RASSEGNA STAMPA 12/05/2013 ISRAEL: LE RIVISTE SCIENTIFICHE SCHIAVE DEL FEUDALESIMO FINANZIAMENTI AGLI ATENEI VERSO IL MINIMO STORICO ALLEVA: DOTTORANDI MIEI, SCIENZIATI IMMAGINARI MAURO: L'UNIVERSITÀ DEGLI HAMBURGER UNISS: OK DELL’EUROPA, VETERINARIA È SALVA PISA CAPUT MUNDI I PROFESSORI UNIVERSITARI IN CATTEDRA FINO A 72 ANNI SAN RAFFAELE ALL'UNIVERSITÀ ISCRIZIONI RIAPERTE GLI ATENEI A OSTACOLI ALLONTANANO GLI STRANIERI BOCCONI VINCE NEL RANKING MONDIALE RANKING: LA CATTOLICA SCALA LA CLASSIFICA SE LA COREA BARA PER STUDIARE NEGLI USA L'OCCIDENTE «IN CRISI»? HA IL MONOPOLIO DEL SAPERE PERCHÉ MERITO ED EQUITÀ QUI GENERANO SOLO POLEMICA SPAGNA «STOP ALLA RIFORMA FRANCHISTA» COME NASCONO LE IDEE: ILLUMINAZIONI, PROVE, ERRORI MAL DI SCUOLA DIGITALE SUPER PROF DIFENDONO L'INVALSI UNIVERSITÀ, TEST PIÙ SNELLI AL DEBUTTO UNA SFIDA CHE STIMOLA LE MOTIVAZIONI DEGLI STUDENTI MATURITÀ, BASTA CON IL LASSISMO LE SOCIETÀ CERCANO SPECIALISTI IN IT. MA SONO POCHI ONU: GLI OTTO OBIETTIVI (QUASI) RAGGIUNTI CAMBIAMENTI CLIMATICI, LIBERISMO E TEORIE DEL COMPLOTTO LA REALTÀ NON SI ESAURISCE IN UN TWEET ========================================================= ASL8&AOUCA: OSPEDALE PEDIATRICO SOS PER IL TRASFERIMENTO AOUCA: CLINICA MACCIOTTA SALVATE LE LIBRERIE GAVINO FAA: BOICOTTANO IL REGISTRO TUMORI» AOUCA: SOLO DATI PARZIALI SUL CANCRO IN SARDEGNA UNIVERSITÀ E SSN: APPELLO AL GOVERNO VARGIU: SANITÀ, ORA SCELTE RADICALI DE FRANCISCI:UN PATTO PER LA SALUTE IL SSN IN 10 ANNI DI DEVOLUTION: SUD DISASTROSO SANITA’: L'OSSERVATORIO NAZIONALE BOCCIA LA SARDEGNA I DOTTORI SIANO PIÙ UMANISTI L’IMPASSE DEI CAMICI DAVANTI AI «NUOVI» PAZIENTI UN INFERMIERE SU DUE SUBISCE UN'AGGRESSIONE. PIÙ DONNE NELLA SANITÀ MA CON POCO POTERE AGENAS: FLOP DEI SUPER-TICKET INCASSI DIMEZZATI QUANDO LA CRISI MORDE ANCHE LA SALUTE È UN LUSSO CON LA SANITÀ HI-TECH 15 MILIARDI DI RISPARMI GLI SMARTPHONE ANZICHÉ I MEDICI LA BIBBIA DEGLI PSICHIATRI CI DICHIARA TUTTI MATTI OXFORD: VEGETARIANI PIÙ SANI IN SCOZIA UN MAIALE IMMUNE ALLA PESTE CONGELATE QUEL TUMORE AL SENO AMIANTO SE È L'AMBIENTE A FAR AMMALARE ADDIO CAPELLI GRIGI, ARRIVA LA CURA DEFINITIVA C’È UN NUOVO SUPERBATTERIO SESSUALMENTE TRASMISSIBILE IL CERVELLETTO DI LOMBROSO LA TESI DELL'EVOLUZIONE OBSOLETA QUANTO SI DEVE CAMMINARE PER RIUSCIRE A SMALTIRE SE SI VUOLE PROTEGGERE I DENTI MEGLIO FARE UNA CENA LEGGERA L'ELISIR DI GIOVINEZZA CIRCOLA NELLE VENE ANESTESISTI: ALCUNE SCELTE NON POSSONO ESSERE CONSIDERATE EUTANASIA I BENEFICI DEL SOLE SUPERANO LE CONTROINDICAZIONI LA RIVINCITA DEI PIGRI: TROPPO SPORT PUÒ FAR MALE ========================================================= _____________________________________________________________ Il Giornale 8 Mag. ’13 ISRAEL: LE RIVISTE SCIENTIFICHE SCHIAVE DEL FEUDALESIMO Sul Giornale di ieri abbiamo dedicato una pagina al dietro le quinte delle classifiche «ufficiali» delle riviste scientifiche italiane. Spiegando come tali elenchi siano manipolabili. Sul tema interviene oggi il professor Giorgio Israel, docente di Storia della matematica. di Giorgio Israel I carattere circolare del pensiero umano è dimostrato dalla comparsa di idee in cui genialità e idiozia si confondono. Tale è quella di valutare la produzione scientifica senza leggerla. L'idea chiave di tale trovata straordinaria è di contare le citazioni degli articoli. Il buon senso dice che si cita anche per ragioni estranee al valore del testo citato: per servilismo, per appartenenza di gruppo, o per screditare. La sociologia delle citazioni è nata proprio per dimostrare il carattere soggettivo di tale pratica. In spregio dell'evidenza, essa è stata rovesciata per farne un metodo «scientifico»: la «bibliometria», basata su parametri (h-index, impact factor) che indicherebbero la qualità delle pubblicazioni scientifiche e delle riviste che le ospitano. Ci vorrebbe molto spazio per descrivere questa pseudoscienza, spesso praticata da chi non ha più nulla da dire nel proprio campo; e per descrivere le dure critiche che hanno mostrato come tale sistema automatico non solo sia pieno di falle, ma incentivi le truffe, la creazione di cordate accademiche e il conservatorismo intellettuale. Difatti, chi sarà tanto sciocco da pubblicare in una rivista con una bassa quotazione? Osi lancerà in ricerche innovative ignorate dalle correnti dominanti? Sta di fatto che in nessun Paese al mondo la «bibliometria» è un sistema di Stato per valutare la ricerca e promuovere gli avanzamenti di carriera: è usato localmente (in vari modi) da certe istituzioni, da altre no. L'Italia, arrivata per ultima, ha messo in campo la tendenza inveterata a introdurre statalismo e dirigismo burocratico ovunque sia possibile, costruendo una valutazione di Stato in mano a un'agenzia di Stato, l'Anvur. Il carattere universale del sistema ha posto però il problema che la bibliometria viene fatta da ditte private statunitensi per il solo settore delle scienze matematiche e naturali. I settori umanistici si sono ribellati a un sistema che avrebbe considerato inesistente la loro produzione. Così, è stato inventato per loro un sistema ad hoc, classificando le riviste in tre categorie, A, B, C. Tale classifica l'hanno fatta apposite commissioni, con risultati sorprendenti, talora evidentemente assurdi e fonte di ricorsi legali. I paladini di questo sistema accusano chi protesta di non accettare la «meritocrazia» e proclamano che l'intento è di superare, con giudizi «oggettivi», gli arbitri con cui nelle commissioni si facevano accordi indecenti. Già, ma in cambio si è offerta alle cordate accademiche un'opportunità ben più allettante. Difatti, chi riesce a piazzare le riviste proprie o di suoi amici in serie A o si impossessa delle riviste «migliori» controlla il processo di reclutamento dei giovani in modo totale e senza neanche la fatica di telefonare per costruire accordi e contrattare scambi. D'ora in poi, chi vuole andare avanti in un certo settore sa che, se non pubblica sulle riviste di chi comanda, è fuori gioco. È il passaggio dal feudalesimo alla monarchia e, in certi casi, all'impero. Cosa fare? Tornare al buon senso e rinunciare all'obbiettivo di mettere le braghe al mondo. Le pubblicazioni si valutano soltanto leggendole. Se sono troppe, basta chiedere ai candidati di indicarne una decina che ritengono rappresentative della qualità della loro ricerca. _____________________________________________________________ Italia Oggi 10 Mag. ’13 FINANZIAMENTI AGLI ATENEI VERSO IL MINIMO STORICO La dotazione annuale sarà di 6,5 mld, 400 mln in meno DI BENEDETTA PACELLI Finanziamenti universitari verso il mio storico. Circa 400 milioni in meno per il Fondo del finanziamento ordinario (Ffo) che, per il 2013, salirà appena sopra la soglia dei 6 miliardi e mezzo, il 4,9% in meno rispetto all'anno precedente. Dunque, quel taglio annunciato dalla legge di stabilità del 2012, che in molti speravano sarebbe stato eliminato, è diventato realtà concreta in uno degli ultimi atti emanati dal ministro dell'università Francesco Profumo: il decreto ministeriale sull'Ffo ora al vaglio della Corte dei conti. E per i rettori (Crui) e l'intera comunità accademica (Cun), se non avverrà il reintegro già avvenuto lo scorso anno pari a 400 milioni di euro, per le università sarà un vero collasso. Sono i numeri a dirlo: l'Ffo 2013 a legislazione vigente è di 6,5 mld di euro, cui si aggiungono circa 130 milioni di altre entrate vincolate. Considerando che le spese obbligatorie, tra personale a tempo indeterminato e determinato, obbligazioni varie a carico del sistema, non sono mai inferiori a 6,4 miliardi di euro, per le università resterà disponibile solamente una percentuale bassissima pari all'1,5% peri servizi e le nuove assunzioni di giovani ricercatori. Un mix combinato che rischia di paralizzare completamente gli atenei. Tra l'altro con l'approvazione del dm 297/2012 sul reclutamento, che lega la possibilità di assumere nuovi docenti e ricercatori alla somma dell'Ffo e della contribuzione studentesca, la situazione è destinata ad aggravarsi sempre di più: a fronte di un Ffo costantemente in riduzione, a partire dai tagli operati dalla legge 133/2008 (1,5 mld in 5 anni), l'unico dato variabile risulta essere il gettito che deriva dalle tasse universitarie. Di fronte a questo scenario complessivo l'unica boccata di ossigeno per gli atenei poteva essere l'Ffo. Ma così non è stato. La bozza di decreto che, tra l'altro, cancella del tutto i fondi fino a ora presenti per i consorzi di ricerca interuniversitari mette poi da parte una quota premiale di 818 milioni da ripartire tra gli atenei in base alle qualità dell'attività di didattica e di ricerca. Sarà, però, un decreto successivo a decidere come e quando saranno stabilite tali modalità. All'indomani della diffusione della bozza non si sono fatte attendere le polemiche. Secondo il Consiglio universitario nazionale tale riduzione al finanziamento complessivo «genera una situazione di crisi irreversibile, condizionando negativamente la capacità degli atenei di attivare processi di riorganizzazione e di gestione delle proprie risorse, anche umane, a fronte di spese fisse non riducibili nel breve termine, fino a metterne a rischio le prospettive di funzionamento e sviluppo». Sulla stessa scia la conferenza dei rettori che sostiene la necessità di ripristinare la quota di finanziamento garantita al sistema. Se questo non accadesse per la Crui le aspettative dei giovani, in un momento nel quale si riaprono i percorsi di carriera sarebbero inesorabilmente compromesse, con ricadute inevitabili e gravissime. _____________________________________________________________ Espresso 16 Mag. ’13 ALLEVA: DOTTORATI MIEI, SCIENZIATI IMMAGINARI Mio nipote è dottorando in diritto del lavoro all'Università la Sapienza di Roma. Devo preoccuparmi? Devo essere felice, orgoglioso, vedere per lui un radioso futuro accademico (o d'altro tipo) o devo considerarlo un giovane "parcheggiato" per tre anni postlaurea per un futuro dì (in)certa occupazione? Chissà quante famiglie italiane si pongono questa domanda, soprattutto quelle, affatto poche, per cui il giovane dottorando o aspirante tale è il primo laureato nella storia della stirpe. Dopo infiniti "dottorati sperimentali" oggi anche in Italia il Doctor in Philosophy, PhD, si è assestato almeno nei numeri, comunque in declino e riaccorpamento, come un po' tutte le posizioni del settore universitario. Nel confronto internazionale due sono le differenze principali: l'autonomia scientifica del dottorando con l'eventuale onere didattico cui viene fieramente sottoposto dal sistema a "scarica barile" fino a soffocarne, mortificando con l'eccessivo carico di lezioni, tutoraggi, esami, l'attività di ricerca vera e propria. E l'esplosione recente dei "dottorati senza borsa": gratis lavoranti, che magari suppliscono con qualche breve borsetta o Co.co. pro per sbarcare il lunario con le difficoltà esistenziali (poco abbienti) o psicologiche (figlie e figli di papà) che immaginerete, durando tre anni in Italia il dottorato. DIVERSO E TUTTO da monitorare da ministro e rettori è invece l'utilizzo del dottorato senza borsa per insegnanti di ruolo (di licei ma non solo, è titolo preferenziale per i futuri presidi) e in generale per il personale tutto della Pubblica amministrazione; inclusa per esempio una dottoranda guardia forestale che brillantemente studia faune ittiche all'Università di Tor Vergata di Roma. COME QUESTO CASO, nell'ultimo decennio sono parecchi gli esempi di dottorati elargiti a elementi vivaci e non necessariamente giovanissimi della Pubblica amministrazione: sono casi che andrebbero immediatamente studiati, analizzati e soprattutto propagandati come esempi di un utilizzo non autoreferenziale di risorse per la formazione. Senza scordare alcuni abusi, come quello segnalato astiosamente dall'intelligente direttore di una nota scuola napoleonica pisana, che raccontava di un dipendente che iniziava e non terminava una sequela di dottorati, al fine essenziale di avere diritto a stare a casa pur percependo uno stipendio pieno (ma credo proprio che si sia trattato di casi rari). Al solito, sono state soprattutto le discipline umanistiche, principalmente nelle università delle grandi e medio grandi città, a usufruirne. Invito a rileggere in Rete i trascurati documenti della Commissione lincea per la ricerca, coordinata dal noto fisico Giorgio Parisi. Questi dottorati andrebbero promossi e coltivati per innalzare gratuitamente il livello tecnico-culturale dei pubblici impiegati, in urgente strategia di lifelong learning che illustri pedagogisti come Aldo Visal bergh i (anche traduttore dell'" Emilio" di Rousseau per Laterza nel 1953) hanno invocato per decenni, inascoltati. Sempre che i provincialissimi docenti-tutor dei malcapitati dottori portaborse non li costringano a studiare per un intero triennio la carie del molare superiore del neonato della formica blu (titolo di fantasia): invece di dare un'apertura culturale e tecnica polifunzionale, duratura nel tempo e oggi soprattutto consistente nel continuare a saper apprendere ben oltre il (breve) periodo della laurea. NELL'ACCADEMIA ROMANA il dottorato di ricerca che non produce pubblicazioni ma disperde eccessive energie nella didattica e nel chiacchiericcio locale è detto "portierato di ricerca". A evitare questo pernicioso fenomeno a Firenze ì biologi impongono rigorosi controlli bibliometrici annuali. Questa settimana rileggiamo "Una dote per il merito: idee per la ricerca e la università italiane" (a cura di G. Tognon, edizioni Arel ). Con prefazione di Enrico Letta, un gran bel progetto tutto in divenire. Socio corrispondente dell'Accademia Nazionale dei Lincei. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 Mag. ’13 UNISS: OK DELL’EUROPA, VETERINARIA È SALVA Il dipartimento, che rischiava la cancellazione per mancanza di requisiti, ha superato l’ispezione della commissione Eaeve di Gabriella Grimaldi wSASSARI Quattro giorni di passione per i docenti, i ricercatori e gli studenti di Veterinaria. Alla fine, quando Gert Niebauer, il coordinatore della commissione europea Eaeve per l’accreditamento dei dipartimenti, ha comunicato il suo verdetto e cioè che la facoltà risponde ai requisiti previsti dalla severa normativa d’Oltralpe, la platea di ragazzi che avevano atteso con ansia il momento della verità è esplosa in un coro da stadio. E c’era il tanto, visto che il dipartimento ha rischiato davvero di scomparire dal panorama universitario dopo l’ultima bocciatura arrivata come una mazzata nel 1998. Da allora ad oggi una realtà che da sempre rappresentava un fiore all’occhiello tra le facoltà di tutta Italia ha attraversato tante vicissitudini ma alla fine, «con lo sforzo di tutti – ha detto il direttore del dipartimento Salvatore Naitana –, dagli studenti al corpo docente al personale amministrativo, siamo arrivati a un risultato eccezionale che ci deve spronare per il futuro». Alla presentazione pubblica dell’evento ieri pomeriggio anche il rettore Attilio Mastino ha manifestato entusiasmo: «È una splendida notizia che vogliamo condividere con tutti, riconoscendo l'appassionato impegno del direttore, dei tanti colleghi, del personale tecnico e amministrativo, dei nostri studenti- ha dichiarato –. Ho partecipato con emozione vera forse al momento più significativo del mio mandato e mi ha colpito l'entusiasmo degli studenti, degli specializzandi, dei nostri giovani ricercatori che hanno manifestato la loro gioia dopo essersi spesi fino in fondo con passione e generosità. Un grande passo è stato fatto – ha aggiunto –. Adesso il dipartimento di Veterinaria può diventare un centro di eccellenza europea. Collaboreremo attivamente con l’Istituto Zooprofilattico e infatti ieri ho incontrato il direttore per una serie di accordi tra i quali la vendita da parte dell’ateneo dell’area che l’istituto ha in comodato d’uso per 30 anni». La svolta per l’accreditamento della ex facoltà è stata di sicuro l’inaugurazione dell’ospedale veterinario, struttura fondamentale per il riconoscimento dei requisiti, che si è svolta a novembre dell’anno scorso. La commissione internazionale di esperti ha rilevato alcune aree di eccellenza, in particolare il reparto Infettivi dell'ospedale. Ci sono certamente aspetti che potranno essere migliorati (come il numero di casi clinici da sottoporre agli studenti per l'addestramento pratico), ma nel complesso la didattica, la ricerca e le strutture – a quanto risulta dalle parole di Niebauer – sono perfettamente in linea con l'Europa. Le caratteristiche dell'ospedale (coordinato da Eraldo Sanna Passino) e del dipartimento hanno permesso inoltre alla commissione di sottolineare che «l'attuale numero di 30 studenti ammessi ogni anno al corso di laurea in Veterinaria, deciso sulla base di disposizioni nazionali, può gradualmente aumentare fino a raggiungere 40-50 unità». Parole di apprezzamento sono state espresse dall’assessore regionale all’Istruzione Sergio Milia e dal sindaco Gianfranco Ganau mentre il rettore ha sottolineato l’impegno e la celerità nell’utilizzare i fondi a disposizione: per adeguare le strutture del dipartimento e affrontare con una certa sicurezza la prova Eaeve sono stati stanziati 8 milioni e mezzo di cui 6 e mezzo messi a disposizione dalla Regione e due dall’ateneo. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Mag. ’13 SAN RAFFAELE NO AI LICENZIAMENTI ALL'UNIVERSITÀ ISCRIZIONI RIAPERTE MILANO — I due accordi. Le firme. La tregua dopo la guerriglia. Il San Raffaele (ri)volta pagina. Nell'ospedale che fu di don Luigi Verzé vengono azzerati i 244 licenziamenti avviati per ripianare i conti. L'ultimo round della trattativa tra i sindacati e la nuova proprietà (che fa capo all'imprenditore Giuseppe Rotelli) è finito all'alba. I lavoratori si ridurranno lo stipendio in cambio della salvaguardia dei posti di lavoro. Di ieri è anche la notizia che saranno riaperte le immatricolazioni all'Università Vita Salute, bloccate a fine aprile per problemi digovernance dell'ateneo. Il ministro Maria Chiara Carrozza è riuscito a mettere fine, almeno per il momento, alla lotta di potere tra le fedelissime di don Verzé (le Sigille, Raffaella Voltolini e Gianna Zoppei) e gli uomini di fiducia di Rotelli (tenuti fuori a forza dal cda). Come presidente ai vertici dell'Università Vita Salute arriva il banchiere e politico (ex Dc) Roberto Mazzotta, 73 anni, nome consideratosuperpartes, anche se indicato dalle Sigille (Mazzotta è sempre stato tra i simpatizzanti dell'Associazione Monte Tabor, il gradino più alto del sistema di potere costruito da don Verzé). Un salvataggio travagliato. L'acquisto all'asta per 405 milioni di euro nell'inverno 2011 ha permesso al San Raffaele, tra i più conosciuti ospedali anche a livello internazionale, di non fallire, dopo essere finito sull'orlo di un crac da 1,5 miliardi di debiti. Ma il passaggio è stato traumatico: da don Luigi Verzé che affidava i debiti alla Provvidenza, all'imprenditore Giuseppe Rotelli che ai lavoratori ha subito detto: «Ciascuno deve fare meglio il suo lavoro spendendo meno». Di qui il braccio di ferro sul piano di risparmi da varare, gli scontri, l'ingresso del San Raffaele trasformato in una tendopoli, con i sindacalisti che per protesta dormivano nei sacchi a pelo. Ora l'intesa, raggiunta con la mediazione dell'Agenzia regionale per il Lavoro, dopo 16 ore di trattative non stop. Saranno tagliate le buste paga complessivamente per 9,2 milioni l'anno come previsto inizialmente, ma i sacrifici dei lavoratori saranno proporzionali alle voci extra dello stipendio. L'ipotesi di accordo raggiunta verrà sottoposta all'assemblea dei lavoratori. La svolta sull'Università Vita Salute passa invece da un cambio di governance dell'ateneo, che non viene però sfilato dal controllo delle Sigille. Ma non sarà più una guida in solitaria. La nuova composizione del cda vede 5 uomini nominati dall'Associazione Monte Tabor (contro la totalità di oggi), 3 indicati dalla proprietà dell'ospedale più il rettore scelto dai docenti. Simona Ravizza sravizza@corriere.it _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 9 Mag. ’13 BOCCONI VINCE NEL RANKING MONDIALE Formazione. Quinta in Europa, l'istituzione milanese è dodicesima per la qualità dei suoi laureati L'ateneo conquista il diciassettesimo posto tra le facoltà di economia MILANO Le università anglosassoni restano il top per l'economia e la finanza, ma la milanese Bocconi si conferma tra i primi atenei del mondo. In base alle classifiche sulle singole discipline diffuse ieri da Qs, autorità del ranking universitario, Harvard è la numero uno planetaria per l'economia e l'econometria, davanti al Mit e alla London School of Economics. La Bocconi è la diciassettesima come lo scorso anno e assieme a Singapore (quattordicesima) interrompe il monopolio statunitense e britannico in materia. Per la finanza e l'accounting l'università di Via Sarfatti é ventunesima, contro la diciannovesima posizione dello scorso anno. In Europa la Bocconi é quinta per economia, dietro alle britanniche Lse, Cambridge, Oxford e Ucl e quarta per la finanza dietro a Lse (seconda assoluta dietro alla solita Harvard), Oxford e Cambridge. In entrambe le categorie la Bocconi è dunque la prima università dell'Europa continentale e tra i suoi punti di forza c'é la reputazione presso le aziende. Per l'economia in classifica ci sono anche Bologna (tra il 51 e il 100esimo posto), la Sapienza (101-150) e Cà Foscari, la Cattolica, le Università di Milano, Padova, Siena, Roma-Tor Vergata e Trento (tutte tra 151-200). Per la finanza nella graduatoria c'é anche l'ateneo di Bologna, tra il 51esimo e il 100esimo posto. «Il ranking QS conferma la posizione di rilievo raggiunta dalla Bocconi e dimostra che la forte crescita registrata lo scorso anno non è stata un fatto episodico, ma il risultato di uno sforzo collettivo costante e determinato nella direzione di una continua crescita degli standard di qualità nella ricerca e nella didattica», spiega Stefano Caselli, prorettore per l'Internazionalizzazione della Bocconi, molto soddisfatto della posizione ottenuta dall'ateneo anche tenuto conto del fatto che sono state esaminate complessivamente 678 università. Caselli tiene a sottolineare un altro degli aspetti salienti del ranking, ovvero la posizione relativa all'indicatore "employer reputation" che vede la Bocconi al dodicesimo posto mondiale, con un punteggio di 90,8 su 100. La palma in questo caso va a Cambridge, ma l'università milanese supera Yale, Princeton e Berkeley. «È un chiaro riconoscimento delle qualità degli studenti, dei programmi e dell'intera struttura della Bocconi», evidenzia Caselli. L'elaborazione delle classifiche di Qs si basa su quattro criteri: la reputazione accademica basata sull'opinione di accademici in tutto il mondo, la reputazione degli atenei tra le aziende (basata sull'opinione di recruiter in tutto il mondo), le citazioni per paper e, novità di quest'anno, l'utilizzo dell'H-Index sulla prolificità e l'impatto delle pubblicazioni accademiche. S. U. _____________________________________________________________ Internazionale16 Mag. ’13 TULLIO DE MAURO: L'UNIVERSITÀ DEGLI HAMBURGER Dalle università del mondo arrivano segnali di sconforto. I tagli dei finanziamenti sono generali, dal Giappone agli Stati Uniti. In Francia le maggiori università protestano contro i ranking internazionali, ma qualcuno insinua che la protesta nasconda l'amara scoperta della perdita del primato che aveva la Francia. Negli Stati Uniti continuano le acri denunce di William Pannapacker, quarantenne professore universitario di letteratura, che vorrebbe distogliere i giovani dagli studi di humanities. Nel Regno Unito i professori di ogni materia lamentano le scarse retribuzioni e gli studenti la mancanza di posti di lavoro sicuri per laureati. Con piglio ironico l'Economist suggerisce agli studenti: andatevene a studiare "burgerologia" alla McDonald's university. Ma oltre le ironie, la cosa è seria. Le università di McDonald's sono nate negli anni sessanta, la prima in Illinois, altre a Tokyo, Sydney, Monaco e dal 1989 a Londra. L'accesso non è facile, è più facile, dicono, entrare a Harvard. Gli aspiranti arrivano da tutto il mondo a migliaia, all'inizio poco preparati e con poca autostima. A Londra ne selezionano uno ogni quindici. L'impegno dei corsi, di tre livelli, è severo, competitivo. Si studiano inglese, matematica, igiene e attività pratiche, dal grill all'amministrazione, attraverso case study in video, in stile Kahn academy, con eventuale traduzione simultanea per i non anglofoni. Chi esce ha un lavoro garantito e potrà diventare un dirigente (quelli di McDonald's pare vengano tutti solo dal basso). _____________________________________________________________ Espresso 16 Mag. ’13 PISA CAPUT MUNDI Università, Normale e Sant'Anna. Buona parte della classe dirigente viene dai centri di eccellenza della città. Che oggi è al governo con Letta e Carrozza DI ROBERTO DI CARO Pisa la rossa, ma quando mai? Solo un'illusione ottica. Sì, qui Massimo D'Alema studia senza laurearsi alla Normale, stanza accanto a quella di Fabio Mussi, e giovanissimo fa pratica come consigliere comunale; Adriano Sofri s'inventa nel '68 il Potere operaio e poi Lotta continua; Giuliano Amato si laurea al collegio giuridico della Normale che poi diventerà il Sant'Anna, la Scuola superiore dove torna l'anno scorso come presidente. Tutto vero, sono decenni che Pisa forma e spedisce a Roma classe dirigente politica e no: Enrico Letta neopresidente del Consiglio e Maria Chiara Carrozza al dicastero istruzione, università e ricerca non sono mosche bianche per questa anomala città di 90 mila abitanti più 53 mila studenti e IO milioni di turisti all'anno. Ma delle due culture, socialcomunista e cattodemocrafica, che dal dopoguerra si sono confrontate e alternate alla guida della città per poi sommarsi o giustapporsi nel Pd, «a prevalere è stata quella che aveva più forza, cioè la democristiana, quella di Letta, appunti)", commenta un po' sconsolato Gianluca Famiglietti, ricercatore in Diritto costituzionale, alle spalle tutta l'avventura della fase costituente del Pd. Sul palco (siamo all'ex stazione Leopolda, bello spazio ma pessima acustica, 400 persone rumorosissime ma disciplinatamente plaudenti) il sindaco Pd Marco Filippeschi si ripresenta candidato per le amministrative alle porte. A dargli man forte c'è Enrico Rossi, anche lui di qua, esordi come sindaco di Pontedera in provincia, poi assessore regionale alla Sanità e ora presidente della Regione Toscana, con una gran voglia di entrare a gamba tesa nel confronto nazionale dell'agonizzante Pd e magari mettere il cappello sulla prossima segreteria, non si sa mai. Chiedi a Filippeschi cosa cambia col governo amico del pisano Letta e ti risponde con una sfilza di contenziosi aperti col potere centrale, dalle caserme che il Demanio non molla fino al Museo delle antiche navi e alla Cittadella galileiana della scienzA per cui mancano i soldi. Del resto in campo, nelle frequenti partite di calcetto della loro squadra Pisavip dal '90 a tre o quattr'anni fa, «io giocavo centrale in difesa, Enrico di punta all'attacco, si ricorda un suo gol da fenomeno stile van Basten che lasciò tutti sbalorditi": ecco, veda di provvedere, ci sbalordisca di nuovo, ora che fa il capitano della nazionale di governo. Chiedi a Rossi se gli cambia la vita adesso che finalmente a Palazzo Chigi c'è uno della sua regione e del suo partito e ti risponde stranito che «una cosa del genere non la direi di nessuno. Ma Letta lo conosco dal '98 quando, io sindaco, lui venne al cimitero di Pontedera a commemorare Giovanni Gronchi: è un diesel e sviscera i problemi con capacità analitica, tutte ottime doti di governo". Quando invece gli domandi se pensa ancora che Remi "non è uno dei nostri", come gli scappò detto in un dibattito, Rossi svicola ovunque, dallo «sconcerto, sofferenza e rabbia dei militanti» al Pd che rischia di diventare «un agglomerato frammentato, un contenitore di personalismi, fazioni, riposiziona menti, come se la vita interna si potesse ridurre alle primarie»: ma su Renzi l'estraneo non si rimangia una virgola. Fatto sta che a Pisa, da dove sono usciti due presidenti della Repubblica (l'altro è Ciampi) e uno stuolo di ministri prima e seconda Repubblica, nessuno parla di Letta come del politico di riferimento. La città li produce, li alleva, h lancia, poi però vadano a cercar fortuna altrove. Anche alle politiche di gennaio Letta s'è presentato nelle Marche e in Campania, non nella Pisa dove suo padre Insegnava Calcolo delle probabilità e sua madre è tuttora segreteria dell'Associazione ex allievi della Scuola superiore Sant'Anna. E dove del giovane Enrico, liceale al classico Galileo Galilei e leader della lista cattolica Alternativa democratica, i suoi ex compagni raccontano fosse "molto preparato, bravo a parlare, in piedi sui banchi alle assemblee coi capelli biondi lunghetti e gli occhiali a montatura grossa, disponibile anche con noi più piccoli, un capo sì, ma il cui terreno era già allora quello della mediazione». Non è mai diventato un De Mita a Nusco, uno che costruisce la sua base di potere in un territorio dove detta legge. Lui non sembra ci abbia mai puntato, certo una città come questa non gliel'avrebbe lasciato fare. Addirittura, benché ci sia un gruppo di lettiani specie in Provincia, dei tre deputati Pd eletti nella circoscrizione non ce n'è neanche uno dei suoi: aveva indicato e sostenuto Ilenia Zambito, ricercatrice di Chimica farmaceutica e assessora alla Casa al Comune, famiglia Pc.i e storia Ds, ma gli altri lettiani non l'hanno presa bene, le sono mancati alle parlamentane 62 voti su 2.700 ed è passato Federico Gelli, storia Margherita, oggi renziano. Non è un ras, Letta, proprio non è nelle sue corde. Però con Pisa tiene legami stretti. Vi ha mantenuto la residenza, ci torna di continuo con la famiglia, ci gioca ancora a calcetto. Le fa pure uno spot da Fazio a "Che tempo che fa", invitando chi si spaventa delle differenze e delle beghe nel Pd ad andare a vedere "Tuttomondo", l'affresco dipinto da Keith Haring nel giugno '89 sul muro della canonica di Sant'Amonio Abate, perché "ben rappresenta tutte le diversità». Oddio, come immagine del Pd basterebbe, in alto a sinistra, l'ornino che s'avvoltola su di sé e si trapassa da solo (se /1011 l'ornino giallo in basso al centro, Haring stesso, lui sapeva che se ne sarebbe andato nel giro di sei mesi, questa è stata la sua ultima opera pubblica). Ma, festoso murale fino a otto anni fa abbandonato e sfregiato in un'area che era di spaccio, "Tuttornondo" è davvero Pisa. Non tanto quella dei turisti, che finalmente si stanno emancipando dal mordi-e- fuggi delle due ore in piazza dei Miracoli a fotografarsi inclinati come la torre con dietro il duomo e il battistero per poi risalire sul pullman. Piuttosto la Pisa degli studenti che sciamano, vita da metropoli in un guscio di città marinara medievale, eventi ovunque ogni sera, mostre, proteste in piazza del centro sociale, l'indotto sparpagliato di piccole tipografie, librerie, lavanderie, i mercatini di dischi usati e la convention del tattoo, i fiumi di birra della notte con l'ovvio codazzo di polemiche fra chi vuole stravivere e chi dormire, la nettezza urbana all'opera perché alla fine, va detto, riescono anche a tenerla abbastanza pulita, la città. L'università e le due scuole d'eccellenza, la Normale e il Sant'Anna, sono il cuore del sistema. Anzi, sono il sistema. Da sole danno lavoro a oltre 4 mila persone: se si sommano i 4 mila dell'Ospedale Sant'Anna e un po' del resto, ciò fa di Pisa una città che, a parte il turismo, vive di pubblico impiego. «Quando nel 2007 sono stata eletta rettore del Sant'Anna ho stretto i rapporti con i miei omologhi dell'ateneo e della Normale e, sì, insieme abbiamo costituito una sorta di cabina di regia: perché Pisa è una città complessa da tenere insieme...». Anni 47, uno più dell'amico Letta al quale «ho chiesto molte volte opinioni e consigli' ,esperta in tecnologie per l'assistenza a persone con problemi motori e cognitivi, a gennaio Maria Chiara Carrozza spiazza tutti, si butta in politica, diventa deputato col Pd, e il 28 aprile il suo nome esce dal cappello del totoministri al dicastero Istruzione e ricerca. La incontri il sabato al S'alza, il bar-bene, prima che vada a fare un po' di shopping, «qualche abito formale da ministro, pur nella sobrietà raccomandata da Enrico», scherza, E ti racconta una Pisa che «vive di trasferimenti di conoscenze. È una scuola: poi la gente cambia, fa altro, se ne va, a volte torna ». La geografia dei poteri la descrive fluida, «le tre università e il Cnr (il più grande campus d'Italia con 2 mila ricercatori, ndr.) portano sempre persone nuove, gli intrecci e le relazioni tra chi può decidere cambiano velocemente». Forse non dappertutto, se subito aggiunge che «stanno per arrivare importanti mutamenti generazionali, sia politici sia amministrativi: Pisa non è una città che può continuare con la classe dirigente esistente». Ce l'ha col sindaco? «Per carità, lui sarà senz'altro rieletto...» Già, in una città di continui ricambi, il Pd sono quattro giri della ruota elettorale che al Comune e alla Camera scambia i suoi due uomini chiave, nella categorizzazione standard dalemiani: l'ex sindaco ora deputato Paolo Fontanelli e l'ex deputato ora sindaco Marco Filippeschi. Storia di partito, quest'ultimo, segretario Fgei a 23 anni, sul sito una lista di cariche, a cominciare dalla presidenza nazionale della Lega per le autonomie, e di tessere, dove manca solo il Club di Topolino. Tra polemiche e contro pezzi della sua stessa maggioranza, ha venduto tutti gli immobili non indispensabili e il debito e sceso dal 64 al 48 per cento. A maggio approvano in Consiglio comunale il bilancio 2012 e sì ritrovano con 10 milioni di avanzo: sottostimate le entrate Imu. L'addizionale lrpef è la più bassa d'Italia, lo 0,2 per cento. Solo sul nuovo ospedale in costruzione la Regione sta investendo 300 dei 600 milioni necessari. Quanto all'aeroporto, «vi transitano 4,8 milioni di passeggeri l'anno e puntiamo a 7 entro il 2020» contro i 2 di Firenze Peretola a un'ora scarsa da qui. Le due nemiche da sempre si sono fatte la guerra a chi avrà la pista più lunga, ora Rossi vuole mettere insieme i due scali in un'unica holding per spartirsi il traffico low cosi e quello con più margini di guadagno: Renzi prima contrario poi convinto, dice il governatore. Nonostante la devastante deindustrializzazione anni Settanta, c'è a Pisa ancora un po' d'industria, in crescita la nautica, visto che la vicina Viareggio non ha più entroterra. In un'Italia in crisi fonda, questa città di turisti e studenti se la passa piuttosto bene. Se il motore sono le università, è perché agli studenti qua non rifilano solo panini e stanze a caro fitto. Al Sant'Anna s'è formata mezza classe dirigente, dall'ondata di Amato, Antonio Maccanico e Sabino Cassese, fino a Letta (dottorato nel 2002 sulla politica estera e di sicurezza comune della Ue) e Carrozza, ma anche Tiziano Terzani e Pierfrancesco Guarguaglini di Finmeccanica ora in disgrazia: come ricorda Riccardo Varaldo, economista industriale, riconosciuto padre fondatore del Sant'Anna tempo costola della Normale, tuttora animatore degli investimenti in 40 aziende spinoff, stretti rapporti con la Cina. Come funziona ora il ruolo di motore degli atenei te lo spiegano i tre rettori. Pierdomenico Perata, da dieci giorni al posto di Carrozza e prima prorettore, ti mostra il Sant'Anna con i suoi 250 studenti «che vivono qua e in altre nostre strutture, gratis vitto e alloggio e stage all'estero, e 250 dottorandi in agraria, ingegneria, biomedicina, economia, politica». Soldi, 25 milioni dal Fondo di finanziamento statale ma solo 12 scarsi usati per spese correnti e stipendi, il resto vivaddio ricerca. Altri 24 milioni vengono da autofinanziamenti, 4 da privati. La linea di Perata, netta, è che «la scienza non dovrebbe essere guidata dalla politica com'è oggi in eccesso, coi governi che finanziano solo temi fashion quali le nuove energie e censurano quelli impopolari come gli ogni». Radicali anche idee e auspici di Fabio Beltram, nanotecnologo, direttore (qua si chiama così) della Normale:» Possiamo ancora permetterci di far galleggiare settori decotti spendendo i pochi soldi che abbiamo in cassa integrazione, in sostegni all'alluminio in Sardegna o presso Pisa a un distretto della carta dove non ci sono alberi né acqua? O non dovremmo forzare una riconversione centrata sulla ricerca, anche pagando costi sociali?» Scelte drastiche che «non mi aspetto da questo governo perché ha gli uomini ma non i margini per compierle. Conto però ottimizzi la gestione delle risorse disponibili». Comunque sia, è questa radicalità dell'approccio a informare di se la Normale, 5 mila allievi in tinto da quando Napoleone la creò nel 1810. In 50 mila stanno invece all'Università di Pisa. Tra le prime cento al mondo. Tra i dieci megatenei italiani. Il primo in Tbscana ora che ha superato Firenze, con la città impazzita di gioia per lo sberleffo inflitto alla nemica. Con guerre laceranti nella potentissima facoltà di Medicina, ',ora superate», giura il rettore Massimo Augello, storico dell'economia, di cui si ricorda la battuta «non avessi Medicina vivrei assai meglio». La spending review, vanta, «l'abbiamo attuata prima che cela imponessero. Così oggi posso varare un piano di assunzioni nei prossimi tre anni di 150 professori associa ti,100 borse di dottorato e assegni di ricerca, 50 nuovi posti da ricercatore. Investire, questo va fatto nei periodi di crisi. Letta e Carrozza lo sanno. Spero trovino i fondi e i modi per farlo». ha collaborato Mario Laucisi _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Mag. ’13 I PROFESSORI UNIVERSITARI IN CATTEDRA FINO A 72 ANNI Negli atenei. Ricambio generazionale più difficile LA MOTIVAZIONE L'esclusione dei docenti dalla proroga biennale concessa ai dipendenti pubblici viola il principio di uguaglianza Giampiero Falasca I docenti universitari possono chiedere di restare in servizio, come gli altri dipendenti pubblici, per un biennio dopo il raggiungimento dei requisiti pensionistici. Così la Corte costituzionale con la sentenza n. 83 del 6 maggio scorso, che dà un brutto colpo alle speranze di rinnovamento nelle Università, anche per il messaggio indiretto che manda al sistema. La vicenda nasce su iniziativa del Consiglio di Stato che, nel corso di un giudizio riguardante un professore universitario, ha promosso un giudizio per verificare la legittimità costituzionale dell'articolo 25 della legge 240 del 30 dicembre 2010. Questa norma – sotto la rubrica "Collocamento a riposo dei professori e dei ricercatori" – esonera i professori e i ricercatori universitari dall'applicazione dell'articolo 16 del decreto legislativo 503 del 30 dicembre 1992, che dà facoltà ai dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di restare al lavoro per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età previsti per il collocamento in pensione. La disposizione, quindi, esclude i professori universitari dalla possibilità di restare in servizio per altri due anni, dopo la data di raggiungimento dei requisiti pensionistici; la finalità di questa esclusione è quella di favorire l'accesso all'insegnamento universitario dei docenti più giovani. Contro questa norma, il Consiglio di Stato ha sollevato il dubbio circa il possibile contrasto con gli articoli 3, 33 e 97 della Costituzione, in quanto la deroga introdotta per i professori rispetto alla disciplina generale sarebbe irragionevole, perché non sorretta da adeguata ragione giustificatrice, e, comunque, sproporzionata rispetto alla finalità perseguita. Sempre secondo il Consiglio di Stato, la norma sarebbe lesiva sia del principio di buon andamento dell'azione amministrativa (articolo 97 della Costituzione), sia del principio dell'autonomia universitaria (articolo 33, sesto comma, Costituzione), nella misura in cui priva le università di ogni potere di valutazione in ordine alla possibilità di accogliere le istanze di trattenimento in servizio presentate dal personale docente, anche qualora tale prolungamento risulti funzionale a specifiche esigenze organizzative, didattiche o di ricerca. La Corte Costituzionale considera fondate le questioni, ritenendo del irragionevole – e quindi contraria all'articolo 3 della Carta – l'esclusione della facoltà di concedere la proroga biennale a professori e ricercatori universitari. A tale proposito, la Corte evidenzia che la norma non è sorretta da ragioni idonee a giustificare, per la sola categoria dei professori e ricercatori universitari, l'esclusione dalla possibilità di avvalersi del trattenimento in servizio previsto per gli altri lavoratori. La Corte esclude che tale ragioni possa consistere nelle esigenze di contenimento finanziario e razionalizzazione della spesa pubblica, in quanto la norma interessa un settore professionale numericamente ristretto, perciò inidoneo a produrre significative ricadute sulla finanza pubblica, e comunque preclude alle amministrazione la possibilità di utilizzare esperienze professionali ancora valide. Infine, la Corte osserva che la norma non può trovare giustificazione neanche sull'interesse al ricambio generazionale del personale docente, in quanto questo deve essere bilanciato con l'esigenza di mantenere in servizio docenti in grado di dare un positivo contributo per la particolare esperienza professionale acquisita. Questo passaggio della sentenza farà molto discutere, in quanto sminuisce l'importanza del tema del ricambio generazionale che invece, non solo nelle università, dovrebbe essere prioritario. _____________________________________________________________ Avvenire 11 Mag. ’13 GLI ATENEI A OSTACOLI ALLONTANANO GLI STRANIERI DA ROMA MESSIA GUERRIERI Le nostre università sono apprezzate e utili alla carriera, ma burocrazia, carenza di alloggi e scarsi sbocchi frenano le iscrizioni. Nel 2012 erano 110mila, uno ogni 26 italiani Vengono qui a studiare in università che reputano ottime per fare carriera, poi però si scontrano con la burocrazia, la carenza degli alloggi nei campus e la difficoltà di inserirsi, da laureati, nel mercato occupazionale italiano. Così, molti tornano nel Paese d'origine con una buona formazione in medicina, economia o ingegneria, ma con in tasca il sogno infranto di lavorare in Italia. Il sesto rapporto dell'European migration network Italia, presentato ieri a Roma, promuove solo in parte il sistema degli atenei italiani e mostra gli scogli che devono superare gli studenti internazionali. Primo fra tutti l'eccessivo "costo della cultura" che li costringe, in un caso su tre, a lavorare per mantenersi. Gli universitari stranieri continuano a crescere lentamente, nel 2012 sono arrivati a toccare quota 110mila di cui circa 10mila nelle strutture pontificie, ma sono solo il 3,8% della popolazione accademica, cioè uno su 26 universitari. Una media che perciò colloca il Belpaese molto sotto i livelli europei, dietro nazioni come la Germania o la Gran Bretagna, che attraggono giovani cervelli almeno tre volte di più. Mancanza di servizi e pochi corsi in lingua inglese, male prime risposte sulle ombre delle nostre università che gli stranieri intervistati danno sono, appunto — spiega Antonio Ricci di Emn Italia— «i pochi alloggi, la burocrazia nelle segreterie la difficoltà nel riconoscimento del titolo di studio conseguito nel proprio Paese, l'incertezza nel rilascio dei permessi di soggiorno per studio». Molto più positivi i giudizi sul metodo d'insegnamento e i docenti, apprezzati nel 70% delle situazioni, anche se, come si diceva, lamentano la scarsità dei corsi in lingua straniera, avviati in appena 60 atenei. L'Italia piace sempre di più ai cittadini extra Ue provenienti da Oriente (Cina in primis), dal Nord Africa, dall'Albania. È proprio Tirana a raggiungere quasi un quinto degli immatricolati stranieri, seguita a poca distanza dagli asiatici, i più insoddisfatti del modello universitario italiano. Con borse di studio centellinate e posti limitati nelle residenze universitarie, un quarto degli stranieri è costretto a lavorare per pagarsi l'appartamento in affitto o rimandare soldi in patria. Il 60%, tuttavia, lo fa "in nero", in pub e ristoranti delle città universitarie più amate dagli stranieri: Roma, Perugia, Firenze, Bologna. Sono ben integrati, 4 su 10 vorrebbero fermarsi in Italia, ma si scontrano con la difficoltà di accedere alle specializzazioni post lauream. E di trovare, in alternativa, un lavoro. «Al percorso universitario soddisfacente dice infatti Maria Carolina Brandi del Cnr, tra gli autori dello studio si affianca la consapevolezza delle poche opportunità nel nostro Paese per giovani altamente qualificati». Il sistema Italia comunque attrae ancora, si dimostra essere un bacino di formazione prestigioso, anche se migliorabile, soprattutto in termini di investimenti. A fronte di una spesa complessiva degli stranieri di 711 milioni di euro, infatti, lo Stato riserva ai non comunitari appena 44 milioni di euro. Occorrono perciò politiche «più coraggiose di sostegno allo studio per gli immigrati», conclude Mario Morcellini, direttore del dipartimento di Comunicazione alla Sapienza, per permettere all'università di essere davvero «luogo d'incontro di sapienti». _____________________________________________________________ Osservatore Romano 11 Mag. ’13 RANKING: LA CATTOLICA SCALA LA CLASSIFICA Ranking mondiale degli atenei MILANO, io. Prima in Italia e tra le prime cento del mondo. La Facoltà di filosofia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore conquista un piazzamento di tutto prestigio nel ranking mondiale delle università. Lo rende noto un comunicato dell'ateneo fondato da padre Gemelli, che cita i risultati della ricerca 2013 elaborati da Q.5 World University Rankings, società leader nella valutazione dell'istruzione superiore, che ha preso in esame 2.858 atenei di tutto il mondo, valutati in base a trenta aree disciplinari. La Cattolica si colloca dunque tra le prime cento università del mondo, e prima in Italia, nell'area disciplinare Philosophy. Inoltre, è l'unico tra gli atenei della Lombardia presente nei primi 15o posti nell'area Psychology. Buone performance anche nelle graduatorie relative a Agricolture Forestry, Economics Econometrics, e Medicine, dove si colloca nella fascia 151-200. _____________________________________________________________ Il Manifesto 10 Mag. ’13 SPAGNA «STOP ALLA RIFORMA FRANCHISTA» Scuole e università scioperano contro la legge che taglia l'istruzione pubblica Giuseppe Grosso MADRID Non piace a nessuno. Né agli studenti, né ai professori, né ai genitori, che hanno partecipato uniti e a migliaia al grande sciopero di ieri (il secondo dell'anno) in difesa dell'istruzione pubblica. Ma almeno ha compattato tutto il mondo della scuola pubblica, ed è una delle poche virtù della riforma dell'istruzione del Pp, conosciuta come "Legge per il miglioramento della qualità educativa" (Lomce), anche se non è per nulla chiaro in che modo la riforma del ministro de educa ciò]] José Ignacio Wert — l'ottava dell'epoca democratica, che potrebbe essere approvata oggi -dovrebbe riqualificare l'istruzione spagnola. La legge è infatti un concentrato di tagli e sbarramenti che incidono pesantemente sia sul piano economico sia su quello ideologico, togliendo risorse e autonomia ad un sistema educativo già malato (il tasso d'abbandono prima del conseguimento del titolo superiore sfiora il 25%) e storicamente terreno di predatorie scorribande politiche. Il governo di Rajoy non fa eccezione e, anzi, spicca in quanto ad accanimento: per l'anno in corso il ministro dell'Istruzione ha dato una sforbiciata al budget del 37% (1,14 miliardi), inchiodando a quota 3,9% la percentuale del Pii destinata al settore educativo. Ma lo stillicidio prosegue dal 2010: in 3 anni dalle casse del ministero sono evaporati 6,7 miliardi. Con queste premesse il «miglioramento della qualità educativa» non può che restare sulla carta. La legge, di fatto, disegna un modello di scuola che sì adatta alla penuria di fondi. E infatti: vie le borse di studio (non più 40% dei beneficiari potrà rinnovarle), via la mensa gratis, fuori i professori di sostegno, aumento delle ore di docenza e del numero di alunni a fronte di un diminuzione dello stipendio degli insegnanti (- 15%), a cui è stata tolta anche la tredicesima. E fin qui tutto rientra nella penosa routine dei sacrifici sull'altare dell'austerità. Più subdoli anche se ugualmente dannosi sono invece i colpi di bisturi per ridisegnare ideologicamente il volto della scuola pubblica, riconcepita con criteri aziendali. La riforma prevede che le tutte le scuole ricevano fondi secondo la posizione occupata in un ranlding (che la legge attuale vieta) stilato da aziende esterne in base a test precostituiti che terranno in considerazione anche il rendimento degli alunni di ogni centro. La conseguenza è ovvia e duplice: da una parte le priorità educative saranno funzionali al posizionamento nel ranldng; dall'altra le scuole più prestigiose non accetteranno gli studenti con maggiori difficoltà per mantenere l'eccellenza e quindi i finanziamenti. La stessa dinamica potrebbe ripetersi con le università, a cui sarà consentito introdurre prove d'accesso che avvantaggerebbero gli alunni provenienti dai migliori istituti. Inutile dire che le scuole e gli atenei privati, più libere nei criteri di selezione degli studenti, si stanno già fregando le mani. 'fohil Delgado, portavoce del Sindicato de Estudiantes, uno dei collettivi che ha convocato lo sciopero di ieri, si infiamma solo a sfiorare l'argomento: «Si vuole tornare al modello franchista, una cultura elitaria per soli ricchi». Pur senza arrivare a tanto, ci sono tutte le premesse per creare dei ghetti educativi per i più svantaggiati e per impiantare una cultura livellata verso il basso e fatta di test a crocette. Per non parlare del purgatorio della formazione professionale, nel quale sprofonderà chi non dovesse passare gli esami reintrodotti dalla legge Wen alla fine di ogni ciclo scolastico. Quelli che li superano possono accedere ai due anni di superiori propedeutici all'università, gli altri, come una volta, vanno ad imparare un mestiere e a preparare le valigia per la Germania. Non manca nemmeno uno sgradevole retrogusto di censura: con la benedizione delle gerarchie cattoliche, sparisce la educación a la ciudadania, materia introdotta dal Psoe per avvicinare gli adolescenti a tematiche sociali come la tolleranza alle diversità. Secondo i sindacati, gli studenti, e i genitori, riuniti nella Plataforma por la escuela pablica, che ha convocato lo sciopero, ce n'era abbastanza per tornare in piazza e tingere di verde (il colore che contraddistingue i "ribelli" dell'istruzione) le strade delle principali città spagnole. Le manifestazioni più partecipate sono state quelle di Barcellona e Madrid Nella capitale il corteo è partito dalla Plaza de Neptuno e si è diretto al vicino ministero dell'Istruzione in un clima festoso. Immancabili e numerosi, ovviamente, gli slogan e i cartelli contro Wert e i tagli. In testa al corteo, retto dai leader dei sindacati partecipanti, uno striscione diceva «no alla controriforma educativa». Più fantasiose le trovate degli studenti. Un gruppo di universitari gridava «mas escuelas, menos Eurovegas», riferendosi al miliardario casinò che sarà costruito alla periferia di Madrid. Mentre sfilava la manifestazione, la protesta negli atenei madriletti durava già dalla notte di mercoledì, quando alcuni studenti si sono barricati in varie aule della Complutense e della Carlos due delle principali università pubbliche. Secondo i rispettivi sindacati, il 72% dei professori e il 90% degli studenti avrebbero partecipato allo sciopero, dando vita ad una protesta storica. Tutti sanno che c'è in gioco molto: «L'impoverimento dell'educazione pubblica è l'impoverimento di tutta la società», ha spiegato una professoressa. _____________________________________________________________ Il Giornale 12 Mag. ’13 SE LA COREA BARA PER STUDIARE NEGLI USA Annullate le prove di 15 00 candidati all'iscrizione nelle università americane: sapevano già le domande Un sogno talmente speciale da giustificare qualunque scorrettezza pur di realizzarlo. Studiare nelle università americane non è un mito astratto, ma un obiettivo reso concretissimo da dati di fatto: nella classifica mondiale dei migliori atenei gli Stati Uniti primeggiano. Lo sanno bene in tutto il mondo, ma in Corea (del Sud, è appena il caso di precisarlo ...)la competizione per arrivarci aveva passato il limite della correttezza. In altre parole, i candidati baravano a tute andare nei test di ammissione, noti sotto la sigla SAT, e il responsabile (americano) della loro gestione a Seul ha preso una decisione che non ha precedenti: li ha annullati in blocco. La situazione, in effetti, non ammetteva compromessi. Nei centri in cui venivano effettuate le prove di preparazione al test, scrive Time riprendendo informazioni del Wall Street Journal, circolavano a disposizione degli studenti le domande. L' organizzazione no-profit che gestisce i test denuncia che società coreane di tutoring avrebbero ottenuto materiali SAT per ottenerne vantaggi commerciali: per rivenderseli, insomma. La televisione satellitare americana Cnn riferisce che la magistratura ha ordinato la perquisizione di alcuni centri dove si svolgono i test SAT, alla ricerca delle prove delle scorrettezze. A una decina di responsabili di questi centri è stato vietato di lasciare ilPaese fintanto che le indagini proseguono. I candidati rimasti coinvolti nella vicenda coreana sono 1500. Ed è facile farsi un'idea del giro d'affari che questo genere di corruzione muoveva se si considera che - sempre secondo il Wall Streellournalun libriccino con le domande ufficiali del test poteva essere acquistato sottobanco all'esorbitante prezzo di oltre 4500 dollari (circa 3500 euro). Una spesa, nota il Time, comunque abbordabile per famiglie che sono pronte a sborsare cifre ingenti per pagare le rette di università prestigiosissime come Harvard, Yale o Princeton. La Corea del Sud non è un Paese qualsiasi per le università americane. Nell'anno scolastico 2011-12 sono stati oltre 72mila gli studenti di quel Paese che andati a studiare negli Stati Uniti, su un totale di 764mila studenti stranieri che affollavano gli atenei Usa. E questo collocala Corea al terzo posto nella classifica mondiale. Tra l'altro, sottolinea Time, questo non è il primo «incidente» del genere in Corea. Già nel 2007 furono 900 i candidati al test SAT che si videro annullare la prova perché fu documentato da un'inchiesta che un numero imprecisato di loro aveva avuto accesso in anticipo ad almeno una parte dell' esame. Anche in altri Paesi, naturalmente, avvengono scorrettezze simili: mediamente ogni anno si tengono nel mondo circa 3 milioni di prove SAT, e diverse migliaia vengono annullate. Quanto ai candidati coreani rimasti esclusi, si presume che i test potranno essere ripetuti in giugno. Ma molti, per evitare che scadano i tempi utili per le iscrizioni agli atenei Usa, si stanno organizzando per rifare i test in Giappone o a Hong Kong. _____________________________________________________________ Il Giornale 12 Mag. ’13 L'OCCIDENTE «IN CRISI»? HA IL MONOPOLIO DEL SAPERE di Carlo Lottieri Gli imbrogli che, in Corea del Sud, hanno costretto ad annullare le prove necessarie per accedere agli studi universitari in America mostrano come il mondo sia assai più complesso di quanto taluni credono. E non solo perché un certo tipo di disinvoltura non è affatto, di tutta evidenza, una prerogativa italiana. Ben più importante è rilevare che l'Occidente resta il centro del mondo: specialmente in taluni ambiti. Larga parte del continente asiatico sta crescendo a notevole velocità, conquistando mercati anche in settori ad alta tecnologia, ed egualmente vi sono settori nei quali le società di tradizione europea mantengono una posizione egemone. Non esiste, in particolare, un sistema universitario che possa competere con quello americano: e questo spiega perché ci sono decine di migliaia di studenti, in Asia e altrove, letteralmente pronti a fare «carte false» pur di entrare a Harvard e Princeton, ma anche in università assai meno note. I vantaggi che la società statunitense ricava dal primato detenuto in ambito accademico sono enormi, poiché nei suoi istituti di ricerca affluisce una quota assai alta delle migliori intelligenze del pianeta, che contribuiscono a fare degli Usa il cuore della scienza e della cultura. Una parte di loro torna poi nel Paese d'origine al termine degli studi, ma molti altri fanno di quel Paese la loro nuova patria. C'è una lezione che dovremmo saper ricavare da tutto ciò. Appare infatti un comportamento del tutto autolesionistico quello di chi, come l'Italia, continua a difendere un sistema universitario quasi interamente statale. Da noi gli atenei privati sono pochi e sovvenzionati: per questo motivo manca concorrenza e vi sono pochi stimoli all'innovazione. Il risultato è che la nostra accademia - salvo qualche eccezione - permane assai provinciale, attraendo dall'estero pochi studenti e ancor meno professori. La questione è comunque più generale, se si considera che il 2012 è stato - dopo vari decenni - il primo anno che ha visto il numero degli italiani emigrati superare quello di quanti sono immigrati da noi. Ormai non siamo più attraenti per quanti si trovano nel Terzo Mondo, e quasi obblighiamo molti tra i nostri giovani migliori a partire. L'università, in questo senso, è solo un riflesso di quanto è avvenuto nell'intera economia: sempre più burocratizzata e sempre meno in grado di competere, a causa di apparati statali tanto elefantiaci quanto costosi. Forse siamo ancora in tempo per cambiare, ma per farlo sono necessarie scelte drastiche a favore della libertà d'iniziativa e del mercato. _____________________________________________________________ Il Messaggero 12 Mag. ’13 PERCHÉ MERITO ED EQUITÀ QUI GENERANO SOLO POLEMICA L'INTERVENTO La società della conoscenza e dell'integrazione si costruisce sui banchi della scuola e nell'università. (...) Bisogna finalmente dare piena attuazione all'articolo 34 della Costituzione, per il quale i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. L'eguaglianza più piena è destinata a durare nelle generazioni; oggi più che mai è l'uguaglianza delle opportunità». Queste parole, pronunciate dal neo-Presidente del Consiglio Enrico Letta nel corso del dibattito sulla fiducia al Governo, forniscono qualche speranza sul fatto che si possa finalmente aprire nel nostro Paese un serio dibattito su scuola e merito. E proprio oggi, alla Fondazione Cini a Venezia, i Cavalieri del Lavoro offrono la prima occasione per un confronto importante, con il convegno annuale dedicato a "Una scuola più europea per la competitività e una cittadinanza attiva", al quale parteciperà il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza. Parlare di meritocrazia nella scuola italiana scatena da sempre enormi polemiche e dibattiti confusi. L'istruzione, che per sua natura dovrebbe essere palestra di confronto, è purtroppo terreno di scontro ideologico tra i sostenitori di due valori considerati, erroneamente, antitetici: merito ed equità. Al contrario, la mobilità sociale generata dalla valorizzazione dei capaci e meritevoli nella scuola è un fondamentale strumento di equità. L'efficacia di un sistema educativo dovrebbe misurarsi anche in termini di mobilità occupazionale e sociale che produce. La scuola funziona bene (anche) quando consente ai giovani di raggiungere traguardi accademici e lavorativi indipendenti dal background sociale e dalle condizioni economiche della famiglia di origine. Questa prospettiva soddisfa entrambe le istanze: tanto la promozione del merito, quanto il sostegno dell'equità. In Italia, invece, sono ambedue frustrate: l'Ocse colloca il nostro paese al penultimo posto in Europa in materia di mobilità sociale, segno che il destino occupazionale e retributivo dei giovani è ancora legato a doppio filo alle condizioni delle famiglie d'origine. In Italia la correlazione inter- generazionale, sia nel livello di istruzione che in termini di reddito e professione, è molto elevata. Solo il 10% dei ragazzi il cui padre non ha intrapreso la scuola superiore riesce ad ottenere la laurea (35% in Francia, 40% nel Regno Unito). Molte professioni sono quasi "ereditarie": il 44% degli architetti è figlio di architetti; e così tra gli avvocati (42%), i farmacisti (41%), i medici e gli ingegneri (39%). Tra le prime questioni di cui il neo-ministro dovrà occuparsi ci sono proprio le scelte di lungo termine sugli obiettivi e le strategie dell'istruzione, anche in collegamento con gli sbocchi lavorativi e professionali. Ne suggeriamo una: posticipare il momento della scelta della scuola secondaria superiore, così da legarla di più al talento e alle attitudini del giovane, e meno allo status della famiglia d'origine. In Italia il passaggio fra scuole medie e superiori crea distorsioni ed effetti negativi destinati a influenzare l'intero percorso educativo, lavorativo e retributivo del giovane. I figli di laureati hanno la probabilità di studiare in un liceo di circa il 30% superiore a quella dei coetanei che provengono da famiglie meno istruite. I dati dimostrano che quanto prima avviene la "scelta" della scuola superiore, tanto più essa è influenzata dal contesto socio-economico di provenienza. Altro aspetto fondamentale è il "ritorno sull'investimento" in istruzione scolastica, sia "privato" che "sociale". Anche il basso ritorno sull'investimento ha infatti un impatto negativo sulla mobilità sociale. Investire nell'istruzione di un figlio deve "rendere" di più rispetto all'investimento in Bot e Cct. Deve inoltre essere chiaro che il ritorno sociale dell'istruzione ha un rendimento più elevato dell'investimento in infrastrutture o altri investimenti pubblici. Marco Magnani Senior Research Fellow presso Harvard Kennedy School of Government, responsabile del progetto di ricerca "Italy 2030" _____________________________________________________________ La Stampa 11 Mag. ’13 COME NASCONO LE IDEE: ILLUMINAZIONI, PROVE, ERRORI GLI ALTRI SCIENZIATI Aggirarsi nel misterioso processo dell'intuizione interrogando neuroscienze, biologia, nanotecnologie PIERO BIANUOCI Diceva Einstein che il segreto della creatività è saper nascondere le proprie fonti. Un modo spiritoso per affermare che la scienza progredisce facendo tesoro dei risultati precedenti, non fosse altro che per superarli. Ma quali sono le strade, e i sentieri, che portano al superamento? Il Salone del Libro 2013, scegliendo come bussola il tema della creatività, non poteva eludere questa domanda. L'ha affidata a Luciano Maiani del Cern di Ginevra per la fisica, a Lamberto Maffei, presidente dell'Accademia dei Lincei, per l'arte vista alla luce dalle neuroscienze, alla virologa Ilaria Capua per la biologia e al talkshow con Andrea Ferrari, Università di Cambridge, Vittorio Pellegrini (Cnr) e Nicola Pugno (Università di Trento) per le emergenti nanotecnologie. Saranno altrettanti colpi di sonda nel misterioso processo dell'intuizione creativa. Che nei casi più felici è una illuminazione improvvisa capace di rovesciare conoscenze consolidate (Galileo, Einstein), ma più spesso è un procedere per analogia dal noto verso l'ignoto (Maxwell, Fermi) o per prova ed errore, come ha fatto l'evoluzione biologica passando dalle prime cellule all'Homo sapiens. Tre diversi livelli di creatività che raramente troviamo allo stato puro: quasi sempre sono intrecciati e l'uno soccorre l'altro. Certe soluzioni creative appaiono di una semplicità disarmante. Il talkshow sulle nanotecnologie prende spunto dal progetto di ricerca Graphene che l'Europa ha finanziato con un miliardo di euro. Lo dirige appunto Andrea Ferrari dell'Università di Cambridge. I «padri» del grafene sono Andre Geim e Konstantin Novoselov, entrambi nati in Russia e ora all'Università di Manchester. Nel 2010 hanno ricevuto il Nobel per la fisica. La cosa straordinaria è che per scoprire le sorprendenti qualità del grafene è bastato loro qualche pezzetto di grafite al quale strappavano strati sempre più sottili con un nastro adesivo. Il grafene è una particolare forma semicristallina del carbonio. Tutti conoscono il carbonio perfettamente cristallizzato che dà origine ai diamanti e lo stato amorfo che è il carbone. La grafite sta in mezzo: è costituita da atomi di carbonio disposti ai vertici di esagoni collegati tra loro come le cellette di un nido di api. Una specie di cristallo bidimensionale. A livello macroscopico conosciamo la grafite delle matite: queste scrivono proprio perché la grafite rilascia i suoi strati di carbonio nell'attrito sul foglio di carta. Ma le proprietà della grafite, come quelle di molti materiali, cambiano radicalmente passando dalla scala macroscopica alla nanoscala, quella degli atomi, dove si studiano oggetti con dimensioni di pochi milionesimi di millimetro. Un pezzetto di grafite ultrasottile, costituito da un solo strato di cellette di carbonio, ha caratteristiche speciali: è più duro del diamante, conduce perfettamente il calore e l'elettricità e può essere appoggiato su un supporto di silicio per realizzare componenti elettronici di nuova generazione. Quindi il grafene è un magnifico materiale di base per le nanotecnologie. Come il fullerene, altra molecola di carbonio, costituita da 60 atomi disposti in modo da formare un nano-pallone da calcio. A scoprirla nel 1985 fu Harold Kroto, poi premiato con il Nobel. Anche qui, cosa strana, Kroto inciampò nel fullerene, che si trova persino nel nerofumo delle candele, studiando una stella con un radiotelescopio: le scoperte non sempre arrivano per la strada più breve. Diversamente dal grafene, la fisica delle particelle ha bisogno di macchine enormi: Maiani racconterà come ha costruito LHC, l'acceleratore di protoni lungo 27 chilometri e costato 8 miliardi di euro che ha permesso la scoperta della «particella di Dio», o meglio del bosone di Higgs, annunciata il 4 luglio 2012. Ma anche l'intuizione che lo portò a prevedere l'esistenza del quark Charm, un mattone fondamentale del Modello Standard delle particelle elementari. Con Ilaria Capua entreremo nel microcosmo dei virus, Dal 25 febbraio è anche parlamentare del pd ma la sua fama internazionale risale al 2006, quando individuò un pericoloso virus dell'aviaria e ne pubblicò il genoma su Internet rifiutando la segretezza dei dati scientifici: «Scientific American» la inserì tra i 50 «Scienziati Top». Un articolo su «Nature» ha documentato che negli ultimi vent'anni tutte le malattie più pericolose hanno avuto origine dal serbatoio animale.Nel mondo globalizzato pandemia da virus aviari o suini potrebbe sterminare decine di milioni di persone e affamarne miliardi, essendo la carne di pollo e di maiale una delle principali fonti di proteine. Bene: Ilaria Capua intuì la strategia di difesa DIVA (Differentiating Infected from Vaccinated Animals) mentre faceva una gita in motocicletta. A dimostrazione che le nuove idee vengono quando si abbassa il livello di inibizione intellettuale. La creatività è un dono o si può imparare? Qualcosa in merito dirà Maffei nella «lectio magistralis» sulla mente dell'artista. Due cose sono certe. La prima è che i vincoli non solo non bloccano la creatività ma la stimolano. La seconda è che un ambiente libero, informale e interdisciplinare favorisce le soluzioni creative. Purtroppo viene in mente il modello dei campus americani, non della nostra scuola e della nostra università. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 12 Mag. ’13 MAL DI SCUOLA DIGITALE Da uno studio di Marco Gui emerge che competenze serie come lettura, scienze e matematica soffrono per un uso accanito del computer in classe e cala il rendimento Roberto Casati Il colonialismo digitale è un'ideologia che si riassume in un semplice principio, un condizionale. Si può, quindi tu devi. Se è possibile che una certa cosa o attività migri verso il digitale, allora deve migrare. I coloni digitali si adoperano per introdurre le nuove tecnologie in ogni settore della vita delle persone, dalla lettura al gioco, dal supporto alla decisione all'insegnamento, dalla comunicazione alla pianificazione, dalla costruzione di oggetti all'analisi medica; la tesi colonialista è data per scontata dai coloni, che ne apprezzano la semplicità: è assolutamente generale, dato che si applica a qualsiasi cosa o attività in modo indifferenziato. Facile da ricordare, difficile da contrastare. Chi si oppone al colono digitale viene rapidamente incasellato nella categoria dei luddisti, dei distruttori di macchine, di quelli che non sanno stare al passo con i tempi. Il dibattito, secondo i coloni, non dovrebbe neanche iniziare. In realtà, negare una tesi condizionale è prendere una posizione più debole, negoziale. Chi si oppone al colonialismo non per questo dice che le cose e le attività non digitali non devono mai compiere la migrazione digitale. Invoca il principio di precauzione; dice semplicemente che la migrazione non è un obbligo che discenderebbe dalla semplice possibilità della migrazione; e che deve essere accompagnata, perché tende a essere troppo invadente. Non basta mostrare un libro elettronico che funziona per imporre il libro elettronico. L'anticolonialista ha quindi tutti i diritti di rivendicare un atteggiamento positivo e costruttivo: la legittimità della migrazione dev'essere valutata caso per caso. In alcuni casi la digitalizzazione ha liberato, in altri no; e lo sappiamo già. A un estremo sappiamo che la fotografia si è affrancata ed è diventata, grazie al digitale, quello che avrebbe dovuto essere da sempre, un modo di prendere appunti visivi. A un altro estremo, sappiamo che il voto elettronico, e in particolare il voto online, presenta dei rischi imparabili di controllo sociale e manipolazione, e dovrebbe essere bandito per sempre dalle istituzioni democratiche. Ma entro questi estremi c'è uno spazio negoziale molto ampio in cui i casi particolari meritano una discussione; discussione che è del tutto assente e quando c'è viene mortificata dalla ripetizione ossessiva del mantra colonialista. La geolocalizzazione crea enormi possibilità ma queste non si accompagnano a enormi rischi per la sicurezza individuale? La condivisione immediata e senza riflessione della propria vita privata gratifica ma non espone i cittadini a forme sottili di aggressione commerciale e politica? L'educazione può trarre giovamento dalle nuove tecnologie o distrugge il capitale di tempo e di attenzione strutturata che la scuola dovrebbe invece faticosamente proteggere? Le nostre scelte individuali non sono sempre più condizionate da quanto ci propongono degli algoritmi? Il semplice fatto che queste domande possano essere sollevate indica che non si accetta l'ideologia colonialista; non certo che non si accetta il digitale. Non essere colonialisti non significa essere luddisti. I coloni e i colonialisti che offrono loro una sponda intellettuale hanno pronta una batteria di risposte a chi nega il «si può, quindi devi»; la ridda vorrebbe frastornarci ma dovrebbe venir vista per quello che è, un tentativo di parare con la quantità degli argomenti l'assenza di qualità degli stessi. Nell'ordine: le nuove tecnologie avrebbero poteri quasi magici per risolvere vecchi problemi sociali, in primis politica (M5S, ma anche Diebold) ed educazione (Prensky, Ferri); sono divertenti in sé e comunque più divertenti dei loro antenati (Google Mail); creano prodotto interno lordo e occupazione (ex-ministro Profumo); permettono misure oggettive dei risultati (Commissione europea); fanno tutti così, e chi sei tu per opporti (amici e colleghi che deplorano la vostra assenza da Facebook); e, ultima spiaggia, funzionano benissimo, nel senso che abbiamo riparato tutti i bug. Post-ultima spiaggia, se poi non funzionano, possiamo sempre trovare il modo di ripararle. La hybris non risparmia il lessico: vengono coniati termini come «multitasking» e «nativo digitale» che danno un'aura di scientificità agli argomenti. Non basta quindi lavorare caso per caso, ma su ogni caso si devono soppesare questi molti e diversi argomenti. Prendiamo, tanto per fare un esempio, la scuola, e mettiamo da parte il «si può, quindi devi». Quali ragioni ci sono per introdurre le nuove tecnologie nella scuola? Non certo e non più il bisogno di colmare il digital divide: i ragazzi hanno più tecnologia a casa di quanta la scuola possa mai averne. Ma quale ragione, allora? La ridda riparte: «Ci sono delle attività educative incredibili che puoi fare con il computer; i ragazzi d'oggi sono così e bisogna adattarsi alla loro forma mentis; dobbiamo dare un accesso totale all'informazione totale; ha funzionato benissimo nel settore bancario, perché non deve funzionare nella scuola?». Ma sono argomenti ideologici. Bisognerebbe chiedere se esistono dei dati per giustificare gli investimenti in tecnologia. Per esempio dei dati sul rendimento scolastico. Certamente questi dati non c'erano (per definizione!) nel momento in cui le tecnologie sono state introdotte: la loro introduzione era un esperimento alla cieca, che la dice lunga sulla qualità delle decisioni pubbliche. Uno studio recente di Marco Gui del l'Università di Milano Bicocca fa il punto su un esempio tra i tanti, il rapporto tra la frequenza d'uso dei media digitali e i livelli di apprendimento, andando a scavare nei dati del sesto volume del rapporto Pisa Ocse 2011, che coprono una popolazione di 450mila studenti quindicenni da 65 Paesi. L'analisi di Gui è quantomai interessante: le nuove tecnologie si associano positivamente all'apprendimento fintantoché se ne fa un uso modico. Non appena le tecnologie diventano invasive e colonizzano il tempo, il rendimento scende, a livelli inferiori a quelli che si hanno senza tecnologie. Vale la pena di fare un'osservazione metodologica: si tratta di associazioni e non di rapporti direttamente causali, per il momento, dato che l'identificazione di questi ultimi necessiterebbe di studi sperimentali. Tuttavia è più che abbastanza per farci venire il sospetto (il rapporto Pisa vede gli stessi dati, ma è più elusivo sulle conclusioni). Gli unici vantaggi (minimi) si hanno per quella che il rapporto Pisa chiama subdolamente «lettura digitale», un altro dei termini dalla semantica dubbia che fanno la gioia dei colonialisti, e che io renderei piuttosto con «spippolamento». A guardare da vicino, la «lettura digitale» è l'abilità di andare in giro per ipertesti, fare copia e incolla, cliccare per dire «mi piace» e cose simili. Ci sarebbe da stupirsi se almeno queste "competenze" non migliorassero almeno un po' con un uso accanito del computer, e comunque a usarlo troppo anche queste regrediscono! Ma il punto principale è che le altre competenze, ben più serie: lettura, matematica e scienze, ne soffrono. Assai impressionante è soprattutto il fatto che il rendimento scende molto di più se a essere colonizzato non è il tempo extrascolastico, ma quello scolastico. È come se la scuola offrisse un baluardo all'erosione mentale prodotta dalle nuove tecnologie, e una volta il baluardo caduto, nulla potesse fermare l'erosione. © RIPRODUZIONE RISERVATA Marco Gui, Uso di internet e livelli di apprendimento. Una riflessione sui sorprendenti dati dell'indagine Pisa 2009, «Media Education», marzo 2012 al salone Roberto Casati è in uscita da Laterza con il suo libro Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere (pagg. 144, €15,00). Lo presenta a Torino venerdì 17 (alle 13.30) in Sala Blu. Con Maurizio Ferraris, Alessandro Laterza e Gino Roncaglia _____________________________________________________________ Corriere della Sera 10 Mag. ’13 SUPER PROF DIFENDONO L'INVALSI «Aprono la scuola alla realtà» Le critiche di nozionismo. «No, rivelano competenze concrete» ROMA — Nelle scuole primarie italiane oggi secondo appuntamento con l'Invalsi, il Sistema nazionale di valutazione della macchina educativa italiana. Toccherà alle classi II e V per la prova di matematica. E anche quest'anno le polemiche accompagnano l'appuntamento. La Federconsumatori ha chiesto al nuovo ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza, la sospensione dei test. Il sindacato Unicobas ha parlato del 20% dei docenti che martedì 7 maggio avrebbe scioperato nelle II e V classi per la prova di italiano. Il ministero ha replicato parlando di scioperi limitati allo 0,69% per le II classi e allo 0,62% per le V e di prove non sostenute complessivamente nello 0,82% dei casi per le II e nello 0,75% per le V. In più c'è stato l'attacco del professor Luciano Canfora intervistato da www.ilsussidiario.net: «Le prove Invalsi sono una mostruosità, una cosa senza alcun senso, che può servire se mai a premiare chi è dotato di un po' di memoria più degli altri, non chi ha spirito critico. La miglior cosa è eliminare i test». Sempre per Canfora «l'Invalsi e tutta la quizzologia di cui siamo circondati» sarebbero lo strumento per ottenere «un pappagallo parlante dotato di memoria e nulla più, suddito e non un soggetto politico» sottraendo ai ragazzi negli anni della formazione «l'abito alla critica, alla capacità di comprendere e di studiare storicamente, di distinguere». I responsabili dell'Invalsi (le prove sono scelte selezionando proposte avanzate da circa 150 docenti sparsi per l'Italia) respingono le accuse. A partire da Paolo Sestito, commissario straordinario Invalsi e dirigente dell'area ricerca e relazioni internazionali della Banca d'Italia, economista studioso anche di sistemi educativi: «Le nostre prove sono quanto di più lontano dal nozionismo, dall'automatismo dei test, dal Rischiatutto. Il nostro scopo è l'esatto contrario: misurare le competenze dei ragazzi e la qualità dell'insegnamento, calandole nella vita concreta. Assicuriamo alle scuole uno strumento di auto-conoscenza». Conferma Giorgio Bolondi, docente di Matematiche complementari all'università di Bologna, che coordina la predisposizione delle prove: «Abbiamo incontrato migliaia di insegnanti e registrato molte comprensibili prevenzioni. C'è un malinteso: non intendiamo esprimere giudizi, ma informare ragazzi, insegnanti e scuole sulla qualità dell'apprendimento. Ogni domanda è legata agli obiettivi di legge per i diversi gradi dell'istruzione. Nemmeno un quesito punta su memoria o formule: ciò spetta agli insegnanti, non all'Invalsi». Giudizio condiviso dal linguista Luca Serianni, che ha analizzato le prove: «L'Invalsi funziona come le analisi del colesterolo per un adulto. Servono al medico come indice importante per stilare una diagnosi dopo aver studiato altri parametri. Trovo le prove realizzate con intelligenza per tarare le competenze a seconda della fascia d'età. Non hanno nulla del quiz né vedono il nozionismo come valore. Possono aiutare le scuole a conoscersi meglio e a mettere in atto i meccanismi per migliorarsi» A difendere l'Invalsi a spada tratta è Enza Ugolini, fresca ex sottosegretario all'Istruzione nel governo Monti (insegna storia e filosofia ed è preside del liceo «Malpighi» di Bologna), che negli anni ha lavorato sul tema della valutazione (in modo politicamente trasversale) con i ministri Luigi Berlinguer, Letizia Moratti, Giuseppe Fioroni, Mariastella Gelmini e Francesco Profumo: «Il primo scopo è aiutare le scuole ad avere un punto di vista esterno per capire come si lavora al proprio interno e nelle singole classi. I dati Invalsi sugli apprendimenti non sono solo "numeri" (percentuali, pesi, tassi di difficoltà, coefficienti di validità) che riducono la reale portata educativa della scuola. Anzi proprio perché i risultati sono tratti da prove concrete, gli esiti di queste prove finiscono con l'aiutare i singoli insegnanti, i consigli di classe, i dipartimenti, i collegi docenti, a fare una diagnosi anche a livello didattico». Enza Ugolini contesta l'autoreferenzialità di una certa scuola: «Uno dei nemici nella valutazione è la parzialità, quella abitudine che porta a non cercare in modo costante di tener conto di tutti i fattori della realtà. Non c'è solo la "tua" scuola, il "tuo" alunno, la "tua" classe con i "suoi" "livelli medi": esiste il mondo... Ogni scuola e ogni classe ha uno specchio col quale confrontarsi». E conclude, per sostenere la bontà del sistema, ricordando le disparità: «In II e V primaria la situazione, specie in matematica, nel Nord è pari alla media nazionale, mentre il Sud ha mediamente +2,5 punti. Già nella prima classe della scuola secondaria di primo grado la situazione si capovolge e mentre il Nord supera di oltre 6 punti percentuali la media, nel Sud si va sotto la media, per arrivare fino a oltre -15 punti nella classe terza del Sud-Isole... Mi sembra essenziale saperlo, per rimediare». Paolo Conti _____________________________________________________________ Italia Oggi 7 Mag. ’13 MATURITÀ, BASTA CON IL LASSISMO Correttivo per l'accesso alle facoltà a numero chiuso. Viale Trastevere rivede l'organigramma La manica larga nei voti non servirà per l'università DI ALESSANDRA RICCIARDI Da quest'anno si cambia. Gli studenti che faranno i prossimi test per l'accesso alle facoltà a numero chiuso, medicina, odontoiatria, veterinaria e architettura, potranno contare su un bonus per il voto di diploma, disciplinato a livello nazionale. Ma sarà corretto, ovvero «rapportato alla distribuzione in percentili dei voti ottenuti dagli studenti che hanno conseguito la maturità nella stessa scuola nell'anno scolastico 2011/2012...I voti di maturità riferiti ai percetili di riferimento sono pubblicati sul sito del ministero entro il 31 maggio 2013». La precisazione spunta all'articolo 10 del decreto sull'accesso alla facoltà a numero chiuso, uno degli ultimi atti (è del 24 aprile scorso) firmati dall'ex ministro dell'istruzione, università e ricerca, Francesco Profumo, prima del passaggio di consegne al successore, Anna Maria Carrozza. Il bonus per la maturità, da 4 a 10 punti (il massimo è pari al 10% del voto finale del test), era stato previsto da Seppe Fioroni e Fabio Mussi nel 2007, ed è rimasto sempre inattuato. La Lega Nord ha duramente attaccato il bonus: penalizzerà gli studenti del Nord. Al ministero spiegano invece che il meccanismo è stato pensato per tutelare i migliori contro ogni lassismo. In pratica, un voto di 100/100 varrà meno in una scuola dove la media è alta rispetto a un'altra dove la media dei voti di diploma è più bassa. L'algoritmo studiato dovrebbe evitare che i ragazzi che frequentano scuole con standard più bassi e voti finali più alti siano insomma favoriti rispetto a quelli che frequentano istituti dove i prof non sono di manica larga. Il correttivo ministeriale dovrebbe così far recuperare il gap che separa il Nord dal Sud, dove i voti di maturità sono in media più alti. Con il paradosso però di istituti di qualità, presenti in tutto il territorio, in cui magari ci sono tanti ragazzi nell'anno di riferimento a primeggiare. Il criterio adottato «alla fine non basta a garantire equilibrio a fronte della disomogeneità di valutazione tra una scuola e l'altra», spiega l'ex capogruppo istruzione al senato della Lega, Mario Pittoni. Intanto il ministero è impegnato nella definizione della nuova macchina, non solo politica ma amministrativa. Nominati i sottosegretari: Gianluca Galletti, ex Udc, assai vicino a Pier Ferdinando Casini, è stata assessore al Bilancio del Comune di Bologna e componente dell'Alta commissione per la riforma della finanza pubblica; Gabriele Toccafondi, pdl, dirigente, è stato membro del consiglio di amministrazione dell'Università di Firenze; confermato Marco Rossi Doria, maestro di strada, in quota Pd. In queste ore dovranno essere decise anche le presidenze delle commissioni istruzione e cultura, in pole Andrea Marcucci al senato e Fioroni alla camera. Per i vertici amministrativi di viale Trastevere è scattato lo spoils system di ogni cambio di governo. Confermato al momento solo il capo dì gabinetto Luigi Fiorentino. Dato per certo il cambio dei due capi di dipartimento: Lucrezia Stellacci dovrebbe lasciare per la pensione; Giovanni Biondi è dato verso il nuovo incarico di presidente dell'Indire, l'istituto di ricerca da cui proveniva e la cui procedura di nomina si è conclusa proprio negli ultimi giorni di fine mandato di Profumo. Risulta bloccata invece l'altra procedura, quella di nomina del presidente dell'Invalsi, che vedeva in pole Luciano Modica, ex ds ed ex sottosegretario all'università. C'è chi ha fatto pesare che per guidare l'Invalsi, l'istituto che si occupa della valutazione del sistema scolastico, sarebbe stato opportuno un curriculum meno connotato politicamente. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Mag. ’13 UNIVERSITÀ, TEST PIÙ SNELLI AL DEBUTTO Da oggi iscrizioni solo online - Meno cultura generale, più logica: 60 quiz in 90 minuti DATE ANTICIPATE Le prove di ammissione, che prima erano a settembre, sono fissate per fine luglio, mentre l'anno prossimo si svolgeranno già ad aprile A CURA DI Barbara Bisazza Stavolta la rivoluzione c'è. Dopo anni di cambiamenti parzialmente annunciati e solo in parte realizzati, i test d'ingresso per le facoltà universitarie a numero chiuso – programmato a livello nazionale in base alla legge 264/99 – cambiano pelle. Come, lo stabilisce il decreto ministeriale n. 334 del 24 aprile 2013. Sono interessati i corsi di laurea in Medicina, Odontoiatria, Veterinaria, Architettura e - in parte - le professioni sanitarie. Non solo perché, come già annunciato a febbraio, le prove vengono anticipate a luglio (mentre l'anno prossimo saranno ancora prima, ad aprile). Per la prima volta, l'iscrizione al test potrà essere fatta solamente online sul portale www.universitaly.it; contestualmente il candidato dovrà scegliere il corso e, in ordine di preferenza, le sedi universitarie per le quali concorrere, considerando in ogni caso come "prima scelta" la sede nella quale affronterà il test. Per la prima volta, inoltre, i candidati non saranno penalizzati dalla particolare scelta di sede, perché le graduatorie finali saranno, per ogni corso di laurea, uniche a livello nazionale (estendendo a tutto tondo la sperimentazione con la quale, l'anno scorso, gli atenei erano stati aggregati per gruppi); non succederà più, quindi, che uno studente venga escluso, pur avendo superato il test con un punteggio superiore a quello di candidati ammessi in un altro ateneo. La prova sarà più leggera: conterrà 60 quesiti (al posto di 80) con 5 opzioni di risposta, da svolgere in un tempo massimo di 90 minuti (prima il tempo a disposizione era di due ore, quindi la proporzione è la stessa). Recepita la richiesta di limitare le domande di cultura generale, spesso contestate in passato; saranno infatti ridotte a 5, mentre saliranno a 25 i quesiti che testano le capacità di ragionamento logico-critico. L'altra metà del test verterà su materie affini al corso di laurea prescelto: biologia, chimica, matematica e fisica per le prove di medicina, odontoiatria e veterinaria; storia, disegno, matematica e fisica per architettura. Il test potrà valere al massimo 90 punti (1,5 per ogni risposta corretta, zero per la mancata risposta, -0,4 per ogni risposta errata), mentre altri 10 punti dipenderanno dal voto conseguito all'esame di maturità. Si dà così attuazione al decreto Fioroni del 2007, che già aveva previsto di considerare il percorso scolastico, ma era rimasto sulla carta. Il voto di maturità, comunque, sarà valutato solo se superiore o uguale a 80/100; inoltre, sarà rapportato alla distribuzione in percentili dei voti di diploma dell'anno scorso di ciascuna scuola: in pratica, conquisterà 10 punti solo chi si colloca nel 5% dei voti più alti della scuola. Il Miur pubblicherà sul suo sito internet, entro il 31 maggio, le tabelle in base alle quali "convertire", scuola per scuola, il voto di maturità. «Il metodo dei percentili – spiega Daniele Livon, direttore della Direzione generale per l'università del Miur – permetterà di valorizzare il percorso scolastico degli studenti più meritevoli» e ci sarà anche un meccanismo per rendere più equo il calcolo in caso di scuole dove ci sia una prevalenza di voti molto alti. I risultati dei test saranno pubblicati online tra il 5 e il 7 agosto, le graduatorie nazionali nominative il 26 agosto. In relazione ai posti disponibili, gli studenti potranno risultare "assegnati" o "prenotati" al corso e alla sede universitaria indicata come prima preferenza utile. Gli "assegnati" dovranno procedere all'iscrizione entro 4 giorni, i "prenotati" potranno anch'essi iscriversi, oppure potranno aspettare l'aggiornamento della graduatoria, la settimana dopo, sperando che si liberi un posto nella sede da loro indicata come migliore. Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale (Cun) e della Conferenza dei presidenti di corso di laurea in Medicina e chirurgia, ha partecipato al tavolo tecnico preparatorio: «Innanzitutto, abbiamo chiesto al ministero di prevedere un orientamento molto serio degli studenti già a partire dal terzo/quarto anno delle superiori, anche per evitare la corsa al test – e la delusione – da parte di candidati poco consapevoli e non realmente interessati; inoltre, l'anticipo delle date permetterà agli esclusi di iscriversi a un altro corso in tempo utile per frequentare fin dall'inizio». Da metà maggio sul sito www.universitaly.it ci sarà un esercitatore per gli studenti. Da oggi è inoltre attivo il call center 051.6171959 (dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 17). © RIPRODUZIONE RISERVATA La riforma LE NOVITÀ I cambiamenti introdotti dal Dm n. 334 del Miur per le prove di ammissione ai corsi universitari di Medicina, Odontoiatria, Veterinaria e Architettura, a numero chiuso programmato a livello nazionale L'ISCRIZIONE L'iscrizione ai test d'ingresso va fatta online su www.universitaly.it. I candidati a Medicina o Odontoiatria (prova unica) devono scegliere il corso al momento dell'iscrizione al test IL TEST Le domande, ognuna con 5 opzioni di risposta, scendono da 80 a 60 e il tempo passa da due ore a un'ora e mezza. La risposta corretta vale 1,5 punti, quella sbagliata fa perdere 0,4 punti I CONTENUTI I quesiti di cultura generale scendono a 5, quelli di ragionamento logico salgono a 25; gli altri 30 quesiti si differenziano per materie specifiche, a seconda del corso di studi IL PUNTEGGIO Il test può far totalizzare in tutto 90 punti; altri 10 al massimo dipenderanno dal voto di maturità, ma solo se il candidato sarà nel 20% dei migliori studenti della sua scuola LA GRADUATORIA Per ogni corso di laurea verrà formata una graduatoria nazionale, che sarà periodicamente aggiornata in base al perfezionamento progressivo delle immatricolazioni Le scadenze LE SCADENZE Per i corsi di laurea in Medicina e chirurgia, Odontoiatria e protesi dentaria, Medicina veterinaria e Architettura DAL 6 MAGGIO AL 7 GIUGNO Iscrizione al test d'ingresso esclusivamente online attraverso il portale www.universitaly.it, entro le ore 15 del 7 giugno. Il candidato deve contestualmente indicare, in ordine di preferenza, le sedi per cui intende concorrere. Tali preferenze sono irrevocabili. La sede in cui si sostiene il test è considerata "prima scelta" ENTRO IL 31 MAGGIO Pubblicazione sul sito del Miur e su www.universitaly.it delle tabelle, scuola per scuola, con l'indicazione dei voti di maturità relativi ai diversi percentili (80esimo - 85esimo - 90esimo - 95esimo) in base ai quali sarà attribuito il punteggio (4 - 6 - 8 - 10) da sommare al risultato del test ENTRO IL 14 GIUGNO Pagamento del contributo per la partecipazione al test d'ingresso all'ateneo di riferimento, con procedure indicate dalle singole università ENTRO 29/30/31 LUGLIO Comunicazione del voto di maturità, dal primo giorno successivo alla prova ed entro 6 giorni (29, 30, 31 luglio, rispettivamente, per le prove del 23, 24, 25), attraverso l'area riservata del sito http://accessoprogrammato.miur.it, utilizzando le password e le chiavi di accesso fornite il giorno della prova. In caso di mancata comunicazione entro i termini, alla valorizzazione del percorso scolastico verrà attribuito punteggio nullo 5, 6, 7 AGOSTO Pubblicazione dei risultati dei test d'ingresso (Medicina/Odontoiatria il 5, Veterinaria il 6, Architettura il 7) in base al "codice prova" fornito il giorno del test; possibilità di accesso online alla visione dell'elaborato e dei punteggi 26 AGOSTO Pubblicazione della graduatoria nazionale di merito nominativa, comprensiva del punteggio attribuito in base al voto di maturità, nell'area riservata del sito http://accessoprogrammato.miur.it ENTRO 4 GIORNI Entro 4 giorni dalla pubblicazione della graduatoria gli studenti che risultano assegnati alla loro sede di prima scelta devono perfezionare l'iscrizione presso l'Università, pena il decadimento di ogni diritto. Gli studenti che risultano prenotati in una sede successiva alle loro scelte migliori possono perfezionare l'iscrizione oppure aspettare il successivo aggiornamento della graduatoria (una ogni settimana per i primi scorrimenti), sperando di risultare assegnatari nella sede della scelta migliore per effetto della rinuncia di qualche altro studente _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Mag. ’13 UNA SFIDA CHE STIMOLA LE MOTIVAZIONI DEGLI STUDENTI DarioBraga L'anticipo alla primavera-estate dei test per l'accesso a Medicina e chirurgia, Odontoiatria, Medicina veterinaria e Architettura è un'altra mini-rivoluzione. L'impatto sia sull'università sia sulle scelte dei giovani è grande. Vediamo alcuni "pro" e "contro". Iniziamo dai "contro". Gli studenti non solo dovranno decidere adesso se vogliono provare l'ingresso in questi corsi di studio, ma dovranno sottoporsi alle prove di ammissione quasi contemporaneamente all'esame di maturità. In questa prima applicazione, poi, il preavviso è stato molto ridotto e metterà in difficoltà non solo gli studenti, ma anche le scuole a causa della sovrapposizione delle due esigenze formative. La prevalenza di quesiti scientifici (logica, biologia, chimica, fisica e matematica) a fronte di quelli di cultura generale riduce infatti il problema della "erraticità" dei quesiti generali, spesso stravaganti in passato, ma costringe gli aspiranti medici (lo stesso però vale anche per veterinari, odontoiatri e architetti e per le lauree sanitarie) a studiare tutte le materie scientifiche pertinenti, mentre si preparano per la maturità. Già questo è di per sé un test di selezione. Vediamo, adesso, i "pro". Innanzitutto la possibilità di programmare e valutare bene alternative di studio in caso di insuccesso nel test di accesso. Si eviterà lo tsunami di studenti, anche un po' frustrati, costretti a riversarsi su altri corsi di studio spesso con effetti di rigonfiamento improvviso dei corsi contigui (chimica, biologia, farmacia eccetera), salvo poi sgonfiarsi nel passaggio all'anno successivo. Scelte spesso slegate da una vera vocazione (una scelta di "ripiego") e da un'approfondita analisi "costi-benefici". È un danno iniziale per le carriere degli studenti, che solo in pochi casi viene veramente recuperato e che spesso è il primo passo verso l'allungamento dei tempi di studio. La pausa estiva consentirà di guardarsi meglio attorno, di valutare alternative altrettanto valide professionalmente e aiuterà le università nell'attività programmatoria e nell'organizzazione delle prove di ammissione agli altri corsi di studio. La scelta non modificabile delle sedi per cui si intende concorrere e la rilevanza data al voto della prova finale di maturità rispetto alla distribuzione dei voti della scuola di provenienza serviranno anche a "normalizzare" il risultato della maturità e quindi a ridurre il divario tra le diverse scuole nel Paese. Il bilancio? Non sarà una partita facile quest'anno e bisognerà vedere il risultato, ma si tratta di una scelta che sembra andare nella direzione giusta, perché agisce sulla leva delle motivazioni e della determinazione degli studenti nella scelta di studio e, al tempo stesso, dà tempi certi al nostro sistema universitario, costretto a operare in continua emergenza. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Mag. ’13 CHERCHI: L'ITALIA È IL PAESE PIÙ COLTO, MA IL MENO ORIGINALE» Dall'Università di Chicago a Cagliari, come visiting professor Paolo Cherchi, la leggerezza dell'erudizione VEDI LA FOTO Altri si sarebbero dati arie, ad avere per vicini di casa sei premi Nobel. Lui no. Condividere per venticinque anni l'ascensore con Bellow, Friedman, Stigler, Chandrasekhar, Cronin e Huggins, gli è servito per esaltare quella modestia che gli appartiene da sempre. Oschirese, settantasei anni appena compiuti, fratello di Placido, antropologo, Paolo Cherchi dalla Sardegna è andato via una cinquantina d'anni fa, per intraprendere a Chicago una carriera che lo ha portato a diventare uno dei filologi e storici della letteratura più noti a livello internazionale. E da Chicago - dove è tornato a vivere nel 2009 dopo sette anni di insegnamento all'Università di Ferrara - è approdato di recente a Cagliari, per quattro seminari seguitissimi, l'ultimo sulla leggerezza dell'erudizione, che così tanto gli appartiene. A invitarlo all'interno del programma visiting professor istituito dalla Regione, a nome del Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica, la professoressa Gonaria Floris, docente di Letteratura Italiana. Un tour de force che ha portato il professore a presentare il libro della sua ex allieva Giuliana Adamo sull'amico Vittore Bocchetta, e a partecipare alla presentazione del volume Cuec (sua l'introduzione) dei “Diez libros della Fortuna de amor” di Antonio Lo Frasso: uno dei suoi innumerevoli oggetti di studio, proprio come quel “Tirant lo Blanc” di Joanot Martorell appena pubblicato da Einaudi e da lui curato. Misurato, carismatico, ricco di humour, Paolo Cherchi ha il dono di dire con disarmante chiarezza cose complesse. Di estrarre la leggerezza dalla profondità del pensiero, dice Gonaria Floris, che lo definisce con affettuosa ironia un piccolo mamuthone. Lui abbozza un sorriso. Non è uomo di parole inutili, ognuna ha il suo peso, e le sue pause. Con la Sardegna ha fatto finalmente pace. «Non la amavo, non sopportavo l'esaltazione del campanile, il culto esasperato dell'identità». Adesso sorride, se gli fai notare che conserva l'accento della sua terra, dopo cinquant'anni di Stati Uniti. «Ci finii per caso. Dopo gli studi madrileni sul “Don Chisciotte”, seguiti alla laurea a Cagliari, avevo una indefinibile nostalgia di un altro mondo. Così andai a Berkeley e poi a Chicago. Avevo lasciato un'Italia segnata dalla scuola marxista di Petronio, in America cominciava a prender piede lo strutturalismo che per me era borghese. Tornai in Italia, e trovai tutti strutturalisti. Capii subito che avevo perso il treno, così ripartii». Professore, che cosa ha trovato negli Stati Uniti, tanti anni fa, strutturalismo a parte? «L'America mi ha liberato dalla componente ideologica e mi ha dato biblioteche splendide, permettendomi di lavorare come volevo. Certo, è difficile inserirsi bene, se fai Letteratura Italiana. Allora mi sono dedicato soprattutto alla Filologia Romanza, più europea. Ho conosciuto veri maestri, su tutti Arnaldo Momigliano, ho frequentato medievalisti di primissimo ordine, e non ho mai portato la borsa a nessuno. Chicago offre moltissimo. Ha una grande scuola, è tra le università col numero più alto di Nobel». Ora lei è professore emerito… «Emerito significa semplicemente a riposo. In America non c'è l'obbligo della pensione, ma incentivano l'uscita per dare spazio ai giovani. Così a 67 anni sono andato via e ho accettato di andare a Ferrara, come professore di chiara fama. Dopo sette anni sono tornato a Chicago. La vita è lì, con mia moglie Judy Kafka, mio figlio Marcello. Sono ebrei. Mi hanno messo in minoranza. In America la religione è molto importante. Gramsci diceva che in Europa ci sono due grandi religioni e duecento partiti politici, in America il contrario». Come funziona negli Usa il sistema universitario? «Se uno vuole studiare ci riesce. Se si laurea viene stipendiato. La selezione avviene prima. Diciamo che la massa paga, chi emerge viene pagato. E poi ci sono scuole pubbliche, come Berkeley. Altrimenti c'è il prestito. Si restituiscono i soldi quando trovi un lavoro. Quanto al livello di istruzione, il Sessantotto ha portato in auge il tema della relevance: chi se ne frega del latino? A che cosa serve? Questo ha abbassato il tono delle scuole. Va invece benissimo il mondo delle scienze. L'America è all'avanguardia». Come sta la Letteratura Italiana negli Usa? «Si legge, alcuni autori sono molto apprezzati. Su tutti Calvino, Svevo, Pirandello. Camilleri? Difficile da tradurre». E L'Italia vista dall'America? Il 2013 è l'anno della cultura italiana… «Sì, stanno preparando una serie di iniziative. L'Italia è molto amata. La moda, il design, la cucina, per non parlare della lirica. E finalmente non è più vista come la terra dei gangster. La politica è ritenuta una sorta di barzelletta, ma piace la capacità degli italiani di risolvere le situazioni più difficili. Sul fronte degli studi, io credo che l'Italia sia il paese più colto dell'Europa ma non è uno dei più originali. La Francia ha più coraggio». Suo padre era un poeta… «Conoscevo centinaia di poesie a memoria, scriveva contro preti, prostitute, politici, era una sorta di igiene mentale la sua. “Ho scritto più di Virgilio, Dante e Milton messi insieme”, disse un giorno a mio fratello». “Erostrati e astripeti” è il titolo di un suo libro pubblicato dal Maestrale. Dove gli astripeti, termine dantesco, aspirano alle stelle e gli erostrati sono pronti a tutto pur di attirare l'attenzione, come Erostrato che incendiò il tempio di Diana ad Efeso per passare alla storia.. Ne conosce molti? «Io sono convinto che quelli che studiano letteratura abbiano in sé un po' di Erostrato, perché aspirano all'immortalità». Maria Paola Masala _____________________________________________________________ Il Mondo 17 Mag. ’13 LE SOCIETÀ CERCANO SPECIALISTI IN IT. MA SONO POCHI Ragazzi italiani sono stati accusati di essere schizzinosi e di scegliere spesso percorsi di studi che non corrispondono alle richieste del mercato. Non sembra sbagliare, però, chi opta per la laurea in informatica e ingegneria informatica: l'ultimo Rapporto AlmaLaurea su laureati e lavoro (2012) indica che rispetto al totale di tutti i laureati specialistici italiani, quelli in queste due specializzazioni hanno chance molto più elevate di trovare lavoro. A fine 2011, l'83% degli informatici e oltre 1'85% degli ingegneri informatici laureati nel 2008 lavorava (contro il 74% del totale dei laureati specialistici); il 69% dei primi e quasi il 75% dei secondi aveva un lavoro stabile contro il 56,8% del totale dei laureati specialistici, e guadagnava circa 1.400- 1.500 euro al mese (netti); gli altri superavano di poco i 1.200. In più, esistono profili molto appetibili, difficili da trovare, come i progettisti di sistemi informatici: dalle imprese italiane sono arrivate nel 2012 un migliaio di richieste, ma 900 sono andate a vuoto, secondo il sistema informativo Excelsior di Unioncamere e il ministero del. Lavoro. Chi vuole un posto sicuro, e meglio retribuito, deve puntare su specializzazioni come consulente di software, analista programmatore, programmatore informatico, sviluppatore. Eppure l'Italia è penultima in Europa per laureati in Informatica, come conferma l'Eurostat: a marzo 2012, nell'Europa dei 27 i laureati in Informatica sono in media il 3,4% del totale (con punte più alte in Austria, Spagna, Regno Unito e Francia), ma l'Italia è penultima con l'1,3% (in generale da noi la percentuale di giovani laureati è al 27%, tra le più basse del inondo: negli Stati Uniti è il 40%). Perchè questa discrepanza? «Mercato del lavoro troppo difficile», risponde Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea. Mentre con il contrarsi dell'occupazione negli altri Paesi è cresciuta la quota di occupati ad alta qualificazione, nel nostro Paese è avvenuto il contrario». Tanto che «probabilmente almeno una parte dei laureati, che in questi anni sono emigrati dall'Italia, è entrata nel contingente di capitale umano che è andato a rinforzare l'ossatura dei sistemi produttivi dei nostri concorrenti». SCARSA TECNOLOGIA In poche parole, un modello di sviluppo con poca tecnologia e scarsa innovazione produce anche poca occupazione, soprattutto per i profili di alto livello. Lo ribadisce Enrico Moretti, professore di Economia della University of California, Berkeley, e autore del libro The new geography o fjobs. «Si tratta di una debolezza strutturale italiana che si caratterizza con una presenza limitata di imprese che investono in innovazione e che quindi sanno creare posti di lavoro attraenti. Eppure i nostri ragazzi hanno una formazione di livello paragonabile a quelli che escono dalle università straniere». Non siamo meno bravi: il nostro Paese e il suo sistema produttivo offrono minori opportunità e quindi i più intraprendenti si fanno attrarre dalle promesse di Silicon Valley, Seattle e Boston, dove in inedia un laureato in computer science con tre anni di anzianità guadagna sui 120 mila dollari l'anno lordi, circa 6 mila al mese netti. «Un'esperienza all'estero può essere molto gratificante», conferma Moretti. Chi vuole specializzarsi nelle tecnologie per internet e nello sviluppo software deve guardare agli Stati Uniti, chi vuole perfezionarsi nel settore finance vada in Gran Bretagna, chi cerca l'eccellenza nelle applicazioni informatiche per l'industria parta per la Germania. E chi resta in Italia? Eustema, l'a romana che realizza soluzioni tecnologiche per la gestione delle informano i e dei processi aziendali, nel. 2012 ha contattato 800 candidati (selezionati ger dei colloqui dopo ave ricevuto circa 4 mila curricula). Il 30% di. questi possedeva la laurea in ingegneria informatica. Ha assunto infine cinque giovani a tempo indeterminato, cui vanno aggiunti altri dieci con laurea in informatica. Quasi tutti neolaureati. Esistono figure altamente specializzate difficilmente reperibili in Italia, come il web information architect. Tuttavia, l'Italia non soffre di un grave gap tra domanda e offerta di informatici, perché è vero che da noi gli specialisti sono di meno, ma anche le aziende innovative (e che assumono) sono poche. IL gap-esiste invece nelle economie più avanzate, a partire dagli Stati Uniti, dove un piccolo esercito di riformatici arriva ormai dall'estero, dall'india, dalla Cina e anche dall'Europa; il trend è già in atto nei grandi centri di innovazione come Seattle, Silicon Valley e Boston: qui le innovazioni create da non americani crescono da 20 anni e rappresentano oggi più di un terzo del totale. METALMECANICI DEL BIT Peculiare dell'Italia e invece la mancanza di un contratto di lavoro specifico per gli informatici, che di solito vengono inseriti nelle aziende come metalmeccanici. Altro nodo è quello dei lavoratori anziani (e non riguarda solo il settore hi-tech). Per fare un confronto, anche negli Stati Uniti i lavoratori over-50 sono considerati meno competitivi, ma non per il costo dello stipendio bensì per le competenze non più all'avanguardia (il sistema di remunerazione americano non premia tanto l'anzianità, quanto la produttività e la creatività). Tuttavia, le aziende Usa più innovative e lungimiranti sono propense a investire in corsi di aggiornamento per i dipendenti più maturi e a favorire la loro interazione con i giovani. Le nostre società informatiche sono meno disposte a far questo: anche Microsoft Italia è pronta ad assumere entro l'estate una dozzina di ingegneri, informatici e statistici, ma Saranno tutti neolaureati. In media in Italia solo circa il 5% delle figure inserite nelle aziende It è rappresentata da lavoratori con una storia professionale più lunga, ricercati per competenze manageriali o elevata specializzazione (progettisti e architetti) e inquadrati quasi sempre come consulenti, quindi con minori garanzie ma guadagno più alto. MAINFRAME, MIAN JOB Una contraddizione da risolvere, perché è vero che i giovani sono più al passo coi tempi, ma anche i lavoratori anziani possono essere depositari di competenze preziose. Pensiamo al caso dei mainframe: sono considerati del passato, ma. molti clienti dei provider informatici, come banche, enti di ricerca e grandi centri di calcolo, continuano a usarli e i laboratori di sviluppo di diverse aziende, anche in Italia, continuano a produrre software per il loro funzionamento. Tuttavia i giovani non hanno quasi mai competenze sui mainframe, e il lavoro si fonda su una manciata di professionisti over-50* Forse ieri o 20 anni i mainframe spariranno, ma intanto la caccia ai pochi esperti del settore, tutti «anziani», è aperta. Patrizia Licata _____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Mag. ’13 ONU: GLI OTTO OBIETTIVI (QUASI) RAGGIUNTI di Danilo Taino Statistical Editor Nel mondo accadono cose straordinarie: anche nel pieno di una crisi dei Paesi ricchi, faremmo bene a considerarle. Nel 2000, le Nazioni Unite lanciarono il Millennium Development Goal, otto obiettivi da raggiungere entro il 2015 per migliorare la vita sulla Terra. Bene, sono stati in buona parte raggiunti in anticipo o stanno per esserlo: più che per merito di Onu e governi, grazie ai commerci, alle tecnologie e all'apertura dei mercati. È una storia che non si racconta mai ma che è stata fotografata da un recente studio della Banca mondiale. Il Goal numero uno: dimezzare la povertà estrema entro il 2015. Nel 1990, coloro che vivevano con meno di 1,25 dollari al giorno — la soglia stabilita dal Palazzo di Vetro — erano il 43,1% della popolazione mondiale. Nel 2008, la quota è scesa al 22,7% e le stime riferite al 2010 dicono che è calata al 20,6%: la previsione è che nel 2015 sarà al 16%. Nel 2000, i giovani e le giovani dei Paesi in via di sviluppo che completavano la scuola primaria erano l'80%. Nel 2009 sono stati il 90%(ma nell'Africa sub-sahariana rimangono al 70). Nel 1990, le ragazze che frequentavano la scuola primaria erano l'86% dei ragazzi, nel2011 il 97%. E nella scuola secondaria la loro quota è passata dal 78 al 96%. Il quarto Goal dell'Onu era la riduzione di due terzi del numero di bambini che muoiono prima di avere compiuto cinque anni. Nel 1990 furono 12 milioni, nel 1999 scesero a 10 milioni e nel 2012 a sette: l'obiettivo è stato raggiunto da 41 Paesi e altri 25 dovrebbero farcela entro il 2020; la mortalità infantile, però, resta una delle piaghe più difficili da affrontare. Il numero di donne che muoiono al momento del parto è crollato del 65%, da 620 casi per centomila nati vivi a 220. Ma è ancora troppo: 287 mila donne nel 2010, delle quali 1.700 nei Paesi avanzati, il resto in quelli in via di sviluppo. L'obiettivo era un calo del75%, che probabilmente non verrà raggiunto nel 2015 ma qualche anno dopo. Il sesto Development Goal — fermare la diffusione di Hiv/Aids, malaria e altre malattie — ha fatto passi avanti, ma con risultati misti: a fine 2010, per esempio, 6,5 milioni di persone ricevevano cure retro virali contro l'Aids; ma in 26 dei 31 Paesi in cui il virus è più diffuso meno di metà delle donne ha informazioni corrette sull'Hiv. La sostenibilità ambientale è migliorata: il 13% della terra emersa è oggi protetto; ma se si considerano gli oceani la percentuale scende a 1,6. La popolazione che ha accesso a una fonte d'acqua è passata, tra il 1990 e il 2010, dal 71 all'86%; quella che ha accesso a servizi sanitari è cresciuta dal 37 al 56%. L'ottavo obiettivo — migliore cooperazione tra Paesi ricchi e poveri per favorire il commercio, diffondere le tecnologie e la medicina e razionalizzare gli aiuti — ha fatto balzi consistenti fino al 2008, poi la recessione ha rallentato gli aiuti, del 2,3% in termini reali tra il 2010 e il 2011. Povertà, malattie, malnutrizione, ignoranza restano piaghe drammatiche. Ma molto meno di vent'anni fa. È che la globalizzazione omologa, qualche volta in peggio, ma più spesso all'insù. @danilotaino _____________________________________________________________ Le Scienze 12 Mag. ’13 CAMBIAMENTI CLIMATICI, LIBERISMO E TEORIE DEL COMPLOTTO Negazione del cambiamento climatico, liberismo economico estremo e teorie della cospirazione. Un nuovo studio suggerisce che questi sistemi di credenze, piuttosto diversi fra loro, in realtà formino un continuum. Secondo una recente ricerca, i sostenitori delle prime due tesi manifestano anche una tendenza più marcata al complottismo di Ashutosh Jogalekar Che i negazionisti del cambiamento climatico non credano in un riscaldamento globale di origine antropica è ben noto, ma ci sono indicazioni che questo convincimento sia solo una parte di un sistema più generale di credenze? E' quanto ha cercato di scoprire un gruppo di psicologi dell'Università dell'Australia occidentale, secondo i cui risultati, in via di pubblicazionesulla rivista "Psychology Science", chi nega la realtà del cambiamento climatico presenta anche altre due caratteristiche: la fede nel liberismo economico e, cosa più preoccupante, la tendenza a sposare le teorie del complotto. La correlazione, non proprio sorprendente, fra negazione del cambiamento climatico e libero mercato capitalista è la più forte, ma quella con una mentalità cospirativa è più inaspettata e interessante. Per saperne di più sulla psicologia dei negazionisti, i ricercatori hanno chiesto a circa un migliaio di commentatori di otto popolari blog sul clima (i blog sono stati scelti perché è lì che è più facile trovare negazionisti e scettici) quali fossero le loro convinzioni generali su varie teorie della cospirazione e sul libero mercato capitalista. Gli intervistati hanno risposto a un questionario che elencava una trentina di affermazioni relative al libero mercato (di solito chiedendo se il libero mercato senza vincoli fosse migliore di un mercato regolamentato per il benessere dell'uomo e dell'ambiente), a questioni ambientali (indicando inoltre la loro percezione che precedenti problemi ambientali fossero stati risolti) e a ogni genere di teorie del complotto ("L'attacco dell'11 settembre è stato un lavoro interno", "Il governo ha coperto atterraggi di UFO nell'Area 51", "HIV e AIDS sono stati creati dal governo"). È interessante notare che i commentatori dei blog negazionisti hanno rifiutato di rispondere. I soggetti dovevano valutare le affermazioni su una scala a quattro punti che andava da "fortemente in disaccordo" a "molto d'accordo". Le risposte sono state inserite in un modello per calcolare le correlazioni tra le credenze espresse nelle varie dichiarazioni. I risultati hanno indicato anzitutto una correlazione inversa tra fiducia nel libero mercato e fiducia nel consenso scientifico sul cambiamento climatico. Questo rifiuto liberista dell'evidenza scientifica è coerente con la negazione della fondatezza di alcune preoccupazioni del passato per l'ambiente e la salute pubblica, in particolare del legame tra fumo di sigaretta e cancro ai polmoni e degli effetti delle piogge acide. Una volta che i sostenitori del liberismo economico si sono convinti che il completo ritiro del governo dal mercato è l'unico modo per garantire la prosperità, non sorprende che siano propensi a non credere neppure ai dati scientifici che indicano come soluzione una maggiore regolamentazione governativa. Questo, naturalmente, in modo del tutto indipendente dall'esistenza di una regolamentazione reale: ciò che conta è la convinzione di una futura azione del governo. Purtroppo, lo studio ha anche riscontrato che l'incrollabile fede nel libero mercato sembra rendere scettici nei confronti di qualunque dato scientifico che coinvolga il governo, a prescindere dal settore di studio o dal rigore della ricerca. In poche parole, l'ideologia trionfa sui fatti. Decisamente più interessante è però la correlazione, modesta ma esistente, tra il rifiuto del cambiamento climatico e la presenza di una mentalità generalmente complottista. Le persone che rifiutano il cambiamento climatico non credono allo stesso modo a tutte le teorie del complotto elencate nel questionario, ma una tendenza generale in questo senso sembra proprio esserci. Sarebbe stato illuminante sapere se i negazionisti credano a una particolare teoria della cospirazione più che ad altre, ma questo tipo di tendenza non è emerso. Infine, anche la percezione delle risposte date ad altre precedenti questioni ambientali è correlata negativamente con il negazionismo. Quindi, se ritenete che non ci sia un vero consenso sulle piogge acide, siete anche meno propensi a credere nel consenso sui cambiamenti climatici. E' importante non dimenticare alcuni limiti della ricerca, il più importante dei quali è la natura dei soggetti. Il campione è piccolo e non del tutto rappresentativo, e un campione preso da Internet è spesso autoselezionato e rischia di rappresentare i soggetti più “chiassosi”, ignorando la stragrande "maggioranza silenziosa" che può pensarla in modo diverso, e forse più moderato. I negazionisti del cambiamento climatico si dispiegano lungo un continuum anche in merito alle regolamentazioni governative dei mercati del clima; quindi a seconda di ciò in cui credono esattamente, possono mostrare un maggiore o minore attaccamento al liberismo. Lo studio, inoltre, non dimostra che tutti i negazionisti del cambiamento climatico siano propensi a credere alle teorie complottiste sull'11 settembre. Piuttosto, richiama la nostra attenzione sul fatto che la psicologia dei negazionisti presenta alcuni tratti che possono essere condivisi dai teorici della cospirazione. L'obiettivo principale dello studio è ispirare studi più dettagliati su come mentalità diverse si intersechino tra loro, e l'aspetto più interessante dei risultati ottenuti è che indicano profonde connessioni psicologiche tra diversi sistemi di credenze. Il rifiuto della scienza sulla base del mancato adeguamento a convinzioni precostituite è un classico caso del ragionamento a tesi. Dal momento che l'ideologia del libero mercato va solitamente di pari passo con una politica conservatrice, non sorprende di trovare che la maggior parte dei negazionisti dei cambiamenti climatici sia di destra. Ma che dire della correlazione con le teorie della cospirazione? Una delle caratteristiche comuni alla maggior parte di queste teorie è la presunta onniscienza e potenza del governo. JFK, per esempio, non sarebbe stato assassinato da un singolo uomo armato ma da una vasta congiura che ha coinvolto in primo luogo le agenzie governative. Dalla negazione dell'11 settembre a quella dell'HIV, il grande cospiratore è sempre il governo. Le cospirazioni attribuite a imprese private (per esempio sul rapporto tra vaccini e autismo) vanno forte tra le persone di sinistra, ma impallidiscono in confronto al numero di quelle che coinvolgono il governo. Il senatore repubblicano James Inhofe (a destra), capofila dei negazionisti del cambiamento climatico. (© JIM LO SCALZO/epa/Corbis)Da questo punto di vista non sorprende che la fede nel laissez-faire capitalista si concili con le teorie della cospirazione: i fautori del laissez-faire sono intrinsecamente sospettosi del governo. Per esempio, il campione del negazionismo climatico negli Stati Uniti, il senatore James Inhofe, parla regolarmente di una bufala sponsorizzata dal governo. Inhofe pensa che migliaia di scienziati di tutto il globo, in accordo con decine di agenzie governative, abbiano avuto la brillante capacità di gettare fumo negli occhi al mondo intero. Scienziati e funzionari di governo dovrebbero sentirsi lusingati dall'onniscienza attribuita loro dai negazionisti. Purtroppo, far ricredere chi ha una mentalità complottista non è facile, poiché, come osserva lo studio, presentare la prova del contrario rafforza il convincimento del successo diabolico del complotto. L'unica cosa che possiamo fare è indicare ai negazionisti che le loro credenze in effetti sono di tipo complottista. Mostrare le caratteristiche che la cospirazione sul cambiamento climatico condivide con il negazionismo dell'11 settembre e il revisionismo su Pearl Harbor. Spiegare che un reale complotto sul cambiamento climatico richiederebbe la collusione di un enorme numero di persone per un periodo di tempo incredibilmente lungo, senza alcuna possibilità di defezioni o fuga di notizie. E' improbabile che un simile ragionamento convinca i negazionisti più duri. Ma notando la somiglianza fra la negazione dei cambiamenti climatici e alcune delle più folli teorie del complotto, si possono almeno aumentare le probabilità che alcuni negazionisti guardino con occhio più critico a ciò in cui credono. E nella guerra contro l'ignoranza, anche una vittoria parziale va assaporata. (La versione originale di questo articolo è apparsa su scientificamerican.com il 6 maggio 2013. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati) _____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Mag. ’13 LA REALTÀ NON SI ESAURISCE IN UN TWEET di ENRICO MENTANA «Non rinunciare», «Scappi via, codardo», «Non darla vinta a quattro teppisti», «Fuori i vip che non sanno stare su Twitter». Al di là del merito, e del caso che mi riguarda, queste reazioni sono utili per una riflessione generale certo più interessante. Negli intenti sono diversissime tra di loro, eppure riassumono una comune e fuorviante convinzione: che Twitter non sia un network di iscritti ma La Comunità, quella vera, dove «bisogna esserci». Di qui conseguono affermazioni paradossali: chi non sta su Twitter non sa che c'è il brutto, che c'è la volgarità, l'aggressività, ma neanche che c'è il bello, il contraddittorio, o il dialogo alla pari. E chi ne esce perde, o scappa. Dopo aver passato gli anni a irridere quel popolo della poltrona che si illudeva di conoscere la realtà solo guardando la tv (o facendola) gli apocalittici si sono integrati via web, e lì si sono rinchiusi. E neppure loro vedono più il mondo che è fuori dagli schermi, quelli del computer e del cellulare, oltre che della vecchia tv. Attenti, state usando il binocolo alla rovescia. Non si può far credere che la socializzazione consista solo nel leggersi e scriversi tra amici e colleghi o con sconosciuti senza volto, in perfetta solitudine. Fuori da Twitter in Italia ci sono 50 milioni di persone, né migliori né peggiori di follower e following, ma certo più rappresentative. Non ripudio certo Twitter: è uno strumento efficace di confronto, di ascolto, di informazione. È sfidante per necessità di tempismo e concisione. È un network di socializzazione sintetica, se diamo all'aggettivo «sintetico» tutti e due i suoi significati, la misura in 140 caratteri, ma anche la riproduzione in vitro delle comunità reali. Molti tra quanti hanno un ruolo nella comunicazione, è vero, lo usano soprattutto per lanciare il loro libro o le presentazioni dello stesso, per annunciare il programma o la comparsata in tv, per linkare il loro scritto, per annunciare o smentire inintermediari, per retwittare commenti laudatori al loro libro-articolo-programma. Così come specularmente molti finti iconoclasti lo usano per attaccar briga o insultare o sfogarsi col primo che capita a tiro, soprattutto se sanno chi sono. Ma c'è anche tanta gente che ha voglia e argomenti, che vuol sapere, capire, comunicare. Quando un anno fa sono entrato in Twitter l'ho fatto nel modo che mi sembrava più giusto, senza srotolare dépliant e cercando di dire la mia. Ma soprattutto leggendo i tweet degli altri: e non solo di quanti seguivo per esigenze professionali (come l'ottimo profilo del Corriere, tra gli altri). Chi fa informazione ha centinaia di migliaia di follower: persone con cui non ti puoi confrontare con domande e risposte, affermazioni e repliche. Puoi leggere quasi tutto quel che ti scrivono, però: ed è quel che ho fatto sempre, utilmente. Per questo credo di poter essere un testimone credibile se dico che Twitter rischia di essere schiacciato da una minoranza rumorosa, impegnata nella diffusione di una regressiva volgarità (soprattutto, in modo impressionante, contro donne) e nelle scorribande alla ricerca del bersaglio di turno da demolire: non per le sue tesi, il che magari sarebbe salutare e proficuo, ma per mero sfizio. Quasi sempre, come ha scritto ieri Roberto Saviano su la Repubblica, «in realtà l'insultatore vuole vivere della luce riflessa dell'insultato». Non è vivibile una comunità in cui i sentimenti prevalenti sono quelli di ostilità. Nessuno o quasi di coloro che rendono irrespirabile tanta parte di Twitter ha un nome e cognome. Il loro unico «coraggio» sta nella violenza delle parole, la loro viltà nel nickname, lo pseudonimo col quale firmano le loro ribalderie. Come cantava Jannacci: «Un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore, e vedere di nascosto l'effetto che fa». Un mondo da cui si può fare un passo indietro: come in un circolo, un partito, un'associazione. Un socio in meno, non un «caso». Il giorno in cui elementari regole di civiltà, come quelle del mondo reale, saranno osservate anche lì, di certo ci tornerò. Il web del resto è ormai un pezzo della nostra vita. Ma proprio per questo vorrei avvertire tutti quelli che ci si sono chiusi dentro: guardate che fuori non c'è solo l'odiata torre d'avorio dei privilegiati, ci sono strade, negozi e uffici veri, giornali di carta e persone in carne e ossa. Anche tanta gente in difficoltà, che ha perso il lavoro o ha altri problemi veri: e nessuno di loro ha in mano uno smartphone. Per ora siete voi che mimate loro, non il contrario. Ed è dalla realtà che i pavidi fuggono, non da Twitter. ========================================================= _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 12 Mag. ’13 ASL8&AOUCA: OSPEDALE PEDIATRICO SOS PER IL TRASFERIMENTO A giugno una tavola rotonda al congresso della Società italiana di pediatria Il tema è quello dell’organizzazione del nuovo polo ancora oggi in alto mare di Alessandra Sallemi wCAGLIARI Ospedale pediatrico al Microcitemico: l’ufficialità tace, gli operatori che dovranno farlo funzionare tremano. C’è un nodo che, in queste settimane, il passaparola sanitario sta valutando con preoccupazione crescente: l’organizzazione. In tempi lontani, quando la Regione decise che la ristrutturazione del Microcitemico doveva essere ripensata perché questo diventasse un grande ospedale dei bambini, su richiesta della direzione generale della Asl 8 uno staff di medici aveva prodotto un corposo documento dove si mettevano in risalto gli aspetti positivi dell’operazione ospedale pediatrico, ma anche quelli negativi e questi ultimi erano accompagnati da proposte di soluzione. Mancano poche settimane al trasferimento annunciato della pediatria universitaria dalla clinica Macciotta al sesto piano del Microcitemico ristrutturato e ancora non si è parlato dei doppioni, del personale, della direzione. Le stanze della chirurgia sono quasi pronte, ma non c’è notizia di soluzione al vero problema del funzionamento della chirurgia pediatrica (ora attiva al Santissima Trinità) che pure trova qui locali di qualità ottimamente attrezzati: gli anestesisti. Per i bambini ci vogliono anestesisti specializzati: dove li mettono? da dove li prendono? Ancora: il pronto soccorso pediatrico non arriverà col trasloco della pediatria universitaria perché, nella clinica Macciotta, funziona soltanto una guardia medica pediatrica, il pronto soccorso deve affrontare tutte le emergenze, ha bisogno di strutture più ampie e, ovviamente, di personale. Di tutto ciò non c’è traccia visibile nel nascente ospedale pediatrico sardo. Sandro Loche è il presidente della sezione Sardegna della Sip, la società italiana di pediatria che, per giugno, ha in programma a Cagliari il congresso regionale all’interno del quale c’è una tavola rotonda proprio sul futuro dell’ospedale pediatrico a cui sono invitati l’assessore alla Sanità e i tre direttori generali. Spiega Loche: «L’organizzazione è una tema che deve essere affrontato a monte se vogliamo dare risposte adeguate ai bisogni di salute dei nostri bambini. Non è un problema di gerarchie o di spazi da spartire, ma di garantire un standard assistenziale adeguato. Anche durante il trasloco». Poi: come si armonizzeranno due gastroenterologie e due endocrinologie, ciascuna con un responsabile? Di sicuro il reparto pediatrico del Brotzu resterà dov’è per molti anni: è previsto che traslochi qui ma in un’ala nuova tutta da costruire. Ricapitolando: al Microcitemico andranno neuropsichiatria infantile al piano 4, il 5 sarà il centro trapianti, il 6 la pediatria. Si dice da sempre: staranno stretti. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 Mag. ’13 AOUCA: CLINICA MACCIOTTA SVUOTATA LA BIBLIOTECA «SALVATE LE LIBRERIE» Ancora due settimane, forse tre, e la clinica Macciotta inizierà il trasloco verso Monserrato. La data per il trasferimento dei reparti di Puericultura e Terapia intensiva neonatale è ancora ballerina: il sabato 25 maggio oppure sette giorni dopo, il primo giugno. Ma l'aria di smobilitazione nello storico edificio di via Ospedale è palpabile. All'esterno, da un mese, c'è un presidio fisso dei vigili del fuoco. All'interno alcune stanze sono già state svuotate. Una vicenda in particolare sta creando non pochi malumori tra medici e infermieri della clinica: la biblioteca al quarto piano. I libri, migliaia di volumi di grande pregio e valore scientifico, sono già stati inscatolati e portati al Policlinico di Monserrato. Preoccupa il destino della storica libreria. Sembra che l'Università, proprietaria di scaffali, tavoli e sedie, autentici pezzi di antiquariato, abbia deciso di vendere tutto. Un pezzo di storia della Clinica che lascerebbe per sempre gli ambienti universitari. «Perché la biblioteca non viene lasciata lì e riutilizzata?» Questa la domanda ricorrente tra medici e infermieri. Le tre stanze hanno ospitato tutti gli specializzandi che dagli anni Trenta si sono formati e hanno studiato a Cagliari. Un punto di riferimento con le librerie costruite apposta per occupare tutte le pareti e con libri e volumi, numerosi quelli antichi, su cui studiare e aggiornarsi. Nella biblioteca si svolgevano le lezioni per le specializzazioni e qui, al quarto piano, è stato festeggiato professor Macciotta quando ha compiuto ottant'anni. «Vendere tutto a un antiquario sarebbe buttare via un pezzo di storia della Clinica», ripetono tutti i camici bianchi. Per questo lanciano un appello affinché l'Università faccia un passo indietro e conservi quello che è considerato un patrimonio identitario della Macciotta. Il personale medico, infermieristico e ausiliario sembra oramai aver fatto l'abitudine al divorzio tra blocco neonatale e pediatrico. Il primo, con i reparti di Terapia intensiva, pronto soccorso per neonati (fino a trenta giorni di vita) e Puericultura, a fine mese finirà al Blocco Q del Policlinico di Monserrato. Il secondo, con la clinica Pediatrica e il pronto soccorso pediatrico, resterà, per ora, in via Ospedale in attesa di finire al Microcitemico. La speranza di chi da una vita lavora nella Clinica Macciotta era quella di veder realizzato un polo unico. Matteo Vercelli _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 07 Mag. ’13 Gavino Faa, direttore di Anatomia patologica all'Università di Cagliari Il professore denuncia: «BOICOTTANO IL REGISTRO TUMORI» La Sardegna è una delle poche regioni italiane prive del Registro tumori. Tre anni fa, l'assessore Antonello Liori diede l'incarico di predisporlo al professor Gavino Faa, cattedra di Anatomia patologica all'università di Cagliari: «Il Registro deve dare la fotografia della situazione isolana sotto il profilo oncologico, per poter decidere le priorità di intervento». Dopo 3 anni non è successo nulla, ma Sassari ha il Registro dal '92 e Nuoro dal 2010. «Ho creato un'équipe con patologi e tecnici, li ho mandati fuori per l'addestramento; ho preso contatti col Registro nazionale. Poi ho chiesto all'assessorato Sanità i dati sulle diagnosi ospedaliere e le Sdo: schede di dimissione ospedaliera. Non me le hanno date: questione di privacy». Chi vi pone questo problema? «Gli uffici: dicono che ci vuole una legge che li autorizzi. Ma negli altri posti come hanno fatto? Quando ho raccontato queste cose in Senato, si sono messi a ridere». Qualcuno non vuole il Registro, i dati sui tumori sono uno strumento di potere? «Non lo so, ma ho battuto la testa contro molti muri. E questo nonostante l'assessore De Francisci mi abbia confermato l'incarico. Con un sottoincarico per attivare almeno il Registro di Cagliari, poiché non si riusciva ad avere i dati regionali. L'assessore mi ha dato una grossa mano, ma tutto si è fermato negli uffici. E so che un funzionario va ai congressi a parlare dell'incidenza dei tumori». Quindi i dati esistono. «La Regione ha tutto. C'è un biologo che ha i dati in chiaro». Situazione vergognosa. Mai pensato di dimettersi? «Sì, ma mi fa troppa rabbia». Qualcuno fa mano contraria? «A un certo punto mi hanno dato le Sdo. Anonime. A me una cosa simile? A me che dirigo una struttura sanitaria dove vedo 10 mila nomi di pazienti che fanno la biopsia, 20 mila l'esame citologico. Il Registro nazionale mi ha detto di buttarle». Ora che succede? «Speriamo di baypassare gli uffici». Ha messo un termine? «L'assessore mi ha promesso che risolverà tutto in tempi brevi». Altrimenti? «Mi dimetto». L. S. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 07 Mag. ’13 AOUCA: SOLO DATI PARZIALI SUL CANCRO IN SARDEGNA L'indagine sulle patologie tiroidee fra i ragazzini delle scuole Medie della Sardegna nasce quando il professor Gavino Faa, titolare della cattedra di Anatomia patologica all'università di Cagliari, (già Preside della facoltà di Medicina e chirurgia) si mette a caccia di dati per predisporre il Registro regionale dei tumori. Poiché incontra difficoltà insormontabili, decide di rilevarli direttamente, insieme ai suoi collaboratori: «Siamo andati personalmente nelle anatomie patologiche delle province di Oristano e Cagliari e li abbiamo raccolti a mano. Un lavoraccio». Ma fino ad allora, a Cagliari, non lo aveva fatto nessuno? «Nessuno. Di pubblicato c'erano solo dei bei dati, importanti, dell'ex direttore dell'Ematologia dell'ospedale Businco, Giorgio Broccia, che aveva fatto studi sull'incidenza di leucemie e linfomi. Ci mancano quelli più recenti». Il professor Faa racconta: «Ci siamo trovati di fronte a problematiche un po' particolari. Abbiamo rilevato i tumori più importanti: colon retto, mammella, tiroide. E abbiamo avuto la conferma che in Sardegna c'è un'incidenza di tumori della tiroide, soprattutto nelle donne, molto elevata». Ma si trattava di dati parziali. Che hanno però trovato conferma nei numeri dell'istituto diretto da Faa, dove, nell'arco di 10 anni, sono stati rilevato 41 casi di tumori alla tiroide in ragazzi con meno di 20 anni «e si trattava solo dei numeri rilevati in questo ospedale. Mancavano quelli di Is Mirrionis e del Businco. Abbiamo cercato studi epidemiologici su questa classe di età, ma non ne abbiamo trovato né in Sardegna né nella Penisola». Da qui la decisione di approfondire l'argomento con un'indagine sul campo. Nelle scuole Medie.( l.s. ) _____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Mag. ’13 UNIVERSITÀ E SSN: APPELLO AL GOVERNO Le facoltà di Medicina e chirurgia formano i medici e gli specialisti, producono ricerca scientifica e curano i malati. Il governo D’Alema regolamentò i rapporti tra le Università e il Servizio sanitario nazionale (Ssn) con il decreto legislativo 517 del 1999, definendo le aziende ospedalierouniversitarie integrate con il Ssn e le aziende ospedaliero-universitarie integrate con le Università. Al termine di un quadriennio di sperimentazione, il Consiglio dei ministri avrebbe dovuto emanare un atto di indirizzo e coordinamento e proporre un apposito provvedimento legislativo sulle aziende ospedaliero- universitarie. Sono trascorsi 14 anni e non c’è ancora il previsto provvedimento legislativo: propongo alle due giovani e brillanti ministre della Salute e dell’Università di presentarlo al più presto. Vito d’andrea La Sapienza ROma _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Mag. ’13 VARGIU: SANITÀ, ORA SCELTE RADICALI L'appello di Vargiu, presidente della commissione Affari sociali della Camera: «Dobbiamo rinnovare il sistema, anche a costo di sacrifici e impopolarità» La sanità fa bene ai sardi, perlomeno ai politici: dopo il sottosegretario Paolo Fadda, l'altro isolano che assume un ruolo di rilievo nella legislatura nazionale è Pierpaolo Vargiu, neo presidente della commissione Affari sociali della Camera. Il deputato cagliaritano di Scelta civica, medico che proprio ai temi della sanità ha dedicato gran parte dei suoi 14 anni di impegno in Consiglio regionale, affronta il nuovo ruolo con un'idea chiara in mente: «Servono scelte radicali, la sfida è garantire prestazioni di qualità mentre i soldi si riducono. Il sistema dei costi standard penalizza le aree deboli: costa molto più allestire il 118 per la Sardegna che per tutta Roma, che ha il doppio degli abitanti». Ma non è neppure pensabile che il prezzo di una siringa cambi drasticamente tra un'Asl e l'altra. «Perciò all'inizio della legislatura regionale noi Riformatori presentammo una proposta di legge sulla centrale unica degli acquisti. Anzi, per noi basta una Asl». Eppure le riforme annunciate non sono arrivate. «Bisogna ammettere che siamo stati sconfitti. Ma i fatti ci danno ragione, sento che anche Cappellacci riparla della centrale unica». Il ministro Lorenzin dice no a nuovi tagli e annuncia meno sprechi. Condivide? «Di certo la spesa pubblica non può più essere un pozzo da cui attingere a piacimento. Per coniugare conti e qualità servono modifiche che richiedono sacrifici. Ma è più facile rinviarle che farle, specie adesso». Perché specie adesso? «Con la politica in crisi di credibilità, è più difficile fare scelte forti che implicano una certa impopolarità». Quali scelte, per esempio? «L'esempio classico sono i piccoli ospedali. Chi deve fare un intervento chirurgico importante cerca il reparto migliore, non quello sotto casa dove magari non c'è la rianimazione. In Sardegna, come altrove, dobbiamo potenziare le eccellenze. Ma anche centralizzare gli acquisti comporta sacrifici». In che senso? «Se l'Asl 8 riesce a comprare il pane a 2 euro al chilo anziché 4, qualche panificatore ci perde. Ma la spesa sanitaria non può più essere un ammortizzatore sociale per vie improprie». Ma allora, tra i due slogan (basta sprechi, basta tagli), quale deve prevalere? «Non sono alternativi. Per evitare i tagli lineari, che colpiscono ciò che serve e ciò che non serve, devi ridurre gli sprechi». Scelta civica sostiene un governo col Pd, cui Monti riservò molte frecciate, e con Berlusconi, di cui disse anche peggio. Come fate? «Gli elettori non hanno premiato né noi, né il Pdl, né il Pd. Anziché tornare al voto con una legge elettorale pessima, è giusto che i partiti facciano prevalere l'interesse generale per le riforme che possono far ripartire il Paese». Quali le più urgenti? «A parte quella elettorale, non ha più senso il meccanismo delle due Camere con poteri identici e leggi che rimbalzano tra l'una e l'altra. In generale, ripartirei dalle proposte dei saggi». Lei è da sempre un liberale: cosa pensa del Pdl che manifesta contro i giudici? «È vero, resto fedele a Montesquieu: i poteri dello Stato siano distinti e rispettosi l'uno dell'altro. Vorrei un Paese che archivia la guerra tra bande, per cui Berlusconi è un perseguitato o un cancro da estirpare». Sempre in quanto liberale, non le dà fastidio un governo di impronta Dc? «Io spero che Letta sappia incarnare ciò di cui l'Italia ha bisogno: scelte forti, innovatrici, non certo una democristianità intesa come attitudine alla mediazione eccessiva e al rinvio dei problemi. Il medico impietoso ammazza il paziente». Le larghe intese sono riproponibili in Sardegna? «A titolo personale, senza impegnare i Riformatori, dico che alla Sardegna sta molto stretta la solita alternanza tra centrodestra e centrosinistra, che finiscono per somigliarsi nell'incapacità di risolvere i problemi». Allora quale schema suggerisce, quali alleanze? «È finita l'epoca dello sviluppo basato sull'assistenzialismo clientelare. Al bipolarismo destra-sinistra sostituirei quello tra conservazione e innovazione». E chi sono gli innovatori? «Chi condivide l'auspicio di svolte radicali anche a costo di sacrifici. Credo che oggi nell'Isola chi la pensa così sia una parte minoritaria, ma importante: bisognerebbe provare a metterla insieme nei mesi da qui alle Regionali, e spero che lo facciano i Riformatori». Giuseppe Meloni _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 Mag. ’13 DE FRANCISCI:UN PATTO PER LA SALUTE L'assessore De Francisci scrive al neoministro Lorenzin Subito un confronto Stato-Regione per discutere il nuovo Patto per la salute e il regolamento di attuazione della spending review. Lo chiede l'assessore regionale della Sanità, Simona De Francisci, al neoministro della Salute Beatrice Lorenzin in un invito formale di incontro al responsabile del dicastero perché, con il nuovo governo, «sono ormai maturi i tempi per la ripresa della discussione sul sistema sanitario nazionale e regionale, anche alla luce del lavoro che la Sardegna sta portando avanti, ad esempio, sulla riorganizzazione della rete ospedaliera e sulla spesa farmaceutica». «Il primo intervento pubblico di ieri del ministro - ha sottolineato l'assessore - fa ben sperare su diversi fronti: innanzitutto perché a chiare lettere ha annunciato che nuovi tagli al settore non sono compatibili; in secondo luogo perché ha precisato il ruolo che avranno le Regioni su ogni percorso futuro: la Lorenzin si è impegnata ad avviare un confronto con le amministrazioni regionali, tenendo conto dei risultati che le Regioni hanno realizzato in questi anni». De Francisci ha ricordato quando nel luglio scorso il confronto Stato- Regioni arrivò a uno stallo sul Patto per la salute, a causa delle intenzioni del governo di intervenire sulla revisione della spesa pubblica con tagli lineari e basati su criteri ragionieristici. Fra i punti del programma che il neoministro intende realizzare vi è la lotta agli sprechi: «Un altro punto sul quale non possiamo che essere d'accordo - aggiunto De Francisci - visto il percorso virtuoso che in questo senso sta portando avanti la Sardegna, grazie anche alla legge 21 del 2012 e a provvedimenti sul contenimento della spesa farmaceutica. Bene, infine, sul ruolo del Ministero come garante dell'unità del Ssn, con l'obiettivo, come ha detto Lorenzin, di assicurare uguaglianza di trattamento e rispetto del diritto alla salute a tutti i cittadini». ______________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Apr. ’13 IL SSN IN 10 ANNI DI DEVOLUTION: SUD DISASTROSO Nelle Regioni del Sud gli indicatori peggiori sia economici che di salute La buona notizia è che il Paese, nel complesso, “tiene”. La cattiva notizia è che stanno venendo al pettine vecchi e nuovi nodi: l’ormai radicato e per molti aspetti crescente divario Nord-Sud e le conseguenze del rallentamento nel finanziamento del sistema sanitario. Che in prospettiva, ricordano gli esperti, si vedrà drenare risorse fino a 11 miliardi tra 2013 e 2015. Con temibili conseguenze, evidenti nei banchi di prova di altri Paesi Ue già prostrati dalla crisi economica, come Grecia, Spagna e Portogallo. A fare il punto sullo stato di salute dell’Italia e sulle prospettive per il nostro Ssn interviene il Rapporto Osservasalute 2012, giunto alla decima edizione e nato proprio per monitorare nel processo di devoluzione della Sanità italiana il quadro di insieme delle realtà epidemiologiche e assistenziali delle Regioni. Presentato lunedì 29 aprile a Roma al Policlinico Agostino Gemelli, il rapporto - pubblicato dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni italiane che ha sede presso l’Università Cattolica di Roma - è frutto del lavoro di 184 esperti di Sanità pubblica. Accanto al classico monitoraggio delle condizioni di salute e degli stili di vita degli italiani, da un lato, e della qualità dei servizi e dell’assistenza erogata dai singoli Ssr, dall’altro, quest’anno il report introduce una novità: un capitolo dedicato alle performance sanitarie che «testimoniano - sottolineano Walter Ricciardi e Alessandro Solipaca nelle Conclusioni alle 462 pagine del testo - come spesso le Regioni che mostrano i “conti in ordine” hanno risultati, sia in termini di efficacia che di accessibilità alle cure e di soddisfazione dei cittadini per i servizi sanitari ricevuti che spesso peggiorano». Come dire che le politiche di risparmio, viste a sé stanti, non costituiscono un valore assoluto. «Per quanto il Ssn stia lentamente migliorando la sua efficienza economica - è il monito di Ricciardi - anche in risposta alle sempre più pressanti richieste di razionalizzazione e più di recente di spending review (...) la ricerca di efficienza effettuata con tagli all’offerta in prospettiva potrebbe comportare dei rischi per quanto riguarda l’accessibilità alle cure e di conseguenza l’efficacia del sistema nel produrre salute». «I tagli previsti - aggiunge Solipaca - potrebbero diminuire i livelli di tutela del sistema, indebolendo la sua funzionalità proprio in un periodo di recessione economica». Uno scenario che si innesta in un’Italia già storicamente gravata dal divario Nord-Sud, con il Sud e le fasce di popolazione economicamente più svantaggiate che registrano da sempre evidenti svantaggi, sia in termini di salute che di accessibilità alle cure mediche. La forbice appare evidente dalla tabella pubblicata a piè di pagina, che mostra l’andamento in questo decennio di devolution e di Osservasalute di un set di indicatori delle aree “demogra#fia”, “fattori di rischio”, “stili di vita” e “preven#zione” e “assetto economico-finanziario”. Basta guardare da vicino, per tutti, il quadro della mortalità evitabile: se tra 2006 e 2009, ricorda ancora il Rapporto, si è assistito a una lieve riduzione del tasso di mortalità riconducibile ai servizi sanitari (dal 63,86 al 61,69 per 100.000 abitanti), le Regioni che presentano le peggiori performance in tutti gli anni considerati sono Calabria, Campania e Sicilia. E ormai, si legge ancora, il divario tra i cittadini delle Regioni più virtuose e quelle in difficoltà è «impressionante: quasi quattro anni separano gli uni dagli altri ed è come se negli ultimi dieci anni alcuni fossero tornati al secondo dopoguerra in termini di guadagno di aspettativa di vita». Il chiaroscuro, del resto, è la nota dominante di tutto il Rapporto: gli italiani - più anziani e più a rischio di sovrappeso - vivono di più e, nonostante la crisi, continuano a giovarsi di una diminuzione del rischio di morte per le principali patologie (v. articoli in pagina). Diminuisce il consumo di tabacco e di alcol, ma si conferma la tendenza preoccupante al binge drinking e al costante abbassamento dell’età media di avvio all’uso di alcolici (11-12 anni, l’età più bassa d’Europa). «Nel complesso - spiegano ancora gli esperti - i principali risultati ci forniscono un quadro del Ssn che opera in un contesto di progressivo aumento della popolazione a rischio, a causa del noto processo di invecchiamento e della presenza di una discreta quota di popolazione immigrata». Preoccupa ancora la conferma del trend di aumento del consumo di farmaci antidepressivi, già visto nel precedente Rapporto. Una crescita continua negli ultimi dieci anni, da 8,18 Ddd/1.000 abitanti al giorno a 36,1 nel 2011. Da monitorare con attenzione, inoltre, è ancora la conferma del trend in aumento per i suicidi, soprattutto negli uomini. Un dato che «può essere un segno - avvertono gli esperti - oltre che di patologia psichiatrica, del crescente disagio sociale e che va monitorato con attenzione anche al fine di prevedere un rafforzamento delle attività preventive e della presa in carico sanitaria e sociale di soggetti a rischio». Sempre che ci siano risorse e servizi, è chiaro. E possibilmente chiarendo in modo più esplicito, è il monito degli esperti, i Livelli essenziali di assistenza che il Ssn potrà continuare, effettivamente, a garantire su base universalistica. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 Mag. ’13 SANITA’: L'OSSERVATORIO NAZIONALE BOCCIA LA SARDEGNA Un sistema sanitario da reinventare di Antonio Barracca* VEDI LA FOTO Uno dei più gravi errori di una classe dirigente, di ogni classe dirigente, è quello di non conoscere, anzi di rifiutarsi di sapere cosa le accade attorno. Di ignorare che ciò che fa, le decisioni che prende non possono mai essere il prodotto di una sola verità, di un'unica realtà. Sono tutte realtà relative. Relative a un mondo interconnesso. Pensare che il servizio sanitario della nostra regione sia un modello e quindi una costruzione buona in sé ci distrae dal vedere la dura realtà dei fatti. L'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, nato per iniziativa dell'Istituto di Igiene dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, è un'istituzione di carattere scientifico che studia con criteri di scientificità l'impatto dei modelli organizzativi e gestionali su cui si fondano attualmente i Sistemi Sanitari Regionali. Vengono perciò realizzate linee di ricerca che si occupano di effettuare l'analisi dei sistemi e del quadro economico-sociale di riferimento; la valutazione e la rappresentazione delle diverse condizioni dello stato di salute, a livello del singolo e della popolazione, e della qualità complessiva dell'assistenza di ciascuna regione. Quindi un modello di riferimento scientifico e imprescindibile. Ecco il report del 2012. La Sardegna ha un PIL pro capite (2009) di 19.690 euro; si colloca al 16° posto fra le 21 regioni italiane. Ma la spesa sanitaria pubblica rispetto al PIL è del 9,52 per cento contro il 5,42 della Lombardia, il 5,83 dell'Emilia Romagna e il 6,77 della Toscana; tutte regioni con una ricchezza pro capite ben più alta. La nostra spesa sanitaria pubblica per cittadino (2011) è stata di 1.911euro contro i 1.867 della Lombardia, i 1.896 della Toscana e i 1.895 del Piemonte. Il disavanzo sanitario pubblico pro capite (2011), la differenza cioè fra i costi sostenuti e i ricavi, è stata di ben 131 euro per cittadino, 220 milioni di euro di disavanzo, con la sola compagnia del Lazio che ha dissipato più di noi. L'Osservatorio poi entra nel merito della qualità dei servizi sanitari regionali. Lo fa analizzando il tipo di risposta che i servizi danno a particolari problemi dei cittadini. Quanti giorni un cittadino deve attendere, dopo il ricovero, per essere operato? In Sardegna l'attesa è di 2,27 giorni contro 1,73 della Lombardia, 1,27 dell'Emilia Romagna, 1,41 della Toscana. E ancora: quanti pazienti con frattura del collo del femore vengono operati entro due giorni? In Sardegna sono il 23,5 per centro contro il 41 della Lombardia, il 56 della Toscana e il 46 dell'Emilia. Infine, l'Osservatorio ha valutato la capacità organizzativa del sistema sanitario, l'efficienza; come la qualità dei servizi porti ad un miglioramento della salute, l'efficacia; se l'assistenza sanitaria è adeguata ai bisogni del cittadino, l'appropriatezza. Purtroppo il valore di questi parametri è basso e ci colloca agli ultimi posti fra le regioni in compagnia della sola Calabria per efficienza ed efficacia e di Basilicata e Molise per l'appropriatezza. Un quadro che non deve offuscare il grande impegno che medici e infermieri ogni giorno, nonostante tutto, esprimono per dare una sanità migliore. Che ci deve spingere a confrontarci con chi dà servizi migliori dei nostri perché è quello l'obiettivo da raggiungere. Spendiamo troppo e male. Non abbiamo un progetto di lungo termine, rinviamo le scelte. Ci trastulliamo vantando eccellenze presunte e immaginando rimodulazioni fantasiose. *antoniobarracca@gmail.com _____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Mag. ’13 I DOTTORI SIANO PIÙ UMANISTI di SERGIO HARARI* U n editoriale di qualche anno fa sul British Medical Journal si chiedeva se la forza dell'effetto placebo e di una buona relazione medico-paziente non fossero di per sé un trattamento tanto efficace che negarlo sarebbe non etico, così come lo sarebbe negare un antibiotico a un paziente con la polmonite. La medicina in questi ultimi decenni è sembrata prendere una strada fatta di tecnica e razionalità, ma la mancanza di tempo e di contatto umano ha fatto perdere la consapevolezza della forza della relazione medico-paziente. D'altra parte gli ospedali non prevedono relazioni, con gli studi dei medici costruiti a due piani di distanza dai reparti di degenza: la cura è ormai concentrata in un asettico tecnicismo. Il tempo per parlare con i pazienti, ascoltarli, capirli e assisterli non è previsto né dalla medicinabasata sull'evidenza né dai moderni amministratori della sanità. Ma fare diagnosi, curare e assistere sono qualcosa di diverso. La più umanistica delle scienze ha perso per strada il patrimonio culturale dal quale nasceva, per restare schiacciata tra aziendalismi esasperati e tecnologie ultramoderne. Un umanesimo che si è modificato, però non estinto. Qualcosa l'abbiamo guadagnato, ad esempio ilpatient empowerment: i pazienti si informano, scelgono, possono conoscere le proprie malattie, questo realizza una corresponsabilità positiva che permette al malato di partecipare alle scelte che lo riguardano. Un altro esempio sono i programmi per i pazienti cronici, spesso gestiti in team con la partecipazione di infermieri oltre che medici, che spostano la relazione dal singolo professionista all'équipe di riferimento, diventando così un fondamentale presidio di assistenza. La cultura, dall'arte alla letteratura, al cinema, può essere lo strumento attraverso il quale rimodulare un nuovo rapporto tra cittadini, medici e salute e ridare forza a quell'alleanza terapeutica da sempre alla base di qualsiasi cura, restituendo la dimensione umana a una vecchia arte diventata quasi scienza. *Presidente Associazione Peripato _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Apr. ’13 L’IMPASSE DEI CAMICI DAVANTI AI «NUOVI» PAZIENTI La medicina del terzo millennio rappresenta una sorta di spartiacque tra un modello tradizionale paternalistico di relazione medico-paziente nel quale esisteva una sorta di autolegittimazione dell’operato medico (come colui in grado di decidere non solo se e come intervenire, ma anche se e come informare il soggetto-paziente) a un modello più meramente contrattuale con una giusta e piena autonomia decisionale da parte del soggetto-paziente che “deve” essere informato appunto nell’ottica di quel principio di autonomia e autodeterminazione in ordine alle cure. Tale evoluzione della medicina vive un forte contrasto tra la necessità di regolamentazione di questo nuovo modello sanitario e la resistenza ancora presente, da parte di alcuni medici, a coinvolgere i pazienti non solo nelle decisioni di cura ma soprattutto a metterli in possesso di adeguate informazioni sulle loro condizioni di malattia, sulle metodologie diagnostiche da utilizzarsi e sulle eventuali opzioni terapeutiche. In parole semplici la legittimazione dell’operato del medico, la “dimensione” dei suoi poteri, dei suoi doveri e delle sue responsabilità, passano in maniera inequivocabile attraverso quella tappa fondamentale del consenso informato. Ecco dunque che aspetti giuridici, deontologici, morali, scientifici divengono, seppur in misura diversificata tra loro, elementi peculiari del consenso che vanno a ripercuotersi sui doveri e sulle responsabilità del medico. In tale ottica si stravolge, rispetto al modello antico paternalistico, la figura del paziente che da soggetto passivo di accettazione di un programma di cure, diviene titolare, in relazione ai trattamenti sanitari, di un diritto di scelta in forza del quale può operare anche una scelta divergente o, addirittura, contrastante con quella suggerita dal medico, rifiutando uno specifico trattamento proposto. Inoltre per il medico diviene non più opzionale ma inderogabile dovere fornire l’informazione quale presupposto necessario di un valido consenso di cure. Ruolo informativo che spesso impatta con l’organizzazione aziendalistica ospedaliera sempre più spinta che spinge il medico a rispettare serrate liste d’attesa. Il rischio di errore e di omettere passaggi informativi, quindi, è sempre in agguato e il medico è sempre più esposto a possibili contenziosi, peraltro sempre più frequenti. Il rischio di appiattimento nella medicina difensiva è reale così come quello di vedere sempre più medici “scansare” gli interventi più rischiosi per evitare il rischio di causa. Senza dimenticare l’abbandono assicurativo da parte delle strutture e compagnie. In qualche modo, inoltre, tale innovativo rapporto medico-paziente cela il rischio di una perdita di umanizzazione della professione medica e dell’essere paziente, potrebbe sterilizzare in una qualche maniera l’informazione da qualunque risvolto morale, col rischio di determinare la totale perdita di quell’empatia spesso rasserenante e ineluttabile nella professione medica a favore di un mero rapporto contrattuale o di prestazione d’opera. La motivazione di questa sorta di rivoluzione copernicana del rapporto medico-paziente è stata generata non solo dalla sempre maggiore necessità del medico di dotarsi di strumenti di tutela contro la moda epidemica di azioni legali contro la categoria, ma anche da un modello culturale profondamente mutato che ha, in parte giustamente, abbandonato il modello paternalistico, riconoscendo il tema salute come un diritto inalienabile. E in questo tourbillon i processi di burocratizzazione, seppur necessari, specie in un corretto modello sanitario pubblico/sociale, hanno incrinato, spersonalizzandolo, il rapporto medico-paziente. Il contemporaneo evolversi della scienza e delle tecnologie seppur dando varietà di scelte e vedute all’operato medico, creando più opzioni, ha in qualche modo minato quel concetto di medicina-certezza modificandolo in medicina-opzione. Insomma si è creato un nuovo modello decisionale creato da chi (medico) prospetta scenari di intervento e probabilità di esito sfavorevoli o favorevoli e chi (paziente) deve individuare e scegliere una delle opzioni proposte capaci di tradurre e realizzare l’efficacia da lui sperata. Un modello nuovo, innovativo, perfettibile, necessario ma che nella pratica non solo rischia di appiattire talora in maniera pesante il rapporto fiduciario ma anche di svuotarlo di valori morali generando una sorta di chimera del paziente realmente informato. In linea di massima la speranza è quella di iniziare a rivedere il nuovo modello assistenziale valorizzandone in maniera decisa il ruolo decisionale del paziente aiutandolo in un percorso che non sia mera informazione esaustiva sotto il profilo scientifico ma “percorso terapeutico comune” nel quale l’informazione scientifica redatta ed esplicata dal medico sia pervasa da quel clima di fiducia, trasparenza, e (non guasta mai) di umanità che si attiene a quei princìpi morali, deontologici e giuridici inalienabili dalla professione medica. Francesco De Seta Dirigente medico Ricercatore universitario Responsabile Centro diagnosi prenatale Irccs Burlo Garofolo Universita degli studi di Trieste _____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Mag. ’13 PIÙ DONNE NELLA SANITÀ MA CON POCO POTERE Dal punto di vista delle Pari opportunità, chiunque ne sia il sottosegretario, bisogna dire che la politica ha fatto passi avanti. La rappresentanza femminile nel nuovo Parlamento e nel governo, se non paritaria, è certamente cresciuta in modo deciso. Si può dire lo stesso del governo della Sanità? Alcuni dati usciti in questi giorni ci confermano che anche qui è in atto un'evoluzione, ma più nella sanità che nel suo governo. Il personale del SSN, secondo il ministero della Salute, comprende 33.660 donne su 107.448 unità, ancora poche, ma in continua crescita (3-4% all'anno). Naturalmente molte sono infermiere (sono donne il 77%), ma anche la classe medica si va femminilizzando rapidamente, se non altro perché si conferma la tendenza che vede una schiacciante maggioranza femminile tra gli iscritti alle facoltà di Medicina. Anche perché le ragazze sono più brave ai test di ammissione e si laureano con voti migliori. Basterà per raggiungere la parità anche nelle responsabilità? Qui la strada sembra più dura, i pregiudizi resistono. Le donne presidi o rettori nelle facoltà di Medicina, le dirigenti degli ospedali e delle Asl sono ancora una rarità. I più evoluti si dimostrano gli Ordini provinciali dei medici: qui le donne presidenti sono due su 106. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Mag. ’13 UN INFERMIERE SU DUE SUBISCE UN'AGGRESSIONE. Il 12 maggio parte la campagna di sensibilizzazione del Nursind di Rosanna MagnanoCronologia articolo10 maggio 2013 Più di un infermiere su due ha subito un'aggressione durante lo svolgimento della sua professione e uno su tre è stato testimone di almeno un episodio di violenza o ne ha sentito parlare da colleghi. Calci, pugni, schiaffi, ma anche insulti e aggressioni verbali. E il fenomeno, complice la crisi economica e i tagli della spendng review, è in aumento. A puntare il dito sul problema è il Nursind, sinadacato delle professioni infermieristiche, che in collaborazione con lo spagnolo Satse ha deciso di intraprendere una campagna di sensibilizzazione nei confronti dei cittadini per far comprendere che "l'aggressione non è la soluzione" dei problemi sistemici della sanità, problemi accentuati in questo periodo di crisi per i continui tagli alle strutture e il sottofinanziamento del Ssn. L'iniziativa nazionale del sindacato infermieristico NurSind sarà avviata in occasione del 12 maggio, festa internazionale dell'infermiere. Da quel giorno saranno affissi negli spazi pubblici e all'interno delle strutture sanitarie manifesti dal titolo "l'aggressione non è la soluzione" e saranno diffusi i contenuti di un documento ad hoc. "La crisi economica, lo stato di frustrazione sociale, la recente campagna di discredito dei dipendenti pubblici, la mancata conoscenza del ruolo degli infermieri da parte dei cittadini – afferma Andrea Bottega Segretario Nazionale Nursind - sono le concause evidenziate da un'indagine promossa da Nursind e svolta nel mese di aprile sul fenomeno delle aggressioni al personale sanitario." "Aggredire un infermiere - – spiegano Tiziana Traini e Salvatore Vaccaro della direzione nazionale Nursind e autori del documento - significa mettere in difficoltà tutto il sistema e la garanzia della qualità dell'assistenza: gli organici già ridotti all'osso difficilmente possono reggere ulteriori assenze el'impatto sulla motivazione lavorativa incide negativamente sulla relazione tra infermiere ed assistito." L'ugenza dell'iniziativa è dimostrata dai dati di un'indagine effettuata dal Nursind tramite un questionario inviato agli iscritti: il 79,7% ritiene che il fenomeno delle aggressioni al personale sanitario sia in aumento o forte aumento mentre solo il 2,6% ritiene che il fenomeno sia in regressione o esaurimento. Più della metà (54,8%) del campione ha subito nella sua carriera professionale un'aggressione, mentre il 33 % è stato testimone di almeno un episodio di aggressione o ne ha sentito parlare da colleghi (22,4%). Solo il 14,2 % non è mai stato minacciato o aggredito. Gli episodi si sono verificati in diversi anni. Nei primi 4 mesi del 2013 già 335 intervistati (21,4%) affermano di aver ricevuto un'aggressione. Le aggressioni sono state solo fisiche nel 7,1% dei casi (112), verbali nel 41,2% (645), sia fisiche che verbali nella maggioranza dei casi per il 42,0% (658). In 406 casi (25,9%) sono intervenute le forze dell'ordine anche se solo in 229 casi il campione dichiara che la polizia è giunta in tempo per evitare il peggio. È vero anche che nel 54,8% dei casi (859) i danni fisici non hanno avuto bisogno di prognosi mentre nel 7,7% (118) l'aggressione ha prodotto conseguenze di astensione dal lavoro superiore ai 3 giorni. È interessante notare che, secondo gli intervistati, il 51,3% (804) dichiara che non esiste in azienda una modalità di segnalazione dell'evento presente solo nel 31,0% (486) dei casi. Ad aggredire gli operatori sanitari sono quasi in egual misura sia i pazienti (33,2%) che i parenti (29,8%) o entrambi (15,9%), principalmente di nazionalità italiana (62,3%) con alterazioni di carattere psichico o alcolico. L'ultima parte del questionario ha interrogato gli operatori in merito alle iniziative per la sicurezza nei luoghi di lavoro. La maggioranza di chi ha risposto (83,2%) ha indicato che non sono stati presi provvedimenti per garantire la sicurezza degli operatori (66,4% pari a 1.041 risposte) e nel caso siano stati presi provvedenti a tutela del personale per evitare il ripetersi di aggressioni, nel 48,2% dei casi non sono stati ritenuti sufficienti come deterrente (756 risposte). Infatti, nel 32,9% dei casi (516) nonostante i provvedimenti presi si sono verificati altri episodi di agressione. Tra le proposte per fronteggiare il problema: rafforzare la vigilanza, di polizia o servizi di sicurezza, anche attraverso la videosorveglianza, ma anche maggiore formazione per imparare a gestire relazioni particolari (per esempio con gli etilisti o i tossicodipendenti) e a entrare in empatia con il paziente. I risultati sono in linea con quelli emersi da una ricerca spagnola pubblicata sull'International Journal of Occupational and Environmental Health. Secondo lo studio, le aree a tasso di rischio più elevato sono i servizi di emergenza-urgenza, strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali, luoghi di attesa, servizi di geriatria, servizi di continuità assistenziale. In questi settori, ma in modo particolare nei servizi di emergenza-urgenza e nelle strutture psichiatriche, le aggressioni fisiche hanno raggiunto rispettivamente il 48% e il 27% degli operatori; gli insulti sono risultati invece praticamente ubiquitari, avendo coinvolto rispettivamente l'82 e il 64% degli operatori, e percentuali più o meno simili si trovano per le minacce. L'85% delle aggressioni è perpetrato dagli stessi pazienti: un quarto di essi, circa, risulta essere affetto da disturbi psichici e circa il 6% è sotto l'influsso di droghe. Il rischio più elevato lo corrono gli operatori degli ospedali di maggiori dimensioni, mentre il fenomeno della violenza sembra essere meno marcato nei servizi di dimensioni più limitate e di collocazione rurale, probabilmente in conseguenza del diverso tipo di rapporto che s'instaura tra gli operatori e gli utenti dei servizi. Tra le cause principali dell'incremento degli atti di violenza: l'aumento di pazienti con disturbi psichiatrici acuti e cronici dimessi dalle strutture ospedaliere e residenziali; la diffusione dell'abuso di alcol e droga; la gestione e/o distribuzione di farmaci che hanno notevole valore economico nel mercato illegale dei farmaci (metadone, stupefacenti, ecc.); l'accesso senza restrizione di visitatori presso ospedali e strutture ambulatoriali; le lunghe attese nelle zone di emergenza o nelle aree cliniche, con possibilità di favorire nei pazienti o accompagnatori uno stato di frustrazione per l'impossibilità di ottenere subito le prestazioni richieste; il ridotto numero di personale durante alcuni momenti di maggiore attività (trasporto pazienti, visite, esami diagnostici). _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Mag. ’13 AGENAS: FLOP DEI SUPER-TICKET INCASSI DIMEZZATI Nel 2014 c'è il rischio che la spesa superi quanto viene versato per l'Imu sulla prima casa Paolo Del Bufalo Tartassati dai ticket che oggi valgono 150 euro per ciascun italiano "non esente" e che nel 2014 rischiano di schizzare a 300-350 euro, fino a 700 a famiglia. Mentre le Regioni si leccano le ferite e calcolano perdite per 400 milioni per effetto proprio dei superticket. Dai quali gli italiani scappano e rinviano le cure. Paradossi italiani. Ma non troppo: perché nel 2014, se scatterà addirittura un aumento di 2miliardi dei ticket, la batosta sarebbe pesantissima. A fare i conti sugli effetti dei ticket è il primo studio dell'Agenzia nazionale per i servizi sanitari (Agenas) sulle prestazioni specialistiche, presentato ieri a Roma. Prestazioni che nel primo trimestre 2012 rispetto al 2011 sono costate di più e sono anche diminuite per l'effetto del bisogno di spendere meno anche rinunciando alle cure e della fuga dal servizio pubblico verso prestazioni private low cost più convenienti del ticket, ma spesso con meno garanzie di qualità. Con il sistema attuale di copayment i due miliardi in più di ticket dal 2014 raddoppierebbero la spesa dei 15 milioni di cittadini non esenti, con un onere complessivo medio per famiglia (oltre 700 euro circa per due persone) superiore a quello dell'Imu sulla prima casa, ha sottolineato Fulvio Moirano, direttore dell'Agenzia. Equità addio, quindi. E al danno si rischia di unire la beffa: il Documento di economia e finanza 2013 - ha spiegato il presidente Agenas, Giovanni Bissoni - parla di minori entrate per lo Stato di 2 miliardi, legate allo stop che ticket dato dalla sentenza della Corte costituzionale 187/2012. Il Def - che non prevede risorse aggiuntive - evidenzia però anche una minore spesa 2012 di 2,7 miliardi rispetto alle previsioni. Ma si tratta risparmi anti- deficit, non di maggiori risorse e pensare di coprire così i mancati ticket manderebbe in tilt i bilanci di tutte le Regioni, anche le più virtuose. Lo studio mette in risalto anche una diminuzione media dell'8,5% delle prestazioni specialistiche, specie per gli esami di laboratorio, importanti per garantire le diagnosi, e con il calo maggiore nei presidi privati accreditati col Servizio sanitario nazionale (-11,8% rispetto al -7,6% delle strutture pubbliche). «Tutto il sistema ticket-esenzioni ha evidenziato distorsioni negli effetti prodotti sia per la spesa che per l'equità - ha concluso Cesare Cislaghi, uno degli autori dello studio - e sarebbe quindi opportuno che fosse rivisto se non ridimensionando, almeno ristrutturandolo perché a pagare sia chi può farlo e non chi ha redditi bassi o già subisce spese extra come i malati cronici». _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 09 Mag. ’13 QUANDO LA CRISI MORDE ANCHE LA SALUTE È UN LUSSO SASSARI – L’Unità operativa di Medicina d’urgenza dell’ospedale civile ha una nuova sede al piano terra della nuova Ala Sud del Santissima Annunziata. Domenica i 16 degenti hanno lasciato i locali al secondo piano del padiglione centrale e hanno trovato ad accoglierli il direttore generale, Marcello Giannico; il direttore del presidio ospedaliero, Bruno Contu e il direttore di Medicina d’Urgenza, Mario Oppes (foto). Nel nuovo reparto i posti di degenza sono 20, disposti in camere doppie con bagno interno, aria condizionata e tv.« L’Unità operativa – spiega Oppes – accoglie quei pazienti che in Pronto soccorso non sono stati ancora stabilizzati, inquadra i pazienti che hanno una sintomatologia che non riconduce immediatamente ad una patologia particolare e, una volta definita, consentire il trasferimento nel reparto specialistico adeguato». di Gabriella Grimaldi wSASSARI Il ticket per una visita specialistica lo devi pagare perché la legge ha stabilito che con il tuo reddito (sopra i 36mila euro) ce la puoi fare. Ma se sei un operaio che accumula un reddito di 38mila euro (e quindi sfuma l’esenzione), ma allo stesso tempo devi mantenere un nucleo familiare di quattro persone, anche quei 46 euro di importo massimo del ticket per un esame diagnostico ti fanno sforare di brutto da un budget già stiracchiato. La soluzione più semplice a quel punto è che rimandi il controllo. La visita dallo specialista può aspettare e speri nella buona sorte. Sono questi i meccanismi che stanno portando a modificare l’atteggiamento degli utenti nei confronti del sistema sanitario e più in generale della salute. Effetti devastanti, che in tempi di grave recessione economica come quelli che stiamo vivendo porteranno a impoverire ulteriormente le aziende sanitarie perché la rinuncia da parte dei cittadini a curarsi, o meglio a prevenire le malattie, causa costi esorbitanti, difficili poi da recuperare. Il tema sarà trattato sabato 11 nel corso di un convegno- dibattito organizzato dall’Ordine provinciale dei medici e degli odontoiatri e dal Comitato di Bioetica. Si intitola appunto “L’impatto della crisi economica sulla sanità: nuovi problemi etici” ed è dedicato a Nino Bagella, scomparso due anni fa e primo presidente del Comitato di Bioetica a Sassari. Perché, sottolineano gli organizzatori, un atteggiamento incentrato sull’etica della Medicina e sull’etica nei rapporti tra medico e paziente è tutt’altro che slegato da un futuro sanitario sostenibile. Addirittura scelte basate sul buon senso nell’applicazione delle terapie, nei controlli diagnostici e la stessa conoscenza della persona che stiamo curando possono incidere in maniera significativa sul bilancio delle aziende. «Certo si tratta di una situazione d’emergenza – commenta il presidente dell’Ordine dei medici, Agostino Sussarellu –, che deve far riflettere e indurre a trovare soluzioni che impediscano il crollo del sistema sanitario italiano, considerato fino a pochi anni fa come tra i migliori al mondo quanto a livello qualitativo e a copertura dei costi per l’utente. Si pensi soltanto che le aziende sanitarie hanno incassato in totale un miliardo in meno di ticket, hanno goduto dei contributi in misura molto minore da parte dello Stato e di conseguenza hanno tagliato le prestazioni. Un grave errore quando invece sarebbe bene concentrarsi sull’abbattimento degli sprechi». Una situazione piuttosto grave che configura, per il futuro, un aggravio di malattie che si sarebbe potuto evitare. «Pensiamo ad esempio alla rinuncia, per impossibilità di farvi fronte economicamente – continua Sussarellu –, alle cure odontoiatriche. Il fatto di trascurare la salute dei denti non è solo un problema a carico della bocca, ma riguarda la possibilità di nutrirsi in modo corretto e quindi l’insorgere di malattie legate all’assorbimento del cibo». Non a caso in città stanno sorgendo ambulatori portati avanti grazie al lavoro volontario dei medici, dove si praticano cure odontoiatriche per chi non potrebbe permettersi neppure le terapie prestate dal servizio pubblico tramite le aziende sanitarie. Ma il convegno si occuperà anche di medicina difensiva, (relazione di Luigi Arru, presidente dell’Ordine dei medici di Nuoro) un tema scottante nel panorama nazionale e locale. C’è infatti la tendenza, dovuta all’aumento esponenziale delle denunce per colpa medica, a prescrivere esami e accertamenti non strettamente necessari per eccessiva precauzione. «Un atteggiamento che non condivido – conclude Sussarellu – e che va anch’esso a pesare sul bilancio disastrato delle aziende e sulle tasche degli utenti». Le relazioni sabato cominceranno, alle 9 nell’aula magna dell’Università con i saluti delle autorità e con il ricordo di Nino Bagella da parte del presidente del Comitato di Bioetica Mario Oppes. Interverranno poi Gian Antonio Del Tos, manager di una Asl del Veneto; Ivan Cavicchi, massimo esperto di Sociologia dell’organizzazione sanitaria e Filosofia della medicina; Mario Picozzi, docente di Medicina legale all’università di Varese, Giuseppe Turchetti, docente di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa; Nerina Dirindin, ex assessore regionale alla Sanità e Giorgio Lenzotti, direttore sanitario della Als di Modena. I lavori si concluderanno alle 13 con una tavola rotonda. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 08 Mag. ’13 CON LA SANITÀ HI-TECH 15 MILIARDI DI RISPARMI Ict. Studio del Politecnico di Milano Andrea Biondi MILANO Si investe poco e sempre di meno. Eppure, se solo ci si credesse, aumentando la spesa in Ict nella Sanità si potrebbero risparmiare fino a 15 miliardi di euro all'anno. Una somma non da ridere, soprattutto in tempi di spending review e crollo dei consumi, questa identificata dalla ricerca 2013 dell'Osservatorio Ict in Sanità della School of management del Politecnico di Milano, presentata ieri. Basterebbe volerlo e il risultato sarebbe un risparmio di 6,8 miliardi l'anno per le strutture sanitarie e 7,6 per i cittadini. E invece la spesa Ict per la sanità è scesa a 1,23 miliardi di euro nel 2012 (-5% rispetto al 2011) . Facendo i conti: «21 euro per abitante, oltre la metà rispetto a Francia e Gran Bretagna». Nel dettaglio, alla voce risparmi i principali benefici arriverebbero dalla de-ospedalizzazione di pazienti cronici grazie «alle tecnologie a supporto della medicina sul territorio e dell'assistenza domiciliare» (3 miliardi); dall'introduzione della cartella clinica elettronica (1,37 miliardi); dai referti digitali (860 milioni) e dalla riduzione di ricoveri dovuti a errori evitabili attraverso sistemi di gestione informatizzata dei farmaci (860 milioni). Sul versante utenti, i 7,6 miliardi di risparmi comprendono: 4,6 miliardi con ritiro e download dei documenti clinico-sanitari via web; 2,2 miliardi grazie a telemedicina e assistenza domiciliare; 640 milioni di euro con prenotazioni via web e telefoniche delle prestazioni; 170 milioni con la gestione informatizzata dei farmaci. «Occorre abbandonare il pregiudizio che in sanità le nuove tecnologie siano un lusso», ha commentato Mariano Corso, responsabile scientifico dell'Osservatorio. @An_Bion _____________________________________________________________ Italia Oggi 8 Mag. ’13 GLI SMARTPHONE ANZICHÉ I MEDICI Elettrocardiogramma, esame dell'urina, test della glicemia effettuati a casa propria, senza prendere appuntamento dal medico, che magari ha lo studio dall'altra parte della città. Gli smartphone puntano a sostituirsi ai medici, grazie a strumenti innovativi che ogni giorno vedono la luce e che si possono collegare ai telefonini grazie a mini-chip «L'iPhone ha un vantaggio: è sempre a portata di mano», spiega David Sullivan, numero uno di AliveCor, una start up californiana che da qualche mese commercializza un dispositivo per elettrocardiogramma incapsulato nella cover dello smartphone. L'apparecchio, leggero e semplice da utilizzare, è stato approvato in dicembre dalla Fda americana e ha ricevuto il marchio Ce dell'Unione europea, dove dovrebbe essere disponibile entro l'anno n paziente non deve far altro che tenere l'oggetto fra le mani. Il risultato, che appare dopo 30 secondi, può essere archiviato o inviato via mail al medico curante. Presto, grazie a una app, si potrà ricevere un'analisi sommaria dei risultati. Un'altra start up della Silicon Valley, Scanadu, sta preparando il lancio di Scanaflo, un'applicazione associata a un esame dell'urina che permette al paziente di testare una decina di patologie (diabete gestazionale, infezioni urinarie, disfunzione renale, preeclampsia ecc.), e prevede entro fine anno di mettere in vendita Scout, un dispositivo che, applicato sulla fronte, è in grado di misurare diversi parametri vitali. Infine, in commercio c'è anche l'otoscopio di CellScope Inc., che consente di ispezionare il condotto uditivo e di leggere il responso sullo smartphone. _____________________________________________________________ Repubblica 8 Mag. ’13 LA BIBBIA DEGLI PSICHIATRI CI DICHIARA TUTTI MATTI DAL NOSTRO INVIATO ANAIS GINORI MASSIMO RECALCATI La quinta edizione del Dsm, il manuale americano delle malattie mentali, cataloga oltre 400 disturbi Troppi e con sintomi comuni, secondo un'altra corrente di scienziati: "Metà mondo sarebbe da curare" Sta per uscire la quinta edizione della "Bibbia della psichiatria", ovvero il Dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) utilizzato per la diagnosi nella pratica clinica quotidiana. Cataloga adesso oltre 400 disturbi psichici. Polemiche non solo perla quantità ma anche per la tipologia dei nuovi disturbi. Come diceva il Dottor Knock: «I sani sono dei malati senza saperlo». Il personaggio del testo teatrale di Jules Romains, pubblicato nel 1923, riusciva a convincere un intero villaggio di epidemie immaginarie. La sua teoria potrebbe tornare utile ora che sta per uscire la quinta edizione del Dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), ovvero la "Bibbia della psichiatria". Utilizzato da più di mezzo secolo per la diagnosi nella pratica clinica quotidiana, il Dsm-V cataloga adesso oltre 400 disturbi psichici più o meno gravi. Non è solo la quantità che scatena polemica, ma alcune delle nuove patologie descritte con sintomi che molti di noi potrebbero riconoscere. »Metà dei francesi scopriranno di avere turbe psichiche», ironizza Patrick Landman, autore di Tn- stesse Business, saggio per denunciare il "disease mongering", l'incremento di malattie mentali attraverso il Dsm conio scopo di favorire l'industria farmaceutica. Lo psicanalista e psichiatra francese guida in patria la protesta degli esperti, sintetizzata con una domanda in prima pagina del Parisien qualche giorno fa: »Siamo tutti pazzi?». Nel Dsm aggiornato, in uscita il 20 maggio, compare ad esempio il disturbo di "iperfagia incontrollata" per chi mangia troppo spesso un alimento come la cioccolata. Le donne che hanno sbalzi d'umore una volta al mese potrebbero essere affette da "disturbo disforico premestruale" mentre quelle che curano ossessivamente la propria pelle soffrono di "skinpicking". Dal lutto agli accessi di collera, sono molte le emozioni dellavitanormale trasformate in nuove, presunte patologie. Al di là delle ironie, il dibattito aperto è serio e tocca l'eterna rivalità tra un approccio comportamentalista, prediletto dall'Associazione americana di psichiatria che cura il Dsm, e quello ispirato alla terapia psicanalitica, seguito per esempio in Francia. Molti esperti riconoscono l'utilità del manuale che è stato pubblicato la prima volta nel 1952 (allora c'erano solo 60 patologie) e nei decenni successivi ha avuto il merito di coniare una terminologia condivisa, seguendo le evoluzioni della società: nei 1973 fu finalmente eliminato il riferimento all'omosessualità come patologia psichica. L' elaborazione della quinta edizione è il frutto di un lungo scambio di opinioni nella comunità scientifica. È stata introdotta la dipendenza psicologica non legata a sostanze, come il gioco d'azzardo. Durante la stesura del manuale si è discusso anche della dipendenza da sesso e Internet, citati però solo in appendice. Sono stati scelti criteri più selettivi per il disturbo bipolare mentre è stato inserito il "disturbo narcisistico di personalità", escluso dalla precedente edizione. «È un manuale che permette a un medico di diagnosticare in sette minuti una sedicente depressione», commenta Maurice Corcos, autore di L'Homme selon le Dsm. Le nouvel ordre psychiatrique. I nemici francesi del manuale statunitense denunciano l'eccessiva semplificazione delle diagnosi, e quindi anche delle terapie. Anche negli Stati Uniti ci sono voci critiche. Lo p sichiatra newyorchese Allen Frances ha contribuito alla precedente edizione del manuale per poi dissociarsi. Dopo la pubblicazione del Dsm-IV, nel 1994, sostiene infatti Frances, i casi di disturbi bipolari sono raddoppiati, mentre quelli di autismo sono stati moltiplicati per venti. In realtà, osserva lo psichiatra americano, non sono i casi ad aumentare ma le diagnosi, proprio a causa dell'ampiezza del sistema di catalogazione. Un altro "pentito" è il francese Boris Cyrulnik, che aveva partecipato alla terza edizione. Studioso del concetto di "resilienza", lo psichiatra ora sostiene: »Non possiamo pensare di curarci solo perché qualcosa nella nostra vita va storto». _____________________________________________________________ Il Messaggero 8 Mag. ’13 OXFORD: VEGETARIANI PIÙ SANI Uno studio dell'università di Oxford: minori rischi cardiovascolari per chi non mangia carne ma non è vegano ALIMENTAZIONE Bistecca o uovo non importa. Il nostro organismo vuole elementi nutrienti. Non importa da quale alimento arrivino. Per le cellule l'importante è avere il giusto carburante. Come dire che la scelta di quello che mangiamo, più che il nostro palato o il nostro credo, deve soddisfare il nostro corpo. E il suo fabbisogno. «Partendo da questo assunto e solo da questo - spiega Pietro Antonio Migliaccio Presidente della società italiana di scienza dell'alimentazione possiamo parlare di dieta vegetariana per tutta la vita». Da qui, la prima distinzione tra gli onnivori, quelli che mangiano tutto, gli ovolatto-vegetariani, quelli che rinunciano a carne e pesce ma che assumono tutto il resto (dalle uova ai formaggi oltre, ovviamente, frutta e verdura), e i vegani, che rifiutano tutti gli alimenti di origine animale. Quella dei vegetariani, tra quelli che ne hanno fatto una battaglia anche Paul McCarrtney, è una porzione di popolazione sempre in crescita: si è passati da 1,5 milioni nel 2000 agli attuali 7 milioni. Da aggiungere i circa seicentomila vegani. Da un punto di vista nutrizionale, dicono gli esperti, non ci sono differenze tra gli onnivori e gli ovolatto-vegetariani. «Assumendo alimenti di origine animale, gli ovolatto-vegetariani introducono tutte le sostanze necessarie all'organismo come il calcio dal latte o il ferro e le vitamine dalle uova aggiunge Migliaccio-. Chi, invece, segue un'alimentazione vegana può andar incontro a problematiche nutrizionali. Soprattutto se non vengono fatti i giusti abbinamenti. È consigliabile, ad esempio, consumare un piatto unico di cereali e legumi, per assumere tutti gli amminoacidi essenziali ed ottenere una corretta sintesi proteica». IL FENOMENO Secondo una ricerca AcNielsen, rielaborata da Eurispes, il principale motivo, che spinge migliaia di italiani ad abbracciare vegetarismo e veganesimo, è legato alla salute (43,2%), seguono le motivazioni ideologiche sul rispetto per gli animali (29,5%) e quelle relative alla tutela dell'ambiente. Certo è che la scelta vegetariana-abbassa il rischio cardiovascolare come dimostra uno studio dell'università di Oxford. La ricerca è stata pubblicata sull'American journal of clinical nutrition ed ha coinvolto 45 mila persone (il 34% vegetariano) monitorate dalla metà degli anni '90 fino al 2009. Risultato: chi fa la scelta di escludere la carne dal menù mantenendo bilanciati i rapporti tra proteine, carboidrati, grassi e zuccheri, ha un rischio inferiore del 32% di essere ricoverato o di avere un problema cardiaco grave rispetto a chi mangia carne o pesce. LE MALATTIE Durante il periodo dello studio sono stati registrati oltre mille casi di attacco di cuore. Andando ad esaminare il regime alimentare di ciascuno e tutti i fattori che possono predisporre all'infarto (peso elevato, ipertensione, fumo, sedentarietà) è emerso che a parità di tutti i parametri, chi è vegetariano ha un rischio cardiaco notevolmente più basso. Il motivo, secondo Francesca Crowe che ha condotto Io studio è principalmente dovuto al fatto che essere vegetariani ha effetti positivi su colesterolo e pressione alta. Ancora un dato: chi fa la scelta vegetariana è, nella stragrande maggioranza, in linea. Aspetto più legato all'attenzione per la salute e per il corpo che non al mettere o togliere la carne dai pasti quotidiani. Dice il nostro scienziato Umberto Veronesi vegetariano fin da quando era studente: «Non ci sono dubbi che un'alimentazione povera di carne e ricca di vegetali sia più adatta a mantenerci in salute. Frutta e verdura sono poveri di grassi e ricchi di fibre. Queste, agevolando la digestione e il transito del cibo, riducono il tempo di contatto con la parete intestinale degli eventuali agenti cancerogeni». Antonio Caperna _____________________________________________________________ Italia Oggi 8 Mag. ’13 IN SCOZIA UN MAIALE IMMUNE ALLA PESTE Pig 26 è stato creato dal Roslin Institute di Edimburgo porta un nome meno simpatico di Dolly (la pecora che fu il primo mammifero a essere stato donato con successo da una cellula somatica), ma il suo futuro è probabilmente più promettente. Pig 26 è un maiale geneticamente modificato per resistere alla peste porcina africana. In comune con la pecora Dolly ha il luogo di nascita: il Roslin Institute di Edimburgo. Qui Pig 26 ha visto la luce nell'agosto 2012, ma la sua esistenza è stata rivelata solo lo scorso aprile. Pig 26 non è un animale transgenico ordinario. La tecnica messa in opera per renderlo resistente alle malattie differisce da quella utilizzata abitualmente su un punto essenziale: non necessita di alcun gene di resistenza agli antibiotici. Utilizzati come marcatori per verificare che le cellule siano state modificate correttamente, questi geni rappresentano la bestia nera per gli oppositori degli organismi geneticamente modificati, i quali temono che la loro disseminazione aggravi la resistenza degli agenti batterici agli antibiotici. I ricercatori scozzesi hanno effettuato una manipolazione genetica di una precisione inedita. Condotta sull'ovulo fecondato, è consistita nel praticare sul genoma di Pig 26 una minuscola modificazione in un luogo determinato di un solo gene. Quest'ultimo è divenuto identico a quelli dei maiali africani, naturalmente immuni al virus della peste porcina. Tra dieci e quindici volte più efficace che in passato, questo nuovo processo di intervento molecolare potrebbe dare nuovo slancio alla trasformazione del patrimonio ereditario degli animali domestici. I biologi del Roslin Institute stanno lavorando attualmente alla creazione di polli geneticamente resistenti all'influenza aviaria. _____________________________________________________________ Espresso 16 Mag. ’13 CONGELATE QUEL TUMORE AL SENO Rafreddare le cellule del cancro al seno prima di toglierlo. Per stimolare il sistema immunitario. Contro le metastasi DI ANTONIO CARLUCCI DA NEW YORK Un ago infilato nel seno che raggiunge il tumore. La temperatura portata a meno 20 gradi centigradi. Le cellule tumorali congelate in pochi secondi. I2acqua presente nelle cellule prima diventa ghiaccio e poi esplode liberando gli antigeni tumorali che riprendono a essere attivi. Non soltanto nel seno, ma in tutto il corpo. Negli ultimi 12 mesi questa è stata la tecnica utilizzata in molti casi al Memoria] Sloan-Kettering Cancer Center di New York e i risultati fino ad ora ottenuti aprono un nuovo fronte di intervento per la cura dei tumori mammari. Lo studio pilota porta la firma di un gruppo di una ventina di medici, tra chirurghi, ematologi, patologi, radiologi e immunologi che hanno portato avanti la sperimentazione nel più antico istituto scientifico dedicato esclusivamente alla cura dei tumori del mondo. Sono quasi tutti americani e tra questi uno dei più conosciuti esperti di melanoma, jeed D. Wolchok, e il più noto tra gli esperti di oncologia della mammella, Larry Norton. Ci sono anche due italiani: Virgilio Sacchini, chirurgo specializzato nei tumori al seno, da dieci anni a New York e proveniente dall'Istituto europeo di oncologia di Milano,ed Edi Brogi, la responsabile del gabinetto di patologia allo Sloan-Kettering, professoressa al Weill Cornell Medical College di New York e che ha iniziato la sua carriera con gli studi di medicina a Firenze. Questa sperimentazione sarà presentata al convegno annuale dell'American Society of Clinical Oncology che si svolgerà a Chicago alla fine di maggio. "Lo studio pilota riguarda venti casi, tutti volontari», racconta Sacchini a "l'Espresso".Tutte pazienti con un tumore più grande di 1,5 centimetri. L'obiettivo è quello di aumentare la risposta immunologica dell'organismo ammalato contro la presenza del tumore. ,