superiori pubbliche pronte ad adottare la formula Serena Coppetti Del diploma in 4 anni (invece degli attuali 5) se ne parla dall'era di Berlinguer-ministo. Sono passati gli anni (parecchi) e i ministri (Profumo, Moratti, Gelmini...) e ogni volta la prop o sta è stata sollevata e dopo richiusa nel cassetto. Fino ad oggi. Il liceo in 4 anni è stato avviato da quest' anno scolastico come sperimentazione al Collegio San Carlo di Milano, Guido Carli di Brescia e Olga Fiorini di Busto Arsizio. Ma altre scuole si sono già messe in coda per avere la «firma» del ministro e avere il via libera a questa nuova impostazione di scuola superiore. Quelle che potrebbero a breve avere l' ok dal ministero sono tutte statali. A nord e a sud della penisola. Si tratta infatti del liceo Garibaldi di Napoli(statale), il liceo Fiacco di Bari (statale), I.S. Majorana di Brindisi (statale), I.S. Carlo Anti di Villafranca di Verona (statale), I.T.E. E. Tosi di Busto Arsizio (statale), I.S. Telesia di Telese Terme (BN) (statale). Intanto l'avvio delle sperimentazioni di riduzione di un anno della scuola superiore che porta l'Italia a mettersi in linea con gli altri paesi europei e non, divide i sindacati. «Si tratta di pochi casi rispetto alla grande quantità di scuole secondarie - ha commentato il ministro Maria Chiara Carrozza - quindi è una sperimentazione che parte dal basso, su proposta delle scuole». Sono infatti gli istituii che propongono un percorso ridotto ma non per questo meno ricco rispetto a una scuola tradizionale. «L'idea è di dare la possibilità a queste scuole di fare la sperimentazione poi vedremo tra 4 anni quando ci saranno tutte le valutazioni come è stata condotta». Intanto però basta la «novità» per risollevare le critiche. Ma mentre Cisl e Cgil contestano senza mezzi termini la proposta, la Uil lo ritiene «condivisibile». «Si può creare un modello organizzativo più flessibile mantenendo il valore culturale solido», commenta Massimo Di Menna (Uil scuola. Lui ne fauna questione di organici. Ovvero il numero degli insegnanti dovrebbe essere ric alcolato, magari creando classi meno numerose e studio più personalizzato. Ma almeno Di Menna non nasconde che «di vedere in termini positivi la scuola che vuole modernizzarsi». Per Francesco Scrima (Cisl scuola) così invece «si apre un' avventura p oco meditata e pericolosa». «Si affronta il tema della durata dei cicli scolastici con una sconcertante superficialità», dece Mimmo Pantaleo (Flc-Cgil) ____________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 29 Ott. ’13 I DOLORI DI ONIDA, SAGGIO PER DECRETO IL COSTITUZIONALISTA DIFENDE LE PROVINCE CHE IERI IL MINISTRO DELRIO HA DETTO DI VOLER ABOLIRE SUBITO di Marco Palombi Il saggio, si sa, rischia l'infelicità. Soprattutto, ,si direbbe, perché ha continuamente a che fare con gli evangelici stolti. Quando poi uno non solo è saggio da una vita, ma ha per di più a dimostrare la sua condizione l'apposito decreto di nomina presidenziale, rischia di farsi prendere dallo sconforto di fronte ai rovesci della fortuna. Prendiamo il caso di Valerio Onida, già presidente della Consulta, giurista tra i più fini, cavaliere di gran croce e uomo il cui vivace progressismo ha reso più frizzanti le primarie del centrosinistra a Milano. Ebbene il nostro — saggio del Quirinale prima e saggio di palazzo Chigi poi — da un paio d'anni s'affanna a spiegare a quei "non saggi" dei politici che le province non vanno abolite: d'altronde stanno in Costituzione e lui è costituzionalista. Solo che la saggezza in un mondo poco saggio è moneta di scarso valore: diciamo, per esempio, che 44 saggi costituzionalisti — tra cui il saggio per apposito decreto - firmino un ponderoso documento per dire alla politica (e soprattutto al ministro competente, Graziano Delrio) che è meglio lasciar stare questa faccenda dell'abolizione e quello invece no, insiste. "Io dell'appello dei costituzionalisti non so che farmene: le aboliremo entro l'anno", ha messo a verbale ieri. Pure una settimana fa era stato parecchio scortese: "Vedo che questi professori giudicano il mio decreto incostituzionale. Rispondo che gli esperti che abbiamo utilizzato noi per redigere il testo lavorano per la presidenza della Repubblica e forse sono più autorevoli dei 44 firmatari dell'appello". CI SAREBBE DI CHE PERDERE la pazienza, se non il lume dell'intelletto, eppure Onida resiste: il governo non è saggio e lui lo è (e chi ha saggezza la usi, si sarà detto). Tre suoi colleghi - Beniamino Caravita di Toritto, Massimo Luciani e Giandomenico Falcon - saggi per decreto pure loro, hanno invece talmente poca fiducia nel disinteressato rapporto con la politica che hanno difeso, con successo, le province davanti alla Corte costituzionale contro il decreto del governo Monti che le riduceva da 86 a 51 per accorpamento. Onida no, è uomo di mondo e affronta le cose con proustiano snobismo da Jokey Club: anche la sua esperienza nei saggi quirinalizi, come ebbe modo di confessare al telefono ad una finta Margherita Hack, la viveva così, con la coscienza della sua intrinseca inutilità. Solo una volta, qualche settimana fa, una piccola crepa ha scolpito la liscia, saggia, fronte del nostro: quando ha scoperto che alcuni costituzionalisti, qualcuno persino saggio per decreto, sono indagati per aver truccato un concorso universitario. Non sia mai: lì Onida ha perso la pazienza. Coi colleghi? Macché: coi giudici e i giornali che attaccano i saggi per fare "un'operazione politica", ha messo a verbale sul Corriere della Sera. Ecco, forse quella volta il professore ha un po' ecceduto. Niente di male: d'altronde, ci ha spiegato William Blake, è la strada dell'eccesso a condurre al palazzo della saggezza. L'ESPERTO Scelto dal Quirinale per studiare le modifiche al sistema istituzionale ha difeso i suoi colleghi coinvolti dalle indagini sui baroni universitari ____________________________________________________________ Il Manifesto 29 Ott. ’13 ONIDA: LA VERITÀ, TUTTA LA VERITÀ SUI CONCORSI PUBBLICI Maurizio Matteuzzi Tra regole vuote, fasciste e bizantine muore la ricerca. Ma non sarebbe meglio affidarsi all'autogoverno di un Cun stile Csm? In un articolo di Giuliano Foschini su la Repubblica del 20 ottobre relativo ai «concorsi truccati» si legge che «Onida e Cheli offendono i pm». E che, udite udite, l'inchiesta criticata dai suddetti riguarderebbe «alcune sentenze pilotate al Tar di Bari». Ma come, non era l'università il luogo del malaffare? Che c'entrano le sentenze? Ma allora, direbbe Shakespeare, non c'è del marcio solo in Danimarca; anche in Olanda non è che si stia meglio, vien da dire. Ma il punto che viene in mente è: se ci sono stati pasticci nelle università, giudicano i magistrati. Se poi ci sono stati pasticci al Tar, chi giudica? Ancora magistrati. Non quadra, non quaglia. Che i magistrati abbiano un supremo organo di giudizio - il Csm - pare una ovvietà nella visione moderna della divisione dei poteri. Certo chi, se non un uomo di legge, può verificare se la legge è stata applicata? Chi ne sa di più, di legge, dei giuristi? È dunque più che legittimo che la magistratura nel suo complesso si doti di un organo supremo di auto- governo, o autocontrollo. Fin qui torna. Ma poi viene un altro problema. Chi ne sa di più di filologia romanza se non un accademico di filologia romanza? Giudicare nel merito della cultura, in questo periodo di furore demoniaco per la valutazione, pone un problema del tutto analogo a quello dei magistrati. Posso supporre di far giudicare la congruità di una valutazione «scientifica», o «culturale» da chi ricopre una posizione di grado più elevato entro lo stesso ambito. Ma quando si arriva al livello dell'università come si fa? In teoria, almeno, dovremmo essere al livello massimo della competenza. Allora, volendo banalmente percorrere una analogia, anche l'accademia dovrebbe avere un suo organo supremo di autogoverno, in grado dí censurare eventuali comportamenti scorretti. A maggior ragione in forza di quell'articolo 33 della Costituzione che garantisce l'«autonomia» alle università, e che dopo la «mitica» legge 240/10 (Gelmini) sembra fatuo vaniloquio. Viceversa, sono di nuovo i magistrati a «giudicare». Sempre in teoria, essi non entrano nel merito ma giudicano la corretta applicazione dei criteri puramente «formali». Ecco che un concorso, in Italia, si trasforma nell'abilità dì compilare in modo bizantino una gran quantità di verbali ovvi, nulla dicenti e puramente burocratici. Verbale della seduta preliminare (dove si «fissano i criteri di giudizio dei candidati»), verbale dell'analisi dei titoli, etc... le segreterie hanno ì prestampati, pensati per esorcizzare ogni possibile ricorso al Tar. Analizzare davvero quel che un candidato ha scritto, o quanto vale, diventa l'ultimo dei problemi. Siamo tre commissari e, poniamo, siamo tutti d'accordo che il più meritevole è il dottor Rossi. Si potrebbe fare tutto in mezz'ora. Ma invece no, ci vogliono giorni interi. A fare cosa, a leggere gli scritti, a valutare i curricula? Ma no, a compilare i verbali naturalmente. Uno dice: dopo però così sto tranquillo. Ma certamente no. C'è chi deposita il nome dei vincitori presso un notaio prima del concorso. Ci sono le intercettazioni. C'è, insomma, il genio indico in tutto il suo splendore. E dunque inchiesta sia. C'è da dire che alcune cose non aiutano: 1) una legge farraginosa, come la 240/10, di cui l'unico connotato chiaro è l'intento baronale, verticistico e fascista; una legge che oltraggia l'autonomia dell'università oltre che il buon senso, nel definire la «governance» (cfr. art. 2) da un lato, e che dall'altro rimanda ogni altra questione essenziale a una sequela infinita di decreti attuativi; 2) un organo di valutazione di nomina governativa, l'Anvur, come non si era visto nemmeno ai tempi del MinCulPop, che esercita la più esecrabile creatività nell'inventare criteri spesso risibili e persino contraddittori, che imbavaglia, magari inconsapevolmente (secondo il rasoio di Hanlon: «Never attribute to malice that which can be adequately explained by stupidity», mai presumere cattiveria dove a spiegare il fenomeno basta la stupidità) la «vera cultura» entro il perimetro del monopolio dei grandi editori; 3) una specie di società rosacrociana, né pubblica né privata, la Crui, club dei magnifici rettori, assorti a rango di monarca assoluto con la succitata legge, che pratica la più totale delle ipocrisie, lanciando fulmini e saette contro il ministro dí turno, e ponendosi prona in ogni circostanza essenziale; 4) una pletora di alti papaveri del ministero, di dubbia qualificazione scientifica ma di enorme potere, che incidono sulle politiche culturali di una intera nazione, in base al centralismo autoritario introdotto ex lege (è chiaro quale). E qui mi fermo per ragioni di spazio. Ma non sarebbe logico che in analogia al Csm anche per il mondo accademico fosse un organo trasparente ed elettivo come il Cun a giudicare della congruità dei concorsi? Sappiamo bene quali mali possa indurre l'influenza degli altri poteri su quello giudiziario, l'abbiamo sperimentato nel Ventennio. Ma perché dovremmo trovare accettabile che gente non del mestiere giudichi dei concorsi accademici? E, di conseguenza, del futuro sviluppo culturale, al livello più alto, del paese? * università di Bologna ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Nov. ’13 IL BONUS MATURITÀ CAMBIA ANCORA Francesca Milano MILANO Nuova modifica per il bonus maturità: con un emendamento approvato ieri dall'aula della Camera è stato esteso anche ai corsi di laurea in professioni sanitarie e scienze della formazione primaria il meccanismo di immatricolazione in sovrannumero, già introdotto per i corsi di medicina, odontoiatria, veterinaria e architettura. Il meccanismo apre le porte degli atenei alle matricole che hanno sostenuto i test di ammissione alle facoltà a numero chiuso e che non si sono collocate in posizione utile in graduatoria a causa dell'abrogazione del bonus maturità. Con l'articolo 20 il decreto scuola introduce, infatti, un meccanismo di immatricolazione in soprannumero che consente l'accesso ai corsi dell'anno accademico 2013/2014 (già iniziati) a chi è stato penalizzato dalla cancellazione del bonus, che valeva fino a 10 punti. Tenuto conto del ritardo con cui si arriva a questa decisione, il provvedimento prevede la possibilità, per chi è stato penalizzato dalla cancellazione del bonus, di conservare il beneficio dell'iscrizione in sovrannumero anche per il prossimo anno accademico, con il riconoscimento dei crediti maturati quest'anno (a patto che gli insegnamenti siano previsti anche nel corso a numero chiuso). Il decreto interviene anche sulle borse di studio, portando da 100 a 137,2 milioni lo stanziamento per le borse di studio: inoltre, a decorrere dal 2014, il ministero dell'Istruzione sarà tenuto a inviare a tutti gli studenti iscritti alle scuole superiori un opuscolo informativo sulle borse di studio. La comunicazione – che potrà avvenire anche via email – dovrà arrivare agli alunni entro il 31 marzo di ogni anno. Se, agli studenti, arrivano dunque nuovi aiuti, lo stesso non accade agli atenei: è stato cancellato il finanziamento di quasi 41 milioni destinato, attraverso il Fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo), agli atenei virtuosi. Si tratta, nello specifico, di 40,8 milioni che erano inizialmente destinati al progetto «Super B Factory» inserito nel programma nazionale della ricerca 2011-2013 e che la versione del decreto scuola approvato in commissione lunedì aveva riassegnato alle università più meritevoli. ____________________________________________________________ TST 30 Ott. ’13 GÒDEL E DIO: LA DIMOSTRAZIONE ADESSO CE" Kurt Góclel (Brno 28 aprile 1906 Princeton 14 gennaio 1978) ]tema è - niente meno – la dimostrazione dell'esistenza di Dio e i protagonisti sono due informatici, Christoph Benzrni Aller della Free University di Berlino e Bruno Palco Woltzenlogel della University of Technology di Vienna. Nell'articolo intitolato «Formalizzazione, meccanizzazione e automazione della prova dell'esistenza di Dio» spiegano di aver confermato attraverso un comune MacBook il celebre teorema formulato nel 1941 dal matematico e logico austriaco Kurt C5del. L'esigenza di dimostrare l'esistenza di Dio - ovvero di un'essenza superiore, di un ente indivisibile, di una causa prima - è una questione che da secoli è alla base delle riflessioni di filosofi e teologi, ma che talvolta incuriosisce anche i matematici. La logica - quella parte della matematica che studia i sistemi formali su cui si basano tutte le dimostrazioni della matematica stessa - si è spesso trovata di fronte alla necessità di inserire all'interno di rigorosi costrutti deduttivi idee che si trovano al confine tra metafisica e scienza, come il concetto di verità o quello di infinito. In questo caso, infatti, il Dio di cui parla Cedei non è il Dio delle religioni classiche, bensì un concetto che, se si suppone che esista, ha delle proprietà - definite «proprietà positive» - tali da renderne necessaria l'esistenza da un punto di vista logico. Cliklel formula la sua «prova matematica dell'esistenza di Dio» mediante una simbologia estremamente complessa, basata su una serie di assiomi. Ciò che, invece, tutti possono subito capire è che non esiste a priori un criterio per sostenere se tale dimostrazione sia corretta oppure no. I due ri cercatori hanno quindi creato un programma per MacBook che verifica se ciascuno dei passaggi logici della dimostrazione è vero, ossia se è coerente all'interno del sistema di assiomi considerato, oppure falso. E la conclusione è che la dimostrazione è matematicamente corretta. La prova di Cródel, che venne resa nota solo dopo la sua morte, nell'87, ha dato nuovo impulso alla logica modale. Questa disciplina - che studia i concetti di possibilità e necessità alla base del linguaggio - si affida sempre di più ai computer per cercare di risolvere complicate questioni matematiche con l'obiettivo di «automatizzare» il pensiero. Ecco perché il risultato di Benzmiiller e di Woltzenlogel, più che una dimostrazione (teo)logica, è un significativo risultato nel campo dell'intelligenza artificiale. Secondo i due, infatti, «la prova ontologica dell'esistenza di Dio è l'esempio di qualcosa di inaccessibile in matematica che, invece, con la tecnologia abbiamo risolto». ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Nov. ’13 IMPARIAMO A FAR RINASCERE L'ENERGIA Sole, vento, maree: perchè le fonti «verdi» diventano economicamente sempre più rilevanti Fabrizio Galimberti L'energia - l'abbiamo detto domenica scorsa - è un fattore di produzione onnipresente. Non c'è produzione, di qualsiasi genere, che non usi energia. Anche a pensare, a spremersi le meningi su come costruire una migliore trappola per topi, si consuma energia. Ma quelle cellule cerebrali che lavorano, direte voi, non inquinano come la ciminiera di una fabbrica. Sì e no. Per pensare bisogna vivere, per vivere bisogna mangiare e bere, e l'energia che va nella produzione di vivande e bevande fa parte della "impronta energetica" del pensiero. Il concetto di "impronta energetica" è un concetto molto utile, perché ci dà uno strumento potente per capire quanta energia viene usata per produrre beni e servizi. Per fare quel calcolo, quindi, non si guarda solo all'energia consumata direttamente - per esempio, quella usata da un altoforno per produrre una tonnellata di acciaio - ma anche quella consumata indirettamente: il minerale di ferro viene estratto dalle viscere della terra usando altra energia, poi viene trasportato, scaricato, immagazzinato e così via. Si somma tutta l'energia usata direttamente e indirettamente, e viene fuori l'impronta energetica. Questa "impronta" può essere calcolata, come detto, per qualsiasi prodotto: quanta energia ci vuole per una tonnellata di grano? O per un concerto rock? O per un taglio di capelli? E questi calcoli portano a risposte spesso sorprendenti. Domanda: secondo voi consuma più energia un iPhone o il frigorifero di casa? La risposta è: in condizioni medie di utilizzo, in un anno consuma più energia il telefonino. Ma ora dobbiamo spiegare perché è importante calcolare l'impronta energetica. É importante perché per procurarsi energia bisogna, in molti casi, bruciare qualcosa: carbone o petrolio o gas. E questa combustione rilascia nell'atmosfera quei gas - come l'anidride carbonica - responsabili dell'effetto serra, cioè del riscaldamento del pianeta. Riscaldamento che, a sua volta, porterà con l'andar del tempo a effetti indesiderabili come l'innalzamento del livello dei mari (da scioglimento dei ghiacciai) oltre a cambiamenti climatici generalmente sfavorevoli. Non solo: questo riscaldamento, in posti come la tundra siberiana, andrà a rilasciare altri gas come il metano (anche più pericoloso della CO2 - 23 volte più potente - per l'effetto serra) che per adesso sono imprigionati sotto la terra gelata. Quindi il calcolo dell'impronta energetica porta, scendendo per i rami della produzione, a determinare quale delle diverse forme di energia è preferibile: bruciare carbone, per esempio, è molto più deleterio (rilascia più CO2) da questo punto di vista che il bruciare gas naturale. Da qui sorgono i programmi per incentivare il ricorso all'energia verde, cioè a energie rinnovabili. "Rinnovabile" vuol dire, sostanzialmente, che la produzione di energia non avviene a spese della distruzione di una risorsa finita. Prendiamo per esempio il petrolio: come accennato domenica scorsa, le riserve di petrolio sono ancora molto grandi, e se ne scoprono sempre di nuove (o si trova il modo di ottenere petrolio da riserve prima considerate non sfruttabili). Ma non vi è dubbio che il petrolio prima o poi finirà: non è una fonte di energia rinnovabile. Allora, quali sono le energie rinnovabili? Sono, per esempio, quella solare (beh, almeno per altri 5-6 miliardi di anni), o quella eolica (dal vento) o quella ottenuta dalle onde e dalle maree, o quella geotermica (il calore che sale dal centro della terra, e che continuerà a salire per miliardi di anni). I termini "energia verde" ed "energia rinnovabile" sono in pratica intercambiabili, perché quando quest'ultima viene a essere sfruttata, le emissioni di gas inquinanti sono sempre più basse rispetto a quelle delle fonti energetiche tradizionali. Non sono proprio zero, perché nell'impronta energetica, per esempio, dell'energia eolica bisogna anche considerare l'energia spesa per la costruzione e la manutenzione delle torri e delle pale; e lo stesso dicasi per l'energia idroelettrica (costruzione e manutenzione delle dighe). L'impronta energetica non è la stessa cosa dell'impronta relativa ai gas inquinanti. Per esempio, è possibile calcolare l'impronta energetica di un chilo di carne bovina, ma il contributo ai gas responsabili dell'effetto serra è anche maggiore: ogni mucca, attraverso rutti e flatulenze, emette ogni giorno fino a 500 litri di gas metano. In Paesi come la Nuova Zelanda, con grandi allevamenti di bestiame, si è calcolato che questi contribuiscono il 34% dei gas a effetto-serra. Si comprende quindi come in tutti i Paesi si cerca di promuovere le energie rinnovabili con sussidi e incentivi vari. Per esempio, lo Stato contribuisce al costo dell'installazione di pannelli solari. Le imprese di pubblica utilità si impegnano ad acquistare a condizioni che assicurano un buon rendimento dell'investimento l'energia prodotta da impianti che sfruttano piccoli salti d'acqua... e altro ancora. Questi incentivi spesso sono troppo generosi, e in molti Paesi sono stati ridotti quando ci si è accorti che venivano usati con grande entusiasmo. Ma in ogni caso hanno messo in moto un processo di affrancamento dalle fonti energetiche tradizionali che continua e continuerà nel tempo. Lo sforzo di ridurre il ricorso a forme di energia inquinanti si accompagna allo sforzo di ridurre il consumo di energia nel suo complesso. Le tecniche per risparmiare energia hanno fatto grandi progressi: non si tratta solo, come vi esortano a fare i vostri genitori, di spegnere la luce quando uscite dalla stanza; si tratta di modificare i grandi e piccoli processi produttivi così da usare meno energia; si tratta di costruire auto altrettanto robuste ma più leggere e motori meno "assetati" di benzina. Grandi progressi sono stati fatti in questo campo. E la "intensità energetica" - cioè il consumo di energia per unità di Pil - è andata fortunatamente diminuendo nei Paesi avanzati (vedi il grafico). In molti casi è stata trovata una maniera ingegnosa per combattere l'effetto serra. Invece di dire a un'impresa: «Tu devi ridurre le emissioni, punto e basta», si crea un mercato di "permessi di inquinare", ove i permessi totali rilasciati prefigurano un totale di emissioni più basso dell'attuale. Poi si lasciano libere le imprese di scambiarsi questi permessi. Questo spinge le imprese a usare processi produttivi meno inquinanti. Le imprese possono inoltre crearsi altri "permessi di inquinare" contribuendo soldi, per esempio, alla riforestazione dell'Amazzonia (gli alberi assorbono CO2...). fabrizio@bigpond.net.au ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Nov. ’13 RAGIONARE È DIVENTATO UN LUSSO il mercato della scienza L'«Economist» ha denunciato un drammatico calo di qualità nelle pubblicazioni scientifiche. Una concorrenza sfrenata ha fatto saltare i meccanismi di controllo Guido Barbujani Se ne sta parlando in tutto il mondo: un editoriale dell'Economist dal titolo inequivocabile (How science goes wrong, Come sbaglia la scienza, 19 ottobre 2013) denuncia un drammatico calo di qualità nelle pubblicazioni scientifiche. La ricerca ha cambiato il mondo, adesso bisogna che cambi se stessa, recita l'occhiello. Si tratta di una denuncia circostanziata, basata su fatti non facili da smontare. Un esempio fra tanti. Un biologo di Harvard, John Bohannon, ha spedito lo stesso articolo, inventato e pieno di sciocchezze, su come combattere il cancro coi licheni, a 304 riviste scientifiche. Oltre metà di queste, 157, ha accettato di pubblicarlo. Si trattava di riviste di secondo piano, ma il problema le riguarda tutte, anche quelle di maggior prestigio. Publish or perish, pubblica o muori, è la regola, e non da oggi. Ma oggi per reggere alla concorrenza, per dimostrare col peso del loro curriculum di meritare gli indispensabili finanziamenti, insomma, per non morire, i ricercatori devono pubblicare sempre più. L'asticella si è alzata, e così sono saltati, dice l'Economist, i meccanismi di controllo, legati alla riproducibilità degli esperimenti e al giudizio dei referee, gli esperti anonimi incaricati di valutare gli articoli inviati alle riviste. La riproducibilità, da Galileo in poi, è un cardine del metodo scientifico: i risultati di un esperimento, a prescindere da chi lo conduca, devono sempre essere gli stessi. Se davvero la puntura della zanzara anofele trasmette la malaria, chiunque ripeta l'esperimento lo confermerà. Ma diventa un'idea astratta quando i costi dei progetti si misurano in milioni di euro: chi si prenderà la briga di spenderne altrettanti, solo per essere sicuri di qualcosa che, più o meno, si pensa di sapere già? Quanto ai referee che dovrebbero far le pulci agli articoli, sono anche loro scienziati, anche loro alle prese con una lotta per la sopravvivenza la cui prima vittima è il tempo necessario per lavorare seriamente. Qualcuno ancora ci prova, qualcuno no, e così esperimenti condotti in modo approssimativo passano indenni il controllo di qualità, e risultati statisticamente inconsistenti finiscono per essere presi per buoni. In parte dipende dal numero crescente di ricercatori. Darwin ci pensò su 23 anni prima di pubblicare L'origine delle specie, ma oggi, con 6 o 7 milioni di scienziati nel mondo, una settimana di ritardo può fare la differenza fra successo e fallimento: andare di corsa è diventato un obbligo, ragionare un lusso. E in parte pesa il fatto che le principali riviste scientifiche, acquistate da grandi gruppi editoriali, oggi devono produrre utili. Se i loro articoli vengono ripresi da giornali e televisioni, la loro notorietà cresce, e con essa i soldi pagati dagli inserzionisti. Così in molti casi gli articoli sottoposti passano inizialmente per le mani di esperti di comunicazione, ragazzi quasi totalmente digiuni di scienza, ma che rimandano al mittente studi anche molto ben fatti se pensano che non attireranno l'attenzione dei media. In questo modo la pubblicazione sulle maggiori riviste scientifiche diventa sempre più simile a un gioco d'azzardo: si fa una puntata, sperando di beccare il numero fortunato. Gabriele Romagnoli ha scritto su Repubblica che il calcio è andato in crisi quando i calciatori hanno cominciato a indossare scarpe dai colori ridicoli. Qualcosa del genere è successo anche nella scienza. Si è diffusa l'abitudine di infilare negli articoli frasi ad effetto che non hanno niente a che vedere col merito della ricerca, ma molto con la sua promozione. Se va bene, queste frasi saranno poi riprese dai titolisti dei giornali, e dai neonati ma già voraci uffici-stampa delle riviste stesse. Un sintomo, certo, non una causa: ma andrebbe preso sul serio. Come in altri settori, anche nella scienza ci si è fidati delle virtù del mercato, sperando che avrebbe sistemato da sé tutto quanto. Ma in quello che è diventato il mercato della scienza, fare per bene una cosa alla volta non paga. Meglio farne cento; magari novanta saranno spazzatura, ma con le altre ci si terrà a galla. Così si estingue la gloriosa figura del ricercatore-artigiano, paziente, critico, che sottopone i propri risultati a verifica su verifica, finché non se ne sente profondamente convinto. Oggi il mondo della ricerca è dominato da figure di scienziati- imprenditori, svelti nel pensare, abili a raccogliere fondi, molto a loro agio col mestiere di stringere alleanze, meno con quello di valutare criticamente quanto un risultato stia in piedi. C'è anche chi prova a riportare nel sistema un po' di razionalità. Jaume Bertranpetit, direttore dell'Icrea, l'equivalente catalano del nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche, seleziona i candidati sulla base di cinque articoli: «Voglio gente che abbia fatto, nella sua carriera, cinque cose davvero buone. Il resto non mi interessa». All'Institute for Advanced Studies di Princeton sono ancora più selettivi: gli articoli da presentare per candidarsi a passare un anno nell'istituto che ospitò l'esilio di Albert Einstein sono tre in tutto. Se questo atteggiamento dovesse diffondersi, molti si convinceranno a puntare sulla qualità più che sulla quantità. Di tutto questo, dicevamo all'inizio, si discute in tutto il mondo, anche perché dalle scelte che si faranno dipende il futuro di settori produttivi avanzati e avanzatissimi, e cioè di milioni di posti di lavoro. Se ne parla molto meno in Italia, dove pure i problemi sono raddoppiati dalla nota penuria di fondi, e triplicati dalla dittatura burocratica che paralizza i migliori ricercatori con periodiche, micidiali iniezioni di insensatezza (ultima la ristrutturazione dei dottorati di ricerca); la scienza ha cambiato il mondo, ma qui non ce ne siamo accorti. Si vede che a noi piace di più dibattere sul metodo Stamina o su quanto sia retroattiva la legge Severino, e pazienza: però nessuno si meravigli quando, fra un po', ci renderemo conto per l'ennesima volta che gli altri vanno avanti e noi andiamo a fondo ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Nov. ’13 BIG DATA, BIG ERA, BIG CHANGE! Comprendere i dati e individuare strategie innovative per estrarne il valore latente: è questa la rivoluzione per migliorare il modo in cui prendiamo le nostre decisioni Viktor Mayer-Schönberger Siamo agli albori di un'importante nuova era nella storia dell'umanità. Se la rivoluzione di Gutenberg è stata alimentata dalla parola stampata, dal contenuto intellettuale, questa rivoluzione, ormai imminente, lo sarà dai dati e migliorerà il modo in cui prendiamo le nostre decisioni, da quali prodotti acquistare (o produrre) a quali terapie sono efficaci, come educare i nostri figli o come inventare un'autovettura senza conducente. Di conseguenza, nell'arco di un decennio, le nostre vite saranno molto diverse da oggi, sostanzialmente non perché disporremo di un nuovo strumento tecnico, bensì perché avremo una comprensione nettamente migliore della realtà. In quanto esseri umani, desideriamo e abbiamo bisogno di capire il mondo attorno a noi per sopravvivere e prosperare. Siamo partiti da superstizioni, pregiudizi e convinzioni. Successivamente abbiamo imparato a basare il nostro concetto della realtà su teorie corroborate da dati. Secoli fa, le università italiane hanno accolto le premesse dell'Illuminismo. Nel XX secolo siamo giunti a verificare con rigore le nostre teorie utilizzando dati empirici, un approccio scientifico che ha iniziato a permeare il nostro processo decisionale, anche nel campo del commercio. È tuttavia sorto un ostacolo: poiché la raccolta, la memorizzazione e l'analisi dei dati si sono rivelate molto dispendiose in termini di tempo e risorse economiche, abbiamo escogitato ogni sorta di scorciatoia ed escamotage per utilizzare il minor numero di dati possibile al fine di convalidare (sempre che sia possibile) la nostra interpretazione del mondo. I sondaggisti politici chiedono a poco più di un migliaio di potenziali elettori di valutare l'opinione politica dell'intera popolazione; gli esperti di marketing utilizzano gruppi target e piccoli campioni per stimare la domanda di un nuovo prodotto; i direttori di stabilimento fanno testare campioni casuali di prodotti prelevati dalle linee di produzione per garantirne la qualità in generale. Oggi, pertanto, le nostre decisioni si basano, nella maggior parte dei casi, su dati empirici, ma poiché ottenerli ha comportato un costo non indifferente, li utilizziamo come se fossero un prezioso vino d'annata, molto caro, da centellinare anziché bere avidamente per placare la nostra sete. Il risultato è che la nostra visione della realtà è distorta e offuscata, oltre che viziata da un ragionamento errato basato su dati tutt'altro che imparziali. Peggio ancora, in un mondo siffatto, siamo solo capaci di esplorare interrogativi già posti, non di generarne di nuovi sui quali non abbiamo ancora riflettuto. È un mondo in cui preferiamo intuire il "perché" anziché sapere "cosa". Più di 150 anni fa, l'ungherese Semmelweis si è occupato del fenomeno del decesso delle donne dopo il parto suggerendo che i medici avrebbero dovuto lavarsi accuratamente le mani prima di visitare una nuova paziente e dimostrando che, con tale semplice precauzione, il numero di decessi poteva notevolmente diminuire. Tuttavia, poiché Semmelweis non è stato in grado di provare la reale causa della sua intuizione, i colleghi lo hanno deriso e, per decenni, i medici in Europa hanno ignorato il suo consiglio; di conseguenza, decine di migliaia di donne hanno dovuto perdere la vita. Semmelweis ha utilizzato dati per mostrare una correlazione, un nesso tra la pulizia delle mani e una drastica riduzione delle infezioni intraospedaliere, fornendoci in tal modo una chiave di lettura della realtà che non avevamo. Scoprire i nessi nascosti nei dati è esattamente l'obiettivo dei big data, ma a una velocità mozzafiato, grazie a potenti strumenti digitali e alla loro straordinaria capacità di raccogliere, memorizzare e analizzare dati. Con i big data siamo in grado di prevedere quando un componente della nostra autovettura potrebbe rompersi prima che ciò effettivamente avvenga. Le multinazionali della logistica come Fedex e Ups già li utilizzano per la manutenzione dei veicoli in servizio in modo che non restino inaspettatamente in panne sul ciglio della strada, risparmiando, in tal modo, centinaia di milioni di dollari ogni anno. Sono in corso ricerche per ottenere lo stesso risultato sul corpo umano: individuare una patologia prima che i sintomi si manifestino e in una fase in cui è ancora possibile combatterla facilmente. La chiave sta nel fatto che siamo in grado di prevedere un "malfunzionamento" analizzando enormi quantità di dati e ricercando modelli specifici di correlazione con il "disturbo". Ma non basta: con i big data possiamo non limitarci più a utilizzare i dati soltanto per convalidare un'ipotesi già formulata. Possiamo invece "lasciare che i dati parlino" e ci indichino l'ipotesi più promettente. Negli anni Novanta, Amazon lo ha sperimentato nel campo dei consigli per gli acquisti definendo categorie per classificare i clienti in base a precedenti transazioni di acquisto, senza tuttavia grande successo. Dopodiché Amazon ha adottato un approccio radicalmente diverso: ha iniziato ad analizzare i libri che venivano acquistati assieme ad altri dai clienti e ha iniziato a formulare i propri consigli sulla base di tali informazioni. Il nuovo approccio ha permesso di ottenere risultati nettamente migliori, anche se Amazon non ha assolutamente idea del motivo per il quale due libri siano acquistati insieme dallo stesso cliente. Oggi, secondo quanto affermato, il sistema dei consigli per gli acquisti di Amazon rappresenta il 30 percento dei suoi proventi. Il pregio fondamentale dei big data consiste nel fatto che ci offrono nuove prospettive, mentre l'approccio empirico tradizionale si preoccupava soprattutto di convalidare ciò che già sapevamo, e questo rappresenta una nuova fonte di innovazione dalla quale saremo ispirati, non solo illuminati. Tale nuova fonte, tuttavia, ci obbligherà anche a prendere coscienza del fatto che l'unica costante nella vita è il cambiamento. Aggiungendo sempre nuove prospettive, scopriremo continuamente nuovi aspetti della realtà da esplorare, sempre più nuovi interrogativi da porci, il che potrebbe destare timore in alcuni elementi della nostra società abbarbicati alle loro posizioni di potere non in ragione della loro capacità o perspicacia, bensì del loro ostinato attaccamento alla gerarchia e allo status quo. Molti ritengono che i vincitori naturali dell'era dei big data saranno coloro che li possiedono, ma questa è solo parte della verità. Parimenti importante è il concetto che, a differenza della rivoluzione di Gutenberg, non servono cospicui investimenti iniziali per intraprendere un'analisi dei big data. I dispositivi di memorizzazione e analisi dei dati possono essere noleggiati a poco prezzo e, pagando diritti relativamente modesti, è possibile accedere anche a serie di dati più ampie. Ciò che realmente conta è comprendere il potere dei dati e individuare modi innovativi per estrarne il valore latente. Le piccole e medie imprese, start-up comprese, possono farlo altrettanto bene, se non addirittura meglio di alcuni dei principali colossi di internet. Nella Silicon Valley, come altrove negli Stati Uniti, già vediamo emergere un ecosistema di big dati estremamente dinamico costituito da piccole start-up che, raggiunto il successo, vengono acquisite a prezzi stratosferici dai giganti soltanto allo scopo di fornire a questi imprenditori dei big dati ancora più denaro per creare la start-up successiva, che avrà ancora più successo. Possiamo tranquillamente ipotizzare che il prossimo Google o Facebook nascerà proprio da questo gruppo di imprenditori. Sinora l'Europa ha accusato un ritardo in tale ambito, ma deve recuperarlo, e anche i governi a corto di liquidità possono dare il proprio apporto al riguardo. Se concedere sovvenzioni era il modo tradizionale (quantunque costoso) per agevolare l'imprenditoria innovativa, nell'era dei big data i governi potrebbero prendere in considerazione l'idea di aprire i loro caveau di dati per "sovvenzionare" l'innovazione dei big data. Così facendo, non soltanto metterebbero a disposizione quella che è la materia prima dell'era dei big data, ma opererebbero anche una scelta molto più economica rispetto alle elargizioni monetarie. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Ott. ’13 SARDO: UNA LINGUA, DUE STANDARD. A SCUOLA 'Academia de su sardu boccia la Lsc e ripropone il dualismo logudorese e campidanese La lingua sarda comune ha fallito. Conclusione troppo dura? L'Ufficio della lingua dimostri il contrario: cioè che i soldi impiegati per creare e sostenere un unico standard ufficiale di sardo sono stati ben spesi. Sintesi, un po' brutale, di una conferenza stampa tenutasi ieri a Cagliari, in un chiosco di Buoncammino. L'ha convocata l'Academia de su sardu onlus, con base a Capoterra, presieduta da Oreste Pili, una vita spesa per le battaglie identitarie. Obiettivo, illustrare una contro- proposta rivolta alle massime autorità regionali: la lingua sarda è una, ma le macrovarianti logudorese e campidanese sono troppo distanti per essere riconciliate, foss'anche solo nei documenti scritti dei burocrati. Meglio accettare la realtà e avere due standard. Da insegnare al più presto - come materia curricolare e non volontaria - dalla scuola materna all'università. Oreste Pili, non si è presentato. E neanche Eduardo Blasco Ferrer o Massimo Pittau, gli accademici della linguistica storica che sono i numi tutelari della cosiddetta doppia norma. Alla conferenza stampa ci sono invece quelli che con la lingua sarda lavorano sul campo. Perché la parlano, la studiano, la trasmettono. Disoccupati, come Giovanni Spano di Villacidro, o medici come Oliviero Nioi, che parla il sardo del suo paese natale, Olzai, e quello del Campidano. E, come tutti i presenti, sostiene che le due varianti sono irriducibili a unità. Non perché (come vogliono i pregiudizi degli italofoni a oltranza) un logudorese e un campidanese non si capiscano. Ma perché ognuna delle macrovarianti è la reale lingua madre di uomini e donne che hanno diritto di parlare (e di imparare a scrivere) quella e non «un esperanto costruito a tavolino». Il nemico è la Lingua sarda comune, lo standard di scrittura adottato in via sperimentale dalla Regione nel 2006. Anche la Lsc ha i suoi numi tutelari nelle università. Isolani all'estero: Michele Contini da Grenoble e Roberto Bolognesi da Amsterdam e da Groninga. Per loro la lingua sarda è una sola, le varianti minime, enfatizzate da dottrine superate. Per i membri de S'Accademia, la linguistica computazionale di Bolognesi e altri è fumo. Che ha prodotto un idioma «a tavolino». Da contrastare per ragioni formali («Una delibera di Giunta non può impegnare tutti i sardi») e per ragioni pragmatiche. «Nella Lsc non si riconosce nessuno», dice Carmen Campus, che ha alle spalle decenni di sperimentazione col campidanese nelle scuole medie di Cagliari e hinterland. «Ma il lavoro in classe di tanti docenti e dirigenti non è stato neanche considerato», lamenta. «Con la Lsc perdiamo il vero senso delle parole. Lalingua comune non corrisponde al linguaggio della gente», afferma Vittorio Pinna. Tra studi etimologici e conferenze nelle scuole, Pinna sta elaborando la norma del logudorese. Ovvero la versione per il nord Sardegna delle “Arregulas po ortografia, fonetica, morfologìa e fueddariu de Sa Norma campidanesa de sa Lingua Sarda”, approvate nel 2010 dalla Provincia di Cagliari e, nel giugno scorso, dal Comune di Capoterra. Una battaglia che ora l'Academia de su sardu vuole portare in Consiglio regionale. Daniela Pinna ____________________________________________________________ MF 32 Ott. ’13 SICILIA: UNA SFIDA A TRE PER CAPITALI CULTURA IN LISTA CANDIDATURE DI PALERMO, ERICE E SIRACUSA DI ANTONIO GIORDANO Una sfida a tre alla conquista della candidatura a capitale europea della cultura 2019. Dopo Palermo ed Erice, anche Siracusa corre per ottenere la nomina. Ieri la presentazione della candidatura della città aretusea a Palazzo Vermexio. E anche in questo caso, come per il capoluogo, enti locali e operatori privati insieme a fare sistema per riuscire a conquistare la meta. Il complesso dossier presentato il 20 settembre al ministero per i Beni e le attività culturali è stato illustrato alla città. A coordinare i lavori il sindaco, Giancarlo Garozzo, e l'assessore alle Politiche culturali, Alessio Lo Giudice, assieme all'assessore regionale ai Beni culturali, Mariarita Sgarlata, e al presidente del distretto del Sudest e sindaco di Noto, Corrado Bonfanti. Proprio l'assessore Sgarlata ha annunciato che è di queste ore la decisione della giunta regionale di sostenere le candidature siciliane per il 2019, compresa quella di Palermo, considerandole tutte utili a definire la nuova immagine della Sicilia. Una decisione che ha già un primo effetto positivo per Siracusa perché la Regione finanzierà con 700 mila euro i progetti di piste ciclabili. Il complesso delle iniziative contenute nel dossier, presentate da 19 comuni e una serie di soggetti pubblici e privati, è stimato in 30 milioni di euro. Il tema scelto è «Frontiera d' Oriente» e il parco progetti è stato raggruppato in tre assi: «Frontiere dell' abitare», per investire sui diritti di cittadinanza e per la rigenerazione urbana; «Frontiere per l'Europa», per un sistema culturale inclusivo; «Frontiere della cultura», per valorizzare le contaminazioni e rafforzare il legame tra i territori. «Siracusa», ha detto il sindaco, «ha tutte le caratteristiche per affrontare questa sfida difficile e alta, ma la mia amministrazione vuole migliorarla ulteriormente e puntare a una superiore qualità della vita. Noi ci crediamo, e in questo senso avvieremo degli interventi, secondo un preciso crono-programma, per scalare posizioni nelle classifiche che ci vedono oggi penalizzati. Immaginiamo una città smart, cioè intelligente e innovativa. Il recente inserimento di Siracusa nel progetto del Cnr, assoluta anteprima in Europa, e l'attenzione dell'Ibm sono la conferma delle mie parole e della potenzialità della città. Affrontiamo la competizione a testa alta», ha concluso il sindaco, «e con la convinzione di potercela fare». In termini concreti, la marcia avvicinamento all'obiettivo finale, ha annunciato l'assessore alle Politiche culturali, vivrà nei prossimi giorni due appuntamenti: la partecipazione alla Settimana dell' Unesco che si terrà dal 18 al 24 novembre, e 1' audizione che 1' Anci nazionale ha organizzato con i comuni candidati per far finanziare le diverse iniziative culturali con i fondi europei della programmazione 2014-2020. Nei giorni scorsi anche a Palermo si è tornati a parlare di candidature a capitale della cultura. E stato 1' assessore alla cultura, Francesco Giambrone, alla presentazione della nuova linea editoriale di Travelnostop. «Una sfida enorme per 1' amministrazione», ha detto l'assessore della giunta Orlando, che «investirà circa 370 milioni, di cui 1'85% per investimenti strutturali e il 15% per eventi soprattutto in bassa stagione, da qui sino al 2019». «La cosa importante», ha aggiunto Giambrone, «è che il progetto e gli investimenti andranno avanti lo stesso anche se Palermo non dovesse essere prescelta. Entro un mese e mezzo si conoscerà la short list e anche se dovesse passare solo una delle tre città siciliane candidate (oltre a Palermo in lizza ci sono Siracusa ed Erice), puntiamo a fare sinergia perché la prescelta possa fare da traino per tutte le altre e la Sicilia intera». (riproduzione ========================================================= ____________________________________________________________ Corriere della Sera 3 Nov. ’13 IN EUROPA CURE SENZA CONFINI MA CON TANTI DUBBI DA SCIOGLIERE Cure “senza frontiere” slittate di qualche mese per i cittadini italiani. Il diritto a curarsi in ogni Stato dell’Unione europea, ricevendo lo stesso trattamento sanitario riservato ai residenti, è sancito dalla Direttiva comunitaria entrata in vigore il 25 ottobre. Entro quella data tutti i Paesi Ue avrebbero dovuto recepirla con leggi nazionali. Nel nostro, però, lo scorso settembre una legge delega ha previsto che il Governo emani il relativo decreto legislativo entro tre mesi, quindi entro il 4 dicembre. Il processo di recepimento, peraltro, procede a rilento anche altrove, secondo le informazioni raccolte tra luglio e settembre 2013 da Active citizenship , la rete europea delle associazioni di pazienti (per l’Italia è presente Cittadinanzattiva) che ha segnalato anche lo scarso coinvolgimento delle organizzazioni dei cittadini da parte delle istituzioni nella maggioranza degli Stati monitorati, nonostante la Direttiva ne dia espressa indicazione. Per i pazienti è in gioco, come spiega il Commissario europeo per la Salute, Tonio Borg: «Il diritto di scelta tra molteplici servizi di assistenza sanitaria, l’accesso a maggiori informazioni e il riconoscimento delle prescrizioni su scala transfrontaliera. Per tutelare il diritto alla mobilità sanitaria, la Commissione monitorerà con attenzione il recepimento della Direttiva e adotterà, se necessario, misure idonee». In Italia sono diversi i nodi da sciogliere entro novembre. Primo fra tutti: gli assistiti dovranno anticipare il costo delle loro cure all’estero, o sarà direttamente il Servizio sanitario a pagare? E quali procedure per il rimborso saranno eventualmente previste? Quali le competenze regionali? E le tariffe da applicare? Secondo la Direttiva, per esempio, il singolo Stato potrà prevedere l’autorizzazione preventiva obbligatoria per una prestazione sanitaria in un altro Stato Ue quando è previsto il ricovero del paziente per almeno una notte, nei casi in cui è richiesto l’uso di apparecchiature mediche ad alta specializzazione molto costose, quando le cure comportano un rischio particolare per il paziente o la popolazione. Che cosa si deciderà nel nostro Paese? «Fermo restando che si farebbe volentieri a meno di spostarsi per trovare le cure di cui si ha bisogno, la Direttiva, se recepita in modo corretto, è uno strumento per avere uguali diritti in ogni Stato, ma anche in ogni Regione o Asl, sia nella libera scelta del luogo in cui farsi curare, sia nell’accesso a prestazioni sicure e di qualità senza tempi di attesa biblici — sottolinea Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva — . Per questo chiediamo che il decreto preveda modalità di assistenza diretta in modo che i cittadini non siano costretti ad anticipare di tasca propria le spese necessarie, ad esempio, per un intervento in un altro Paese. Altrimenti, sarà un’opportunità solo per chi può permetterselo». «C’è anche il rischio che i rimborsi possano escludere le spese di soggiorno, che, però, già oggi in alcune Regioni sono riconosciute» aggiunge Aceti. E ancora, secondo il rapporto di Active Citizenship , ci potrebbero essere differenze tra il costo della prestazione nel Paese d’origine e quello nello Stato “curante”. «I Paesi dell’Unione dovranno mettersi d’accordo per una sorta di nomenclatore unico, in modo che le tariffe delle prestazioni siano uniformi, altrimenti ci sarà una giungla — mette in guardia Aceti —. Nei casi in cui la tariffa in vigore nello Stato “curante” risulti più alta di quella italiana, per esempio, qualche Asl potrebbe negare l’eventuale autorizzazione». Il dossier delle organizzazioni europee dei cittadini evidenzia, poi, la carenza di informazioni date ai cittadini sui diritti sanciti dalla Direttiva. Ogni Paese dell’Unione è tenuto a istituire sul proprio territorio sportelli o «Punti di contatto» per fornire indicazioni su come ricevere assistenza transfrontaliera, sulle possibilità di trattamento in altri Stati membri, su qualità e sicurezza delle cure, condizioni di rimborso, procedure di ricorso nel caso in cui sia negata l’autorizzazione a curarsi oltre confine. Ma quasi tutti sono in ritardo. Dalla ricognizione effettuata da Cittadinanzattiva, risulta che il nostro Ministero della Salute abbia individuato il Punto di Contatto nazionale presso la propria sede, ma non è ancora attivo per i cittadini, non esiste sul sito una specifica pagina web, non c’è un apposito numero di telefono né un’email dedicata cui i pazienti italiani ed europei possano fare riferimento. «La trasparenza delle informazioni è fondamentale, — conclude Aceti — altrimenti ci sarà una mobilità inappropriata, basata sul sentito dire e non sui reali servizi offerti». Maria Giovanna Faiella ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 31 Ott. ’13 SANITÀ. ALMENO 14MILA I POSTI LETTO DA ROTTAMARE Farmaci, medici, ospedali: ecco i tagli del «Patto-salute» Roberto Turno Costi standard da riscrivere daccapo, ma fuori dal «Patto», dando 5 anni di tempo per farcela alle regioni sotto piano di rientro ma intanto premiando chi ha i conti in regola. Almeno 14mila posti letto da rottamare e decine di ospedaletti ai quali dare un apparentemente morbido («riconversione») addio. Una nuova stangata su farmaci e dispositivi medici. Il pugno di ferro per Policlinici e medici universitari. Camici bianchi del Ssn dirigenti solo dopo concorso. Basta ai medici di famiglia solisti: dovranno lavorare in team. Salvata dalla legge di stabilità, la spesa sanitaria deve ora passare le forche caudine del «Patto per la salute». E i governatori, ieri riuniti in via «straordinaria», stanno preparando la loro ricetta. Per un'intesa col Governo che – situazione politica permettendo – potrebbe arrivare entro fine anno. Perché il «Patto», nelle intenzioni, sarà la vera manovra per la sanità pubblica nei prossimi anni. Con una serie di aspetti «cruciali» che ieri il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, ha elencato nell'audizione avuta in serata alla Camera sulla spesa sanitaria: costi standard, speneding review, regolamento per gli ospedali, gare per gli acquisti. Questi i paletti fissati dal Governo. D'altra parte anche tra i governatori non mancano punti da appianare, a partire dai costi standard e dal riparto della torta dei fondi dal 2014. Dove non solo le regioni a trazione leghista (Lombardia, Veneto e Piemonte) chiedono di rompere gli indugi anche allargando il benchmark a tutte le regioni con i conti a posto. Sebbene il fronte del Sud e delle realtà commissariate o sotto piano di rientro (ben 8 regioni, il 40% della popolazione), continui a frenare e a chiedere il riconoscimento delle gravi condizioni di disagio sanitario in quelle aree, tanto da avere almeno fin qui incassato la promessa di un allentamento della morsa in cui sono strette dalle azioni di risanamento. E se sui costi standard si punta ad agire con una modifica legislativa, facendo uscire dal «Patto» il capitolo ma non per questo frenandone l'applicazione, anzi, le basi di lavoro consegnate ieri ai governatori dai dieci tavoli approntati ormai da qualche mese, riservano già parecchie novità (www.24oresanita.com). Per gli ospedali resta in piedi l'ipotesi di un anno fa – 3,7 posti letto ogni mille abitanti, con taglio potenziale di 14mila pl per acuti – ma rivedendo le soglie per i privati con una deroga per le cliniche monospecialistiche. Altro capitolo caldissimo quello del personale dipendente: inserimento degli specializzandi anche con un percorso selettivo ad hoc, qualifica da dirigente per medici e professioni solo dopo concorso. Tutto questo mentre nei Policlinici universitari si dovranno chiarire i criteri di partecipazione alle attività di cura ma anche quelli alle attività didattiche del medici del Ssn. E sul territorio, ancora, cambierà la mission dei convenzionati, a partire dai medici di medicina generale: il futuro sarà il modello «multiprofessionale interdisciplinare», rivedendo ruoli e competenze secondo una logica di responsabilità, con tutte le ricadute del caso. Ecco poi le novità, e la stangata, per farmaci e dispositivi medici. Sulla farmaceutica si tornerebbe alla norma cassata dal "decreto Balduzzi"della revisione del Prontuario per costo/beneficio ed efficacia terapeutica, anche definendo prezzi di riferimento per categorie terapeutiche omogenee. Di più: si propongono gare regionali in equivalenza terapeutica tra differenti principi attivi, mentre si propone di sostenere da parte del Ssn solo l'«innovazione terapeutica reale, importante e dimostrata rispetto ai farmaci in uso». Novità che toccano anche i dispositivi medici: con la creazione di categorie terapeutiche omogenee, la tracciabilità dei prodotti impiantabili, l'informazione medico-scientifica regolamentata. Insomma, una stretta. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 2 Nov. ’13 SARDEGNA: OSPEDALI, POSTI LETTO A RISCHIO Secondo la Finanziaria in forse ce ne sono 571, ma verrà potenziata la degenza L'assessore Simona De Francisci: «Nessun taglio, ci sarà una rimodulazione» Ci risiamo. Da Roma rimbalza la notizia di possibili tagli - a carico delle Regioni - dei posti letto e degli ospedali ritenuti superflui per le eccessive spese di gestione. La Sardegna, come il resto d'Italia, non fa eccezione: sarebbero 571 i posti a rischio nell'Isola, 7.390 a livello nazionale per effetto della riduzione degli standard da 3,82 a 3,7 posti letto per mille abitanti. LE CIFRE La scure della Legge di stabilità potrebbe abbattersi soprattutto sui piccoli ospedali, nei territori considerati marginali dove - secondo una visione più nazionale - i numeri dicono che c'è un eccesso di posti letto per le emergenze, cioè riservati agliacuti e sarebbe opportuno potenziare la degenza, cioè i posti cosiddetti per post acuti . Secondo le tabelle diffuse dal ministero, nell'Isola sarebbero a rischio 1.291 posti per acuti , su 6.548 complessivi: si guadagneranno però 720 posti per post acuti e, per effetto della rimodulazione sanitaria, la “perdita” sarà limitata a 571 letti. Alla Regione mettono le mani avanti: «Nessun posto letto sarà tagliato, nessun ospedale chiuso: ci sarà una riorganizzazione». LA REGIONE Parola di Simona De Francisci, assessore alla Sanità: «La nostra delibera di riorganizzazione prevede che nessun posto letto sia cancellato ma, eventualmente, “disattivato”, ossia messo in stand by, quindi utilizzabile se realmente necessario». In altre parole, resteranno attivi solo i letti utilizzati: «A chi serve tenere attivi posti letto che rimangano vuoti?», constata l'assessore. «In Sardegna esistono realtà che hanno un tasso di occupazione del 17%, ciò equivale a dire che in questi casi il posto letto è utilizzato solo 62 giorni in un anno. Non c'è alcuna ragione per far sostenere alla collettività il costo di un letto vuoto». Costo che varia dai 6-800 euro per posto letto in strutture efficienti di Medicina ai 1.200 euro al giorno della Chirurgia. GLI OSPEDALI Stesso discorso per gli ospedali: «Un reparto con numeri poco significativi non solo non è sicuro per i cittadini poiché non ne garantisce la sicurezza, ma rappresenta per la collettività un costo altissimo. È etico sostenere degli ospedali che producono servizi per un valore di 3 milioni ma che costano 14 milioni? Con tre milioni si possono abbattere le liste d'attesa e, nel contempo, si possono creare servizi di trasporto efficienti e veloci per far fronte ai casi più gravi che necessitano di cure ospedaliere». IL MINISTERO Anche il sottosegretario alla Sanità Paolo Fadda parla di riorganizzazione necessaria: «È nota da tempo la tendenza in campo europeo a un numero inferiore di posti letto per acuti e, di pari passo, a realizzare un numero maggiore di posti per post acuti. Ed è all'Europa che dobbiamo adeguarci. In Sardegna, il numero dei posti letto per abitante è superiore alla media nazionale. Se vogliamo evitare ulteriori ticket dobbiamo avere la consapevolezza di una sanità rispondente sempre più ai bisogni della gente e non alla tutela dei posti in eccesso. Si migliora l'assistenza senza spendere di più e per evitare l'esodo dei pazienti fuori dall'Isola». C'è poi un'altra questione: «Il Parlamento presto approverà la direttiva di liberalizzazione dei ricoveri in tutta l'Ue. Occorre migliorare e investire nella qualità. Questo anche nell'Isola sarebbe possibile con la centralizzazione acquisti: i prezzi di macchinari e prodotti, dalle siringhe, alle tac e alle risonanze, variano da Asl ad Asl. Centralizzando gli acquisti sarebbe possibile risparmiare parecchio». IL SINDACATO Critiche dalla Cisl: «I numeri dei posti letto da tagliare confermano la fondatezza delle nostre paure», dice Davide Paderi, segretario della Cisl funzione pubblica. «La Giunta non deve gestire senza dialogo e in solitudine questi tagli o subire scelte ragionieristiche, che non possono essere calate dall'alto sull'Isola, con le solite banali proteste a cose fatte. Serve un “patto per la salute dei sardi”, per un welfare moderno e dinamico sul territorio, dove non far arretrare un presidio sociale vitale come la sanità, che però non può mantenere questo modello organizzativo superato e costoso». LA RICHIESTA La Cisl, a Roma e in Sardegna, chiede «ancor di più in presenza di una Legge di stabilità che passa al bancomat del lavoratore pubblico», una politica anti-sprechi come antidoto ai tagli. In termini concreti «un'azione coraggiosa per avere costi standard e stazioni appaltanti uniche, per far costare come nelle regioni virtuose apparecchiature e farmaceutica». Paderi chiude con una considerazione sulle aree svantaggiate dell'Isola: «Senza una riforma della sanità, il rischio per le zone interne è la condanna a un nuovo isolamento interno, come nei primi anni del Novecento». Lorenzo Piras ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 1 Nov. ’13 DE FRANCISCI: SARDEGNA AVANTI MA SERVE AIUTO De Francisci chiede al ministero “l'indice di deprivazione” «La Regione Sardegna ha le sue peculiarità anche sulla sanità e l'ottenimento dell'indice di deprivazione può essere lo strumento normativo perché queste vengano riconosciute assieme alle particolari condizioni socio-economiche della nostra Isola». La proposta è stata avanzata l'altro ieri pomeriggio a Roma dall'assessore regionale della Sanità Simona De Francisci, intervenuta alla seduta della Conferenza delle Regioni che aveva all'ordine del giorno la discussione sul nuovo Patto per la Salute. I PROGRESSI «In queste riunioni si sta decidendo l'orientamento delle politiche sanitarie dei prossimi anni - spiega l'assessore - e la Sardegna può guardare con ottimismo al futuro perché, su molte riforme che saranno varate a livello nazionale e al centro del Patto per la salute, la nostra Regione è avanti e le sta già attuando: dalla centralizzazione delle gare di acquisto alla integrazione tra ospedale e territorio, dal Fondo per la non autosufficienza ai notevoli risparmi sulla spesa farmaceutica». L'ANALISI Nel corso del suo intervento l'assessore ha fatto il punto sul lavoro della Sardegna e ha ribadito che la nostra Regione, al contrario di altre, sulla sanità si autofinanzia (con oltre 3 miliardi di euro) ed è fuori dal Piano di rientro: «Non siamo più una “Regione canaglia” ma è necessario che alle realtà che vivono particolari condizioni siano riconosciute le peculiarità attraverso specifici riferimenti normativi, come l'indice di deprivazione. Non è giusto applicare gli stessi costi standard a Regioni che attraversano un periodo di crisi profonda o subiscono condizioni penalizzanti». LO STRUMENTO L'indice di deprivazione è uno strumento che certifica e misura le situazioni di svantaggio legate a condizioni socio-economiche che causano potenziali disuguaglianze sulla salute e sul possesso di risorse e beni materiali o immateriali. FARE RETE Altre esigenze complementari e parallele sono state avanzate dalle altre Regioni a Statuto speciale e dalle Province autonome. Da qui la proposta dell'assessore De Francisci. «Cogliamo queste richieste per fare rete e costituiamo tra realtà speciali un apposito coordinamento per porre in evidenza le nostre esigenze rispetto alle altre Regioni». Si continuerà a discutere del nuovo Patto della salute tra una settimana, sempre a Roma. Matteo Sau ____________________________________________________________ Sanità News 29 Ott. ’13 7 MILIARDI DI RISPARMI DALLA INFORMATIZZAZIONE DELLA SANITA’ L’informatizzazione della sanità consentirebbe di risparmiare sette miliardi di euro all’anno, ma gli investimenti economici in questo campo sono ancora troppo pochi, ammontano appena a 920 milioni di euro. Questi i dati emersi a Roma durante il convegno "Professioni Sanitarie ed Information Communication Technology". Questo fa sì che l’Italia si collochi al 30° posto nella classifica mondiale dell’eHealth, mentre maggiori risorse destinate all’Ict consentirebbero un risparmio maggiore di quello che occorre per evitare potenziali aggravi di ticket sulle prestazioni, stimati oggi in 5,3 miliardi. Risparmi preziosi in un momento in cui il paese deve combattere gli sprechi anche all’interno della strategia che dovrà essere definita all’interno del Patto della Salute. A spiegarlo è Antonio Bortone presidente del Conaps, il Coordinamento nazionale delle associazioni professioni sanitarie, secondo il quale "partendo da progetti formativi e attraverso l’individuazione di un piano di sviluppo dell’ICT a livello nazionale si potrà colmare il divario tecnologico, culturale ed economico dell’Italia rispetto agli altri competitor europei". Nel dettaglio tre miliardi di euro si potrebbero risparmiare grazie alla deospedalizzazione di pazienti cronici mediante l’utilizzo di tecnologie per l’assistenza domiciliare, mentre la cartella clinica elettronica consentirebbe di tagliare oltre un miliardo di euro. 860 milioni potrebbero essere risparmiati grazie alla dematerializzazione dei referti e delle immagini e altri 370 milioni grazie alla consegna dei referti via web. Inoltre, sebbene la sanità elettronica in Italia non sia ancora al massimo delle potenzialità, vi sono alcune best practices a cui si potrebbe attingere a livello regionale: ad esempio l’azienda ospedaliera di Desio e Vimercate ha implementato l’utilizzo della cartella clinica elettronica in un contesto multi-presidio, mentre all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze i dati clinico-sanitari e amministrativi, presenti nei diversi applicativi aziendali, possono essere analizzati per la gestione aziendale. L’azienda Sanitaria Locale della Provincia di Mantova ha un portale in cui confluiscono tutte le informazioni provenienti dai diversi operatori socio-sanitari, mentre al San Camillo di Venezia si sta sperimentando un modello di teleriabilitazione. Gli operatori della sanità si preparano quindi a un futuro di digitalizzazione e il loro ruolo importante è stato sottolineato anche dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin. "Il servizio sanitario nazionale opera nell’esclusivo interesse dei cittadini – ha scritto in un messaggio inviato agli organizzatori del convegno il ministro – il costante impegno delle associazioni di categoria delle professioni sanitarie dimostra la vocazione pubblicistica e di garanzia nei loro confronti, per offrire la migliore qualità professionale nelle prestazioni ____________________________________________________________ Corriere della Sera 3 Nov. ’13 L’OCCASIONE PER INNALZARE LA QUALITÀ DELL’ASSISTENZA I tagli alla sanità e la scarsità di fondi da investire potrebbero essere un ostacolo all’effettiva applicazione dei principi della Direttiva comunitaria sulle cure transfrontaliere. È questa una delle principali preoccupazioni della Rete europea delle associazioni di pazienti Active citizenship. «Occorre garantire i diritti sanciti dalla Direttiva, pianificando in modo corretto il previsto decreto legislativo, altrimenti i cittadini potrebbero subire anche a livello europeo le storture del nostro federalismo regionale — avverte Tonino Aceti, del Tribunale per i diritti del malato —. Ulteriori tagli alla sanità pubblica, con ripercussioni sulla qualità e la tempestività dell’assistenza, potrebbero, inoltre, spianare la strada a un “turismo” sanitario verso l’estero. E questo farebbe aumentare ancora, e parecchio, la spesa a carico del Servizio sanitario nazionale». Le Regioni stesse non nascondono le proprie preoccupazioni, tanto che a fine ottobre la Conferenza che le rappresenta ha chiesto al Governo di «costruire insieme» il decreto legislativo sulla nuova mobilità sanitaria transfrontaliera. «La Direttiva offre l’occasione di migliorare l’assistenza ovunque: non solo a livello europeo, ma anche nelle nostre Regioni, che ormai hanno sistemi molto diversi tra loro — afferma Aceti — . Rafforza, infatti, la cornice dei diritti non solo per chi “si sposta”, ma anche per i “residenti”. E spinge a uniformare i livelli di assistenza verso standard migliori di qualità, sicurezza e tempi di attesa. Lo Stato che non lo farà, diventerà “soggetto passivo” della mobilità e i suoi cittadini tenderanno a richiedere cure all’estero». Insomma, la Direttiva è una sfida per il nostro Paese, ed è anche un’opportunità. «Se si sarà capaci di “attrarre” pazienti da altri Stati ci saranno maggiori entrate nelle casse del Servizio sanitario, per cui si potrà potenziare l’offerta di servizi, — ragiona Aceti — riducendo così anche le differenze a livello regionale. Per questo, chiediamo di essere coinvolti in qualità di associazione di pazienti nei lavori preparatori del suo recepimento». Un’altra importante questione da chiarire, secondo le organizzazioni dei cittadini, riguarda la prescrizione, l’erogazione e la distribuzione dei farmaci. Dovrebbero già essere riconosciute oltre confine le ricette prescritte dal medico in base a regole comuni in tutti i Paesi dell’Unione, come prevedono le Linee guida per le prescrizioni transfrontaliere approvate l’anno scorso dalla Commissione. «Nella Direttiva si parla oltre che di prescrizione, anche di erogazione e distribuzione, sia dei medicinali, sia dei dispositivi medici» spiega Aceti. E pure in questa materia, il nostro Paese deve adeguarsi. «Se un farmaco innovativo che serve a curare una malattia rara non è rimborsabile in Italia, perché non ha ancora ottenuto il “via libera” dell’Agenzia italiana del farmaco, il paziente potrà usufruirne in un altro Stato europeo. E l’Italia dovrà rimborsarlo — specifica, infatti, il coordinatore del Tribunale per i diritti del malato — . Ciò comporta che il nostro Paese deve ridurre i tempi per le autorizzazioni di immissione in commercio di farmaci che hanno ottenuto già il via libera dall’Ema, l’Agenzia europea dei medicinali». M. G. F. ____________________________________________________________ Sanità News 29 Ott. ’13 IL LAZIO RIMBORSERA’ CHI NON RIESCE A PRENOTARE ESAMI E VISITE IN TEMPO UTILE La Regione Lazio rimborserà i pazienti che non riescono a prenotare in tempi utili esami e visite specialistiche presso le strutture pubbliche. Nel caso di tempi di prenotazione che superano quelli fissati in base al tipo e alla gravità di ogni patologia, gli utenti potranno rivolgersi alle strutture private ottenendo il rimborso delle spese sostenute. E' questa la grande novità che promette una vera e propria rivoluzione nell'assistenza sanitaria. Quello delle liste di attesa è il problema numero uno per gli utenti della sanità pubblica del Lazio. Non accade di rado che recandosi allo sportello o chiamando il Recup (8003333- 800986868) per prenotare esami e visite specialitiche, l'utente si senta rispondere che per l'appuntamento sono necessari mesi e parecchie visite vengono fissate già per il prossimo anno. Una situazione insostenbile e pericolosa che comporta il rischio di diagnosi tardive e cure inefficaci. Se da un lato questa soluzione è utile per affrontare e risolvere i problemi dei pazienti, dall'altro si presenta il rischio di sforare con la spesa e, visti i tempi e la situazione disastrosa delle finanze pubbliche, sarà necessario fissare criteri e tetti per i rimborsi. Sarà poi necessario verificare che ad avvantaggiarsi della situazione non siano le cliniche private né che si creino monopoli a favore dei soliti noti. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 3 Nov. ’13 SANITÀ, MARONI IN TRINCEA SUI COSTI STANDARD Lombardia, Piemonte e Veneto sono pronte a far saltare il tavolo e uscire dalla Conferenza delle Regioni se, nella distribuzione dei fondi per la Sanità, già da quest’anno non si applicheranno i costi standard invece di usare come criterio la spesa storica. Per il governatore lombardo, Roberto Maroni, non applicarli da quest’anno «sarebbe inaccettabile, sarebbe l’amara sconfitta delle Regioni che non sono in grado di gestire neanche le loro competenze». Da qui l’ipotesi di uscire dalla Conferenza, posizione condivisa anche da Piemonte e Veneto, le altre due Regioni del Nord guidate da presidenti della Lega. «Costi standard — ha spiegato Maroni ieri dopo un incontro con l’arcivescovo di Milano Angelo Scola — vuol dire premiare le Regioni che fanno bene. Per noi l’applicazione è imprescindibile». Si tratta di conteggiare il riparto delle risorse in base a dei costi prefissati uguali per tutti (calcolati prendendo come parametri cinque regioni virtuose, cioè Veneto, Lombardia, Umbria, Marche ed Emilia Romagna) evitando, dunque, che una siringa costi una cifra in una regione e cinque volte tanto in un’altra. «Non possiamo tornare indietro — ha aggiunto il presidente del Piemonte Roberto Cota —, è l’unico modo per portare responsabilità ed efficienza in un settore molto importante come la Sanità». Tutte le Regioni sono d’accordo sull’applicazione nel 2014, ma non sul 2013, anche se un decreto legislativo del 2011 fissa questa come data. «I 10 dodicesimi dei bilanci regionali sono già investiti — ha spiegato nei giorni scorsi l’assessore alla Sanità della Regione Puglia, Elena Gentile —. Introdurre i costi standard è giusto e opportuno, ma come si fa a farlo su soldi già spesi? La questione è, evidentemente, di natura politica». La riunione della conferenza è già fissata per mercoledì (fra gli assessori) e giovedì (fra i presidenti). «Stiamo lavorando. Nei prossimi giorni sapremo se le Regioni riescono a trovare un’intesa — ha concluso Maroni —. Se riusciamo, bene, altrimenti partecipare a un’assemblea che non riesce neanche ad autogovernarsi su una materia di sua competenza esclusiva, la Sanità, non ha molto senso. Ma sono ottimista». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Ott. ’13 SANITÀ, UNA CENTRALE UNICA PER GLI ACQUISTI I trasferimenti alle Regioni hanno raggiunto 108 miliardi l’anno. A breve la firma del «Patto per la Salute» ROMA — La sanità riparte dal «Patto per la Salute», che dovrebbe essere sottoscritto da governo e Regioni entro l’anno. Ma che ne è stato della spending review che doveva ridurre gli elevati costi del settore? Sabato scorso il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha dichiarato che il filo del rigore sarà ripreso da dove si è spezzato. E cioè da una spesa annua di oltre 108 miliardi destinata alle Regioni e da un rapporto dell’ex commissario Enrico Bondi che aveva ipotizzato di tagliare cominciando dai servizi non sanitari (contratti di pulizia, di mensa e di manutenzione degli ospedali), ricavandone risparmi per 3,2 miliardi. Di tutto questo, per ora, nulla è stato fatto. A erigere le barricate sono state le Regioni, quelle stesse che il primo agosto scorso non hanno trovato l’accordo per individuare le tre che tra loro dovrebbero fungere da benchmark , da punto di riferimento, per realizzare la ripartizione dei 108 miliardi che lo Stato trasferisce nel 2013. Non solo. Le Regioni hanno ottenuto, attraverso la mediazione del ministro Beatrice Lorenzin, di sospendere i tagli da 2,6 miliardi in tre anni (500 milioni nel 2014) che erano stati previsti nella legge di Stabilità , oltre all’aumento dei ticket per altri due miliardi che avrebbe dovuto scattare da gennaio prossimo. Al grido «basta tagli lineari», tutto è stato bloccato. Ma non per molto. La promessa del ministro è quella di decidere insieme con le Regioni, entro l’anno, il nuovo «patto della Salute», cioè un piano di riorganizzazione che passi attraverso la razionalizzazione delle risorse, almeno triennale, e che dovrebbe comportare risparmi. La scommessa di Lorenzin è introdurre finalmente e stabilmente i costi standard, cominciando dalla loro applicazione sospesa per le risorse del 2013. In lista di attesa c’è anche la definizione dei Liveas (livelli essenziali di assistenza sociale) e dei Lea (livelli essenziali di assistenza). Per gli ospedali è prevista una riorganizzazione con la degenza assicurata solo per i casi «acuti» o altamente specialistici, e il potenziamento del ruolo delle farmacie convenzionate, come luogo di primo presidio socio-sanitario. Lorenzin ha messo nel mirino anche quella che definisce «la giungla degli appalti», da disboscare con la realizzazione di una centrale unica di acquisti a livello nazionale. Tutte misure di cui abbiamo sentito parlare con insistenza anche durante i governi precedenti, che poi però hanno adoperato mezzi diversi per frenare la spesa sanitaria. A partire dal 2011, quando per la prima volta è comparso un segno meno davanti alla spesa delle Regioni (-0,1%). Un progresso confermato, e appena ampliato, nel 2012 (-0,3%) che ha fatto dire alla Corte dei conti, nel rapporto sul settore: «La legislatura che si apre vede una situazione economica del sistema sanitario migliore del passato». Finora gli unici strumenti che hanno funzionato sono stati il blocco del turn over e degli incrementi retributivi che hanno contenuto la spesa per il personale dipendente. Così come è stata determinante, per quella della farmaceutica convenzionata, la previsione di un tetto e di un meccanismo di recupero automatico a carico delle aziende farmaceutiche dell’eventuale sforamento dello stesso. Ma anche la predisposizione di un sistema di monitoraggio delle prescrizioni farmaceutiche, attraverso la tessera sanitaria, per continuare con il contributo dei ticket sanitari, imposti dalle Regioni sottoposte ai piani di rientro. Sono rimasti nelle retrovie altri interventi, come quello sui farmaci ospedalieri che registrano tassi di crescita sostenuti, sia a seguito della continua introduzione di farmaci innovativi, specie nel campo oncologico, sia per le politiche di incentivazione della distribuzione diretta dei farmaci da parte delle Asl. La Ragioneria dello Stato ricostruisce in uno studio la dinamica del finanziamento ordinario della spesa sanitaria corrente, passata nel periodo 2002-2012 da 78.977 milioni di euro a 110.136, con un tasso di crescita medio annuo pari a 3,4%. Ora però, nel periodo 2010-2012 la spesa sanitaria ha registrato una riduzione dello 0,2% medio annuo, a fronte di un tasso di crescita medio annuo del finanziamento dell’1,1%. Ancora troppo poco per non intervenire seriamente. Antonella Baccaro ____________________________________________________________ Corriere della Sera 30 Ott. ’13 SANNO ASCOLTARE DI PIÙ I PAZIENTI L’AVANZATA DEI MEDICI DONNA I numeri parlano chiaro: la medicina si sta sempre più femminilizzando ed entro il 2020 si prevede che le donne medico saranno più degli uomini. Qualcuno comincia allora a chiedersi: cambierà qualcosa nella qualità delle cure? E le donne sono in grado di praticare una migliore medicina rispetto agli uomini? Può esistere una differenza di genere nell’approccio al malato? Uno studio canadese ha appena dato una risposta: i medici di famiglia di sesso femminile sono più rigorose nel prescrivere i test e i farmaci ai loro pazienti (in questo caso diabetici) rispetto ai colleghi maschi. Un esempio: tre donne su quattro hanno suggerito un esame della vista rispetto al 70 per cento dei dottori; il 71 per cento ha prescritto le medicine raccomandate dalle linee-guida contro il 67 per cento dei maschi. Questa volta però i numeri vanno presi con le pinze. La qualità delle cure non si può misurare soltanto con il rispetto delle linee-guida: contano anche il rapporto con il paziente e il grado di soddisfazione. Ma su questo non esistono ancora studi che dimostrino una differenza fra camici bianchi di sesso diverso: si può soltanto proporre qualche considerazione generale. Secondo alcuni dati le donne in camice bianco dedicano più tempo alla visita del paziente dei colleghi maschi (in media 19 minuti contro 17) e se questo comporta una minore produttività, significa, però, che le donne prendono più tempo per spiegare e consigliare i pazienti, dimostrando una maggiore capacità di ascolto. E questo è senza dubbio positivo nella relazione con il malato. Non solo: in genere i medici maschi tendono a focalizzarsi maggiormente sulla malattia, mentre le donne prestano più attenzione alla persona e e al suo ambiente. E anche questo contribuisce a soddisfare il paziente che tenderà così a non chiedere troppe visite. Qualche elemento per dire che le donne medico hanno una piccola marcia in più c’è, ma è bene aspettare altre indagini per trarre le conclusioni definitive. Adriana Bazzi ____________________________________________________________ Corriere della Sera 31 Ott. ’13 E LA MINISTRA CHIEDE SCUSA PER IL FLOP DELL’OBAMACARE WASHINGTON — Barack Obama le ha rinnovato ieri piena fiducia ma è ormai chiaro che il lancio del sito web HealthCare.gov, quello in cui ci si può registrare per la Obamacare, è stato «una débâcle» tanto che la responsabile, la ministra della sanità Kathleen Sebelius, è stata costretta a scusarsi con i cittadini davanti alla commissione della Camera. «In queste prime settimane l’accesso a HealthCare.gov è stata un’esperienza miserabilmente frustrante per troppi americani — ha riconosciuto la ministra — anche per coloro che hanno aspettato anni, in alcuni casi tutta la vita, per avere la sicurezza di un’assicurazione sanitaria». Sin da quando è entrata in vigore lo scorso primo ottobre, la riforma sanitaria fortemente voluta da Obama, si è scontrata con l’inaccessibilità al sito web in cui milioni di americani che non hanno assicurazione sanitaria dovrebbero poter scegliere una polizza, conoscendo l’ammontare degli aiuti finanziari pubblici che riceveranno in base al loro reddito. Circostanza che ha consentito ai repubblicani di ripartire all’attacco, dopo che, considerandola una indebita intrusione del governo nella privacy dei cittadini, vi si sono opposti sin dall’inizio, ma sono stati sconfitti una prima volta quando la riforma è stata approvata dal Congresso nel 2010 e poi quando ha ricevuto l’ok dalla Corte Suprema. «Voi meritate di meglio», ha detto ieri Sebelius rivolgendosi direttamente agli americani. Un team di esperti è già al lavoro per portare al funzionamento il sito, che finora è costato 174 milioni di dollari. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Ott. ’13 USA: RIFORMA SANITARIA NEL CAOS Entrano in campo i contractor DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — «Licenziare il ministro della Sanità per il caos di Obamacare sarebbe come licenziare il capitano Smith, il comandante del Titanic, dopo lo schianto contro l’iceberg». A evocare lo storico naufragio non è un leader repubblicano, ma Bill Daley, l’ex capo di Gabinetto di Barack Obama. La cui riforma sanitaria, se non sta affondando, sicuramente va alla deriva. Per le molte carenze emerse in corso di attuazione (ad esempio 8 milioni di poveri che non possono avere una polizza sanitaria nonostante la riforma sia stata concepita dai democratici proprio per estendere le cure ai meno abbienti), ma soprattutto per l’incredibile paralisi del sistema informatico di registrazione dei nuovi assicurati e di emissione delle polizze: il perno sul quale poggia l’intera riforma. Furioso per quello che sta accadendo, bersagliato da mille attacchi, il presidente americano è corso ai ripari con una misura drastica ma che difficilmente sarà risolutiva: ha sottratto alla pubblica amministrazione il coordinamento dei sistemi informatici (fin qui era affidato ai centri federali di Medicaid e Medicare, le agenzie per la cura dei poveri e degli anziani), trasferendolo a un «general contractor» privato. Un’ammissione di impotenza, ma non è detto che la misura sia risolutiva. Intanto nel migliore dei casi il sistema informatico tornerà a funzionare regolarmente solo a fine novembre: a due settimane, cioè, dalla scadenza per la sottoscrizione delle nuove polizze che devono entrare in vigore dal primo gennaio. È vero che esiste un’altra scadenza, fine marzo del 2014, per mettersi in regola con la legge e ottenere una nuova copertura assicurativa: e c’è un mezzo impegno del governo a concedere una proroga di sei settimane. Ma ci sono già centinaia di migliaia di americani — forse milioni — col fiato sospeso: i loro datori di lavoro hanno disdetto le polizze spingendoli verso gli «exchange», i mercati creati dal governo che avrebbero dovuto offrire coperture migliori a prezzi più bassi. In molti altri casi, poi, sono state le stesse assicurazioni a comunicare agli utenti che la loro copertura medica scadrà il 31 dicembre perché non più «a norma»: non rispetta i parametri(perché magari non comprende le spese di maternità o altro) imposti dall’«Affordable Care Act», la riforma di Obama, a partire da gennaio 2014. Una massa enorme di cittadini (nella Florida l’assicurazione Blue Cross ha inviato 300 mila lettere di disdetta) che ora temono di restare senza assistenza visto che il meccanismo di stipula delle nuove polizze è bloccato. A salvare il sistema dovrebbe essere la Quality Software Services, la società informatica di UnitedHealth, il più grosso gruppo assicurativo d’America. È impegnata da mesi nell’impresa e con risultati non entusiasmanti: è suo il sistema di identificazione dei nuovi assicurati che sta dando parecchi problemi. I suoi rappresentanti sono comparsi tre giorni fa davanti al Congresso che sta indagando sul flop di Obamacare : hanno scaricato le responsabilità sulle agenzie federali incapaci di coordinare e su Cgi, l’altro grosso «contractor» privato. Ce la faranno quelli di UnitedHealth? Molti i dubbi, anche alla Casa Bianca, ma, costretti ad arrivare in porto in poche settimane, non potevano certo chiamare un esterno che avrebbe dovuto ripartire da zero. Sopravvissuta agli attacchi furiosi dei repubblicani, che hanno paralizzato il governo per cercare di arrestare il cammino della riforma, Obamacare rischia, insomma, di affondare per l’enorme complessità del sistema, basato su centinaia di compagnie private, e per l’incompetenza del governo. Ancora intenti a leccarsi le ferite dopo aver perso il braccio di ferro sul debito pubblico, i repubblicani scoprono che possono ancora vincere la battaglia della Sanità: per un autogol. Il loro leader, John Boehner, sottolinea che fino a oggi con la riforma sono più i cittadini che hanno perso la mutua di quelli che l’hanno ottenuta. Festeggia perfino Ted Cruz, il campione dei Tea Party, accusato di aver portato i conservatori al massacro col suo oltranzismo: «Avevo ragione io, questa riforma è un disastro ferroviario», grida dal palco di un comizio in Iowa. Forse il primo passo verso la sua candidatura alle presidenziali del 2016. Massimo Gaggi ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 3 Nov. ’13 AMBU.«NON SIAMO I MEDICI DELLA MORTE MA SARTI PER LE TERAPIE SU MISURA» Parla Rossano Ambu, docente di Anatomia patologica dell'Università VEDI LA FOTO Dimenticate l'idea antica dell'anatomopatologo impegnato prevalentemente a sezionare cadaveri, più legato alla morte che alla vita. Oggi è un medico con altre missioni, parte integrante del team di sanitari che interagiscono con il paziente e si esprimono, oltre che sulla diagnosi, anche sulle prognosi e le terapie. Rossano Ambu, professore associato di Anatomia patologica dell'Università di Cagliari, si è avvicinato alla professione trent'anni fa quando ancora era studente universitario. «L'attività settoria, che anni addietro costituiva la maggior parte dell'attività lavorativa del patologo, rappresenta oggigiorno solo una minima parte dei suoi impegni». Com'è cambiata la vostra professione? «Si può essere impegnati quasi esclusivamente dallo studio delle biopsie o, appunto, lavorare in team con altri specialisti». Come è nata la sua passione per l'anatomia patologia? «Grazie alle lezioni di anatomia patologica svolte da Virgilio Costa e Giuseppe Zucca e Gavino Faa. Mi appassionarono così tanto che chiesi di frequentare l'istituto e quando entrai vidi quell'isola felice che era, ed è attualmente, il nostro reparto dell'ospedale San Giovanni di Dio. Non potevo chiedere di meglio». Che cosa spaventa di più della sua attività? «Senza dubbio l'esecuzione delle autopsie: l'esame del cadavere, l'effettuare dei tagli e l'estrarre gli organi». Comprensibile... «In realtà non tutti riescono a concepire che il Patologo, in sala settoria, esegue una diagnosi per stabilire una causa di morte. Come altri colleghi eseguono delle diagnosi, ma con il soggetto in vita». Qual è il vostro ruolo nel percorso diagnostico di una patologia? «Se attraverso l'attività settoria si verifica la diagnosi clinica, si chiariscono quesiti clinico-scientifici e si accerta la causa della morte, attraverso lo studio dei prelievi citologici (l'osservazione al microscopio ottico di cellule prelevate da organi o tessuti) o istologici (l'osservazione al microscopio di un campione di tessuto) si confermano o si escludono uno o più sospetti clinici o si fornisce al clinico la diagnosi esatta o un indirizzo diagnostico». Quanto pesa, nel complesso del lavoro del team, il parere dell'anatomopatologo? «La diagnosi istopatologica talora riveste particolare importanza per gli eventuali successivi trattamenti medici e/o chirurgici. Ma se un patologo, in particolare nello studio di lesioni infrequenti o rare, non è convinto della bontà delle proprie conclusioni diagnostiche, dovrebbe chiedere conferma ai propri colleghi, meglio se esperti in quella patologia. Tutto ciò dovrebbe avvenire con serenità, senza senso di vergogna». Invece non sempre accade? «Esatto. Ma è certamente più serio adoperarsi affinché un paziente abbia la diagnosi migliore, e di conseguenza la migliore terapia, piuttosto che peccare di superbia e correre il rischio di emettere una diagnosi non corretta». Com'è cambiato il suo lavoro? «Nella moderna organizzazione dei sistemi sanitari il Patologo è parte integrante del team di medici che interagiscono con il paziente. Veniamo chiamati ad esprimerci, oltre che sulla diagnosi, anche su diversi aspetti prognostici e terapeutici, affiancando così, e spesso indirizzandoli, i colleghi clinici». In quali casi? «In particolar modo in quelli in cui si possono somministrare delle terapie che risultano appropriate al paziente, effettuando così interventi di “tailored therapy”, ossia terapia sartoriale, ritagliata su ogni singolo paziente. Le moderne diagnosi sono rese possibili grazie anche allo sviluppo di nuove tecniche di indagine basate sull'uso di strumenti che consentono al Patologo di studiare i tessuti e le cellule ad un livello via via più profondo. Per fortuna». Elisabetta Caredda ____________________________________________________________ Sanità News 1 Nov. ’13 ONLINE IL PRIMO MOTORE DI RICERCA PER LA SCELTA DELL'OSPEDALE PIU' ADATTO Online il primo motore di ricerca in Italia per scegliere l'ospedale migliore per i propri bisogni. E' un portale che mappa l'offerta sanitaria nazionale Regione per Regione e aiuta il cittadino a trovare il luogo di cura più adatto per sé e i propri cari. Si chiama doveecomemicuro.it ed è frutto di due anni di lavoro di un team di ricercatori coordinato da Walter Ricciardi, direttore del dipartimento di Sanità pubblica dell'Università Cattolica-Policlinico A. Gemelli di Roma.. Nel nostro Paese una persona che debba sottoporsi a un intervento al ginocchio oppure togliere la colecisti, o sapere il luogo più sicuro dove partorire, o ancora conoscere l'ospedale migliore in cui eseguire un bypass coronarico, finora non aveva possibilità di orientarsi nella giungla di ospedali, cliniche, presidi sanitari, policlinici universitari. Da oggi ha invece a disposizione una guida cui far riferimento per scegliere dove curarsi: le risposte alle sue domande sono a portata di mano, basta qualche click per individuare la struttura migliore per le sue esigenze di paziente. "L'obiettivo - ha spiegato Ricciardi - era realizzare un supporto informativo rivolto ai cittadini attraverso un'iniziativa cosiddetta di 'public reporting', capace di rafforzare il principio di responsabilità sociale all'interno del Ssn, secondo cui i decisori e le organizzazioni sanitarie devono rispondere delle proprie azioni e performance verso i cittadini, in termini di trasparenza comportamentale, amministrativa, gestionale, strategica ed economica. Le evidenze scientifiche dimostrano che riportare pubblicamente le performance di una certa struttura incoraggia attività volte al miglioramento della qualità delle prestazioni offerte a livello del singolo ospedale. Non a caso alcune esperienze internazionali hanno messo in evidenza una lieve riduzione della mortalità per le diverse patologie in presenza di attività di public reporting" http://www.doveecomemicuro.it/ ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 31 Ott. ’13 Indagine del portale “Dove e come mi curo”: promossi molti ospedali della città SANITÀ, ECCO LE ECCELLENZE Molto efficaci le cure per il tumore al colon e l'infarto VEDI LA FOTO Non è necessario rivolgersi a strutture in continente, soprattutto quando si parla di tumore al colon, malattie del sistema respiratorio, infarto, insufficienza cardiaca e artroscopia. Anche a Cagliari e in tutta la Sardegna, secondo l'indagine del portale “Dove e come mi curo”, ci sono strutture d'eccellenza. Sono, per certi problemi di salute, allineate agli standard raccomandati a livello nazionale e internazionale e hanno performance migliori rispetto alla media del continente. In Sardegna sono state considerate 42 strutture: 10 case di cura, 27 presidi ospedalieri e cinque ospedali a rilevanza nazionale. Al top, secondo il report, ci sono due ospedali a rilevanza nazionale (il Policlinico di Monserrato e l'Aou di Sassari) e un presidio ospedaliero (il Ss. Trinità) per la gestione del tumore del colon. E poi l'Aou di Sassari per la gestione delle malattie del sistema respiratorio. Il Brotzu è invece segnalato per la gestione dell'infarto, due presidi ospedalieri di Muravera e Ghilarza (San Marcellino e Ospedaliero Delogu) e la Casa di cura Madonna del Rimedio di Oristano per la gestione dell'insufficienza cardiaca. Per l'artroscopia del ginocchio promossi due presidi ospedalieri (il Marino di Cagliari e il Segni di Ozieri) e una casa di cura (Sant' Antonio di Cagliari). Vanno male la gestione di parti, tumori del retto e polmone, dell'ictus e della frattura del femore. Sul fronte dei tumori del colon uno degli indicatori considerati dal portale è la mortalità a 30 giorni dall'intervento di rimozione della neoplasia. La media nazionale per questo indicatore è 4,37%, quella degli ospedali sardi premiati è migliore e molto più bassa. ____________________________________________________________ La Gazzetta del Mezzogiorno 1 nov. ’13 NUOVO ASSETTO DEL POLICLINICO: CHIUDONO DODICI UNITÀ OPERATIVE A BARI LA FIRMA DUE PROTOCOLLI «FONDAMENTALI( TRA L'AZIENDA OSPEDALIERA E L'UNIVERSITÀ Trovato l'accordo anche sulle retribuzioni 2000/2012 Sono 12 e non 16 le unità operative da chiudere nel Policlinico cittadino. Dopo oltre tre anni di lavoro, è stato firmato il protocollo sul numero delle Unità operative complesse dell'Azienda ospedaliertà universitaria, ispirato dalle direttive regionali per l'integrazione delle attività di ricerca e di didattica con l'attività assistenziale Si tratta del completamento dell'operazione di riordino avviata nel 2011 nel Policlinico che ha già portato alla chiusura di 25 Unità operative. La nuova organizzazione prevede dunque sette dipartimenti 1 Dipartimento Cardiotoracico 2 Dipartimento Neuroscienze, Organi di Senso e Apparato Locomotore 3 Dipartimento Medicina Interna e Specialistica 4 Dipartimento Chirurgia Generale, Ginecologia ed Ostetricia ed Anestesia 5 Dipartimento Emergenza ed Urgenza 6 Dipartimento Scienze e Chirurgia Pediatriche 7 Dipartimento Patologia Diagnostica, Bioimmagini e Sanità Pubblica I sette dipartimenti hanno un totale di 71 Unità operative. Il rettore uscente Corrado Petrocelli e il direttore generale del Policlinico Vitangelo Dattoli hanno sottoscritto anche un secondo fondamentale protocollo relativo alla remunerazione del personale universitario in convenzione per gli anni 2000 2012. Quest'ultima firma è stata messa dopo un lungo ed intenso lavoro istruttorio per l'applicazione dell'esito di un lodo arbitrale ad hoc. «È un argomento oggetto di un importante contenzioso sviluppatosi negli anni tra le due Istituzioni - spiega una nota del Policlinico - soprattutto per l'applicazione del decreto legislativo 517/99 che, per via delle peculiarità dei rapporti tra le stesse istituzioni e delle ricadute giuridico-amministrative, ha richiesto una lunga fase ed una grande volontà dei vertici Istituzionali coinvolti, l'Università di Bari, la Regione Puglia e l'Azienda Ospedaliero Universitaria "Consorziale" Policlinico di definire un accordo». Il decreto 517/99 regola i rapporti tra il Sistema sanitario nazionale le Università per le integrazioni delle attività di didattica e di ricerca con quelle assistenziali e delinea per grandi linee i criteri generali, demandando ad accordi locali (cosiddetti Protocolli d'Intesa Regione- Università) le fasi attuative specifiche. Questo decreto ha modificato anche il sistema di remunerazione del personale universitario in convenzione (docente e tecnico-amministrativo). «L'applicazione del 517/99, anche per difficoltà oggettive, ha richiesto tempi lunghi ed un grande lavoro concertativo - spiegano ancora dall'Azienda ospedaliera - che però, nel tempo, ha comunque dato luogo all'insorgere di un contenzioso importante». I due accordi tra Università e Policlinico definiscono insomma un vero piano industriale per l'Azienda Ospedaliero Universitaria avviato dalla Regione a seguito dell'applicazione del Riordino della Rete ospedaliera previsto anche ai sensi del Piano di Rientro. migliorativo della organizzazione e gestione del Policlinico. «Il nuovo assetto - spiega la nota dell'Azienda ospedaliera - nell'assicurare il rispetto delle strutture necessarie per la rete formativa dei medici e delle professioni sanitarie come da normativa, assicura anche l'offerta di prestazioni anche di eccellenza per i cittadini riducendo sensibilmente i costi di gestione». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 31 Ott. ’13 STORIA MEDICA E SCIENTIFICA DELLA TALASSEMIA Una malattia e la sua storia, medica e scientifica. Raccontata in modo sistematico con un percorso narrativo affascinante che sa coniugare l'esattezza dei dati scientifici con un ritmo del racconto coinvolgente anche per un profano. La malattia è la talassemia. La sua storia è in “Talassemie. Storia medica e scientifica”, scritto dal professor Stefano Canali, docente di Storia della Scienza e della Medicina alla Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati di Trieste, per le Edizioni ETS di Pisa. Canali ha voluto colmare una lacuna storiografica per lui inesplicabile data l'enorme rilevanza medica e sociale di «un insieme di disturbi che ha e ha avuto un impatto sociale e sanitario assai elevato» e dato il fatto che «questi disturbi genetici sono stati le prime malattie a venire indagate e descritte con le tecniche e i concetti della biologia molecolare, avviando di fatto l'era della medicina molecolare». Utilizzando le carte personali e la ricca letteratura sul tema accumulate, in 60 anni di ricerca e attività clinica, da Ida Bianco, la scienziata italiana pioniera della ricerca sulla talassemia in Italia, Canali ha esplorato la storia delle talassemie in un quadro mondiale. Perché le talassemie rappresentano il più diffuso disturbo monogenico, cioè causato da un singolo gene, esistente sulla faccia della terra anche se la sua diffusione si concentra nel bacino del Mediterraneo e nel sud est asiatico. Circa il 3% della popolazione mondiale è portatore di geni talassemici con una presenza di circa il 20% di individui in Sardegna e nel Delta del Po e, addirittura, del 30% in certe zone di Tailandia, Laos, Vietnam e Filippine. Il primo a individuare «un complesso particolare di segni clinici su cinque bambini» fu, nel 1925, il pediatra americano Thomas Cooley. A Cooley guardarono subito gli italiani. Nel 1929, Giovanni Careddu, dell'Università di Cagliari, pubblicò un lavoro su una casistica di 12 malati di cui alcuni affetti dal morbo di Cooley, mentre, nel 1930, il pisano Cataldo Cassano discusse, primo in Italia, un caso di morbo di Cooley. Da allora si susseguirono le ricerche dentro e fuori il nostro paese ma fu solo tra il 1944 e il 1946 che la coppia Silvestroni-Bianco pubblicò i risultati di un'indagine che «corroborava l'idea della ereditarietà dell'anomalia più alta fra siciliani, sardi e campani». Rimaneva, tuttavia, un mistero. Se i geni talassemici possono rendere impossibile la riproduzione, come mai permanevano e si diffondevano nelle popolazioni colpite? L'ipotesi fu formulata dall'americano Haldane: la talassemia è diffusa dove è presente la malaria. La risposta fu data da tre scienziati italiani, Carcassi-Ceppellini-Pitzus, che utilizzarono la Sardegna come “laboratorio naturale”. Dimostrando che, nelle aree infestate dalla malaria, i geni talassemici conferiscono una maggiore resistenza alla malattia. Il libro si chiude sulle campagne di prevenzione condotte da Antonio Cao con la diagnosi prenatale e l'informazione. Beatrice Bardelli ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Ott. ’13 IN ITALIA UN FIGLIO SU DIECI È ILLEGITTIMO Il test del Dna ha fatto vittime illustri, costrette a riconoscere i propri figli. Gli ultimi casi saliti alla ribalta delle cronache sono quelli di Mario Balotelli e la stellina della musica americana Justin Bieber. Prima ci sono stati Diego Maradona, Vasco Rossi, Cristiano Ronaldo, Eddie Murphy, Mel Gibson e Alberto di Monaco. Spesso sono i giudici a ordinare gli esami per accertare la paternità, ma sono in aumento i casi degli uomini che fanno ricorso spontaneamente alla scienza per mettere a tacere i loro dubbi. E spesso hanno ragione: secondo una ricerca di Alvaro Mesoraca, genetista e biologo molecolare del gruppo Artemisia di Roma, in Italia un bambino su dieci è figlio illegittimo, nato da relazioni extraconiugali o non ufficiali. Una percentuale altissima, raddoppiata negli ultimi anni. Aumentano i divorzi, l'infedeltà è una piaga difficilmente debellabile, i sospetti si amplificano. E i papà vanno a caccia di conferme, o smentite, affidandosi ai laboratori che promettono di far luce su parentele vacillanti. Mater semper certa, pater numquam , il principio giuridico nato ai tempi dei Romani è messo ormai in crisi dai progressi scientifici e dai grandi passi della genetica. I test del Dna riescono a rivoluzionare gli assetti familiari, e smentiscono uno dei cardini del diritto. Le farmacie italiane propongono i test genetici da banco, negli Stati Uniti i kit per accertare la paternità da qualche anno sono comparsi persino tra gli scaffali dei supermercati. Ma il business più redditizio resta quello dei laboratori virtuali che propongono in rete offerte allettanti. Gli incassi aumentano, e anche i papà che sempre più spesso si scontrano con un'amara realtà. (sa. ma.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Ott. ’13 PADRI E DUBBI, BOOM DI TEST DEL DNA IL FENOMENO. Fare un'analisi genetica costa da 180 a 895 euro. Sulla rete si trovano decine di servizi Grazie alle tecnologia crescono le cause di disconoscimento dei figli Figli segreti, padri sconosciuti e bambini contesi. Il test del Dna scaccia ogni dubbio: è unico e non lascia margine d'incertezza. RICHIESTE IN CRESCITA «Negli ultimi tempi le richieste di accertamento della paternità sono cresciute tantissimo», racconta l'avvocato Rita Dedola, specializzata in diritto penale e di famiglia. Maria Mura, presidente della prima sezione civile del Tribunale di Cagliari, fa i conti in casa sua: «Le cause con riconoscimento o disconoscimento della paternità non sono tante, ma sono comunque aumentate». Ernesto D'Aloja, ordinario di medicina legale all'Università, più di 1500 autopsie eseguite e la partecipazione a casi eclatanti come il delitto di via Poma, conferma la tendenza: «Si tratta di indagini sempre più attendibili. Il ricorso ai test del Dna per accertare la paternità è un fenomeno in costante aumento». LE OFFERTE IN RETE La homeDNAdirect promette test di paternità «affidabili e altamente accurati, accessibili e accreditati per la vostra completa tranquillità», si legge sul sito. Una sfilza di agenzie sparse in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all'Australia, passando per Inghilterra, Irlanda, Canada, Belgio e Romania sino ad arrivare alla Nuova Zelanda, oltre alla sede nella Penisola. I COSTI La scelta è vasta, il pagamento anticipato. Si va dai 180 euro per il servizio "test espresso" con invio del risultato dopo due giorni lavorativi dal ricevimento dei campioni in laboratorio, sino agli 895 euro per il test del dna di Paternità prenatale, con «costi relatati all'estrazione del campione del feto non inclusi», si precisa. Ma l'esame più richiesto è il test di Paternità senza madre. Si esegue attraverso un kit di auto-prelievo inviato al cliente e viene usato per confermare o meno la corrispondenza genetica tra presunto padre e figlio. Il costo è di 259 euro e l'affidabilità è «del cento per cento in caso di esclusione e maggiore al 99,9 per cento in caso di inclusione», assicurano. La tariffa sale di trenta euro se si aggiunge l'analisi del campione della madre, ma in questo caso il livello di accuratezza cresce. SE C'È UNA CAUSA Perché il test sia ammissibile in tribunale bisogna sborsare 750 euro. L'Iternationalbioscenses, con sede legale a Brighton, in Inghilterra, mette a disposizione un numero verde per i papà in cerca di conferme. Ma il listino prezzi non è pubblico. Genoma, con sede legale e studio medico a Roma, invita gli utenti a diffidare dai laboratori virtuali che non offrono garanzie. Nella capitale il test di paternità informativo (due campioni padre-figlio/a) costa 189 euro, se i campioni sono tre si arriva a 259, sino a sfiorare settecento euro per avere un referto utilizzabile in sede legale. Sara Marci ____________________________________________________________ Italia Oggi 1 nov. ’13 IL CAPELLO CRESCE E’ LA PRIMA VOLTA Esperimento degli scienziati inglesi Per chi perde i capelli si accende qualche speranza. Un gruppo di scienziati guidati da Colin Jahoda, docente all'università di Durham in Inghilterra, è arrivato alla conclusione che è possibile generare nuovi capelli umani su pelle umana. Gli attuali trattamenti contro la calvizie sono insufficienti perché non stimolano la crescita di nuovi capelli robusti. Le medicine contro la perdita di capelli sono in grado di rallentare la scomparsa dei follicoli o di stimolare la crescita della capigliatura esistente, ina non di dar vita a nuovi follicoli. E neppure si raggiunge il risultato ricorrendo al trapianto. Gli studiosi stanno cercando di capire che cosa avviene in un embrione. La chiave di volta è la papilla della pelle, un piccolo gruppo di cellule che si trova alla base del follicolo e dà istruzioni alle altre cellule per produrre capelli. Per decenni si è creduto che si potesse moltiplicare la papilla in laboratorio e poi trapiantarla sul cuoio capelluto umano. Ma ciò non ha mai funzionato. Gli ultimi esperimenti hanno invece aggirato l'osta- celo esaminando i roditori. La papilla è stata raccolta da sette donatori umani. Le cellule sono state moltiplicate in laboratorio e sono state fatte crescere in sferoidi, ciascuno dei quali conteneva circa 3 mila cellule papillari. Gli sferoidi sono stati quindi trapiantati sul tessuto prepuziale di topi neonati e poi inseriti sul dorso dei topi. Dopo sei settimane, cinque cellule trapiantate su sette hanno generato nuovi follicoli geneticamente compatibili con i donatori. Un risultato promettente, che i ricercatori dovranno approfondire. ____________________________________________________________ Il 3 nov. ’13 LA RICERCA FARMACEUTICA HA UN RUOLO STRATEGICO Luigi Cucchi Si vive più a lungo e meglio. Oggi possiamo sperare di raggiungere il traguardo degli 82 anni, dieci in più rispetto agli anni '70. Merito dei progressi scientifici, ma anche della disponibilità di terapie innovative ed efficaci, che migliorano la qualità della salute e allungano la vita. Un risultato al quale l' Industria farmaceutica, da 70 anni, contribuisce con ricerca e innovazione: dall'avvio su scala industriale della produzione di antibiotici, alle prime vaccinazioni anti-p olio, fino ai più recenti progressi terapeutici in diverse aree della medicina, come quella oncologica. Altrettanto importante, è l'impatto che il comparto farmaceutico, produce sull'economia del Paese. La relazione annuale della Banca d'Italia decrive il settore farmaceutico come «un'eccezione rispetto ad uno scenario manifatturiero in contrazione». L'occasione per renderlo noto è stata quella del tour itinerante «Produzione di valore. L'industria del farmaco: un patrimonio che l'Italia non può perdere», organizzato d a Farmindustria, nella sede di Roche a Monza. Negli ultimi 5 anni le imprese italiane del farmaco hanno conosciuto una crescita de144%, rispetto al 7 % della media manifatturiera. Inoltre la farmaceutica in Italia investe in ricerca e innovazione ben 1,2 miliardi di euro, con un'intensità5 volte superiore alla media industriale. Nella classifica europea, per valore assoluto della produzione, è seconda, subito dopo la Germania. Quello dell'Italia, sottolinea Farmindustria, è un contesto nel quale, dal 2007 al 2011,1e imprese del farmaco hanno avuto oneri complessivamente pari a 11 miliardi, derivanti da provvedimenti nazionali dettati dalle esigenze di finanza pubblica. Motivi che fanno crescere segnali di rischio. A partire dall'occupazione in calo dal 2006 di 11.500 addetti. Gli studi clinici sono diminuiti in Italia del 23 per cento in tre anni, più che negli altri grandi Paesi europei. Preoccupano anche gli investimenti, calati nel 2012 per la prima volta in dieci anni. La Lombardia rimane comunque un modello di eccellenza con istituti di fama internazionale, specializzati in campi quali farmacologia, neurologia, biotech e oncologia. Gli investimenti in ricerca delle imprese del farmaco sono il 9,1 % del totale. ____________________________________________________________ TST 30 Ott. ’13 LE ANALISI? LE FA IL BATTERIO Batteri che trasportano cellule all'interno di laboratori di analisi delle dimensioni di un chip, posizionandole su microsensori che ne rilevano i valori. È una delle applicazioni di un meccanismo innovativo messo a punto dai ricercatori dell'Università La Sapienza e del Cnr-Ipcf (l'Istituto per i processi chimico-fisici), coordinati da Roberto Di Leonardo. Lo studio, pubblicato su «Nature Communications», ha dimostrato che è possibile utilizzare microrganismi auto propellenti per trasportare carichi microscopici in siti di stoccaggio predefiniti o per ripulire aree specifiche. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 3 Nov. ’13 COSÌ I RAZZISMI SI COMBATTONO NEL CERVELLO. E NELLA CULTURA La lunga guerra al pregiudizio La scienza incalza la filosofia banale La prossima volta che il vostro collega, arrivando tardi in ufficio, si lamenterà che le donne al volante rallentano il traffico e non sanno guidare, sappiate che se la cosa dovesse suonarvi come un pregiudizio vagamente maschilista, dovete prendervela con la sua amigdala. Lo spiegano gli studi delle neuroscienze sociali, secondo i quali i pregiudizi, quei concetti che — come dice il termine — si esprimono prima che sia in atto una qualche forma di iudicium , scaturirebbero dall’attivazione di una delle parti più primitive del cervello, l’amigdala appunto. Si tratta della struttura a forma di mandorla incastonata nel sistema limbico e responsabile delle nostre emozioni e pulsioni più irrazionali. Processi di pensiero contro i quali l’Associazione italiana di psicoanalisi mette in guardia perché, spiega, in grado di deformare la realtà. E così, per capire cosa si nasconde dietro comportamenti maschilisti, omofobici o razzisti sono stati chiamati a raccolta in una giornata di studi a Roma alcuni dei massimi esperti italiani nel campo della psicoanalisi, delle neuroscienze e persino del diritto. «Questa fase storica ci impone un continuo confronto con il diverso — spiega la psicoanalista Simona Argentieri — e non credo che Roger Money-Kyrle avesse tutti i torti quando paragonava i pregiudizi ai virus: una volta che si sono organizzati, tendono a conservarsi e a diffondersi per contagio». La mente umana, votata all’efficienza e alla semplificazione, difficilmente resiste alla tentazione di organizzare il continuo flusso di informazioni che riceve dall’ambiente in categorie grossolane, così da risparmiare tempo ed energie. Per questo, dopo aver letto di giocattoli tossici made in China e di ristoranti etnici dalle dubbie condizioni igieniche, sarà molto facile per il nostro cervello concludere che «tutti i prodotti asiatici» sono dannosi. Generalizzazioni, appunto, che, oltre a farci risparmiare la fatica dei distinguo, custodiscono altri vantaggi. «Ci fanno sentire meglio con noi stessi — spiega Argentieri — e ci mettono al riparo da sentimenti spiacevoli come invidia e senso d’inferiorità», motivo per cui la maggior parte dei pregiudizi porta con sé una svalutazione in negativo degli altri. In pratica funzionerebbero come un meccanismo di difesa caratterizzato dalla proiezione, per cui si attribuiscono ad altri quelle parti di sé che non si riesce a riconoscere come proprie e dunque ad eliminare. Per questo succede che i propri istinti aggressivi vengano trasposti sugli stranieri, che la nostra avidità misconosciuta finisca per essere associata agli ebrei, che gli omosessuali siano un simulacro delle nostre ansie di passività e che certe caratterizzazioni delle donne parlino della nostra paura di non essere all’altezza. In questo senso, spiega Argentieri, «la non integrazione psicologica e la lontananza dal proprio sentire autentico sono uno dei terreni più fertili per la nascita di pregiudizi». Quante volte chi esordisce dicendo «Non ho pregiudizi, ma...» finisce per rivelarne più degli altri. Sono contenuti che forniscono un ottimo strumento di analisi, dicono molto di noi e delle nostre paure, ma non dimentichiamoci la carica di aggressività che portano con loro. I motivi hanno a che fare con l’evoluzione. «In quanto sistema di difesa — aggiunge Paolo Mariotti, neurologo presso l’Università del Sacro Cuore di Roma — i pregiudizi hanno permesso alla specie di evolversi, e al branco di coalizzarsi contro il nemico predatore. Non è un caso che questi giudizi affrettati abbiano la meglio proprio quando si ha una iperattivazione dell’amigdala o quando i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, sono particolarmente alti. In questi frangenti — continua Mariotti — il soggetto mostra un’emozionalità elevata, magari difficoltà nella gestione della rabbia o l’assenza di contenuti mentali e culturali in grado di frenare le risposte istintive dell’amigdala». In base a quanto raccolto con le tecniche della risonanza magnetica funzionale e dei potenziali evocati, sembra che, quando di fronte a un soggetto di colore la risposta istintiva della nostra amigdala è che «la pelle scura è indice di pericolo», il compito di controbattere spetti alla corteccia prefrontale, una delle parti più evolute del cervello e informate da cultura ed educazione. In questo caso, se il valore dell’egualitarismo ci appartiene, la corteccia ricorderà all’amigdala che «tutti gli uomini sono uguali». A questo punto, spiega Mariotti, area primitiva e area evoluta del cervello si troveranno in conflitto e spetterà alla corteccia cingolata dorsale il compito di mediare. È probabile dunque che un soggetto dal comportamento mite cresciuto in una famiglia di larghe vedute arrivi alla conclusione che se «alcuni uomini neri possono essere pericolosi, questo non dipende certo dal colore della loro pelle». Chiaramente — precisa Mariotti — non siamo di fronte a «processi che avvengono in singole strutture separate tra loro, ma si tratta di dinamiche per cui le regioni cerebrali coinvolte, quelle degli istinti e quelle più evolute, si trovano in uno stato di continua interazione tra loro, il processo non è sequenziale, ma quasi simultaneo». In linea con le neuroscienze sociali sarebbero proprio gli attuali paradigmi psicoanalitici, a partire da quello post-freudiano per cui i contenuti consci si trovano in comunicazione costante con quelli inconsci. In quest’ottica, una cultura adeguata può essere in grado di disinnescare i pregiudizi e controllare le pulsioni più profonde. Ma non basta. «Se oltre a studiare, il soggetto non svolge un lavoro di conoscenza su di sé — commenta Argentieri — il rischio è quello di passare dal pregiudizio al contropregiudizio», e quindi da convinzioni come quelle per cui «gli omosessuali vivono nel vizio» alla visione opposta e altrettanto irrealistica per cui «gli omosessuali vivono nella virtù». Meccanismo alimentato dal politicamente corretto e dalla tendenza a ripulire il linguaggio da termini che potrebbero essere letti come discriminatori nei confronti di determinate minoranze sociali. Se è vero che «nero» è meno offensivo di «negro» e che «diversamente abile» è più positivo di «portatore di handicap», Argentieri mette in guardia dal rischio della china scivolosa. «Accettare la diversità non vuol dire che tutto vada ugualmente bene, perché altrimenti si arriva a quello che sta accadendo in molti Paesi compreso il nostro, ossia che adolescenti, per non dire addirittura bambini nell’età dell’asilo, che manifestano tendenze a comportamenti del genere sessuale opposto vengono incoraggiati a definirsi transgender. Un comportamento di questo tipo nei confronti di ragazzini che sono ancora in una fase di massima fluidità della psicologia e dell’identità di genere non è un atto di coraggio, ma una forma di violenza». Insomma, per essere superati, i pregiudizi vanno «attraversati», in un continuo processo di negoziazione tra idee ed emozioni che in qualche modo allena quel circuito cerebrale caratterizzato dalla mediazione della corteccia cingolata. Ma se è vero che c’è sempre l’eccezione che conferma la regola, il giurista Stefano Rodotà la individua nel frangente storico che viviamo. «Per quanto il politicamente corretto possa portare a derive grottesche come quella del vicepresidente del Consiglio Angelino Alfano, che, per paura di prendere le distanze dal proprio leader, preferisce nascondersi dietro l’ipocrisia di una definizione come “diversamente berlusconiano”, in certi casi il superamento del pregiudizio è talmente difficile che richiede l’estremizzazione. Non a caso — continua — Luigi Manconi, per convincere gli italiani che lo straniero è una risorsa, ha scelto un titolo estremo come Accogliamoli tutti ». Buonismo? «Neanche per idea», sostiene. Sicuramente un modo per scatenare una reazione e un dibattito nella società, probabilmente non molto diverso da quello già attivato nel nostro cervello. ____________________________________________________________ Sanità News 1 Nov. ’13 C'E' UNA PREVALENZA DI MANCINI TRA I SOGGETTI AFFETTI DA DISTURBI PSICOTICI I mancini hanno più probabilità di soffrire di disturbi psicotici, come la schizofrenia, rispetto a chi usa la mano destra. A stabilirlo è uno studio pubblicato su Sage Open e realizzato dal ricercatore americano Jadon R. Webb per la Sage, società indipendente internazionale che opera nel campo degli studi sociali e scientifici. "I nostri risultati - spiega Webb - mostrano una prevalenza sorprendentemente elevata di mancini tra i pazienti che presentano disturbi psicotici come la schizofrenia, rispetto a chi manifesta problematiche come la depressione o il disturbo dipolare". Lo studio ha preso in esame 107 pazienti di una clinica psichiatrica pubblica con diverse tipologie di disturbi mentali. Webb ha riscontrato che l'11 % di chi aveva una diagnosi legata ai disturbi dell'umore, dalla depressione al disturbo bipolare, era mancino. Tuttavia, il 40 % dei pazienti che manifestava i sintomi della schizofrenia o del disturbo schizoaffettivo era mancino. "I nostri dati - afferma Webb - hanno mostrato che i pazienti di etnia bianca, con una malattia psicotica, avevano più probabilità di essere mancini rispetto ai pazienti di colore". Left-Handedness Among a Community Sample of Psychiatric Outpatients Suffering From Mood and Psychotic Disorders The human brain develops asymmetrically, such that certain cognitive processes arise predominantly from the left or right side. It has been proposed that variations in this laterality contribute to certain forms of mental illness, such as schizophrenia. A convenient measure of brain laterality is hand dominance, and prior work has found that patients with schizophrenia are more likely to be left-handed than the general population. This finding is not consistent, however, and fewer studies have directly compared handedness between psychiatric diagnoses. We assessed hand dominance in 107 patients presenting to an outpatient psychiatric clinic with diagnoses of a mood or psychotic disorder. The prevalence of left-handedness was 11% for mood disorders, which is similar to the rate in the general population. It was 40% in those with psychotic disorders (adjusted odds ratio = 7.9, p < .001). The prevalence of left-handedness was much higher in psychotic disorders compared with mood disorders in this community mental health sample. ____________________________________________________________ Sanità News 1 Nov. ’13 DAL SAN RAFFAELE UN GUANTO ROBOTICO PER LA RIABILITAZIONE E’ stato presentato dall’ospedale San Raffaele SCRIPT (Supervised Care and Rehabilitation Involving Personal Tele-Robotics) un guanto robotico per la tele-riabilitazione del polso e della mano dei pazienti colpiti da ictus. Il dispositivo ha la funzione di assistere il paziente nel trattamento riabilitativo a domicilio per il recupero funzionale dell’uso della mano. I medici e i terapisti possono così monitorare, per mezzo di una piattaforma web, i trattamenti effettuati dai soggetti e prescrivergli nuovi e sempre più complessi esercizi finalizzati al recupero dell’arto superiore. Un sistema davvero innovativo sia dal punto di vista medico che dal punto di vista pratico, riducendo così il numero di accessi per visite ospedaliere specialistiche. ____________________________________________________________ Sanità News 1 Nov. ’13 COPERTI NEURONI CHE RICONOSCONO LE IMMAGINI Scienziati australiani hanno scoperto un gruppo di rare cellule cerebrali che riconoscono i margini e le forme degli oggetti, aiutandoci a evitare incidenti e a riconoscere tutto quello che usiamo o vediamo nella vita quotidiana. Gli studiosi guidati dal Paul Martin, del Vision Centre e dell’Universita’ di Sydney, hanno individuato con sorpresa le cellule nel talamo, il ‘cervello primitivo’, che si credeva finora avesse solo la funzione di trasmettere informazioni dagli occhi alla corteccia cerebrale, o ‘cervello alto’, perche’ siano interpretate. La scoperta getta nuova luce su come opera il sistema visivo degli uomini e degli altri primati, e come viene usata la vista per muoverci attorno, trovare il cibo, leggere, riconoscere le facce e in genere funzionare di giorno in giorno, scrive Martin sul Journal of Neuroscience. Soprattutto, la conoscenza puo’ aiutare a sviluppare congegni medici come l’occhio bionico, per ovviare a perdite della vista. ”Gli occhi e il cervello operano insieme per mostrarci un mondo riconoscibile - spiega Martin -. Gli occhi mandano i segnali luminosi alla corteccia , ovvero al ‘cervello moderno’ che e’ responsabile delle funzioni piu’ alte come memoria, pensiero e linguaggio Le cellule della vista rispondono a differenti informazioni, alcune ai colori, altre alla lucentezza, e ora abbiamo scoperto quelle che rispondono alle forme”. http://www.jneurosci.org/content/33/16/6864.abstract?sid=e9f2dc06-5ee0- 4380-aa7e-f980a03a97c7 ____________________________________________________________ Repubblica 1 Nov. ’13 LA MEMORIA DEL FUTURO, COSÌ COSTRUIREMO I NOSTRI RICORDI Si potranno ricordare cose mai vissute o cancellare dalla mente le esperienze negative. La scienza riscrive il cervello. Come in un film. Stimoli magnetici, piccole scosse elettriche. E farmaci sperimentali. Si moltiplicano i test che (come in un film di fantascienza) trasferiscono nuove informazioni al cervello. Per curare disturbi mentali, ma anche per creare conoscenze artificiali finora inedite di ELENA DUSI MEMORIE cancellate. Ricordi creati dal nulla. Elettrodi che recapitano corrente agli strati profondi del cervello. Stimoli magnetici capaci di alterare la percezione del bello o del giusto. Gentili scosse da pochi milliampere che danno “la sveglia” ai neuroni. Minuscoli cervelli allo stato embrionale cresciuti in provetta anziché in un grembo materno a partire dalle cellule staminali. E l’astrofisico Stephen Hawking nel frattempo rassicura: "Raggiungeremo l’immortalità. Saremo un giorno in grado di trasferire le informazioni del nostro cervello su un supporto artificiale". Un’idea simile — l’architettura della mente umana riprodotta nel silicio di un computer — riceverà un miliardo di euro in dieci anni dall’Unione Europea. Non di fantascienza si tratta, ma di un progetto bandiera che coinvolge 90 università e centri di ricerca in 22 paesi del continente. Negli Usa, contemporaneamente,a un’iniziativa analoga il presidente Obama ha promesso 3 miliardi di dollari. Il santuario della nostra coscienza e personalità ha dunque smesso di essere impenetrabile. L’homo faber ha iniziato a mettere mano alla parte più sacra e protetta di sé. Dopo decenni di risultati non proprio eclatanti da parte della chimica e dei farmaci, i nuovi “artigiani” della materia grigia promettono ora risultati concreti per alcune malattie mentali. Trasmettendo un po’ di inquietudine, mescolata alla giusta speranza. Sembra la trama di “Total recall”,maèunesperimento reale: studiando dei topolini nel suo laboratorio dell’università della California a Irvine, il professore di Neurobiologia Norman Weinberger è riuscito a inserire dei minuscoli elettrodi nel cervello fino a raggiungere la corteccia uditiva. E lì ha impiantato dei ricordi artificiali: memoria di esperienze (in questo caso uno stimolo sonoro) mai avvenute. La descrizione dell’esperimento è uscita il 29 agosto su Neuroscience. Weinberger oggi spiega: «Lanostra ricerca dimostra che è possibile inserire nel cervello specifici contenuti di memoria. Questi ricordi sono completamente falsi: non nascono da un’esperienza. Secondo i nostri risultati sarebbe possibile creare finte memorie anche negli esseri umani, ma a questo stadio della ricerca abbiamo solo l’obiettivo di svelare come funziona il meccanismo della fissazione dei ricordi. Non ci poniamo scopi terapeutici». Sulla stessa strada troviamo le sperimentazioni sull’uomo di un farmaco che i ricordi, al contrario, li cancella. L’obiettivo è aiutare le persone colpite da quello stress da disordine post-traumatico che affligge soprattutto gli ex soldati. La sostanza usata si chiama “Propanolol” e sabota il delicato processo che nel cervello avviene quando un’esperienza è immagazzinata sotto forma di ricordo. Questa sostanza chimica — allo studio da una decina di anni sui veterani o sulle vittime di incidenti che arrivano al Pronto soccorso — parte dal principio che tanto più un’esperienza è carica di significato emotivo (paura in primis, ma anche gioia o ansia), tanto più il ricordo sarà fissato in modo indelebile. Ilpropanolol attenua la risposta emotiva a un trauma. E quindi smorza la preminenza di un evento doloroso nella gerarchia delle memorie. Cancellare o scrivere memorie come se il cervello fosse una lavagna è una delle invenzioni che nascono nel cinema prima ancora dei laboratori. InSe mi lasci ti cancellodue ex fidanzati si rivolgono a una clinica per eliminare ogni traccia mnemonica della loro relazione. L’effetto, paradossalmente, è dimenticare quel che è successo e tornare a innamorarsi durante un nuovo incontro. In Total Recall una ditta promette ai suoi clienti la creazione di ricordi partendo da esperienze che si sarebbe tanto desiderato vivere. Il protagonista si fa impiantare nel cervello la memoria della vita da spia che aveva sempre sognato. Ma un problema tecnico provoca una serie di disavventure in cui si non si distingue più fra realtà e ricordi artificiali. "Alcuni esperimenti manipolano effettivamente il cervello. E quindi manipolano anche la mente", commenta Michele Di Francesco, rettore dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia e uno dei fondatori della giovane Società Italiana di Neuroetica. "La memoria è la base della nostra identità e senza ricordi l’“io narrativo” si svuota. Certo, tecniche comelastimolazionecerebrale profonda promettono di migliorare i sintomi del Parkinson. Ma per le loro potenzialità, questi metodi richiedono cautela". Il rischio è che l’uomo dal “conosci te stesso” prenda una scorciatoia che lo porti al “cambia te stesso”. "Sarebbe il colmo — prosegue Di Francesco — se la nostra specie che ha sempre cambiato il mondograzie alla sua intelligenza e cultura, ora iniziasse a cambiare anche se stessa. I momenti di crisi spesso aiutano a crescere. Se una situazione ci rende tristi, la reazione migliore è cambiare la situazione, non cancellare la tristezza". Tra gli strumenti usati per “entrare” nel cervello e modificare i suoi circuiti ci sono la stimolazione elettrica e quella magnetica. La prima viene usata nel Parkinson o in forme estreme di depressione: un elettrodo sottilissimo viene inserito nel cervello in maniera permanente e invia piccole scosse a gruppi precisi di neuroni. Sono 700 mila nel mondo le persone sottoposte a questo metodo. L’americana Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) ha deciso una settimana fa di finanziare con 70 milioni di dollari questi stimolatori. E lo scrittore di fantascienza Michael Crichton alla tecnologia ha dedicato “Il terminale uomo”: a un epilettico viene impiantato nel cervello un computer dotato di elettrodi. Ma l’apparecchio invia impulsi errati, e il paziente diventa un criminale. Nulla di simile è mai avvenuto nella realtà. Ma una piccola corrente all’esterno del cranio (niente a che vedere con l’energia dell’elettroshock) ha dimostrato di poter avere effetti bizzarri. A maggio, in un esperimento dell’università di Vancouver pubblicato suCurrent Biology, 25 volontari hanno indossato un caschetto con degli elettrodi, ricevendo una scossa da un milliampere. La loro rapidità nel fare i calcoli a mente è migliorata fino a 5 volte. Ma l’effetto è scomparso dopo sei mesi. Come funzioni il “doping” con la corrente non è chiaro, ma a giugno un altro esperimento ha aggiunto mistero al fenomeno. Una serie di scosse da 2 milliampere (10mila volte meno di una presa elettrica, e la sensazione di una leggera puntura nella testa) ha reso i 99 volontari assai più generosi nel dare i voti alla bellezza di alcuni volti mostrati in foto. Alla tecnica si è allora interessata una ditta che produce videogiochi. La Foc.ushamesso in vendita a 249 dollari una cuffia che somministra piccole scosse. "Rendi le tue sinapsi più veloci, con la stimolazione elettrica transcranica" recita lo slogan di una tecnologia forse fuggita troppo in fretta dai laboratori. Altro che dibattiti sul Prozac, insomma. Con l’industria farmaceutica che nell’ambito delle malattie mentali non è andata molto avanti rispetto ai principi attivi degli anni Sessanta, il nuovo orientamento sembra essere quello di impugnare “chiavi inglesi e cacciaviti”. L’azienda Usa Medtronic che vende apparecchi per la stimolazione elettrica sostiene di aver soddisfatto più di 100mila pazienti affetti da dolore cronico, epilessia, fame compulsiva e dipendenze più varie. "L’uso di elettrodi dentro al cervello — secondo Todd Sacktor, neurologo della State University of New York — rester àcomunque l’ultima spiaggia, perché richiede un intervento chirurgico. Anche se questi strumenti sono utili nella ricerca, secondo me il futuro della terapia sta nell’uso sempre più perfezionato di scanner del cervello, farmaci e psicoterapia". La transizione dalla chimica dei farmaci alla stimolazione elettrica è ciò che invece auspica Josef Parvizi, direttore del programma di Elettro- fisiologia Cognitiva a Stanford: "Il linguaggio del cervello è una combinazione di chimica ed elettricità. Finora nel provare a curare le malattie del cervello si è preferito l’approccio chimico, attraverso i farmaci. Ma il costo per il resto del corpo è stato alto. Prendiamo l’epilessia. Se assumiamo un chilo di pillole, 900 grammi finiscono in fegato, pancreas, ossa e solo 100 grammi raggiungono l’organo bersaglio, cioè il cervello. Ma 99 grammi andranno ad agire su aree cognitive che con l’epilessia non hanno nulla a che fare, dando vista offuscata, senso di svenimento, spossatezza. Un grammo solo colpirà i neuroni responsabili della malattia. Questo è un approccio brutale, che va superato. Con farmaci più mirati. Ma anche, se necessario, con l’elettricità". ____________________________________________________________ Repubblica 28 Ott. ’13 MALATTIE REUMATICHE, GRANDI PROGRESSI NEI TEMPI DI DIAGNOSI: CURE PIÙ EFFICACI Il bilancio dei passi avanti fatti negli ultimi tredici anni presentato al congresso annuale dell'American College of Rheumatology a San Diego. Farmaci biologici superiori alle terapie tradizionali dal nostro inviato ARNALDO D'AMICO Lo leggo dopo SAN DIEGO - Sono passati appena tredici anni ma sembra un secolo per i grandi progressi compiuti. Oggi, in circa tre mesi dalla comparsa dei primi sintomi, si arriva alla diagnosi di artrite reumatoide, artrite psoriasica e spondilite anchilosante, le malattie reumatiche più diffuse e che ricevono i vantaggi maggiori da una diagnosi tempestiva. Nel 2.000 trascorrevano invece in media 6 anni e mezzo per scoprire che quel mal di schiena ribelle a tutti i trattamenti in realtà era l'inizio di una spondilite anchilosante, oltre 4 anni dalla comparsa di dolori articolari e qualche desquamazione della pelle per arrivare alla diagnosi di artrite psoriasica e 3 anni dai primi gonfiori di mani e piedi per capire che si trattava di artrite reimatoide. Anni persi, trascorsi senza cure specifiche e quindi con la malattia che avanzava e lasciava danni permanenti. Il grande progresso è stato quantificato da Merete Lund Hetland, reumatologa e Jan Sørensen, economista sanitario, dell'università di Copenhagen. Lo hanno illustrato al congresso annuale dell'American College of Rheumatology in corso a San Diego, California, appuntamento mondiale per tutti gli specialisti che si occupano delle patologie causate dall'autoaggressione del sistema immunitario e che colpiscono principalmente articolazioni e muscoli, ma non risparmia nessuna parte del corpo. I dati sono stati ottenuti grazie a Danbio, sigla che indica il registro sulle malattie reumatiche più vasto e ricco di informazioni disponibile. Realizzato da un gruppo di università danesi, raccoglie dati anche da altri registri nazionali ed è diventato un punto di riferimento mondiale non solo per i reumatologi, ma anche per chi si occupa di organizzazione sanitaria e per chi deve prendere decisioni politiche in materia. Vari i fattori a cui è dovuto il grande progresso. Dal 2000 la ricerca ha messo a punto metodi diagnostici più precisi e facili da usare. E i farmaci biologici, superiori alle terapie tradizionali a base di cortisone ed immunosoppressori. Soprattutto le cure migliori, secondo gli autori, sono alla base della enorme riduzione dei tempi di diagnosi, che riflette sicuramente una maggiore consapevolezza da parte dei medici dei maggiori benefici per il paziente che ora si hanno con i nuovi farmaci. Un altro balzo, ma di segno negativo (apparentemente) è stato annunciato al congresso. Le patologie muscolo-scheletriche (perlopiù malattie reumatiche) sono salite dal 12° al 5° posto nella graduatoria delle patologie che fanno più danni all'individuo e alla società, in termini di perdita di autonomia e di anni di vita che si riflettono in mancata capacità produttiva e aumento di costi sociali. Lo studio è stato illustrato da Lyn March, professoressa di Reumatologia al Royal North Shore Hospital, St. Leonards, Australia. Il 12° posto era stato assegnato nel 1990 dalla prima indagine condotta dalla Banca Mondiale e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità denominata GBD, Global Burden of Diseases, traducibile in Il “peso” complessivo delle malattie. Si basava su una unità di misura, messa a punto per l'indagine, dei danni individuali e sociali causati dalle malattie indicata con la sigla DALY (Disability Adjusted Life Years). In essa confluiscono il calcolo degli anni di disabilità al lavoro con quello degli anni di vita persi rispetto alla speranza di vita della popolazione giapponese, la più longeva del pianeta. In pratica un DALY è un anno di vita sana perso. Il gruppo di ricerca australiano ha estratto i dati del GBD riferiti al 2010 che hanno visto la luce quest'anno. Su 291 malattie che causano disabilità e morte prematura o solo disabilità il primo posto spetta alle cardiovascolari, responsabili dell'11,8% di tutti gli anni di vita sana persi nel mondo nel 2010. Staccati di pochissimo, con l'11,2%, seguono gli incidenti. Al terzo posto, a un ben più lontano 7,6% del “peso” su benessere e produttività i tumori di tutti i tipi mentre subito dopo col 7,4% le patologie psichiatriche insieme ai più lievi disturbi comportamentali. Al quinto, come detto sopra, col 6,8% le muscolo- scheletriche che si trovavano al 12° posto nel 1990 col 4,7%. Solo nel caso delle cardiovascolari diffusione e gravità delle malattie, reale e percepita, corrisponde alla gravità del danno individuale e sociale calcolato dal DAILY. Sorprende invece che gli incidenti, molto meno frequenti dei tumori, si portino via anni di vita sana quasi quanto il cancro. E che le quasi rare malattie mentali facciano poco meno danni dei temutissimi big killer. Ma se si pensa a quanti anni di vita autonoma si portano via gli esiti dei traumi o i disturbi psichiatrici si spiega la sorpresa ____________________________________________________________ Le Scienze 28 Ott. ’13 UN PICCOLO GRANDE PASSO VERSO LA TERAPIA STAMINALE DELLA SCLEROSI MULTIPLA Cellule della pelle trasformate prima in staminali pluripotenti e poi in precursori dei neuroni hanno dimostrato, nel modello animale, di ridurre i danni alla mielina provocati da processi infiammatori come quelli che si verificano nella sclerosi multipla. La scoperta è di un gruppo di ricercatori milanesi coordinati da Gianvito Martino ed Elena Cattaneo di Gianbruno Guerrerio Cellule della pelle trasformate prima in cellule staminali pluripotenti e quindi portate allo stadio di precursori dei neuroni possono ridurre i danni alla mielina che li protegge, come quelli che si hanno nella sclerosi multipla, favorendone la ricostituzione e l'alleviamento dei sintomi della malattia. La scoperta – fatta sul modello animale da un gruppo di ricercatori dell'Istituto scientifico San Raffaele di Milano in collaborazione con colleghi dell'Università Statale di Milano e pubblicata su rivista “Nature Communications” - fornisce “un tassello in più verso una terapia sempre più mirata sul paziente e che preveda l'uso di cellule staminali”, dice Gianvito Martino, che ha coordinato lo studio insieme a Elena Cattaneo. Il trasferimento di questa metodica nell'uomo impone tutte le cautele del caso, sottolinea Martino, ma “è importante comprendere che è con i piccoli passi si arriva poi a sviluppare terapie efficaci, e non attraverso le scorciatoie di cui sentiamo parlare”. Ma il passo appena compiuto non è poi così piccolo, dato che “apre la strada alla possibilità di ottenere dal paziente stesso le cellule staminali del cervello utili per il trapianto. Finora queste cellule erano soprattutto di origine fetale e, se trapiantate, richiedono una immunosoppressione. Un problema tutt'altro che banale, che a questo punto sarebbe bypassato.” Nello specifico, la ricerca ha dimostrato che una molecola secreta da cellule progenitrici dei neuroni trapiantate è in grado di promuovere la ricostituzione della guaina mielinica nei neuroni in cui è stata danneggiata in seguito a malattie infiammatorie demielinizzanti. In queste patologie si osserva infatti un processo infiammatorio diretto contro la guaina mielinica che avvolge i neuroni, ossia la sostanza isolante che permette la trasmissione degli impulsi nervosi senza che si disperdano. Recenti ricerche nel modello animale avevano mostrato che le cellule mieliniche (quelle che producono la guaina mielinica) possono essere generate a partire da staminali pluripotenti e che il loro trapianto in topi geneticamente predisposti per avere neuroni mielinici deficitari poteva porre rimedio al difetto non solo sostituendo le cellule, ma anche producendo fattori neuroprotettivi in grado di arginare la degradazione della mielina. Tuttavia non erano note le potenzialità terapeutiche di queste cellule in caso di trapianto in un ambiente in cui sono in atto processi infiammatori a danno della mielina, come avviene nella sclerosi multipla, processi che avrebbero potuto danneggiare anche le nuove cellule. Inoltre, i precursori dei neuroni da trapiantare venivano ottenuti da staminali fetali, e quindi immunologicamente diversi dalle cellule del paziente, una circostanza che impone il ricorso a terapie immunosopressive per evitare gravi reazioni di rigetto. )Nella nuova ricerca, condotta su topi affetti dall'equivalente murino della sclerosi multipla, l'encefalite sperimentale autoimmune, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che le cellule progenitrici dei neuroni ottenute con la tecnica descritta nell'articolo sono attratte verso i siti cerebrali in cui è attiva l'infiammazione e che, qui giunti, iniziano a produrre una particolare sostanza, il fattore inibente la leucemia (LIF). Quest'ultima non solo ha un effetto direttamente neuroprotettivo nei confronti dei neuroni mielinici, ma ha anche mostrato un interessante effetto secondario di inibizione dei processi infiammatori. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 29 Ott. ’13 UNICA: SCOPERTA LA DINAMICA DELL’ALCOLISMO Il risultato raggiunto dal gruppo di ricercatori del professor Acquas CAGLIARI Sono stati individuati per la prima volta i meccanismi biologici che controllano la dipendenza dall’alcol: il risultato si deve a una ricerca italiana del gruppo dell’università di Cagliari guidato da Elio Acquas ed è stato pubblicato sulla rivista Addiction Biology. Secondo gli autori la scoperta può aprire la strada allo studio di nuove terapie per combattere la dipendenza dall’alcol. Lo studio, condotto sui topi, ha svelato il meccanismo a due passaggi secondo cui l’alcol etanolo stimola le cellule nervose in una regione del cervello chiamata area ventrale del tegmento (Vta). Queste cellule producono un neurotrasmettitore, ossia una sostanza che permette alle cellule di comunicare tra loro, chiamato dopamina e sono implicate nel controllo di funzioni come la motivazione e l’affettività, le cui alterazioni sono alla base di disturbi psichiatrici, quali depressione, schizofrenia, e tossicodipendenza (quindi anche alcolismo). È stato scoperto che quando l’alcol raggiunge queste cellule viene dapprima trasformato in un’altra molecola, l’acetaldeide, che poi reagisce con la dopamina rilasciata dalle stesse cellule nervose, e genera il salsolinolo che eccita le cellule di questa area del cervello ponendo le basi per il potenziale sviluppo di dipendenza. Lo studio, supportato in parte dalla Regione Autonoma della Sardegna, dimostra anche che quando si impedisce la formazione del salsolinolo, l’etanolo non può eccitare le cellule nervose del piacere e quindi non può esercitare il suo potenziale d’abuso. Il lavoro, secondo Acquas, potrebbe avere ricadute immediate perché intervenendo su uno dei due passaggi che precedono la formazione del salsolinolo, si può impedire che l’etanolo eserciti i suoi effetti alla base dell’insorgenza dell’alcolismo. «Si potrebbe – osserva lo scienziato - inibire l’enzima coinvolto nella conversione dell’etanolo in acetaldeide oppure eliminare l’acetaldeide somministrando sostanze più reattive della dopamina e inducendo la molecola a generare sostanze biologicamente inattive».