RASSEGNA 14/04/2013 COSA INSEGNANO I FRANCESI DIVENTATI PIÙ IGNORANTI LA SCUOLA USA TORNA AI NUMERI E AI FATTI SCUOLA 2.0: L'ITALIA È MAGLIA NERA PER I COMPUTER TRA I BANCHI SCUOLA 2.0: IL TABLET ANNULLA LA CULTURA DELLA SCRITTURA» SCUOLA 2.0: MA IL MODO DI APPRENDERE STA CAMBIANDO» MATURITÀ, SI CAMBIA GLI ALUNNI IN DIFFICOLTÀ UNISS: IN LIZZA AL CONCORSO ANCHE NIPOTE DEL RETTORE UNICA: MASTER&BACK, UNA BEFFA PER 40 BORSISTI POLI CHE SI SCIOLGONO E URAGANI EPPURE LA TERRA NON SI RISCALDA PIÙ QUANDO IL BUON VINO VERRÀ DALLA FINLANDIA RICERCHE NON VERIFICATE SUBITO IN RETE LE INSIDIE DI INTERNET CAGLIARI: FESTIVAL DELLA FILOSOFIA CONFRATERNITE STUDENTESCHE FRA GOLIARDIA E INTELLIGENCE MOBY PRINCE, LA SVOLTA DALLE NUOVE TECNOLOGIE ========================================================= L'INPS AI MEDICI: TAGLIATE I GIORNI DI MALATTIA IL DECRETO SUGLI STANDARD CANCELLA GLI PSICOLOGI OSPEDALIERI INSOSTENIBILI ALTRI 2 MILIARDI DI TICKET PER IL 2014 COME CAMBIA LA DAY SURGERY GRAZIE AI LIMITI SSN E LA SPENDING REVIEW NEW ENGLAND JOURNAL OF MEDICINE: UN GATTO SURCLASSÒ I LUMINARI MARROSU: IN OSPEDALE SOLO QUANDO SERVE NEUROSCIENZE, CRISI DI CREDIBILITÀ STAMINA: GLI SCIENZIATI: «IL DECRETO LEGALIZZA CURE NON PROVATE» STAMINALI, LA DEREGULATION GIOVA SOLO A CHI VENDE TERAPIE» TRANSCRIPTOR, IL CHIP BIOLOGICO CHE FARÀ LA GUERRA AI TUMORI ROBOT-CHIRURGHI, IL BOOM IN ITALIA IN UN ANNO SETTEMILA INTERVENTI I NUOVI INDIZI DELL'ALZHEIMER ARRIVA IN LOMBARDIA LA "DOLL TERAPY" PER CURARE L'ALZHEIMER DALL'ALTERAZIONE DEL GENE UNA CURA PER IL TUMORE AL COLON-RETTO RAVASI LA RICERCA DEVE RISPONDERE ALL'URLO DEI MALATI MAGLIA A SENSORI CANCELLA IL RICOVERO IN CARDIOLOGIA L'UOMO COL BUCO NELLO STOMACO CHE «SVELÒ» LA DIGESTIONE I TEST GIUSTI PER SCOPRIRE A CHE COSA SI È ALLERGICI ICTUS: AL NORD SI SOPRAVVIVE MOLTO PIÙ CHE AL SUD DORMIRE CON LA TV ACCESA DISTURBA LA SINTESI DELLA MELATONINA IVANO TRA I 10 AL MONDO CHE SPERIMENTANO LA CURA DELLA TALASSEMIA DOLORI ACUTI: ITALIA E SPAGNA ALLEATE NEI PROTOCOLLI DALL’OMS ARRIVA L’ALLARME PER LA DENGUE THE GLOBAL DISTRIBUTION AND BURDEN OF DENGUE COLLABORAZIONE PUBBLICO PRIVATO PER CORDONI OMBELICALI LA MEDITAZIONE AUMENTA LA TEMPERATURA GLOBALE DEL CORPO ========================================================= _____________________________________________________ Corriere della Sera 13 Apr. ’13 COSA INSEGNANO I FRANCESI DIVENTATI PIÙ IGNORANTI Il deficit educativo di Parigi che "contagia" l'Europa Negli ultimi 10 anni il livello degli studenti d'Oltralpe s'è abbassato. Promozioni facili e per tutti hanno affossato il sistema. Il rimedio? Tornare a studiare con fatica. Parola di un guru degli Anni Venti d i Giuseppe Scaraffia Adesso è pieno di francesi che hanno preso la maturità perché non è più un esame duro. Ci vogliono più maturità? Basta abbassare il livello! È qui che si vede a che punto il sistema è perverso. La nostra società soffre di un abbassamento generale del livello d’intelligenza, anche se è un fenomeno difficilmente misurabile. Ascoltavo stupito, perché a parlare così non era un professore pignolo, ma un ribelle, un libertino dichiarato e conseguente: Alain Robbe-Grillet, il guru del Noureau Roman. Era il 2002 e non sapevo quanto il suo grido d'allarme fosse profetico. Oggi, a più di dieci anni di distanza, la "perversione" del sistema educativi) francese è compiuta. Ad affossarlo definitivamente è arrivato il ministro socialista dell’Education Nationale, Vincent Pellion. In questi dieci anni la Francia aveva comunque continuato a detenere un record: uno studente su tre Malato, contro l'uno su sette del resto dell’Ocse. Il die significava, per la Francia, avere ancora una scuola decorosa. Ma troppo costosa due miliardi di curo che gravano sulle casse dello Stata Constatando la fragilità scolastica di un alunno su quattro il ministro ha fatto passare un emendamento secondo il quale la bocciatura è diventata solo una soluzione estrema, da applicare il più raramente possibilmente. Mi sembra ancora di sentire la voce di Robtre- Grillet: «Ho studiato negli Anni 20 e 3o. Allora non si chiedeva al ragazzi casa valevano imparare, perché si sapeva bene die la pigrizia naturale li avrebbe spinti a non imparare nulla. Cera una sorta di dori re di imparare. Tutti i ragazzi dotati per lo studio ~vano fare obbligatoriamente latino e greca. Così si imparava a leggere nelle lingue classiche, cosa che ancor oggi riesco a fare. Certo era difficile». Il tabù della difficoltà «oggi», continuava Robbe-Grillet, «si pensa che non si debba sovraccaricate la mente degli scolari con case difficili. Credo sia un grave errore. La mente umana si sviluppa solo quando si trova un po' al di sopra delle sue facoltà. Mentre adesso si vive sempre al di sotto. C'è un livellamento di base». in dieci anni il livellamento si è ulteriormente esteso e assestato verso il basso. In un mondo in cui ogni status symbol sembra ormai materialmente alla portata di un clic, non si sa più cosa voglia dire mettersi alla prova, faticare per ottenere uno status reale e non si mbolio1). Difficile e faticoso sono due parole tabù per la modernità, dove il consumismo ha indotto a credere ogn i oggetti) del desiderio accessibile senza sforzi. Mentre purtroppo non è così. Essere promossi senza avere studiato adeguatamente contribuisce a questa percezione alienata e distorta della realtà. E inoltre mortifica ulteriormente l’intelligenza, disabituandola a discernere fi rapporto di causa ed effetto e accentuando quindi lo svantaggio di chi già era, per dirla con il ministro Peillon, "più fragile". Intendiamoci, sarebbe ipocrita scandalizzarsi per una svolta legislativa lite si limita a codificare un comportamento annui diffuso ovunque nel mondo, e da noi più (le mai. Nel nostro Paese gli studenti che arrivano all’università non solo hanno una formazione di base molto ristretta, nell'imperare della prevalente cultura visiva, hanno letto pochissimi I libri e hanno quindi una padronanza limitata dell'italiano, ma han no anche una soglia e una durata di concentrazione pari a quella dei videoclip o della pubblicità, a loro tempo è crivellato dagli squilli del cellulare e dai bip del socia) nerwork. Soprattutto, nessuno ha contemperato questa evoluzione epocale della struttura della mente delle nuove generazioni insegnando loro quel suo particolare impiego, non alternativo e non inutile ai precedenti, che chiamiamo studiare. «L'educazione morale non è un dressage, non è addestramento», ha dichiarato Peillon. E invece sì. Senza addestramento non c'è educazione. La scuola, oltre a trasmettere contenuti irrinunciabili, «Senza addestramento non c'è crescita. La scuola oltre a trasmettere contenuti irrinunciabili è anche tenuta a formare gli allievi attraverso una disciplina interiore e un allenamento alla concentrazione e all'analisi che altrimenti mancheranno per sempre» _____________________________________________________ Corriere della Sera 12 Apr. ’13 LA SCUOLA USA TORNA AI NUMERI E AI FATTI Nelle sue grandi difficoltà, la scuola italiana, si sa, è in buona compagnia. Pur avendo università spesso eccellenti (ma meno di un tempo e molto costose), l'America, ad esempio, vive da molti anni una crisi profonda delle scuole pubbliche di base e, soprattutto, dei licei. C'è chi tira in ballo la complessità della società multietnica, la difficoltà di istruire i ragazzi di periferie povere che spesso non parlano nemmeno bene l'inglese, e chi se la prende coi sindacati che difendono anche gli insegnanti incapaci. Ma i nuovi metodi di comparazione dei risultati scolastici a livello internazionale mostrano che spesso anche gli studenti di comunità relativamente omogenee e benestanti, i figli di ciò che rimane del ceto medio americano, hanno un profitto scolastico peggiore rispetto ai ragazzi di Paesi molto più poveri degli Stati Uniti. E qui, dopo decenni di «deregulation», con Stati e contee che sono andati ognuno per la propria strada evitando i vincoli dei programmi scolastici ministeriali, si cominciano a vedere tracce di un ritorno, se non proprio al nozionismo, alla definizione di standard da raggiungere per quanto riguarda la matematica, la conoscenza della lingua, le materie scientifiche. In parte il merito va a Barack Obama. Alcuni considerano il suo programma «Race to the Top» una semplice continuazione, potenziata, del «No Child Left Behind» dell'era Bush. Un piano che certo non ha dato buoni risultati. Ma, mentre negli anni della presidenza repubblicana i tentativi di creare un minimo di omogeneità nella formazione scolastica sono stati affidati a sistemi di test piuttosto cervellotici, usati male e spesso truccati, ora la scuola, pur avendo fin qui mantenuto l'aspetto di una «fabbrica dei test», cerca di cambiare pelle: si sta incamminando verso un maggiore livello di omogeneità basata su programmi e curriculum ben definiti. E 45 dei 50 Stati dell'Unione si sono già impegnati ad adottare gli standard federali in inglese e matematica. Dall'asilo fino al liceo. Merito dei premi monetari per un totale di diversi miliardi di dollari offerti dal piano Obama alle scuole che raggiungono un certo livello di risultati accademici, ma anche di un volume di 230 pagine, Common Core State Standards, scritto da esperti governativi ma basato sulle tesi di E.D. Hirsh, uno studioso di sistemi formativi che per decenni ha ammonito nei suoi saggi che l'abbandono dei curriculum scolastici stava distruggendo l'istruzione in America. A lungo inascoltato, Hirsch divenne anni fa un interlocutore dell'allora sovrintendente delle scuole di New York, Joel Klein che sperimentò, e con molto successo, il suo modello di programma scolastico illustrato nei saggi della serie «Core Knowledge». Oggi quel curriculum è stato già adottato da 800 scuole sparse in tutti gli Stati Uniti ed è alla base del nuovo manuale sugli standard scolastici. Dopo i decenni della «scuola romantica» che offre agli studenti più suggestioni che nozioni — dicono i critici del sistema attuale — si torna ai fatti e ai numeri. massimo.gaggi@rcsnewyork.com _____________________________________________________ Corriere della Sera 10 Apr. ’13 SCUOLA 2.0 L'ITALIA È MAGLIA NERA PER I COMPUTER TRA I BANCHI Profumo: in arrivo nuove lavagne interattive ed ebook A ll'Italia maglia nera per il digitale nelle scuole. Le classi 2.0, cioè completamente attrezzate per la didattica multimediale, sono solo 14 in tutta Italia e l'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, conferma: nella classifica generale dei 34 Paesi del mondo occidentale, siamo sopra solo a Romania e Grecia. Tant'è vero che «con l'attuale tasso di diffusione sarebbero necessari altri 15 anni per raggiungere i livelli registrati ad esempio in Gran Bretagna, dove l'80% delle classi può contare su strumenti didattici informatici». Per capirci: nella scuola elementare e in quella media solo il 6% delle classi è equipaggiato, contro una media Ocse del 37%. Abbiamo un computer a disposizione per ogni 15 studenti nella scuola primaria, uno ogni undici alle medie, uno ogni otto alle superiori. Il punto è che le risorse sono sempre troppo esigue: l'Italia spende ogni anno cinque euro a studente per la digitalizzazione, in tutto 30 milioni, pari allo 0,1% del budget del ministero per il capitolo Istruzione. Eppure qualcosa si muove. La Lim, la lavagna interattiva multimediale, introdotta in quasi 70 mila classi sparse su tutto il territorio (21,6% di copertura delle aule), si sta rivelando un «cavallo di Troia» per il digitale tra i banchi. A settembre, ha annunciato il ministro Profumo, saranno installate altre 4.200 nuove Lim, che arriveranno così a 74 mila. Le cosiddette classi 2.0, quelle attrezzate per le lezioni multimediali, passeranno da 416 a 3 mila (+62%). E l'adozione, dall'anno scolastico 2014/2015, di libri esclusivamente digitali o in versione mista, dovrebbe tagliare i costi per le famiglie dal 20 al 30%. Ma spingere l'innovazione non è sempre semplice: al decreto che promuove gli ebook si oppone l'associazione librai di Confcommercio: «Altro che risparmio, i genitori degli studenti ora dovranno comprare pc e tablet: il libro digitale finirà per alimentare il mercato delle fotocopie illegali». Valentina Santarpia _____________________________________________________ Corriere della Sera 10 Apr. ’13 SCUOLA 2.0: IL TABLET ANNULLA LA CULTURA DELLA SCRITTURA» Professor Reale, perché lei in «Salvare la scuola nell'era digitale», appena uscito per la casa editrice La Scuola di Brescia, sostiene che occorre salvarla dalle nuove tecnologie? «Perché rischiano di distruggere l'antico rapporto tra allievo e maestro e sostituirsi ad esso. Il digitale può annullare la cultura della scrittura e i vantaggi che ha dato in due millenni e mezzo. Qualche informatico ha già detto che i docenti dovranno trasformarsi in tecnici multimediali. Ma la scuola ha un valore etico che aiuta a diventare uomini: è questa la sua caratteristica, superiore ai contenuti e alle nozioni». Dunque lei non introdurrebbe... «No, desidero che venga introdotta l'informatizzazione nelle scuole. Tuttavia questi mezzi non devono essere il fine dell'istruzione, ma dei supporti. Non vanno imposti come scopi. La scuola dovrà inoltre aiutare il giovane a non diventare vittima dell'informatica, come già sta accadendo». Vittima dell'informatica? «Sì, tale è chi cade in una forma di autismo: significa vedere e giudicare il mondo in rapporto al proprio computer. Ci sono aziende negli Usa che praticano la sospensione dell'informatica un giorno ogni settimana per poter salvare i rapporti umani. Che si realizzano sempre tra persona e persona». Anche la lettura allora andrebbe salvata? «Ci sono soggetti vinti dalle tecnologie: per loro tutto si è rimpicciolito e oggi i grandi sacerdoti dei nuovi mezzi di lettura confessano che non saprebbero più leggere un romanzo di Dostoevskij o un'opera come Guerra e pace di Tolstoj. La lettura informatica mi sembra, inoltre, che limiti la capacità di concentrazione e di astrazione». Ma la Rete ha ampliato le possibilità di ricerca... «Sì, è vero, ma allo stesso tempo ha tolto le capacità di assimilare l'oggetto della ricerca e di capirlo a fondo. Di solito, si confonde laricerca con l'abilità del taglia e incolla. In un concorso a premi sull'Europa, ho potuto constatare che tre testi erano sostanzialmente identici. Rimproverati, i ragazzi hanno contestato il rimprovero: erano convinti di aver fatto un lavoro originale copiando le medesime fonti. Ci sono tesi ormai riprese completamente da Internet. Negli Usa si comincia a punire questo plagio». Lei dunque considera il digitale... «Come molte altre cose esso reca vantaggi ma, allo stesso tempo, svantaggi uguali e contrari; se non superiori. La scuola deve aiutare a usare gli strumenti e a non diventare vittima di essi. Vorrei chiudere questo dialogo con una frase di Clifford Stoll, uno dei fondatori di Internet: "L'insegnamento non può ridursi a insegnare ai giovani a picchiettare su una tastiera otto ore al giorno"». Armando Torno _____________________________________________________ Corriere della Sera 10 Apr. ’13 SCUOLA 2.0: MA IL MODO DI APPRENDERE STA CAMBIANDO» Professor Antinucci, cosa cambia nella scuola? «Ben poco oggi. Quello che le tecnologie cambieranno è qualcosa che i ragazzi già conoscono e che praticano ogni giorno. Le tecnologie hanno la capacità di modificare il modo di apprendere, e si arriva a scuola già con una lunga esperienza. Si usa il cellulare, si interagisce con i videogiochi, la stessa televisione è un potenziale di esperienze enorme rispetto al passato: tutto ciò attiva il modo di apprendere per esperienza anche per cose distanti o complesse». Intende dire che... «Ci sono due modi di apprendere. Il primo è per esperienza e con esso la conoscenza si costruisce cercando, sperimentando, tentando: è il modo che preferiamo, quello che si è evoluto con noi più lungamente. Poi c'è quello scolastico: consiste non nel costruire la propria conoscenza ma nell'assorbire la conoscenza già preparata da altri con un lungo e faticoso processo di assimilazione, attraverso la tipica lettura del manuale. Richiede attenzione, sforzo e non ci piace affatto. Il primo è quello che viene naturalmente favorito dalle nuove tecnologie, mentre il secondo domina nella scuola». Per lei vince il primo? «Certo, senza dubbio. I ragazzi oggi rifiutano la scuola tradizionale perché la giudicano irrilevante. Sono obbligati a seguire vecchi percorsi, ma non li sentono loro. Li considerano come qualcosa di estraneo a quanto sperimentano ogni giorno, e cioè che si apprende facendo e sperimentando non stando seduti a leggere. E dico questo ricordando che la pratica, su cui erano fondate le nostre antiche scuole, era interamente basata sul modo di apprendere per esperienza: si imparava andando a bottega e facendo, partecipando ad attività vere, che producevano risultati veri; magari sbagliando e chiedendo aiuto occasionalmente ad altri di maggiore esperienza, non ricevendo l'intera conoscenza da un manuale che poi attendeva, spesso vanamente, di essere messo in pratica». Ma nella scuola... «Per ora possiamo dire che si è visto poco, anzi nulla. Fuori sta avvenendo un cambiamento epocale. Dentro, tra i banchi, nelle aule, in questo momento c'è solo una mutazione di apparenza. Si è cambiata la penna con la scrittura elettronica (e non sempre!), ma l'enorme potenziale delle tecnologie digitali resta quasi totalmente inutilizzato». Le nuove tecnologie dunque muteranno il modo di imparare? «Sì, è qualcosa che avverrà inesorabilmente. O la scuola se ne rende conto o diventerà inutile oltre che sorpassata. La forza di attrazione del modo di apprendere per esperienza, supportata dalla piena potenza delle tecnologie interattive, non lascia dubbi in proposito». Ar. To. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 13 Apr. ’13 MATURITÀ, SI CAMBIA GLI ALUNNI IN DIFFICOLTÀ Le modalità dell'esame di stato per gli studenti delle superiori vengono modificati continuamente e non sempre in maniera condivisa dai principali interessati, gli studenti. Quest'anno, il voto finale della maturità inciderà sull'ammissione all'Università, ma si aggiungerà un'ulteriore preoccupazione per i test per le facoltà a numero chiuso anticipati a luglio. Gli studenti ritengono la scelta del ministro dell'Istruzione Profumo, sconsiderata in quanto avranno una sola settimana di tempo per prepararsi ai test. Intanto il tanto temuto esame di stato è sempre più vicino. La prova di maturità avrà inizio il 19 giugno con il primo esame scritto, la prova di italiano, uguale per tutti gli istituti. Le materie scelte come seconda prova sono il latino per il liceo classico, la lingua straniera per il linguistico e matematica per lo scientifico. La prova che più intimorisce i maturandi è l'orale. Cristina, dello Scientifico Amaldi, confessa l'ansia «anche per una semplice interrogazione», mentre Stefano, rivela di essere ancora tranquillo. «L'ideale - dice - sarebbe non pensarci troppo». Sara Mattana _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 09 Apr. ’13 UNISS: IN LIZZA AL CONCORSO ANCHE NIPOTE DEL RETTORE Sassari, la candidata contestata e il padre docente replicano: procedure corrette, niente d’irregolare di Pier Giorgio Pinna SASSARI Non c’è pace sui concorsi all’università. In attesa della sentenza del Tar sulle selezioni per un posto da ricercatore, vengono alla luce nuovi particolari. Agli orali del 18 aprile sono stati ammessi sei candidati della ventina iniziali. Tra i partecipanti figura una nipote del rettore, Attilio Mastino. Intanto la concorrente che si oppone al ricorso davanti al Tribunale amministrativo, Rossella Castellaccio, spiega come a suo avviso tutto si stia svolgendo nella maniera più regolare e chiarisce le motivazioni all’origine della sua "resistenza in giudizio". Mentre il padre, Angelo Castellaccio, professore ordinario sempre all’università di Sassari, precisa la propria posizione rispetto alle procedure. E giudica del tutto infondate le accuse mosse sul web dal Coordinamento nazionale precari d’ateneo. Un passo indietro nel tempo, comunque, consente di capire meglio. La storia s’inserisce in un lungo elenco di concorsi in passato contestati. Ora è il turno di 4 posti per ricercatore. E in particolare di quello per Demoetnoantropologia. Contro la posizione di Rossella Castellaccio e le valutazioni seguite dalla commissione giudicante ha presentato ricorso Chantal Arena, figlia di un ex docente di Medicina. Nel frattempo su internet si sono rincorse le proteste. Anche sullo slittamento per 3 volte consecutive degli orali, ora fissati per il 18 aprile. Rinvio che in ateneo giustificano con documentate ragioni di forza maggiore. «Ma la procedura seguita in quest’occasione è stata più che corretta _ spiega adesso Angelo Castellaccio _ Io sono stato vicepreside a Lettere sino al 30 giugno 2012, in regime di prorogatio. Prima di quella data il Consiglio di facoltà di cui facevo parte si è limitato a specificare le discipline per le quali si dovevano bandire i concorsi per ricercatore dietro indicazione del rettorato». Il bando al centro della bagarre era stato reso noto lo scorso anno. E già in precedenza, sostiene Castellaccio, per via dell’applicazione della Riforma Gelmini erano nati da Lettere, Lingue e altri settori due degli attuali maxi-dipartimenti. Uno _ Storia, scienza dell’uomo e della formazione _ prevede al suo interno Demoetnoantropologia. L’altro _ Scienze umanistiche e sociali _ è quello dove invece lavora oggi come docente di prima fascia il padre della candidata contro cui è stato presentato il ricorso. «Vista la scissione tra dipartimenti intervenuta nel frattempo, non si capisce perché io sia stato tirato in ballo in questa vicenda», sottolinea Castellaccio. Poi la figlia chiarisce: «Chantal Arena ha fatto ricorso non perché io mi trovi in una qualsiasi posizione d’incompatibilità, ma perché eccepisce un giudizio eccessivamente sintetico sui candidati da parte della commissione. Sono probabilmente l’unica presa in considerazione nell’opposizione davanti al Tar perché bisognava indicare comunque un contro-interessato. E questo è anche l’unico motivo per cui io stessa "resisto" in giudizio. Nel merito, poi, ritengo di avere tutti i requisiti per partecipare al concorso: insegnamenti, pubblicazioni, articoli e monografie». «Oggi vedo che si sollevano polemiche, ma nessuno ha fatto altrettanto nei 3 anni durante i quali sempre a Sassari, nel settore dell’antropologia, ho svolto attività didattica a titolo gratuito nei corsi delle lauree specialistiche e triennali», prosegue Rossella Castellaccio. «Infine _ rimarca _ la circostanza che gli orali siano stati posticipati per 3 volte ha danneggiato anche me, dato che di volta in volta sono stata costretta a chiedere le ferie per ragioni di studio». «Insomma: non vorrei che nei miei confronti si stesse facendo una sorta di terrorismo preventivo», sostiene in definitiva la candidata. Interpellato, Mastino ricorda dal suo canto l’articolo 97 della Costituzione. Secondo il quale "i concorsi sono pubblici e tutti possono partecipare". A patto che siano "assicurati il buon andamento e l’imparzialità", rammenta ancora. «A questi valori mi sono sempre ispirato e intendo ispirarmi in futuro», tiene a sottolineare. Ma puntualizza: «I parenti del rettore hanno zero possibilità di prendere servizio». Il riferimento è alla partecipazione alle stesse selezioni per ricercatori, e al medesimo concorso, di Susanna Paulis, figlia di sua sorella e di un altro docente universitario, Giulio Paulis, "ordinario" di glottologia ed ex preside di Lettere nell’ateneo di Cagliari. «La legge 240 del 2010, all’articolo 18, prevede infatti che non abbiano alcuna chance di venire mai chiamati, anche nel caso superassero le prove in modo positivo, gli affini e i parenti sino al quarto grado del rettore, del direttore generale e dei componenti del Consiglio d’amministrazione di quell’università», è la conclusione del professor Attilio Mastino. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 08 Apr. ’13 UNICA: MASTER&BACK, UNA BEFFA PER 40 BORSISTI Il bando per il percorso di rientro non ha copertura finanziaria. Oggi incontro all’Agenzia del lavoro di Giampaolo Meloni CAGLIARI Hanno partecipato al bando integrativo circa una quarantina di borsisti: qualcuno disoccupato, altri ancora all’estero, chi in attesa di una risposta per prendere decisioni importanti, compresa quella di andare di nuovo via dalla Sardegna. Ma da oltre un mese il filo delle comunicazioni si è interrotto. Cercano di capire come mai la procedura si sia inceppata. «Ma le informazioni che ci danno, dall’Agenzia regionale del Lavoro e dall’assessorato, continuano a essere poco chiare e contradditorie», racconta Silvana, neolaureata. Un solo dato è certo: il bando integrativo all’avviso pubblico 2010-2011 per i percorsi di rientro del programma Master and Back non ha copertura finanziaria e non si riesce a capirne le ragioni. Anche perché le premesse e le promesse erano di tutt’altro tenore: sette milioni, era stato garantito, le risorse disponibili per consentire ai neolaureati rimasti esclusi dai percorsi di poter accedere alle borse di studio. Contano di ottenere chiarimenti oggi, quando nella tarda mattinata incontreranno Stefano Tunis, direttore dell’Agenzia regionale del Lavoro. Uno scenario deludente per i giovani sardi che avevano riposto aspettative di vita e lavoro in questa occasione. Lo spiegano le parole amare di Silvana: «Ad oggi noi borsisti non sappiamo come stanno le cose e quale sia la nostra sorte. Insomma per l’ennesima volta questo bando M&B, che avrebbe dovuto essere un’ottima possibilità per i giovani sardi laureati e specializzati, si sta mostrando una macchina burocratica che rallenta e blocca le reali esigenze sia dei borsisti che degli enti e delle imprese che si sono presi in carico i loro percorsi». Marco, un altro neolaureato, è bloccato tra l’ipotesi di partire in Australia e l’incertezza di avere improvvisamente la risposta favorevole al back. Vicenda controversa quella del M&B. Comincia nel giugno 2011. La Regione, attraverso l’Agenzia regionale per il Lavoro, pubblica il bando per i percorsi di rientro per le annualità 2010-2011, a cui sono assegnati come copertura finanziaria 9 milioni di euro attraverso il Piano operativo regionale Fse 2007-2013. Quella somma è appena sufficiente a coprire solo una ridottissima parte delle domande presentate e a dicembre 2011. A poche ore dalla notte del Capodanno, la giunta regionale delibera il raddoppio dei fondi, stavolta con risorse regionali. In seguito, il 24 luglio 2012, con l’intento di coprire l’intera graduatoria delle domande presentate per i percorsi di rientro e in parte anche il bando per l’alta formazione, con un’altra delibera della giunta viene preso l’impegno di spesa di 21,5 milioni (18 di questi a favore dei soli percorsi di rientro, 3.5 per l’alta formazione). Dalla graduatoria del 2011 hanno trovato risposta 575 neolaureati: 286 destinati a effettuare il back nel settore privato, 145 nel pubblico e 144 nella ricerca. «Tuttavia – spiega Silvana – numerosi percorsi di rientro non hanno mai avuto inizio o sono stati interrotti dopo qualche mese sia per questioni non regolari che riguardavano le aziende, sia a causa dei lunghi tempi trascorsi fra la presentazione delle domande e l’erogazione dei finanziamenti e la difficile congiuntura economica del momento per cui molti aziende ospitanti, nel frattempo, hanno chiuso o fallito». Considerata questa situazione e il conseguente disavanzo di fondi non spesi per le borse interrotte o escluse (circa 7 milioni), l’Agenzia regionale del Lavoro, autorizzata dall’assessorato al Lavoro, a dicembre 2012 pubblica il bando integrativo che, attingendo unicamente alle risorse non spese, permetterebbe ai giovani che non hanno potuto iniziare o concludere il percorso di rientro di accedere ai finanziamenti e concludere il percorso M&B con nuovi enti ospitanti. «A oggi però, nonostante l’istruttoria delle domande sia stata ormai completata da tempo e nonostante la procedura del Bando integrativo dovrebbe essere snella e veloce poiché a sportello, tutto il procedimento risulta essere bloccato», osservano i neolaureati. All’origine di tutto vi sarebbe uno dei tanti buchi neri della politica e dell’amministrazione regionale: quei fondi previsti dalla delibera del 24 luglio dell’anno scorso non sono mai stati effettivamente trasferiti dall’assessorato all’Agenzia del Lavoro, né sono mai comparsi nel bilancio 2012 dell’assessorato. Intanto, lo scorrimento delle graduatorie e l’avvio di nuovi percorsi sono stati finanziati con risorse proprie dell’Agenzia. Poi il buio. _____________________________________________________ Repubblica 10 Apr. ’13 POLI CHE SI SCIOLGONO E URAGANI EPPURE LA TERRA NON SI RISCALDA PIÙ mistero della Terra che non si surriscalda più La temperatura resta più alta di 0,75 gradi rispetto a un secolo fa, ma dal 1998 a oggi non è mai aumentata Però cresce il livello del mare e • ghiacci sono al minimo Secondo gli esperti può essere un "time out" ELENA DUSI TRA il 2000 e il 2010 100 miliardi di tonnellate di anidride carbonica sono finite nell'atmosfera. Ma la "febbre" del pianeta è rimasta costante. La Terra resta più calda di 0,75 gradi rispetto a un secolo fa ma dal 1998 non ha registrato nessun aumento di temperatura, in barba a tutti i modelli climatici che prevedevano un riscaldamento continuo causato dall'effetto serra. Se questa pausa — registrata sia sulla terraferma che sulla superficie dei mari non fosse accompagnata da altri segnali inquietanti, i "negazionisti" del cambiamento climatico avrebbero probabilmente dissotterrato l'ascia di guerra. Ma così non è avvenuto: restano troppi i fattori che confermano lo squilibrio del pianeta. I dieci armi più caldi della storia sono stati tutti registrati a partire dal 1998. I ghiacci artici la scorsa estate hanno raggiunto il minimo da quando sono iniziate le misurazioni (e continuano a perdere il 12% della massa ogni dieci anni) L'aumento della forza degli uragani ci ha appena regalato Sandy. L'Antartide, come il suo gemello agli antipodi, "dimagrisce" di cento chilometri cubici all'armo. L'aumento -del livello del mare, infine, sarà anche limitato a una manciata di centimetri, ma viene confermato ormai in maniera nitida sia dai satelliti che sulla terraferma. Allora perché la corsa delle temperature si è fermata? Una risposta convincente non è ancora venuta in mente a nessuno, e il "riposo del termometro" è un mistero su cui i climatologi si arrovellano da mesi. La risposta più gettonata è che dieci anni rappresentano un periodo troppo breve per risultare significativo. Potrebbe trattarsi di uno scherzo della statistica. Ma di una motivazione così è difficile ac- contentarsi. È stato suggerito che il calore accelera l'evaporazione dell'acqua e che le nuvole formano uno strato bianco attorno alla Terra capace di riflettere i raggi solari. Ma lo stesso vapore acqueo è un potente gas serra e il suo ruolo nell'atmosfera è assai più complesso di un semplice "plaid" per il pianeta. Può darsi che la pausa del riscaldamento sia legata a una ridotta attività del Sole. Ma le prove scarseggiano: difficile che questa sia la pista giusta. Secondo un .gruppo di scienziati francesi e spagnoli, la soluzione del rebus è un'altra, giace sul fondo degli oceani e non ha un'aria per nulla tranquillizzante il calore in eccesso che i gas serra raccolgono nella parte alta dell'atmosfera sarebbe assorbito dall'acqua del mare, secondo lo studio dell'Institut Català de Ciències del Clima e del Centre National de Recherches Météorologiques, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change. Con il ruolo mitigatore che da sempre svolge al cambiare delle stagioni, il mare accumula energia per restituirla solo con gradualità. Ma questo non vuol dire che alla fine faccia sconti. Il pentolone sta continuando a bollire, e il fatto che gli abissi siano difficili da raggiungere e misurare con costanza finisce solo per aumentare incertezza. «La maggior parte dell'energia accumulata dal pianeta è stata assorbita dal mare —scrivono gli esperti — in particolare dallo strato che arriva a 700 metri di profondità». Il calore nascosto fra le onde potrebbe essere rilasciato nei prossimi armi, facendo aumentare le temperature anche in caso di, uno sforzo dell'uomo per ridurre l'inquinamento. Politica e accordi internazionali in realtà non sono mai stati efficaci nel frenare le emissioni di anidride carbonica. Gli unici lievi rallentamenti dell'inquinamento atmosferico sono stati causati dalla crisi economica e dal boom di estrazione di gas negli Stati Uniti (combustibile che inquina meno del petrolio). Nel 2010 i rappresentanti di 200 paesi si sono impegnati a non far crescere la febbre del pianeta più di due gradi, livello oltre il quale ci si aspettano conseguenze disastrose. Non c'è tempo da perdere, secondo i ricercatori, perché la pausa di questo decennio è in realtà solo un "time out". _____________________________________________________ Le Scienze 9 Apr. ’13 QUANDO IL BUON VINO VERRÀ DALLA FINLANDIA Secondo un nuovo studio, il riscaldamento climatico porterà notevoli cambiamenti nella geografia mondiale della produzione di vino, rendendo troppo calde zone tradizionalmente dedicate alla coltivazione della vite, come il Bordeaux o la Toscana, e favorendo zone ora troppo fredde, come l’Europa del Nord. Le In un pianeta colpito dal global warming, la geografia della produzione mondiale di vino cambierà, spostandosi dalle zone tradizionalmente adatte alla coltivazione della vite, come l’area del Mediterraneo, verso regioni più fresche. E a risentirne sarà la biodiversità in zone particolarmente sensibili, come quelle montane. È quanto sostengono sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” Lee Hannah, del Betty and Gordon Moore Center for Ecosystem Science and Economics ad Arlington, in Virginia, e colleghi, di un'ampia collaborazione internazionale. La coltivazione dei vitigni dipende in modo critico dalle condizioni di temperatura e di umidità. Particolarmente favorevole è il clima delll'area mediterranea, caratterizzato da estati calde e secche e da inverni freddi e umidi, che si riscontrano anche in California, Cile, Sudafrica e sulle coste meridionali dell’Australia. Queste cinque regioni, sono comprese nelle nove maggiori aree produttive del mondo, insieme con altre in cui il clima non è di tipo mediterraneo, come la Nuova Zelanda e una zona diversa dell'Australia, e infine l’Europa del Nord e l’America nordoccidentale. Il primo risultato dello studio è che le zone con clima di tipo mediterraneo diventeranno tendenziamente troppo calde per sostenere l'attuale produzione di vino, mentre quelle con clima attualmente più freddo potranno aumentare la produttività proprio in virtù dell'incremento delle temperature. © CorbisPiù in dettaglio, l'estensione delle aree idonee alla coltivazione della vite subirà una forte contrazione in Cile (tra meno 19 e meno 25 per cento, secondo i modelli utilizzati), nell’Australia con clima di tipo mediterraneo (tra meno 73 e meno 69 per cento) e nell’Europa a clima mediterraneo (tra meno 70 e meno 60 per cento), interessando in particolare zone tradizionali di produzione di vini di pregio come il Bordeaux e la valle del Rodano, in Francia, o la Toscana, in Italia. Al contrario, in zone ora poco adatte il fenomeno sarà di segno opposto, con un incremento del 189-231 per cento nel Nord America e dell’84-99 per cento nel Nord Europa. Nei prossimi decenni è previsto anche un aumento della domanda di vino, che allargherà il suo mercato anche nelle economie emergenti. Per tenere il passo, i produttori tradizionali che vedranno ridursi i terreni idonei alla coltivazione dovranno ricorrere a tecniche agricole che aumentino la resa dei raccolti, oppure spostarsi verso altre zone, con un notevole impatto ambientale. L’avviamento di una nuova coltivazione di vite prevede infatti la rimozione della vegetazione nativa, seguita da un'aratura profonda e dalla fumigazione con bromuro di metile o con altri composti chimici per di sterilizzare il suolo, e infine dall'applicazione di fertilizzanti e funghicidi. Uno dei fenomeni prevedibili è che molte coltivazioni si sposteranno verso altitudini maggiori, alla ricerca di temperature più fresche: ciò comporterà la modificazione degli ecosistemi delle regioni montane. Inoltre, le pratiche d'irrigazione porteranno a un ipersfruttamento delle risorse idriche. Nei prossimi decenni, la coltivazione mondiale della vite si troverà dunque di fronte a una duplice sfida: riuscire a mantenere o addirittura aumentare gli attuali livelli di produzione e di qualità e farlo in modo sostenibile per l’ambiente. Gli studi come quello di Hannah e colleghi possono contribuire a rendere prevedibili gli effetti più deleteri di questo processo. Per i paesi come l'Italia e la Francia, invece, il problema fondamentale sarà di tipo economico e culturale, per i mutamenti imposti ad aree geografiche la cui economia è tradizionalmente legata alla produzione di vini di pregio che, secondo le previsioni, potrebbero un giorno portare un'etichetta scandinava. _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 Apr. ’13 ROBERTA, LA VERTIGINE DEL POTERE DI UNA «CITTADINA» MALDESTRA La grillina Lombardi fa l’antipatica tra gaffe e svarioni Non si pretende cortesia istituzionale, ma solo cortesia. Quando Roberta Lombardi, capogruppo M5S alla Camera, ha commentato con i giornalisti le ipotesi di un nuovo mandato a Giorgio Napolitano, invitandolo a fare il nonno, a godersi la vecchiaia, ha mancato di sensibilità. Napolitano le avrà anche confessato la fatica del Colle, ma la cosa doveva finire lì, non giocata come alibi. Non passa giorno che i capigruppo dei grillini, Lombardi e Crimi, non inciampino in qualche gaffe, non sfiorino il ridicolo, non dimostrino di essere maldestri. Irretiti dalle loro certezze, intolleranti verso chi non vuole infeudarsi alle allucinazioni ideologiche. Eterodiretti dalla Grillo & Casaleggio Associati, suppliscono alle scarse doti politiche con la supponenza e il disprezzo. I vecchi peones che hanno riscaldato gli scranni del Parlamento almeno non facevano danni, erano coscienti della loro nullità. Questi sono pasticcioni e presuntuosi. Roberta Lombardi non si tira mai indietro: un giorno strologa di «fascismo buono», un altro si avventura, senza conoscere la materia, sull'articolo 18, un altro ancora definisce «una porcata di fine legislatura» la decisione del governo di stanziare 40 miliardi affinché la Pubblica amministrazione saldi i debiti con i fornitori. Se si rivolge a un giornalista avverte: «Casaleggio mi ha cazziata perché vi dico troppo». In diretta sul canale web La cosa annuncia che la sala riunioni assegnata al M5S (si chiama ora Sala Tatarella) verrà dedicata a Giancarlo Siani. Lei però lo chiama Angelo. Ieri le hanno rubato pure il portafoglio con gli scontrini delle spese, addio trasparenza! La Rete — elevata dai grillini a entità metafisica, hacker compresi — si è riempita di parodie e di sberleffi nei suoi confronti. Su Raitre, Andrea Sambucco e Brenda Lodigiani fanno la parodia di Lombardi e Crimi. A lei tocca la parte dell'antipatica. «Noi non abbiamo bisogno di parlare con la società civile, noi siamo la società civile»: solo lo «smacchiatore» Bersani poteva farsi umiliare da questa coppia di comici tristi, Vito lo Smentito e la «cittadina» Roberta. Però fanno paura gli sprovveduti che mirano al potere e lo raggiungono per l'effetto combinato di astuzia e naïveté. _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 Apr. ’13 RICERCHE NON VERIFICATE SUBITO IN RETE LE INSIDIE DI INTERNET PER LA SCIENZA Lo chiamano il «lato oscuro dell'open access» e i praticanti di questo mondo sono stati battezzati i «predatori dei giornali open access». L'accesso libero che Internet mette a disposizione a tutti sta creando guai seri ai ricercatori. In rete si moltiplicano i giornali scientifici che propongono la pubblicazione dei risultati. La necessità e l'interesse a diffonderli da parte dei protagonisti ovviamente è notevole per molti aspetti. Ci sono riviste illustri come la britannica Nature e l'americana Science che compiono questo lavoro ma per accettare le proposte si avvalgono di specialisti esterni nei vari settori che le valutano (è la cosiddetta Peer Review). La selezione è ardua. Ma accanto alle testate note e autorevoli ne sono nate numerose altre, magari simili per giocare sugli effetti dei nomi. Secondo un'indagine dell'Università del Colorado, i nuovi editori che erano 20 nel 2010 sono diventati ora 300. E i giornali online che sfornano sono calcolati in circa 4 mila. Chi ha accettato l'invito a pubblicare, senza limiti nel numero delle proposte e nella quantità delle pagine, in seguito si è però visto arrivare a casa una nota da pagare. Su Nature anche di recente sono apparsi allarmi per il fenomeno che sembra dilagare rapidamente tanto da arrivare a proporre la compilazione di una «lista nera» di queste testate. Ma sono ormai così tante e soprattutto in rapida crescita che forse — si dice — è più semplice stilare una «lista bianca» di quelle serie e credibili. Soltanto l'Omics Group produce 250 giornali e per la pubblicazione di un «paper scientifico» chiede 2700 dollari. Talvolta è difficile riuscire a scoprire l'identità e il valore della testata e questo facilita l'adesione di frettolosi studiosi. Ma la fretta del pubblicare può diventare un problema serio; prima di tutto per i ricercatori, perdendo credibilità. Inoltre la mancanza di una profonda verifica dissemina in rete un fiume di presunte se non false scoperte che non solo creano confusione ma fanno perdere la necessaria fiducia. Insomma, la «democrazia della rete» può essere un pericolo per la scienza. Giovanni Caprara _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 Apr. ’13 CAGLIARI: FESTIVAL DELLA FILOSOFIA L’avventura di essere sé, l’identità tra verità e finzione Dal 3 maggio al Teatro Massimo, si parte con Bergonzoni e Giorello Tra gli altri ospiti Remo Bodei, Maurizio Ferraris e Michela Murgia di Roberta Sanna CAGLIARI Si comincia venerdì 3 maggio con Alessandro Bergonzoni e Giulio Giorello, per un dialogo tra “il più filosofico dei comici e il più errante, libertino e matematico dei filosofi”, come indica Roberta De Monticelli, docente all’Università San Raffaele di Milano e a Berlino, curatrice insieme a Pierluigi Lecisdell’ateneo di Cagliari del Festival di Filosofia organizzato dallo Stabile della Sardegna al Teatro Massimo. Remo Bodei, eMaurizio Ferraris e Achille Varzi sono alcuni dei nomi – fra quelli che meglio sanno parlare ad un pubblico di non specialisti – che si avvicenderanno sul palco sino al 6 maggio nei dialoghi intorno al tema “L’avventura d’essere sé – Identità, verità e finzione”. Scaturito dalla rilettura e l’allestimento del “Peer Gynt” di Ibsen, che negli stessi giorni debutterà con la regia di Guido de Monticelli, il tema di quest’anno, cogliendo la ricchezza delle implicazioni non solo filosofiche, ma anche scientifiche, etiche ed esistenziali del capolavoro del drammaturgo norvegese – un grande viaggio e una favola sulla crescita, valida anche per l’uomo di oggi – si interrogherà sulla possibilità e la fatica dell’uomo di essere adulto, libero e autonomo, pur nei dilemmi e nella fragilità dell’io. Saranno Maurizio Ferraris, professore di Filosofia teoretica a Torino e Achille Varzi, ordinario di Logica e Metafisica alla Columbia di New York, con il dialogo “Fatti e finzioni” (sabato 4 ore 11) ad entrare nel cuore della problematica del personaggio Peer Gynt, mentitore e inventore di storie, contrapponendo la difesa della realtà e dei fatti, e dunque anche di patti e vincoli, e invece l’esse est percipi, – perché “la finzione supera la realtà, e l’artificiale il naturale”. Ovvero le due metà della filosofia a confronto. Si entra nel tema della costruzione dell’identità dell’individuo, a partire dalla verità dell’io, nel pomeriggio della stessa giornata, con il dialogo tra Remo Bodei, che torna anche quest’anno nella natia Cagliari dalla University of California, e Antonio Delogu, ordinario di Filosofia morale nell’ateneo di Sassari: disquisiranno intorno al titolo, tutto da scoprire, “L’ultimo elefante. Poesia e verità”. Dall’immagine centrale del Peer Gynt, quella dell’anima che si sfoglia come una cipolla in cerca di un nucleo, prende invece le mosse il dialogo fra i curatori del festival (domenica 5): “La ghianda e la cipolla. Dialogo sull’identità personale” è il titolo scelto da Roberta De Monticelli e Pierluigi Lecis per un’analisi che all’immagine della cipolla contrappone quella, altrettanto celebre, della ghianda come potenzialità completa della futura quercia, di James Hillman. Ulteriore spunto del Peer Gynt – eterno adolescente che nel manicomio viene incoronato “Imperatore dell’io e degli esegeti” – è il tema della follia, proposto nel dialogo sulle patologie della comunicazione tra il neuroscienziato Vittorio Gallese, scopritore dei neuroni specchio, e Filippo Maria Ferro, psichiatra tra i massimi esperti dell’adolescenza. Due sorprese troviamo nei dialoghi dell’ultima giornata, con la mattinata dedicata a “Fiaba, suono, tradizioni per una poesia di idee”, per un confronto tra la tradizione sarda e quella norvegese condotto da Duilio Caocci e Ignazio Macchiarella, e il pomeriggio, dedicato a “Il discorso dell’altra” con Michela Murgia e Maria Giovanna Piano, per lasciare l’ultima parola alla ragionevolezza femminile in un mondo di ego paonazzi e di rossi bargigli. _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 Apr. ’13 CONFRATERNITE STUDENTESCHE FRA GOLIARDIA E INTELLIGENCE Le biografie di importanti personalità americane riportano spesso la fraternita alla quale si sono associate nel periodo universitario. Che ruolo hanno le fraternite nella società americana e quanto pesano nella carriera professionale delle persone? Alberto Zorzi alberto.zorzi@tiscali.it Caro Zorzi, Non esistono soltanto le fraternite (o confraternite). Nelle università americane esistono anche le «sorellanze» (sororities) composte da studentesse e sono entrambe spesso contraddistinte da tre lettere dell'alfabeto greco: Alfa Fi Omega, Kappa Alfa Teta, Kappa Kappa Psi e così via. L'uso delle lettere greche riflette la prevalenza degli studi umanistici nei collegi americani alla fine del Settecento e la storia di queste fratellanze non è diversa da quella delle associazioni studentesche che cominciarono a costituirsi nelle università europee sin dal Medio Evo. Più interessante, se mai, è il fatto che abbiano finito per adottare, a seconda dei Paesi, caratteristiche diverse. Il dato comune è la goliardia, vale a dire quella combinazione di giovialità carnevalesca, spensieratezza, comportamenti trasgressivi e spregiudicati che dovrebbe essere il tratto distintivo della condizione giovanile. Le fraternite possono servire in qualche caso a difendere gli interessi della categoria e ad agitare idee politiche, ma nella maggior parte dei casi la loro attività consiste soprattutto nell'organizzare cerimonie iniziatiche (in Italia il rito della matricola), gare di abilità e di forza (come i duelli delle Bursenschaft tedesche e austriache), concorsi di oratoria (come i dibattiti della Union Society di Oxford) e naturalmente festini carnascialeschi. Negli Stati Uniti, in particolare, servono a creare una sorta di complicità generazionale e patti d'amicizia utili per il futuro. I soci della fraternita e della sorellanza rimangono in contatto, organizzano periodiche rimpatriate e cercano di aiutarsi a vicenda nella loro vita professionale. In alcuni casi l'organizzazione studentesca è una sorta di società segreta con riti iniziatici molto tenebrosi, come la «Skull and Bones» (teschio e ossa) della università di Yale. In altri casi, soprattutto in Gran Bretagna, è un raffinato club intellettuale come gli Apostoli di Cambridge, fondati nel 1820 e noti anche come «Cambridge Conversazione Society» (anche in questo caso la parola italiana, nel nome della società, rivela la formazione classica dei fondatori). Fra gli Apostoli, agli inizi del Novecento, vi furono persone destinate a una brillante carriera: l'economista J. Maynard Keynes, il saggista Lytton Strachey, il romanziere E. M. Forster, il poeta Rupert Brooke. Più tardi, negli anni Trenta, divennero Apostoli anche Guy Burgess, Michael Straight, Anthony Blunt, Leonard Strong e John Peter Astbury. Durante la guerra fredda diventeranno spie dell'Unione Sovietica. _____________________________________________________ Corriere della Sera 8 Apr. ’13 MOBY PRINCE, LA SVOLTA DALLE NUOVE TECNOLOGIE «Non fu errore umano» La contro inchiesta del figlio del capitano L'Italia è quel Paese dove 140 morti e anche il loro ricordo scompaiono dietro a un banco di nebbia che non c'era. Il 10 Aprile dovrebbe sempre essere sempre una pessima giornata, per non si accontenta di sentenze dalla grafia incerta. Quel giorno, nel 1991, il traghetto Moby Prince appena salpato dal porto di Livorno urtò con la prua una petroliera, l'Agip Abruzzo. Morirono tutti i passeggeri, radunati nel salone centrale della nave, e i membri dell'equipaggio. Centoquaranta persone. Un solo superstite. Nessuna verità, plausibile o meno. «L'ultimo decreto di archiviazione non ha alcun riscontro nelle carte usate per scriverlo, che anzi affermano l'esatto contrario di quel che sostiene il giudice. Noi ci abbiamo messo nuove tecnologie, ma i documenti sono gli stessi. Siamo ancora qui, a chiedere un'ultima possibilità di avere finalmente giustizia». Milano, uno studio tecnico a due passi dal tribunale. Luci accese alla fine di un lento pomeriggio trascorso nella penombra, a esaminare filmati, elaborazioni al computer. Angelo Chessa, chirurgo specializzato in ortopedia. È il figlio di Ugo, comandante della Moby Prince, di lunga e onorata carriera. Nel 1991 aveva 25 anni. Stava finendo l'università a Milano. Vide le immagini al tg del mattino. Capì subito. Ancora non sapeva che a bordo c'era anche sua madre, Maria Giulia, salita all'ultimo momento. La trovarono tra i corpi ammassati nel salone. «Tutto chiaro»? L'ingegner Gabriele Bardazza, il padrone di casa, consapevole dei rischi di questa intensa sessione tra reperti e diagrammi, interrompe il racconto di Chessa. I principali clienti del suo studio di ingegneria sono i magistrati di Milano, per i quali ha ricostruito la dinamica della strage di Linate. Dal 2010, per la prima volta, ha accettato di lavorare per una parte civile. Amicizia, al netto del rimborso spese. «Una condotta gravemente colposa, in termini di imprudenza e negligenza, della plancia del Moby Prince». L'ultima archiviazione è arrivata nel 2010. Con queste parole. La morte estingue ogni reato, ma quella colpa ricade sul padre di Chessa. «Le indagini andarono in una sola direzione, la più facile. Troppi interessi da coprire, tra Agip e porto. Tutti ormai riconoscono che si tratta di una specie di Ustica dei mari, nessuno ne parla. Non è più una questione privata. Io mi ribello a un oblio ingiusto». Sono passati 22 anni. Quel che doveva essere è stato, forse. I reati sono prescritti, visto che mai si è proceduto per strage. Dei nostri tanti misteri, quello della Moby Prince è davvero il più misconosciuto. La presenza di navi militari americane in rada, l'ipotesi concreta di una esplosione a bordo del traghetto precedente il disastro, le responsabilità di soccorsi tardivi e maldestri: tutto è sempre rimasto sotto il coperchio di sentenze minimaliste. I fatti non sussistevano e comunque erano difficili da vedere, coperti com'erano da una inopinata «nebbia d'avvezione» che ha incardinato il primo processo eliminando ogni ricostruzione alternativa a quella dell'errore umano. Un fenomeno improvviso, molto diffuso ma ai Tropici, che dal nulla aveva creato una barriera di 300 metri, a misura di petroliera. Il nuovo lavoro di indagine parte da qui. Da vecchie incongruenze e da nuovi strumenti di lavoro. La prova regina della scarsa attenzione dell'equipaggio è per i giudici «clamorosamente esplicitata» dal portellone prodiero aperto, nonostante la normativa Marpol 73-78 lo proibisse. All'epoca nessuno fece caso a questo passaggio. Ma la legge che vieta di navigare in tali condizioni sarebbe entrata in vigore solo nel 1992, e riguardava le nuove imbarcazioni. La Moby Prince avrebbe dovuto adeguarsi nel 1995. Marpol 73-78 invece altro non sarebbe che un testo non vincolante sulla polluzione marina, dove non si fa alcun cenno alla sicurezza. Il punto più delicato è quello della posizione della petroliera Agip Abruzzo, ufficialmente collocata fuori dal triangolo d'acqua all'uscita del porto, dov'era vietato l'ancoraggio. Un video girato pochi minuti dopo l'impatto, e una ricerca fatta a Livorno per identificare nell'oscurità i cosidetti «punti cospicui» sulla terraferma, sembra invece stabilire come la petroliera fosse ben dentro l'area proibita. Un'altra scoperta, d'archivio: già nelle motivazioni della sentenza di primo grado le coordinate collocano la Agip Abruzzo là dove non doveva essere. Era una notizia di reato. Nessuno la vide. Come la nebbia, che continua a persistere nonostante decine di filmati che mostrano una notte limpida. In uno di questi si vedono i bagliori delle fiamme della Moby Prince dietro e non davanti alla sagoma della petroliera. Se confermata, sarebbe una novità, non da poco, che ribalterebbe la dinamica della collisione: la Moby Prince non stava uscendo, ma rientrando in porto. Le ragioni di questa presunta inversione di rotta non le sapremo mai, come molto altro di questa storia. La nuova indagine vuole fugare inoltre ogni dubbio sul numero di navi americane presenti in rada. Una sola, ma molto vicina alla petroliera al momento dell'urto con la Moby Prince, come sembra dimostrare il notevole lavoro sulle comunicazioni radio, dal quale si evince che a parlare in inglese è sempre la stessa voce. A parità di gomitolo, l'obiettivo dichiarato di questa monumentale contro inchiesta durata tre anni è di mostrare un filo rosso diverso da quello individuato dai magistrati, per ottenere un nuovo processo, penale o civile non importa. «A me interessa stabilire una verità storica. Quella tragedia non ha generato nulla, non ha insegnato niente. Centoquaranta morti inutili. Nel nome di una verità di comodo». Il figlio del comandante Ugo mostra due ritagli di giornale ingialliti. La Nazione, 15 e 16 aprile, pochi giorni dopo il disastro. Quel momento raro dove si raccolgono le notizie sul campo, prima che indagini e verità ufficiali prendano possesso del terreno. Il primo titolo è «La petroliera non doveva essere lì». Il secondo fa riferimento al notevole traffico di navi militari registrato quella notte al porto. Sono gli unici articoli che mancano dalla rassegna stampa allegata agli atti. Marco Imarisio ========================================================= _____________________________________________________ Corriere della Sera 9 Apr. ’13 L'INPS AI MEDICI: TAGLIATE I GIORNI DI MALATTIA Circolare per ridurre del 3% le assenze dei lavoratori. Rivolta dei dottori di famiglia ROMA — È l'epoca dei tagli, d'accordo. Ma, per risparmiare, le forbici della crisi fanno rotta anche sui giorni di malattia dei lavoratori. Quest'anno i permessi devono essere ridotti del 3% rispetto al 2012, dice una circolare dell'Inps. E per raggiungere questo obiettivo il modo è semplice: le visite fiscali devono essere più fiscali. Il documento dell'Istituto nazionale di previdenza è del 16 gennaio scorso, serve per la «programmazione e il budget delle strutture territoriali nel 2013». Una lista degli obiettivi fissati per quest'anno. Si parla di tante cose in quelle 34 pagine, anche di «miglioramento dell'economicità delle visite di controllo», cioè le visite fiscali. E come si migliora questa economicità? Con «l'incremento del 3% degli importi recuperati per effetto della riduzione della prognosi». Riduzione della prognosi, cioè meno giorni di malattia: il nodo è proprio questo. Le visite fiscali servono a controllare che il certificato firmato dal medico di famiglia non sia troppo generoso o addirittura falso. Il medico fiscale può ridurre o addirittura cancellare il permesso dal lavoro se il malato (e il certificato) sono immaginari. Non capita spesso ma a volte sì. E quando capita l'Inps risparmia: dal quarto giorno di malattia in poi è proprio l'istituto di previdenza a pagare stipendio e contributi al posto del datore di lavoro. Cancellare qualche giorno di permesso, quindi, vuol dire per l'Inps limare una voce di spesa che vale ogni anno 2 miliardi di euro. La metà di quello che ci è costata l'Imu sulla prima casa, tanto per pesare all'ingrosso la questione. Giusto che l'Inps voglia risparmiare, anche perché lo farebbe sulla pelle dei furbetti del certificato. Ma è giusto pure fissare quell'obiettivo prima delle visite di controllo, un 3% a prescindere, come fosse il rapporto deficit Pil secondo Bruxelles o le spese da ridurre a insindacabile giudizio del ragioniere d'azienda? «Così l'Inps dice che il 3% dei certificati firmati dai medici di famiglia è falso» protesta Roberto Carlo Rossi, presidente dell'ordine dei medici di Milano. «Hanno messo la malattia delle persone alla voce costi, come la carta per le stampanti o il toner. Inaccettabile». Una serie di obiezioni che il dottor Rossi ha spedito per lettera all'Inps, con parole accorate: «Il medico che formula una prognosi non può e non deve seguire logiche di carattere economicistico». Ricordando che la legge e il codice deontologico «vietano qualsiasi atteggiamento compiacente» del medico e ne garantiscono «l'indipendenza e la libertà di giudizio». Giù le mani, anzi le forbici, dal certificato. Il problema esiste, però. E non bisogna arrivare ai casi clamorosi, ai malati più immaginifici che immaginari come il magistrato assente per mal di schiena ma pizzicato a regatare in Gran Bretagna, o l'insegnante che il suo certificato lo spediva nientemeno che dalle Bahamas. L'assenteismo c'è, chiunque lavori in un ufficio lo sa. Ancora adesso, solo per fare un esempio, il giorno in cui ci sono più malattie è proprio il lunedì. Con buona pace del ministro della Salute Costante Degan che 30 anni fa, quando di fatto creò il medico fiscale, disse che «darsi malati in ufficio, magari per allungare il week end, diventerà quasi impossibile». Gli abusi non sono soltanto un costo per l'Inps, cioè per le casse pubbliche e quindi per tutti. Ma anche un'ingiustizia per chi si dà malato solo quando lo è sul serio. «Per carità — dice il presidente dell'ordine dei medici milanesi — qualcosa si può aggiustare. Ma invece di tagliare le malattie dall'alto discutiamone tutti insieme: l'Inps, il ministero della Salute, i medici. E vediamo che cosa si può migliorare». Per il momento la sua lettera è rimasta senza risposta. E dall'Inps parlano di polemica esagerata. Perché quella circolare è solo un documento di programmazione interno. E perché la riduzione del 3% è una «tendenza attesa, che deriva anche dall'andamento degli ultimi anni». Ma il dibattito è aperto perché l'Inps è disponibile ad un «tavolo di confronto a livello nazionale». Se è vero che gli sprechi e i furbi sono da combattere, del resto è anche vero che l'austerità può fare male alla salute. Non lo dice l'ordine dei medici, che in questa vicenda difende anche i suoi iscritti, ma The Lancet, una delle riviste scientifiche più autorevoli del mondo. I suoi ricercatori hanno confrontato le misure prese per raddrizzare i conti in Grecia, Portogallo e Spagna con quelle adottate in Islanda, dove le sforbiciate al welfare pubblico sono state minori. E sono arrivati alla conclusione che tagliare la sanità per correggere le finanze pubbliche è pericoloso non solo perché può aggravare la recessione, scaricando i costi sulle famiglie. Ma perché aumenta i tassi di suicidio, alcolismo, depressione e malattia mentale. Lorenzo Salvia lsalvia@corriere.it _____________________________________________________ Sanità News 08 Apr. ’13 IL DECRETO SUGLI STANDARD OSPEDALIERI CANCELLA GLI PSICOLOGI OSPEDALIERI Nessuna attivita' di supporto e assistenza psicologica verra' piu' fornita dagli ospedali italiani e i circa mille psicologi ospedalieri di ruolo e gli altrettanti che li affiancano e che lavorano con contratti a termine spesso finanziati da associazioni di malati, cesseranno ogni attivita'. La denuncia arriva dal Consiglio nazionale dell'Ordine degli psicologi, da nove societa' scientifiche del settore oltre che dalle stesse associazioni di malati, dopo che decreto sugli "standard ospedalieri" predisposto dal Ministero della Salute non prevede questa attivita' cancellandola quindi, di fatto, dagli ospedali italiani. Nonostante che la "svista" sia stata prontamente segnalata dall'Ordine Nazionale degli Psicologi, nessuna marcia indietro del Ministero. Da qui, oltre alla denuncia delle societa' scientifiche e delle associazioni di malati, anche il lancio di una petizione, "non cancelliamo la psicologia negli ospedali", che ha gia' raccolto molte migliaia di firme in pochi giorni. Il timore degli psicologi "e' che il provvedimento - che non ha giustificazioni economiche - passi alla chetichella in questo periodo di limbo della politica riportando l'Italia indietro di trent'anni. Lo psicologo ospedaliero - viene ricordato - e' presente in misura largamente insufficiente per assicurare interventi adeguati ed omogenei sul territorio nazionale, concentrati nella maggioranza dei casi - tranne qualche eccezione - negli ospedali del centro-nord. E che l'aiuto psicologico sia considerato molto importante dai pazienti viene confermato dal fatto che esso sia la terza voce di spesa, dopo badanti e farmaci non erogati dal Ssn, che i cittadini affrontano pagando di tasca propria". Recenti ricerche confermano queste esigenza: il vissuto e lo stress del paziente, ad esempio, ha importanti ricadute sui processi biologici: lo stress psicologico aumenta del 40% il tempo di guarigione delle ferite chirurgiche, mentre una breve tecnica antistress migliora i decorso postoperatorio con tre giorni di degenza in meno. Tutto questo si ribalta sui costi: una indagine su 9 milioni di cittadini USA ha mostrato come i fattori psicologici aumentino i costi sanitari dal 30 al 170%. _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 Apr. ’13 INSOSTENIBILI ALTRI 2 MILIARDI DI TICKET PER IL 2014» ROMA — È un fardello sempre più pesante quello sostenuto dai cittadini per ricevere le cure del servizio sanitario pubblico. Lo scorso anno gli italiani hanno pagato di tasca propria 4,4 miliardi, secondo una raccolta di dati preliminari. In ambulatori e ospedali l'aumento è stato del 13%, da 1,3 a 1,5 miliardi, rispetto al 2011. L'anno del famigerato superticket da 10 euro sulle prestazioni specialistiche introdotto dal governo Berlusconi. E dovrebbe essere legato in larga misura a quel nuovo contributo la lievitazione della spesa. Visite ed esami in cliniche private convenzionate sono costate circa 755 milioni. Due miliardi per l'acquisto di farmaci. Non finisce qui. Nel futuro dell'assistenza pubblica si profila l'ennesima brutta sorpresa. Ci saranno ticket per altri 2 miliardi previsti dalla manovra finanziaria firmata dall'ex ministro dell'Economia Tremonti nel 2011. Il nuovo sistema scatterà il 1° gennaio del prossimo anno anche se nel frattempo la Corte costituzionale, accogliendo un ricorso del Friuli Venezia Giulia, ha dichiarato illegittimo il provvedimento per una questione di competenze su chi dovrebbe regolare la materia. «Ticket insostenibili per i cittadini e il servizio sanitario nazionale, dovrà essere una delle priorità del prossimo governo», denuncia ancora i danni della stangata il ministro della Salute, Renato Balduzzi (foto sopra) che intendeva preparare un piano alternativo (basato sulle franchigie). «Il pericolo è che venga accelerata la tendenza, già ben tracciata, di una fuga verso il privato, fenomeno che rischia di pregiudicare le caratteristiche del nostro sistema basato su universalità e globalità della copertura». Già adesso per alcune prestazioni rivolgersi a cliniche non convenzionate è più conveniente soprattutto perché si evitano lunghe liste di attesa. «Ci batteremo per evitare di scaricare sui cittadini altri due miliardi», si impegna Vera Lamonica, segretario confederale della Cgil. Per Francesca Moccia, vicesegretario generale di Cittadinanzattiva, è un altro passo in avanti verso lo smantellamento della sanità pubblica. Margherita De Bac _____________________________________________________ La Stampa 12 Apr. ’13 COME CAMBIA LA DAY SURGERY GRAZIE AI LIMITI SSN E LA SPENDING REVIEW Cambiano i tempi, la spesa sanitaria... e così cambia anche la Day Surgery. Foto: ©photoxpress.com/Andrey Kiselev Cambiano i tempi, i modi e, grazie alla crisi, cambia anche la day surgery che diventa ambulatoriale. Quale il futuro delle prestazioni mediche e chirurgiche? Il parere della Sicads – Società Italiana di Chirurgia Ambulatoriale e Day Surgery LM&SDP La cosiddetta “Day Surgery” (DS), ossia gli interventi di chirurgia o gli esami diagnostici e terapie che si effettuano in una sola giornata, cambia aspetto. E questo – se vogliamo – grazie alla revisione della spesa sanitaria (o spendig review, in questo caso) e ai limiti imposti al Servizio Sanitario Nazionale (o SSN). Fino a ieri, la DS era vista come il futuro della chirurgia d’eccellenza, un traguardo raggiunto con molto impegno e serietà, con un occhio alla tecnologia e la specializzazione. Non a caso, le prestazioni in DS sono andate aumentando nel tempo – a dimostrazione della validità della pratica. «Sempre più pazienti oggi sono operati in Day Surgery – spiega il professor Giampiero Campanelli, Presidente SICADS (Soc. Italiana di chirurgia Ambulatoriale e Day Surgery) e Direttore dell’Unità Operativa di Day Surgery della Clinica Ospedaliera Sant’Ambrogio di Milano, nonché ordinario di chirurgia presso l’Università dell’Insubria – sia perché nel tempo alcuni interventi sono in quest’ambito diventati il “Golden Standard”, sia perché la mini invasività di questo tipo di chirurgia (unitamente, in alcuni casi, all’utilizzo di anestesie locali o loco regionali) consente di operare anche pazienti che fino a ieri non sarebbero stati trattabili se non con interventi più invasivi, di tipo tradizionale». Sebbene il punto di forza della DS è sempre stato la possibilità di ottenere prestazioni mediche che consentivano le dimissioni del paziente in giornata, o al massimo con una notte di ricovero ospedaliero, in epoca di spending review e necessità di diminuire la spesa sanitaria, molto sta cambiando anche per la Day Surgery. Accade così che gli interventi chirurgici in Day Surgery che richiedono anche solo una giornata, in una certa percentuale dei casi, diventano prestazioni di chirurgia “ambulatoriale”, escludendo di fatto qualsiasi disponibilità di un posto letto. Eppure la DS ha visto negli ultimi anni un’ampia diffusione. Si pensi che, in quasi tutti gli ambiti della chirurgia, nel 2007 su 4,6 milioni di pazienti che si sono sottoposti a un intervento chirurgico, ben 1,6 milioni sono stati operati con queste tecniche. Nonostante ciò, siamo ancora molto lontani dai numeri della media europea e statunitense. In questi Paesi infatti il trattamento in Day Surgery sfiora o supera addirittura il 50 per cento del totale degli interventi chirurgici. Resta dunque ancora molto lavoro da fare. «Questo perché, di fatto – spiega il prof. Campanelli – per poter fare della day surgery un campo d’eccellenza, occorre che le strutture siano autonome ma perfettamente integrate nel blocco operatorio, per consentire allo stesso tempo un’operatività ad hoc ma anche l’accesso a tutte le tecnologie che rendono “sicuro” l’intervento chirurgico, qualsiasi esso sia, e in Italia siamo arrivati a poter contare su un 10 per cento di UNITA’ AUTONOME di DAY SURGERY, un numero esiguo se si considera che la tendenza, a causa delle nuove linee di programmazione economica in campo sanitario, sarà quella di realizzare sempre più interventi con questa metodica “fast”». «Il principio di base è corretto – prosegue Campanelli – il ricorso alla day surgery libera posti letto per patologie importanti e multifattoriali, diminuendo le liste d’attesa, ed è una grande risorsa se ben impiegata ma non dimentichiamo che in Italia esistono purtroppo grandi differenze di accesso alla day surgery fra regione e regione, e il paziente dimesso che, in caso di complicanze post-operatorie, non può contare su un posto letto nemmeno “virtuale”, viene in molti casi inviato al proprio domicilio senza che vi sia una cosiddetta “struttura di prossimità” abbastanza vicina a cui poter ricorrere in caso di problemi». Anche per la SICADS, il passaggio da Day Surgery a Chirurgia ambulatoriale, può essere un obiettivo valido ma non può prescindere da determinati presupposti irrinunciabili, perché la chirurgia ambulatoriale – e la Day Surgery – siano una soluzione verso l’efficienza sanitaria e l’eccellenza: una bella differenza tra questa e la necessità di tagliare sui costi del SSN, magari a scapito della sicurezza e tutela del paziente. Tra sprechi, inefficienze, scandali e via discorrendo, quali possono essere le linee guida che possono davvero fare – una volta per tutte – la differenza tra una Day surgery di qualità e una chirurgia ambulatoriale gioco forza? «Credo – dichiara Campanelli – che debbano essere salvaguardati gli standard di sicurezza, e i requisiti minimi tecnico-organizzativi, continuando a investire sulla tecnologia a disposizione delle strutture di day surgery, sulla specializzazione dell’equipe chirurgica, sulla qualità presidi sanitari (per esempio le protesi), e che non si debba rinunciare alla possibilità di dover avere a disposizione comunque un ricovero in caso di complicanze». «Rinunciare alla qualità in questi ambiti – aggiunge Campanelli – vuol dire sottoporre nel lungo periodo il SSN a nuovi costi: costi in medicina d’urgenza e in re-interventi, per esempio, in caso di complicanze impossibili da gestire al momento, magari provocate da presidi chirurgici di scarsa levatura e compatibilità, o da inadeguatezze nella procedura che anziché “fast” potrebbe diventare “frettolosa”! Ben vengano invece tickets diversificati a seconda delle fasce di reddito, perché ora il costo di ogni intervento grava sul SSN per la stessa quota indipendentemente dalla disponibilità economica del paziente. Credo che pian piano si arriverà a fondi sanitari integrativi, come negli USA, ma se qui in Italia vogliamo continuare a salvaguardare la qualità dell’intervento sanitario e l’accessibilità alle fasce economicamente più deboli, dovrà cambiare il sistema, oggi pressoché gratuito per tutti. Senza dimenticare che il nostro SSN è considerato dall’OMS al secondo posto a livello mondiale per qualità dell’assistenza. Gli Usa, nella stessa classifica, li troviamo solo al 37°…». Se dunque la Day Surgery, e la chirurgia ambulatoriale, prenderanno gli indirizzi suggeriti dal prof. Campanelli e la SICADS, e che in fase progettuale prevedono investimenti specifici, consentiranno in realtà di ottimizzare i costi e, a regime, determinare un recupero economico per il SSN. La SICADS, in questa prospettiva, intende collaborare attivamente alla Commissione istituita dal Direttore generale della Programmazione sanitaria del ministero della Salute, Francesco Bevere, per capire quali costi tagliare e quali no, anche in ambito delle prestazioni di Day Surgery e chirurgia ambulatoriale. _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 Apr. ’13 NEW ENGLAND JOURNAL OF MEDICINE: UN GATTO SURCLASSÒ I LUMINARI di GIUSEPPE REMUZZI Il «New England Journal of Medicine» ha proposto un sondaggio tra i lettori sugli articoli più interessanti. Con qualche sorpresa Che cosa c'entra la più grande e famosa rivista di medicina del mondo, il «New England Journal of Medicine» con la rivoluzione americana? C'entra per via di un dottore speciale, Joseph Warren, un uomo elegante, brillante e molto bello. Si laurea a diciott'anni e a neppure trenta è già famoso: sa curare il vaiolo. Medico e soldato, diventa il capo del comitato per la sicurezza di Boston all'inizio della guerra d'Indipendenza e mette in piedi un sistema di spionaggio formidabile. E non basta, è così stimato che lo chiamano ad assistere la moglie del generale inglese Thomas Gage. È da lei che Warren viene a sapere delle intenzioni dei britannici di spostare le truppe in campagna per impadronirsi di armi e munizioni dei coloni. Gli inglesi vengono sconfitti a Bunker Hill, nel giugno 1775, ma Warren muore in battaglia. Al fratello John, studente di medicina, restano i ferri chirurgici di Joseph e l'obbligo morale di continuare a curare i feriti di quella battaglia. John Warren fonda la scuola di medicina di Harvard. Avrà 17 figli. Uno di loro, John Collins Warren, comincia gli studi di medicina a Boston, poi va a Londra e a Parigi; la laurea non la prenderà mai, ma Harvard gliene attribuirà una honoris causa. Sarà proprio Collins Warren nel 1812 a fondare il «New England Journal of Medicine and Surgery and the Collateral Branches of Science». Il primo articolo è del 1° gennaio 1812: Remarks on Angina Pectoris, a firma di John Warren, il padre di Collins Warren. Oggi ci sarebbe da ridire sul fatto che John Collins Warren riceve una laurea honoris causa dalla scuola di medicina fondata dal padre e poi chiede proprio al padre di scrivere il primo articolo per il suo nuovo giornale. Sta di fatto che quelle considerazioni sull'angina pectoris restano, nella storia della medicina, come la più bella descrizione che qualcuno sia mai stato capace di fare dei sintomi che precedono l'infarto. Nel giro di dieci anni la comunità di Boston sentì l'esigenza di una rivista settimanale. Il 29 aprile del 1823 cominciò a uscire come «Boston Medical Intelligencer». L'obiettivo era quello di pubblicare casi clinici e poi tutto quello che succedeva nella medicina — soprattutto in Europa — per non restare indietro. Pochi anni dopo il nome cambia in «Boston Medical and Surgical Journal». Si continuano a pubblicare casi interessanti, ma bisogna aspettare fino al 1846 per trovare un lavoro davvero originale: Henry Jacob Bigelow, uno dei chirurghi del Massachusetts General Hospital, era riuscito ad anestetizzare con l'etere un paziente a cui doveva essere amputata una gamba. Dopo l'intervento l'ammalato aveva ripreso coscienza, a quel tempo non era affatto scontato. Nel 2012 il «New England Journal of Medicine» ha celebrato i 200 anni dalla sua fondazione. Quest'anno è partito un sondaggio. «Diteci — ha chiesto il direttore ai lettori — qual è stato nella nostra storia l'articolo più importante». Hanno risposto in novemila, l'articolo più votato è proprio quello di Bigelow sulla prima anestesia. Nel febbraio 1896 il «Boston Medical and Surgical Journal» pubblicò una delle prime radiografie, quella della mano di un ammalato con un'anomalia della falange distale del dito mignolo, poi nel 1901 spiegò che l'aspirina è meglio dell'acido salicilico per i reumatismi. È nel 1911 che il salvarsan (uno dei primi chemioterapici) si può usare per la sifilide, le verruche volgari e la lebbra. In quegli anni però le grandi scoperte della medicina si pubblicavano in Europa. Nel 1918 arriva l'influenza spagnola: il «Boston Medical and Surgical Journal» offre ai medici una splendida interpretazione dei sintomi e tratta delle precauzioni da prendere. Un'altra delle grandi scoperte di quegli anni (1925) è l'insulina per la cura del diabete, che però finisce sul «Journal of American Medical Association». Nel 1921 la Società di medicina del Massachusetts compra il «Boston Medical Surgery Journal» per un dollaro e il 23 febbraio del '28 nasce il «New England Journal of Medicine». C'era già la pubblicità a quel tempo: sigarette (Chesterfields), whisky (Johnnie Walker), chewing gum e Coca-Cola: davvero molto particolare per una rivista di medicina. Nel 1954 si fa il primo trapianto di rene. Ad annunciarlo non è una rivista, ma il «Times»: si racconta di Ronald Herrick che dona un rene al fratello Richard, ammalato di una grave forma di nefrite. Il lavoro vero e proprio esce solo un anno dopo nel «Journal of American Medical Association». Nel 1960 il «New England Journal of Medicine» pubblica la notizia del vaccino per il morbillo, provato prima sulle scimmie e poi sui bambini. Quel lavoro ha salvato la vita ad almeno 20 milioni di bambini. Da allora gran parte della storia del «New England Journal of Medicine» coincide con quella della medicina: la scoperta di farmaci capaci di curare l'Aids, la cura dell'ictus del cervello, le prime difficoltà con la fecondazione in provetta e il fatto che l'ulcera dello stomaco possa portare a tumori. L'articolo più letto del «New England Journal of Medicine» degli ultimi cinque anni? Uno potrebbe pensare a quello sull'effetto dei farmaci che abbassano il colesterolo o su come evitare le complicanze del diabete, o a quello ormai famoso su H1N1 o a certi studi su nuovi farmaci per il trattamento del tumore alla mammella metastatico. Invece no, non è nessuno di questi. Quello più letto è un racconto che ha poco di scientifico a prima vista e che colpisce la fantasia: è la storia di un gatto, un gatto davvero speciale, «Oscar the Cat». Passa le sue giornate al terzo piano di uno dei padiglioni dell'ospedale di Rhode Island a Providence, dove si ricoverano i malati di Alzheimer. Va e viene per i corridoi, dorme un po' qua e un po' là come tutti i gatti, qualche volta, di tanto in tanto si avvicina alla sua ciotola per mangiare o per bere, si appisola sulla sedia di qualche infermiere. Se trova la porta socchiusa, capita perfino che entri in qualche camera, faccia un giro e, di solito, se ne vada via. Salvo una volta (la sua prima volta). Entra in camera di Sara, s'accomoda sul letto e non si muove da lì. La paziente è in coma. Entra un'infermiera, Sara respira malissimo. Chiamano i parenti perché abbiano il tempo di prepararsi. Arrivano. La stanza di Sara è piena di gente adesso: i figli e cinque nipoti. Oscar non si è mosso, sempre lì steso sul letto accanto a Sara. «Chissà, forse vuole accompagnare la nonna in paradiso», sussurra Julie, la nipotina più piccola. L'ultimo sospiro per Sara è poco dopo. Oscar se ne va, senza che nessuno ci faccia caso, torna a dormire nella sua cesta. Ha finito il suo lavoro: non morirà nessun altro oggi al terzo piano, quello degli ammalati di Alzheimer, nemmeno la signora della camera 20 ammalata di demenza e di tumore, che stava già malissimo dalla mattina. Medici e infermieri del terzo piano, allo Steere House Nursing Center, hanno adottato Oscar che era cucciolo di pochi giorni e miagolava disperato in un seminterrato. Con il tempo il gatto ha imparato a prevedere chi morirà di lì a poco, l'ha fatto 25 volte finora senza sbagliare mai (e medici e infermieri hanno il tempo di chiamare i parenti e prepararli). Così Oscar sta vicino anche a chi, se no, morirebbe da solo. «Questo riconoscimento è per Oscar, Oscar the Cat, per la sua attenzione a quelli che hanno più bisogno», c'è scritto proprio così sulla targa che gli infermieri hanno voluto dedicare al loro gatto. Lui, Oscar, ogni tanto ci passa davanti, butta l'occhio e torna a dormire. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Apr. ’13 MARROSU: IN OSPEDALE SOLO QUANDO SERVE Il paziente in pigiama davanti al medico in camice In uno scritto intitolato “Nascita della Clinica” il filosofo Foucault poneva l'accento sulla potenza esoterica esercitata dall'Istituzione ospedaliera sul corpo del malato che, attratto dalla luciferina moderna tecnologia che allontana le immagini della Morte, rinforza la spasmodica aspettativa di risultati legati più all'edonistica cultura dei desideri che al reale status della malattia. In realtà il rapporto medico-paziente si pone, negli ospedali, in una posizione minoritaria per la persona ammalata che accetta nel profondo il paternalismo del camice e si priva volontariamente del bene di una ragionata visione della malattia. È a questo proposito interessante e messo in evidenza dagli antropologi medici come il medico ammalato, una volta ospedalizzato, tenda a un comportamento assolutamente analogo a quello del paziente “laico”. Naturalmente l'ospedale è la sede più adeguata per risolvere seri problemi di salute, ma pensiamo allo sciupio di danaro pubblico, ai ricoveri impropri che gravano sui bilanci e all'uso scellerato che spesso viene fatto di questa istituzione. La dimensione etica della cura che dovrebbe essere maggiormente centrata sui Servizi Organizzati Territoriali, come gli ambulatori intra ed extraospedalieri. Il fatto di trovarsi davanti a un camice indossando un pigiama deve essere riservato solo a situazioni non derogabili. Bisogna ricordare che l'ospedalizzazione adotta ritmi da “Istituzione Totale”con necessarie violazioni dello spazio prossemico da parte di medici e infermieri (come nudità durante visite e pratiche infermieristiche invasive) che spesso imbarazzano. Una buona assistenza sul territorio è esattamente il contrario di questo: la persona malata si situa nella dimensione ontologico-mondana del medico, ne condivide i problemi esteriori e si pone dinnanzi alla sua malattia in un volontario atteggiamento di sosta della vita. Soprattutto, sarà molto più preparato e munito di sufficiente critica e disincanto nell'essere avviato da queste strutture all'ospedale, quando serve. Francesco Marrosu (Prof. ordinario di Neurologia Facoltà di Medicina - Cagliari) _____________________________________________________ Le Scienze 12 Apr. ’13 NEUROSCIENZE, CRISI DI CREDIBILITÀ Le ricerche nel campo delle neuroscienze sono, in media, poco affidabili, raramente riproducibili e viziate da campioni troppo limitati. A lanciare l'allarme un team di ricercatori che ha esaminato 48 meta analisi pubblicate nel 2011, rilevando tra l'altro che l'uso delle tecniche di neuroimaging in particolare fa crollare l'affidabilità neuroscienze politiche della ricerca statistica Se foste un neuroscienziato e doveste verificare una certa ipotesi - per esempio, che la cioccolata migliora l'umore - il vostro esperimento avrebbe in media solo il 20 per cento di probabilità di dare risultati affidabili. Questa è l'amara conclusione di un articolo apparso su Nature Reviews Neuroscience, frutto di una collaborazione internazionale guidata da Marcus Munafò, psicologo dell'Università di Bristol. Gli autori hanno condotto uno screening su 48 meta analisi effettuate su studi di neuroscienze e pubblicate nel 2011, e ne hanno calcolato il loro potere statistico, un indicatore che misura la probabilità che, data un'ipotesi corretta, l'esito dello studio progettato per verificarla sia effettivamente positivo. E' così risultato che il potere statistico medio degli studi esaminati si assesta intorno al 21 per cento: sale al 31 per cento se ci si limita a quelli che coinvolgono modelli animali, e precipita fino all'8 per cento per studi che sfruttano tecniche di neuroimaging. Questi dati fotografano un ambito di ricerca che, sebbene in crescita e anche molto popolare tra il grande pubblico, offre pochissime certezze. Tra le cause individuate dagli autori, una è di natura strategica, e non riguarda solo le neuroscienze. Un risultato netto, con una tesi apparentemente valida in generale, ha molte più probabilità di essere pubblicato rispetto a un altro che si regga solo grazie a una lunga serie di ipotesi stringenti. Tuttavia è facile che una ricerca rigorosa produca risultati parziali e complicati da enunciare. La corsa alla notizia chiara penalizza le ricerche più scrupolose ed è una politica a cui non sfuggirebbero nemmeno le riviste più accreditate. E nell'ottica della legge del publish or perish, ecco che la maggioranza dei ricercatori tende ad accontentarsi di un metodo meno rigoroso pur di ottenere un risultato più netto, anche se meno realistico, e sceglie strumenti statistici a maglie larghe che generano falsi positivi il 97 per cento delle volte. Un danno che si ripercuote sulla ricerca stessa, che si trova a fare i conti con una letteratura imprecisa e grossolana. Una ragione che rende gli esperimenti di neuroscienze particolarmente inaffidabili è l'abitudine a ricorrere a campioni troppo piccoli, legata al fatto che, quando gli studi richiedono l'uso di cavie, si cerca di limitare il numero di animali sacrificati. Munafò e colleghi sono consapevoli di questa necessità, "ma anche un basso potere statistico ha le sue conseguenze etiche: una scienza poco credibile è inefficiente e sprecata", e rende vana la morte delle cavie utilizzate. L'articolo lancia un secondo avvertimento: anche un risultato che sembra statisticamente significativo, proposto da una ricerca con basso potere statistico, può facilmente rivelarsi falso. Il sistema attuale fa proliferare le ricerche piccole e approssimative, i cui risultati possono rallentare e compromettere le ricerche successive. Ma qualche soluzione, secondo Munafò, c'è. Prima di tutto, è importante che gli autori delle pubblicazioni specialistiche siano trasparenti sugli eventuali limiti del proprio lavoro, indichino nei loro articoli qualsiasi procedura si discosti dalla prassi comune e qualsiasi fattore che possa aver influenzato i dati in una certa direzione. Più in generale, un metodo vincente può essere quello di creare reti di gruppi di ricerca che possano controllare a vicenda gli esperimenti, verificarne la riproducibilità e fornire così un bacino più ampio di campioni. _____________________________________________________ Corriere della Sera 13 Apr. ’13 STAMINA: GLI SCIENZIATI: «IL DECRETO LEGALIZZA CURE NON PROVATE» Caso Stamina (trattamento con cellule staminali mesenchimali) e disinformazione. Lettera aperta dell'associazione «Luca Coscioni» e denuncia all'Agcom: tv e carta stampata siano responsabili. «La conoscenza dei fatti — scrive l'associazione — senza assunzione di posizioni precostituite contribuirebbe a far emergere la verità». I fatti. Da una parte. Non esiste un «metodo Stamina» nelle pubblicazioni scientifiche. L'unica sperimentazione, condotta all'ospedale Burlo Garofolo di Trieste e pubblicata a dicembre 2012, riporta i risultati delle infusioni Stamina su 5 bambini malati di Sma, tra i 3 e i 20 mesi di età: due sono morti, tre non hanno registrato miglioramenti (ma neanche effetti collaterali). La richiesta di brevetto presentata negli Stati Uniti, di cui parlano i propugnatori del metodo, risulta «bocciata» (documento dell'Us Patent Office). Dall'altra parte. Vi sarebbero bambini che, secondo i genitori, stanno migliorando. E che per questo sono ricorsi ai giudici per proseguire le infusioni come cura compassionevole. Domani si discuterà alla Camera il decreto legge (già approvato al Senato) del ministro della Salute Renato Balduzzi che dovrebbe avviare una «sperimentazione» ufficiale. Con il rischio di trasformare i malati in «cavie». «Per questo abbiamo lavorato in due direzioni — scrivono al Corriere i senatori pd Rita Ghedini e Nerina Dirindin —: la prosecuzione delle terapie già iniziate e l'avvio di una sperimentazione. La prosecuzione delle terapie già iniziate prima dell'entrata in vigore del decreto legge esclusivamente in laboratori e con procedure conformi alle norme vigenti; la sperimentazione avvenga in un quadro di norme certe». Sconcertati gli scienziati. Commenta Elena Cattaneo, direttore del centro di ricerca sulle staminali (UniStem) dell'Università di Milano: «Chiamare "cura" un intruglio indefinito non lo trasforma certo in terapia nemmeno se a dirlo è il Parlamento o un tribunale. Se il decreto diventa legge, l'Italia sarà il primo Paese civilizzato a rendere legali trattamenti non provati e l'uso indiscriminato di cellule staminali. E quando le "cure statali" inefficaci risulteranno tali o, peggio, quando fenomeni avversi e incontrollati si renderanno noti, chi ne risponderà?». Più duro Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas: «Il metodo Stamina non esiste. Non c'è un metodo chiaro, trasparente e riproducibile dai medici a beneficio di tutti i pazienti. Sarei molto interessato a confrontarmi con Erica Molino, vera e unica inventrice di qual brevetto Stamina rigettato negli Stati Uniti». Mario Pappagallo _____________________________________________________ Corriere della Sera 11 Apr. ’13 STAMINALI, LA DEREGULATION GIOVA SOLO A CHI VENDE TERAPIE» Bianco: le pressioni commerciali sui governi e il dovere di tutelare i malati Il Parlamento sta discutendo la regolamentazione delle cosiddette «terapie avanzate» a base di cellule staminali. Se queste fossero sottratte alla vigilanza dell'Aifa in materia di preparazione e utilizzo, l'Italia si allontanerebbe dalle norme europee in questo campo, con conseguente, probabile, procedura di infrazione. Il «caso Stamina», da cui tutto ha avuto origine mette a fuoco uno scenario più grande. Di cura compassionevole scrive il Corriere, decretano i ministri, legifera d'urgenza il Parlamento. Se si debba o no praticare la cura definita trapianto di cellule staminali è divenuto materia di giurisprudenza e non di medicina; perché che davvero di cura si tratti è dato assurdamente per scontato. Così assumono i magistrati, i decreti ministeriali, e anche la stampa, a sua volta senza cercare verifiche dirette. Gli organi tecnici preposti (Aifa) avevano interrotto una pratica non conforme alla legge. Sentenze di tribunali hanno poi disapplicato il provvedimento, basato su un decreto ministeriale (in sette anni mai trasformato in legge). Scienziati e medici hanno invitato a chiarezza e prudenza, invocato che si cercasse di evitare incidenti gravi, che si dicesse in che cosa consiste la «cura», che si specificasse chi rispondeva di che cosa. Che si verificasse se la cura era davvero tale, che la si rendesse chiara e riproducibile, e perciò utilizzabile anche a beneficio dei bambini di tutto il mondo. Apriti cielo: scienziati e medici farabutti al soldo delle multinazionali. Quel che la «cura» propone è che un'infusione di cellule ossee (staminali mesenchimali) curi tanti malanni diversi, a prescindere dalla natura del malanno, da quel che le cellule siano in grado di fare, a prescindere dal fatto che le stesse cellule, una volte infuse, rimangano lì o scompaiano. E a prescindere dalla necessità di verificare che sia così. Ma la «cura» coincide con quello che molti nuovi soggetti commerciali propongono. Alcuni di essi emergono dallo stesso mondo scientifico. Il fondatore (e detentore di royalties) della più grande company nata in Nord America per lo sfruttamento commerciale delle mesenchimali sostiene, dalle pagine di riviste scientifiche, che, infuse in vena, queste cellule curino autismo, incontinenza urinaria, paraplegia, Parkinson e altre malattie neurodegenerative, colite, infarto, ictus, artrite e altre 13 malattie. Nessuno di questi usi è riconosciuto o approvato come terapia. Quel che si sa indica piuttosto che alcune cose non sono possibili, che di altre si dovrebbe capire di più, e che ci vorrebbe cautela nello sperimentare sui malati. Lo dicono medici e scienziati che non vendono alcunché. Invece i soggetti commerciali in questione premono per indurre i governi ad allentare i meccanismi regolatori e autorizzare il commercio di terapie cellulari senza che sia prescritto di verificarne l'efficacia attraverso trial clinici. Fda ed Ema, che vigilano sulla produzione e il commercio dei farmaci in Usa e in Europa, sono talora dipinti come il principale ostacolo allo sviluppo dell'innovazione. Privati che propongono direttamene ai pazienti cure miracolose con staminali esistono in tutto l'Oriente «emergente». Casi ci sono stati anche in Germania e Usa. Ma proprio perché Fda e Ema esistono, questi casi si sono conclusi con la interruzione d'autorità delle pratiche non autorizzate, e, in un caso, con l'arresto del proponente, fuggito in Messico. Questi casi sollevano sempre polveroni mediatici, la cui funzione è attrarre l'attenzione dei governi e del pubblico, e diffondere l'idea che deregolare il mercato delle «terapie avanzate» coincida con l'interesse dei pazienti, o con la compassione. Ma deregolare il mercato è invece interesse di una costellazione di imprese di nuovo tipo, determinate a creare un mercato nuovo, centrato su malattie senza cura, per le quali sia dunque socialmente accettabile anche una cura inefficace. Un mercato in cui si vende non un bene tangibile industrialmente prodotto come la pasticca d'antan, ma un bene immateriale commercialmente valorizzato: si vende la speranza e la parola staminali, veicolo seducente e pegno di virtù taumaturgiche. I governi di tutto il mondo ricevono dagli stessi soggetti commerciali sollecitazioni a consentire, in nome dell'innovazione, la commercializzazione dei prodotti staminali, senza necessità di trial che ne provino l'efficacia. Sono proprio casi come il caso Stamina a rappresentare l'occasione utile. La vigilanza che passa attraverso norme e organismi di controllo (Aifa) non impedisce di sperimentare terapie improbabili o usarle, se innocue, in modo compassionevole. Ma senza quella vigilanza, si potrebbero vendere cure senza obbligo di provarne l'efficacia. In Paesi come l'Italia l'onere economico derivante dall'uso in decine di migliaia di pazienti di terapie inefficaci e mai sottoposte a sperimentazione ricadrebbe sul Servizio sanitario nazionale e dunque sui cittadini. La richiesta che sale in Italia dal pubblico di liberalizzare per legge le terapie compassionevoli (cioè non sperimentate né approvate) coincide dunque con interessi commerciali, ben diversi dalle motivazioni del pubblico. Nello stesso caso italiano, d'altronde, esistono richieste di brevetto; esistono sponsorizzazioni commerciali; esistono, secondo i proponenti, know how esclusivi, non resi noti, non brevettati e tuttavia in predicato di sviluppo commerciale. Si capirà allora quanto lontani da questa realtà complessa siano in questi giorni il contenuto della comunicazione mediatica, e la consapevolezza del pubblico. Se domani il caso Stamina scomparisse dalla scena, non scomparirebbe questa realtà globale. Anzi. In assenza di norme adeguate, assisteremmo all'ingresso sul mercato di altri prodotti commerciali forse adeguatamente fabbricati, ma inefficaci e forse pericolosi. Che il Servizio sanitario sarebbe costretto ad acquistare, a furor di popolo. L'Italia sarebbe il primo Paese del mondo occidentale a diventare meta del «turismo staminale» oggi fiorente altrove, e il Servizio sanitario in bancarotta. Si capirà anche l'inanità dei «dibattiti» sulle «staminali» con esperti e showmen. Si capirà che arginare la «deriva del Paese» implica solo tenere la barra dritta nella tempesta. Nell'informazione, nella politica, nella medicina, nella scienza, nella legge. Tenere la barra dritta, anche etimologicamente, vuol dire solo governare. Paolo Bianco _____________________________________________________ Corriere della Sera 08 Apr. ’13 TRANSCRIPTOR, IL CHIP BIOLOGICO CHE FARÀ LA GUERRA AI TUMORI Gli ingegneri della Stanford University School of Medicine hanno costruito un transistor biologico che promette meraviglie nelle cure antitumorali. A base di materiale genetico, consentirà infatti di programmare le cellule cancerogene per impedirne la proliferazione incontrollata, tenere sotto controllo la salute del paziente, produrre farmaci specifici. Si chiama «transcriptor», trascrittore, e controlla il flusso d'informazioni come i transistor in silicio, ma a livello cellulare: anziché su ingranaggi ed elettroni, si basa su filamenti di Dna e Rna. «Così come in elettronica — dicono gli ingegneri — un transistor controlla il flusso di elettroni lungo un circuito, in biologia un transcriptor controlla il flusso di una specifica proteina, l'Rna polimerasi, mentre viaggia lungo una porzione di Dna». L'obiettivo principale è registrare quando le cellule viventi sono esposte a stimoli esterni e a fattori ambientali, e accendere o spegnere la riproduzione delle stesse cellule se necessario. Le prospettive dell'innovazione sono ad ampio spettro. Secondo gli esperti il transcriptor aprirà anche la strada a quello che i biologi chiamano «computer genetico», per studiare e riprogrammare i sistemi viventi, monitorare e migliorare le terapie cellulari. _____________________________________________________ Repubblica 08 Apr. ’13 ROBOT-CHIRURGHI, IL BOOM IN ITALIA IN UN ANNO SETTEMILA INTERVENTI I LIVELLI DI PERFEZIONE RAGGIUNTI DALLE MACCHINE "ANDROIDI" HANNO PORTATO LE OPERAZIONIA CRESCERE DEL 40% NEL 2012. IN TUTTO IL MONDO IL TOTALE È STATO DI 200.000. E VISTO CHE SI OPERA IN MICROCHIRURGIA, SI RIDUCONO I TEMPI DI DEGENZA E SI RISPARMIA Valerio Maccari Roma Provincia di Rieti, pochi giorni fa. Un intervento chirurgico ad altissimo livello di difficoltà: la rimozione di una neoplasia dall'unico rene rimasto di un. paziente senza compromettere l'organo. Un compito portato a termine, con successo, da un'equipe di medici eccezionali, che si sono potuti avvalere dell'aiuto di un collega in più: il robot chirurgo Da Vinci, che con le sue doti di precisione micrometrica ha permesso al gruppo di medici di isolare selettivamente la parte da asportare senza causare lesioni. Non è un caso isolato: sono sempre di più le sale operatorie hi-tech. Tra gli strumenti ipertecnologici più utilizzati spicca proprio lui, Da Vinci. Che ha una storia lunga che però ha conosciuto un'accelerazione negli ultimissimi anni. La sua prima incarnazione è addirittura del 1990, quando l'istituto no-profit Sri International propose un prototipo all'agenzia del Dipartimento della Difesa Usa per lo sviluppo di nuove tecnologie per uso militare. Dopodiché le potenzialità commerciali dello strumento attirarono l'attenzione della Sili- con Valley. Dal 1999, la Intuitive Surgical inizia la vendita diretta del Da Vinci, attualmente ad un prezzo che si aggira intorno agli 1,5-1,75 milioni di dollari, a seconda dei modelli e degli accessori. La macchina, che da spenta assomiglia a un ragno ripiegato su se stesso, permette, sotto la guida di un chirurgo umano seduto nella consolle di controllo, di utilizzare i suoi molti bracci per praticare incisioni, mentre il medico 'pilota' vede in tempo reale le immagini in tre dimensioni di quello che sta succedendo. Nonostante il costo elevato, la poca invasività ottenuta operando tramite il Da Vinci lo ha reso uno strumento estremamente diffuso, soprattutto per l'utilizzo in operazioni delicate come pro - stectomie e uteroctomie, tanto da valere per la Intuitive Surgical la sesta posizione della classifica Forbes delle società più innovative. Anche in Italia ce ne sono 54, secondo i conti dell'Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana: un numero che ci porta al terzo posto della classifica europea, appena dietro a Germania e Francia. L'Italia, spiegano da Pisa, è infatti uno dei territori più all'avanguardia nella chirurgia assistita da robot: l'anno scorso gli interventi sono stati circa 7000, con un incremento del 40% sull'anno precedente; nel mondo sono stati 200.000. Pino a tutto il 2012 nel mondo, fa sapere la produttrice Intuitive Surgical, il Da Vinci è stato utilizzato per più di 500.000 operazioni, e le unità vendute al primo gennaio 2013 erano 2000. Abbastanza per rendere la Intuitive Surgical, che nel 2003 ha acquisito la sua competitrice diretta Computer in Motion, leader del campo con 20 miliardi di dollari di capitalizzazione. Un grande successo, anche se non mancano le polemiche: esattamente come perla medicina tradizionale sono cominciate in America le cause di malpractice che stavolta anziché i chirurghi investono l'azienda produttrice, la Intuitive Surgical, accusata in particolare di praticare scarsa formazione agli operatori e la società. Bagarre che non fermano la corsa dei chirurghi elettronici. La rapida espansione della chirurgia hi-tech, o meglio robotic-aided, ha infatti portato all'aumento dell'utilizzo degli strumenti robotici in molti dei campi di intervento chirurgici. E se il Da Vinci è pensato come robot multiscopo, adatto a più tipologie di operazioni chirurgiche, c'è spazio per chirurghi robot anche in altri campi, dall'ortopedia, all'urologia, passando per ginecologica, chirurgia toracica e addirittura otorinolaringoiatria, considerati terreni fertili per eventuali applicazioni di chirurgia robotica. Ne è un esempio Rio — in uso anche in Italia• braccio robotico interattivo prodotto dalla Mako Surgical, è impiegato soprattutto per le operazioni per gli. interventi di chirurgia protesica al ginocchio. Dai risultati del Policlinico di Albano Terre, il primo in Italia ad usarlo emerge che l'impianto di protesi installato tramite il sistema robotico è tre volte più accurato rispetto alla tecnica manuale e permette un risparmio di sostanza ossea che si traduce in una duttilità maggiore della protesi stessa. Tra Da Vinci e Rio, secondo le stime dell'International Federa- don of Robotics, l'anno scorso le vendite di robot medici sono salite del 13%: a guidare la carica soprattutto i robot che assistono le operazioni chirurgiche e le riabilitazioni terapiche. Nel 2025, stima sempre la Ifr, il valore di mercato mondiale di questi prodotti sarà intorno ai 90 miliardi di dollari. Certo, l'alto costo dei robot da sala operatoria, che i2,5 milioni di dollari a seconda delle componenti e delle funzioni, unito alle difficoltà finanziarie sperimentate un po' in tutti i mercati tradizionali, potrebbero causare un inatteso rallentamento delle vendite. Per questo Intuitive Surgical ha iniziato ad espandere il numero di procedure operabili attraverso Da Vinci, in modo da rendere più giustificabili per sistemi ospedalieri e cliniche gli alti costi sostenuti. e a puntare, come tutte le imprese dell'hi-tech, siano software di diporto o hardware medico, sugli unici mercati che mostrano ancora qualche vitalità: quelli dei Paesi emergenti, dove Da Vinci è ancora poco diffuso. Ma alla Surgical tracciano un ulteriore percorso per permettere l'utilizzo di versioni di Da Vinci anche nelle operazioni chirurgiche per ora robot free. «In tutto, vengono eseguite 240 milioni di operazioni chirurgiche», spiega il portavoce Ionathan Sorger. «Stimiamo che, appena le tecnologie ottiche impiegate nei nostri robot saranno ulteriormente maturate, Ia chirurgia robotica potrà allargarsi a molte altre procedure». _____________________________________________________ TST 10 Apr. ’13 I NUOVI INDIZI DELL'ALZHEIMER Scoperti alcuni marcatori genetici che potrebbero rivelare chi è a maggiore rischio Alzheimer: le persone con un accumulo di alcune proteine nel cervello e nel liquido spinale (come la «tau») avrebbero più probabilità di sviluppare il morbo, secondo Alii son Goate dell'Università di Washington. La ricerca ha rilevato una serie di mutazioni in alcune «regioni genetiche» che influenzano i livelli di questi accumuli proteici. I risultati spiegano gli studiosi apriranno la strada anche a nuove strategie per terapie mirate che abbiano come «target» proprio le proteine coinvolte. Cresce, intanto, I'Sos per l'epidemia di demenze: solo negli Usa costano più di tumori e malattie cardiache, con costi annuali tra 157 e 215 miliardi di dollari. _____________________________________________________ Sanità News 11 Apr. ’13 ARRIVA IN LOMBARDIA LA "DOLL TERAPY" PER CURARE L'ALZHEIMER La Doll Terapy per curare i malati si Alzheimer è una pratica utilizzata anche all'interno del Nucleo Alzheimer del Villaggio Amico di Gerenzano, in provincia di Varese. Come dimostrato dalla terapeuta svedese Britt- Marie Egedius-Jakobsson, le pettinature sbarazzine, la morbidezza al contatto e gli occhi grandi delle bambole riescono a favorire l’espressione di emozioni e pensieri anche negli anziani con problemi di demenza senile che, cullandole e abbracciandole, riprovavano a sentirsi utili e a prendersi cura di qualcuno. Una terapia che si sta diffondendo in tutto il mondo e che adesso è arrivata anche in Italia. Al secondo piano della struttura di Gerenzano accreditato dalla Regione Lombardia, nel reparto della Memoria viene infatti utilizzato il metodo Gentle-Care affiancando ai trattamenti farmacologici tradizionali le cosiddette terapie alternative, doll-therapy, appunto, e pet-therapy ma anche momenti dedicati alla musica, al colore e alle attività manuali per realizzare un mosaico o tessere una stoffa al telaio. “La cura della persona con demenza si pone come un trattamento a lungo termine che, progressivamente, impone la ricerca di soluzioni sempre più articolate per l’emergere di bisogni via via più complessi - spiega Paola Chiambretto, neuropsichiatra e responsabile del Nucleo Alzheimer Villaggio - Partendo dal presupposto che, di questa patologia, si debbano curare i sintomi, cioè sostenere le capacità residue del malato nel tentativo di migliorarne la qualità di vita, l’ambiente che lo accoglie deve essere costruito sulle sue esigenze, deve dare supporto ai suoi deficit, deve rendere più agevole la conduzione dei programmi terapeutici riabilitativi. Gli ambienti creati per far sentire il paziente a casa propria servono da sostegno alla persona con problemi di Alzheimer esattamente come la sedia a rotelle funge da supporto per l’individuo che ha problemi motori”.Amico sottolinea il significato di questa metodologia" _____________________________________________________ TST 10 Apr. ’13 DALL'ALTERAZIONE DEL GENE UNA CURA PER IL TUMORE AL COLON-RETTO Brucia i tempi il programma "Heracles" finanziato dal 5 per mille dell'Airc VALENTINA ARCOVIO uno degli esempi più virtuosi di «Medicina di precisione», la massima espressione della medicina personalizzata, dove la terapia viene costruita davvero su misura del paziente e sul tipo di tumore che lo affligge. A tradurre questo innovativo approccio in una possibilità terapeutica sono gli autori dello studio clinico «Heracles», uno dei progetti quinquennali che fanno parte dei programmi speciali di Airc (l'Associazione italiana per la ricerca sul cancro), finanziati con i fondi del 5 per mille. Il gruppo è lo stesso che è riuscito a trasferire i risultati dalla ricerca di base alla clinica ancora prima della verifica triennale prevista per il mese di aprile da parte di un comitato internazionale. Lo studio descritto sull'ultimo numero della rivista «Fondamentale» destinata ai soci dell'Airc coinvolge pazienti con cancro al colon-retto metastatico che non rispondono alle terapie convenzionali. «Abbiamo scoperto che circa il 10% di questi pazienti presenta un'alterazione del gene Her2, un'anomalia trovata anche nel cancro del seno e in quello gastrico», spiega Paolo Comoglio, coordinatore del progetto che vede al lavoro i ricercatori e i clinici dell'Istituto per la ricerca e la cura del cancro di Candiolo, presso Torino, e i clinici dell'Ospedale Niguarda Ca' Granda di Milano. «Contro Her2 esistono diversi farmaci biologici già approvati per altre patologie sottolinea e questo ci ha permesso di passare rapidamente in clinica con risultati molto promettenti». «In un primo campione di pazienti trattati aggiunge Salvatore Siena, primario del reparto di oncologia al Niguarda il tumore è andato in remissione parziale. Il risultato è tanto più importante in quanto si tratta di pazienti che hanno ormai fallito tre o più cicli di terapia convenzionale». In poche parole l'approccio dei ricercatori del gruppo di «Heracles» sembra funzionare là dove la medicina tradizionale fallisce. La scoperta dell'importanza dell'oncogene Her2 nel cancro del colon è stata resa possibile grazie a una tecnologia innovativa messa a punto da Livio Trusolino, responsabile del laboratorio di farmacologia molecolare all'Istituto di Candiolo. «Abbiamo trapiantato in topi immunologicamente compatibili il tumore di ogni singolo paziente. In questo modo i pazienti reclutati hanno un proprio xenopaziente o "avatar", come lo chiamano gli americani, che porta la copia fedele del proprio tumore spiega Tusolino - . Grazie all'utilizzo di questi xenopazienti è stato possibile condurre analisi molecolari nei casi resistenti alle terapie convenzionali e identificare, quindi, i geni responsabili della resistenza». Proprio come si trattasse di perfetti «alter ego» i topini trapiantati, con le loro risposte, hanno permesso ai ricercatori di capire quale potesse essere il trattamento più efficace per ogni singolo paziente. Non soltanto. «Heracles» vanta anche un'altra importante innovazione, la cosiddetta «biopsia liquida», messa a punto da Alberto Bardelli, responsabile del laboratorio di genetica molecolare dell'Irec di Candiolo. «La tecnica spiega permette di verificare se un farmaco sta funzionando o meno, osservando l'espressione dei geni del tumore durante la cura, senza la necessità di sottoporre il paziente a ripetute biopsie tradizionali. Il metodo analizza le tracce di Dna rilasciate dalle cellule tumorali disintegrate tramite una semplicissima analisi del sangue». Niente male per uno studio che non ha ancora compiuto tre anni. «Siamo davvero soddisfatti commenta Comoglio dei risultati raggiunti finora, perché stiamo già riscontrando nei pazienti progressi incoraggianti. Tutto questo grazie alla politica dell'Airc, che ai finanziamenti "a pioggia" ha deciso di sostituire una strategia centrata su risorse significative per singoli progetti mirati, e anche alle strutture e alle risorse tecnologiche messe a disposizione dalla Fondazione piemontese per la ricerca sul cancro». Il lavoro dei ricercatori di «Heracles», tuttavia, non ha ancora raggiunto la meta finale. Il prossimo «step», infatti, è quello di reclutare nuovi pazienti. «Si tratta di uno sforzo non da poco, perché soltanto i soggetti che presentano l'alterazione del gene Her2 possono beneficiare della terapia offerta dal nuovo protocollo», commenta Silvia Marsoni responsabile dell'ufficio di coordinamento degli studi Clinici dell'Ircc. «Nel frattempo la ricerca progredisce conclude Comoglio e continua lo studio di altre mutazioni che rendono il cancro del colon resistente alle cure». _____________________________________________________ Avvenire Apr. ’13 RAVASI LA RICERCA DEVE RISPONDERE ALL'URLO DEI MALATI Staminali adulte avanti con gli studi» DA ROMA SALVATORE MAllA La Chiesa deve avere «mani in azione, e non solo parole». Perché «bisogna venire incontro al dramma della sofferenza in alcuni ambiti delicatissimi, pensiamo solo al settore dell'Alzheimer». Ben venga dunque la ricerca nel campo delle staminali adulte, «per rispondere all'appello, spesso un urlo, che viene lanciato» dalle famiglie che hanno una persona colpita da una malattia degenerativa». Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio Consiglio per la cultura, ha presentato così ieri il secondo Congresso internazionale su Medicina rigenerativa: cambiamento fondamentale nella scienza e nella cultura, in programma in Vaticano da domani al 13 aprile e che, con il contributo di relatori di primissimo piano (tra gli altri, il premio Nobel per la medicina 2012 John Gurdon), si occuperà di ricerca sulle cellule staminali adulte, e farà il punto sui risultati raggiunti nella cura di un grande numero di patologie, anche tumorali e circolatorie e di malattie croniche come il morbo di Parkinson o l'Alzheimer. «Il nostro interessarci a questi ambiti spiegato Ravasi — è anche per mostrare che la fede, la religione non è soltanto quella che interviene quando ci sono questioni di bioetica: non interviene solo negativamente, ma afferma anche la propria partecipazione a uno sviluppo positivo, tenendo ben presente che buona parte della vita pubblica di Cristo — nel Vangelo di Marco è l'esatta metà — è dedicata a guarigioni di malati». Per questo, allora, la risposta alle sofferenze da parte della Chiesa deve essere «non solo spirituale ma anche un impegno concreto», ha insistito il porporato, sottolineando che i risultati del Congresso verranno consegnati a papa Francesco il quale, «visto che è stato eletto da poco», non è stato ovviamente coinvolto nella preparazione: ma «i temi che affronteremo — ha fatto notare il presidente del Dicastero vaticano per la Cultura— sono molto vicini ai discorsi che il Papa sta facendo in questi giorni». E, a questo proposito, Ravasi ha raccontato il caso di un bambino di 8 anni, affetto da una malattia fino a oggi incurabile, per il quale i genitori, spinti dalla disperazione, pensano di affidarsi ad «una pseudo-cura, se non di un mago, qualcosa del genere. Seguire una via rigorosa e non magica — ha detto il cardinale — è invece proprio nello spirito di papa Francesco». Nell'illustrare le finalità del Congresso Robin Smith, amministratore delegato della NeoStem e presidente della "Stem for Life Foundation", società co-organizzatrici dell'incontro — ha affermato che «vogliamo dimostrare che per affrontare globalmente la sofferenza, uno non deve scegliere tra la fede e la scienza, perché la nostra esperienza è che possono adattarsi insieme, in simbiosi». Per questo è indispensabile «informare il mondo sul potere e sulla promessa rappresentata da queste terapie, per essere sicuri— ha osservato ancora Robin — che questa scienza sia descritta in manie ra accessibile a tutti», superando la grande confusione originata dalle polemiche insorte negli ultimi 20 anni: oggi, ha aggiunto, «politici e straordinari scienziati di tutto il mondo» sono al lavoro per sostenere le cure basate sulle cellule staminali adulte. Secondo monsignor Tomasz Trafny, del dipartimento scientifico del pontificio Consiglio della Cultura, «capire, conoscere, studiare», sono le tre vie da seguire in questo campo. «La Chiesa — ha ribadito — non è contraria alla scienza, alla ricerca, si preoccupa sempre per quelli che soffrono». O RIP _____________________________________________________ La Stampa 12 Apr. ’13 ADDIO OSPEDALE, LA MAGLIA A SENSORI CANCELLA IL RICOVERO IN CARDIOLOGIA Giorno e notte sotto osservazione: la maglietta Hi-tech viene realizzata su misura perché i sensori siano a contatto con la pelle e possano registrare in qualsiasi momento le frequenze cardiache e respiratorie e trasmettere addirittura un elettrocardiogramma Al Regina Margherita i bambini malati di cuore saranno controllati a distanza: «A casa vivono più sereni e sempre in totale sicurezza» MARCO ACCOSSATO TORINO Centocinquanta bambini malati di cuore potranno essere seguiti e monitorati ogni anno dai cardiologi del Regina Margherita senza dover più varcare la porta dell’ospedale. Grazie a una speciale maglietta a sensori prodotta da un’azienda torinese in collaborazione col Politecnico di Milano (la Mtm Tech) e a una sim telefonica, i medici potranno controllare a distanza i loro piccoli pazienti e misurare - costantemente o ad ore prestabilite - temperatura, frequenza cardiaca e respiratoria, ottenendo in qualunque momento addirittura il tracciato di un elettrocardiogramma. Ovunque siano i bambini: a casa, a scuola, al parco. PROGETTO PILOTA Il progetto - primo del genere in Italia - verrà presentato a fine maggio a Roma al forum della Pubblica amministrazione. «Si tratta - spiega la dottoressa Gabriella Agnoletti, primario di Cardiologia all’ospedale infantile - di un aspetto del programma di umanizzazione per rendere l’ospedale un luogo meno spaventoso di quanto appare abitualmente ai più piccoli». Progetto «Happy heart», cuore felice, che non significa solo cuore sano, ma anche bambini più sereni, benché malati. TESSUTO INTELLIGENTE La maglietta contiene sensori in grado di trasmette quei valori necessari al cardiologo per misurare giorno e notte le condizioni di un bimbo in cura. Il medico, dall’ospedale come dal proprio smartphone, può visionare in qualsiasi momento le condizioni dei pazienti non più costretti a restare in ospedale. La maglietta è realizzata su misura, come «su misura» è il numero dei controlli a distanza che il cardiologo fa per ogni paziente. «Il progetto - spiega sempre la dottoressa Agnoletti - è destinato per ora ai circa 150 bambini in terapia ogni anno per un’aritmia o ai cosiddetti «bimbi cianotici», ma in futuro, con un apposito protocollo e uno studio preliminare, potrebbe essere esteso anche a quelli con uno scompenso del cuore, che oggi devono subire controlli ancora invasivi, in anestesia, con una sonda». La maglietta rende superato un altro esame, l’holter, da sempre mal sopportato dai bambini. La maglietta - di cotone - può essere lavata in lavatrice come qualsiasi capo d’abbigliamento, senza che i sensori vengano danneggiati. L’unica cautela è la rimozione della sim e del piccolo meccanismo di trasmissione, posto in una piccola tasca interna. La tecnica consentirà di limitare al minimo le visite in ospedale, che comunque non saranno completamente azzerate. «Vivere il più possibile in casa - sottolinea il primario di Cardiologia del Regina Margherita - non è solo una condizioni più favorevole per ogni bambino, naturalmente spaventato all’idea di stare in un letto d’ospedale. L’effetto positivo è su tutta la famiglia, più serena nell’affrontare terapie spesso molto lunghe». Risparmio su costi Beneficio psicologico, ma anche concreto, per le casse della Sanità pubblica così in crisi: «E’ dimostrato che nell’arco di soli tre mesi il progetto è totalmente ripagato». Tre mesi di ricoveri in meno, di medici e infermieri non impegnati in controlli che vengono assicurati comunque - e addirittura con maggior frequenza - dal tessuto sensibile della maglietta. Una piccola grande rivoluzione in ospedale che la Sanità pubblica non è però in grado di pagare. Per questo motivo - e per poter estendere il progetto - la Cardiologia dell’ospedale Infantile ha richiesto un finanziamento alla Compagnia di San Paolo e attende una risposta. La prima paziente che sarà dimessa e controllata a distanza ha 11 anni. La maglietta è stata sperimentata con successo fra alcuni dei ricoverati. Tra i vari sensori c’è addirittura un sistema giroscopico che - pensando all’utilizzo della stessa maglietta per pazienti adulti o anziani - permette persino di rintracciare il paziente in caso di malore grave, ovunque si trovi senza poter essere soccorso da qualcuno . _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 Apr. ’13 L'UOMO COL BUCO NELLO STOMACO CHE «SVELÒ» LA DIGESTIONE IL PRECURSORE FU UN ITALIANO di FRANCESCA GORI Il 6 giugno 1822, in un villaggio dell'isola di Mackinac, sul lago Huron, in Michigan, si sentì uno sparo nel magazzino dell'American Fur Company. Il medico dell'esercito di stanza in quel momento presso il forte di Mackinac, William Beaumont, si precipitò immediatamente a vedere che cosa fosse accaduto, incontrando per la prima volta l'uomo del suo destino. C'era un ragazzo di circa 20 anni, un cacciatore di pelli, che giaceva immobile sul pavimento in una pozza di sangue: da un fucile era partito accidentalmente un colpo che lo aveva raggiunto all'addome, sul lato sinistro. «Una ferita orribile, grande quanto il palmo di una mano. Dalla camicia bruciacchiata sbucavano pezzi di costole, cartilagini e frammenti di cibo della colazione. Quando il ragazzo tossì fu chiaro da dove venissero: l'esplosione gli aveva perforato lo stomaco». Inizia così la storia che legherà Beaumont e Alexis St. Martin, che di lì a poco sarà noto come "l'uomo con il buco nello stomaco": la racconta Jason Karlawish, medico dell'Università di Philadelphia, nel suo libro Open Wound: the tragic obsession of Dr. William Beaumont. Una cronaca romanzata che si concede qualche digressione dalla realtà restituendo però il senso di un caso singolare nella storia della medicina, tramite cui è stato possibile imparare molto sui processi digestivi. Beaumont, dopo i primi giorni, in cui disperava di salvare la vita del ragazzo, comprese che quella ferita poteva essere il suo trampolino per la fama. Nato 37 anni prima nel Connecticut da una famiglia di contadini, Beaumont non aveva ricevuto un'educazione standard in medicina: a 24 anni aveva iniziato il praticantato presso un medico a Champlain, al confine con il Canada, e a 26 era entrato nell'esercito come assistente chirurgo. Durante la guerra anglo-americana del 1812 Beaumont si era fatto le ossa sul campo trattando pazienti di ogni genere e diventando esperto nella cura delle ferite; terminato il conflitto, rimase nell'esercito come medico presso i forti sparsi nel territorio americano. Anche grazie alla sua esperienza riuscì a strappare Alexis a quella che pareva una morte certa: nonostante le febbri e il dolore, il ragazzo continuava a vivere e Beaumont lo aveva preso sotto la sua ala, proponendosi di pagare anche le spese per le cure che nessuno, a parte una temporanea carità dei compaesani, voleva accollarsi. Nell'ottobre del 1822, durante il cambio delle fasciature che consentivano allo stomaco di Alexis di trattenere il cibo, il medico si accorse che un pezzetto di carne semidigerita, assieme a una piccola quantità di fluido, era uscita del buco sul fianco, ormai divenuto una fistola che non dava segno di volersi rimarginare. Osservando il cibo ebbe una intuizione: la digestione forse non era il processo di fermentazione e macinatura che molti credevano, dovevano avere un ruolo sostanze chimiche che scioglievano poco a poco gli alimenti. Da quel momento, Alexis divenne "la maledizione e la fortuna" di William Beaumont: deciso a non lasciarsi scappare l'occasione di guardare dove nessuno mai aveva potuto, il medico fece di tutto per tenere con sé il ragazzo e studiarlo. Alexis, analfabeta e povero, non ebbe scelta: Beaumont gli propose di vivere come aiutante assieme a lui, sua moglie Deborah e la figlia Sarah, pagando i suoi debiti ed elargendogli anche un piccolo stipendio in cambio della disponibilità a sottoporsi a esperimenti sulla digestione. Beaumont era autodidatta: osservando un bimbo che succhiava tè con una cannuccia ebbe l'idea di raccogliere provette di succo gastrico servendosi di un tubicino di gomma; mettendo le fiale nella sabbia mantenuta calda sul fuoco ottenne la giusta temperatura per la "digestione artificiale" e osservò ora dopo ora come i succhi gastrici digerivano gli alimenti più svariati; con un filo di seta inseriva direttamente nello stomaco pezzi di cibo e li estraeva per vedere quanto e come venivano elaborati. Alexis collaborava, anche se rischiava di svenire ogni volta che Beaumont cominciava a trafficare con il suo stomaco, ma scalpitava: si chiedeva perché la ferita non si chiudesse e aveva un temperamento poco incline alla morigeratezza (fu coinvolto in un accoltellamento, si ubriacava spesso). P er Beaumont era difficile tenerlo a freno e giustificare la sua presenza di fronte alla comunità e alla moglie, infastidita dalle intemperanze del ragazzo e preoccupata per l'esborso di soldi. Nel giro di un anno e mezzo dall'incidente, sul buco nello stomaco si creò una sorta di "coperchio": quando Alexis stava in piedi un piccolo lembo di tessuto di nuova formazione copriva la cavità gastrica e non consentiva al cibo di uscire, ma bastava premerlo per poter accedere allo stomaco. F ino al 1825 Alexis visse con Beaumont, che lo sottoponeva ai suoi esperimenti per capire quanto tempo occorresse a digerire ogni tipo di alimento; nel settembre di quell'anno, però, il ragazzo se ne andò, lasciando disperato il medico che, negli anni successivi, non pensò che a tornare ai suoi esperimenti per scrivere il libro sulla digestione che a suo dire gli avrebbe dato gloria perenne. Ma aveva bisogno che Alexis tornasse da lui. Accadde solo quattro anni dopo, quando Beaumont lavorava al forte di Prairie du Chien, in Wisconsin: qui Beaumont scoprì l'importanza della temperatura per far sì che il succo gastrico digerisse il cibo, si accorse che per distruggere le verdure occorreva più tempo che per la carne e che il latte coagulava appena arrivato nello stomaco. Ma Alexis se ne andò ancora una volta, nel 1831, per poi essere ritrovato da Beaumont un anno dopo. Il medico trascinò allora Alexis a Washington dove poté dedicarsi totalmente ai suoi esperimenti per sei mesi: non riuscì a far analizzare il succo per scoprirne la composizione chimica, ma aggiunse altre osservazioni sulla digestione e nel 1833 pubblicò il libro Experiments and Observations on the Gastric Juice and the Physiology of Digestion. Alexis nel frattempo era di nuovo tornato in Canada dalla sua famiglia e Beaumont non lo vide più: non ebbe più modo di rispondere con i fatti alle critiche dei molti detrattori che lo accusavano di aver condotto esperimenti poco rigorosi, ma guadagnò un po' della fama che aveva sempre inseguito. Lasciò l'esercito e si stabilì a Saint Louis, in Missouri, dove aprì uno studio privato. Morì nel 1853 dopo essere scivolato sul ghiaccio e aver battuto la testa. Alexis gli sopravvisse e morì nel 1880, a 86 anni, dopo aver vissuto 58 anni con la sua inusuale ferita. I parenti lasciarono che la sua salma si decomponesse per quattro giorni e poi lo seppellirono in una tomba senza nome: nessuno poté fargli un'autopsia o esaminare il suo stomaco. _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 Apr. ’13 QUALI SONO I TEST GIUSTI PER SCOPRIRE SUBITO A CHE COSA SI È ALLERGICI Inutile (e anche dannoso) sottoporsi a esami a tappeto Va capito caso per caso quali possono davvero servire A qualcuno capita che la pelle si arrossi, pizzichi, si riempia di bollicine. Ad altri che si gonfino le labbra, oppure di avere fastidi gastrointestinali; ad altri cola il naso e lacrimano gli occhi. Tutti sintomi che fanno pensare a un'allergia, ma come capire a che cosa? Identificare il cibo, il polline, la sostanza responsabile può non essere facile. Una corsa a ostacoli non priva di rischi, come sottolinea un recente documento dell'American Academy of Allergy Asthma and Immunology: i test allergici — dicono gli esperti — dovrebbero essere condotti seguendo specifici criteri e sotto la guida di un medico allergologo, altrimenti possono diventare uno spreco di tempo e di denaro e addirittura rivelarsi nocivi, perché, ad esempio, potrebbero indurre a escludere alimenti importanti per la salute senza necessità, o potrebbero creare le condizioni per non riconoscere in tempo malattie diverse e serie che danno sintomi simil-allergici. Secondo gli esperti americani, innanzitutto, bisogna diffidare di qualsiasi forma di «fai da te»: no ai test per le allergie o le intolleranze che si possono far da soli e acquistare perfino sul web, no all'autodiagnosi (stando alle stime un paziente con rinite allergica su tre va dal medico solo quando i sintomi diventano insopportabili, gli altri cercano di gestire i fastidi per conto proprio), no a un percorso di cura che non parta da un'accurata raccolta della storia clinica da parte di un medico. «Con un colloquio approfondito lo specialista può già capire di che tipo di allergia si tratta: quelle ai pollini, ad esempio, danno per lo più sintomi respiratori, anche se talvolta vi si associa la dermatite atopica — spiega Massimo Triggiani, presidente della Società Italiana di Allergologia e Immunologia Clinica (SIAIC) —. Le allergie respiratorie sono anche le più facili da individuare: dopo aver ipotizzato quali potrebbero essere le sostanze incriminate (in base, ad esempio, al momento dell'anno e alle situazioni in cui compaiono i fastidi), in genere per arrivare alla diagnosi precisa bastano ilPrick test e il RAST test per la ricerca delle immunoglobuline E (vedi grafico)». Nel caso di disturbi del tratto gastrointestinale o di manifestazioni cutanee, come l'orticaria, il percorso invece può essere un pò più lungo, perché vanno escluse malattie diverse che possono dare sintomi simili, come patologie autoimmuni o infiammatorie, tumori, malattie del fegato o del sangue. «L'orticaria, che è sempre più frequente (si stima riguardi almeno una persona su quattro nell'arco della vita, ndr), non va sottovalutata: gli shock anafilattici più gravi si manifestano spesso in pazienti che hanno trascurato a lungo di indagare le cause del disturbo — avverte Triggiani —. In questo caso si deve fare il patch test, il RAST e anche i test per l'orticaria fisica, esponendo la pelle del paziente a stimoli come il caldo, il freddo, la pressione, per valutarne la reattività». Che cosa fare invece se si sospetta di un cibo? «La diagnosi di allergie alimentari può essere fatta facilmente solo nei rari casi in cui è molto evidente: se dopo aver mangiato un'arachide in pochi minuti ci si gonfia, difficile avere dubbi — spiega Maria Antonella Muraro, responsabile del Centro di riferimento regionale per lo studio e la cura delle allergie e delle intolleranze alimentari del Dipartimento di pediatria dell'Università di Padova e responsabile della Sezione di pediatria dell'European Academy of Allergology and Clinical Immunology (EAACI) —. In tutti gli altri casi bisogna valutare la storia clinica e sottoporsi a più di un test, escludendo però quelli per le immunoglobuline G che tuttora vengono spesso proposti ai pazienti con una sospetta allergia alimentare: il nostro organismo produce IgG in risposta a qualsiasi proteina esterna con cui veniamo in contatto; l'esame sarà positivo a tutto quello che abbiamo mangiato di recente e quindi non ha alcun senso farlo». «Servono invece il prick test e la ricerca delle IgE, ma se sono negativi non è detto che si possa escludere un'allergia al cibo — aggiunge Triggiani —. Per le analisi vengono usati estratti degli alimenti freschi, ma spesso li consumiamo "modificati", se non altro perché cotti: la reazione dell'organismo al test può quindi non essere la stessa che si ha nella vita quotidiana. Per cui, in caso di esami negativi si passa al patch test (vedi grafico) e al test di provocazione, molto più utile di quanto si pensi». Più laborioso degli altri (ma ritenuto essenziale soprattutto se i sintomi sono cronici e non si riesce a venirne a capo), richiede la compilazione di un diario alimentare e l'eliminazione dalla dieta di tutti gli allergeni potenziali, spesso scelti tenendo conto delle allergie più frequenti nella popolazione (in Italia, per esempio, quella all'uovo; in Svezia invece quella al pesce). «I cibi devono essere tolti per un periodo che va da 2 a 6 settimane: bisogna infatti arrivare a ridurre i sintomi di almeno il 50% — dice Muraro —. A quel punto si propone l'alimento sospetto al paziente, meglio se in modo che né lui né il medico sappiano che cosa sia, e in diversi dosaggi; così si arriva a una diagnosi precisa e si scopre anche la soglia di tolleranza all'alimento». «Utilissimi anche i test molecolari come l'ISAC(vedi grafico), — prosegue l'esperta — che individuano con precisione la proteina a cui si è allergici, con implicazioni importanti per chi, ad esempio, non tollera sostanze vegetali. Chi infatti è allergico alle profiline, allergeni condivisi da frutta, verdura e pollini, ha sintomi soprattutto locali come pizzicore e gonfiore alla bocca e non ha problemi mangiando i vegetali cotti; gli allergici alle proteine LTP di frutta e verdura, invece, possono andare più facilmente incontro a uno shock anafilattico e sono a rischio anche nel consumare i vegetali cotti. Sapere con precisione qual è la proteina allergizzante dà, perciò, indicazioni sulle eventuali allergie "crociate", sulla gravità del problema e sulla probabilità che si mantenga a lungo, senza possibilità di arrivare a una tolleranza». Gli strumenti per la diagnosi, quindi, sono sempre più raffinati, l'importante è affidarsi a un medico esperto. «Purtroppo i pazienti vagano spesso da uno specialista all'altro senza arrivare alle risposte: molti vengono etichettati come ipocondriaci, così c'è chi finisce per affidarsi a test fai da te o senza alcuna validità scientifica, come i test per le intolleranze — osserva Muraro —. Nessuno dei test diversi da quelli allergologici codificati può dare risposte attendibili». «Un test non validato per le intolleranze può costare dagli 80 ai 250 euro — conferma Triggiani —. Una batteria standard di prove per il prick test costa meno di 40 euro; il RAST test, se viene diretto contro una decina di allergeni dopo aver valutato la storia clinica del paziente, può arrivare ai 60 euro; l'ISAC test si aggira sui 120-140 euro. Perciò non conviene prendere strade "alternative", ma rivolgersi a un allergologo e seguire il percorso indicato per arrivare nel minor tempo possibile a una diagnosi corretta». _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 Apr. ’13 ICTUS: AL NORD SI SOPRAVVIVE MOLTO PIÙ CHE AL SUD Sono "unità speciali", attrezzate di tutto punto per affrontare un ictus nel modo più adeguato, tempestivo ed efficiente. Si chiamanoStroke Unit e dovrebbero essere il fiore all'occhiello dell'assistenza per tutti i 200 mila italiani che ogni anno vanno incontro a un ictus. Il condizionale è d'obbligo, perché delle circa 400 Unità che servirebbero nel nostro Paese ne sono realmente operative meno di 160, quasi tutte concentrate al Nord. E non è perciò un caso che al Sud si muoia di più per ictus che per infarto: mancano strutture specializzate, dove al paziente con sintomi sospetti venga subito fatta una TAC per capire se l'ictus è ischemico (cioè dipende da un ostruzione in un vaso) oppure emorragico, per poi passare ai possibili trattamenti. Se la colpa è di un coagulo, infatti, entro 3- 4 ore dai primi sintomi si può somministrare un farmaco che lo scioglie riportando sangue e ossigeno alla parte di cervello colpita: metodo efficace, che in un caso su due consente ai pazienti di recuperare buone condizioni funzionali, in un terzo dei casi permette di tornare alla vita di sempre in pochi giorni e senza conseguenze di rilievo. «I registri di trattamento indicano che in Italia qualità ed efficienza della terapia trombolitica sono perfino migliori rispetto all'estero, ma che sono pochi i pazienti curati in questo modo: in media circa 3 mila ogni anno, nelle zone più virtuose dove ci sono le Stroke Unit si arriva al 10% dei casi. Comunque troppo pochi — spiega il neurologo Domenico Inzitari —. Le Stroke Unit, le cui caratteristiche sono state finalmente identificate lo scorso agosto in un disegno di legge che però è tuttora fermo alla Conferenza Stato-Regioni, sono purtroppo viste come un'onere e non vengono promosse, soprattutto dove sta prendendo piede l'ospedale per intensità di cura, che è l'antitesi del reparto iper-specializzato. Somministrare ai pazienti le terapie trombolitiche in tempo utile riduce del 10% decessi e invalidità: non sono piccole cifre come potrebbe sembrare a prima vista, considerando il gran numero di vittime e i costi enormi della riabilitazione e della disabilità di chi riporta conseguenze gravi da un ictus». Una soluzione potrebbe arrivare dalla teleassistenza: una ricerca condotta di recente negli Stati Uniti ha mostrato che fornire ai piccoli ospedali una connessione in tempo reale con gli esperti di una Stroke Unit, tramite telecamere e web, consente di ridurre la disparità di accesso alle terapie. «In Italia le esperienze in tal senso sono davvero scarse; si è fatto qualcosa in Veneto e in Emilia, ma in modo "sperimentale". Eppure questi progetti potrebbero davvero cambiare il destino di tante vittime di ictus» conclude il neurologo. A. V _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 Apr. ’13 DORMIRE CON LA TV ACCESA DISTURBA LA SINTESI DELLA MELATONINA IL BLU CARICA Non importa essere grandi, anche agli adulti la paura del buio può far perdere il sonno, o almeno disturbarlo. «Il sospetto mi è venuto sentendo, in tanti anni di esperienza, quante persone che soffrono di insonnia riferiscono di andare a letto con la luce o la televisione accesa» spiega Colleen Carney, docente di psicologia alla Ryerson University di Toronto, che ha presentato una ricerca in proposito all'ultimo meeting delle Associated Professional Sleep Societies, a Boston. Nello studio circa 100 studenti di college, in media oltre i 20 anni di età, sono stati sottoposti a un test, l'Insomnia Severity Index, che ha permesso di distinguere quelli che avevano disturbi del sonno rispetto a quelli che, tendenzialmente, dormivano bene. «Mentre circa la metà dei primi ha ammesso di avere paura del buio, — spiega la psicologa — solo uno su quattro fra i secondi ha riferito simili timori». Colleen Carney si è dichiarata sorpresa della facilità con i cui giovani adulti hanno riconosciuto di avere questo timore e ha voluto fare ulteriori verifiche. «Abbiamo esaminato tutti i partecipanti durante alcune notti di test in laboratori attrezzati, — prosegue la ricercatrice — tenuti illuminati o no. E anche in questo caso abbiamo osservato differenze significative». Durante la notte, infatti, gli studiosi hanno disturbato per quattro volte il sonno dei ragazzi, con rumori improvvisi, misurando il numero delle volte in cui sbattevano le palpebre, la velocità e l'ampiezza del movimento, come indice di un disagio di base. «La reazione è stata molto più marcata nel gruppo di coloro che soffrivano di disturbi del sonno, — aggiunge la Colleen Carney — ma solo quando questi dormivano al buio, non se c'era una luce rassicurante che illuminava la stanza». Anche mentre si dorme, infatti, lo stimolo della luce arriva al cervello. «La risposta d'allarme passava invece subito in chi non soffriva di disturbi del sonno» ha precisato Colleen Carney. La reazione degli insonni, secondo gli esperti, è segno di una minore tranquillità, che spariva nelle prove in cui la luce era tenuta accesa. «Quella del buio non è l'unica paura degli insonni — ha commentato Karl Doghramji, direttore medico del Jefferson Sleep Disorders Center alla Thomas Jefferson University di Philadelphia —. Spesso chi non riesce a dormire, anche se non lo sa, ha questo problema a causa di timori inconsci, che possono andare oltre quello che si neutralizza accendendo la luce». Molti non riescono ad addormentarsi perché, anche se non se ne rendono conto, hanno paura di perdere il controllo, abbandonandosi al sonno. «Per questo, per chi soffre di insonnia, può essere una buona idea avere qualche colloquio con uno psicologo — sottolinea Lino Nobili, responsabile del Centro per la diagnosi e la cura dei disturbi del sonno dell'Ospedale Niguarda di Milano —. Possono bastare pochi incontri di psicoterapia cognitivo-comportamentale per risolvere il disturbo legato al riposo notturno, mentre per andare alle radici del fenomeno occorrono percorsi più lunghi». Scegliere invece di tenere accesa la luce non è la soluzione: «Può essere un compromesso, ma il nostro organismo è fatto per dormire al buio — precisa Nobili —. Il venir meno dell'alternarsi di luce e oscurità può influire sulla produzione di melatonina e rendere il sonno stesso meno ristoratore». Conseguenze da non trascurare, non solo per affrontare con maggiore serenità l'ora di andare a letto o in maniera più produttiva la giornata di lavoro che segue. È sempre più evidente infatti che un buon sonno è un toccasana che riguarda molti aspetti della salute. Viceversa, una scarsa qualità del sonno produce molti effetti negativi, anche rilevanti, per esempio a livello cardiovascolare. Fare il possibile per dormire meglio è quindi un passo importante verso la prevenzione, di cui probabilmente si riconoscerà presto l'importanza. Proprio come il fatto di non fumare, come mangiare in maniera sana e svolgere una regolare attività fisica. Roberta Villa _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 14 Apr. ’13 IVANO TRA I 10 AL MONDO CHE SPERIMENTANO LA CURA DELLA TALASSEMIA New York, sardo 34enne sottoposto a una nuova terapia La prima fase è stata positiva, anche se molto dolorosa di Donatella Mulvoni wNEW YORK L’ultimo giorno della terapia ha caricato su Facebook l’immagine di una sacca di sangue: «Con oggi concludo il ciclo di punture che in questa settimana mi ha messo a dura prova – scrive nella sua pagina personale, diventata un diario di viaggio –. Il risultato è in questa sacca, dentro ci sono le mie cellule staminali e perché la prima fase sia valida, il midollo appositamente stimolato dovrà essere stato in grado di averne prodotto almeno 8 milioni per ogni kg del mio peso. Se non ci sarà riuscito, la prossima volta che tornerò a New York sarà in vacanza…». Ivano Argiolas, 38 anni, affetto da talassemia dall’età di 3 mesi, presidente dell’associazione “Thalassa Azione”,da lui fondata nel 2011, sta per rientrare a Cagliari, dopo due settimane di cure, lasciando nella Grande Mela 13 milioni di cellule per ogni chilo del suo peso. «Missione compiuta, il girone di andata è vinto – ha commentato Ivano –. A presto New York». Il turismo puo’ aspettare, tra qualche mese oltrepasserà l’Oceano per la seconda fase di terapia, quella che deciderà se in futuro potrà vivere facendo a meno delle trasfusioni di sangue. Meno di un anno fa, Ivano aveva deciso di prestarsi come “cavia” per una sperimentazione clinica che, se si rivelerà efficace, diventerà una strada alternativa al trapianto di midollo per la guarigione dalla malattia. Si chiama “Terapia genica per la talassemia” ed è il frutto del lavoro di un’èquipe americana del Memorial Sloan- Kettering Cancer Center, il centro di New York all’avanguardia mondiale per la cura contro il cancro, a cui hanno collaborato anche medici italiani e in particolare l’ospedale Microcitemico di Cagliari. Con lui sono state scelte solo altre nove persone nel mondo per “fare questo salto nel buio”, come lo definisce Ivano. E’ un punto di partenza, la linea che segna l’arrivo è ancora lontano, ma almeno percepibile. E’ un percorso sperimentale, diviso in varie fasi, di cui ancora non si conoscono i tempi. Semplificando il linguaggio medico, si tratta di una terapia genica, in cui si prelevano dal paziente le cellule staminali, che vengono replicate grazie a un processo di stimolazione del midollo, attraverso un ciclo di iniezioni. Il numero minimo di cellule per poter andare avanti è di 8 milioni per ogni kg di peso corporeo. Vengono poi trattate e modificate in laboratorio, dove i medici proveranno a sostituire il gene talassemico che non funziona con uno normale. In una seconda fase, le cellule modificate verranno reintrodotte nel paziente, nella speranza che attecchiscano e siano capaci di produrre emoglobina da sole, in modo da diradare le trasfusioni di cui ogni paziente ha bisogno. L’obiettivo è la guarigione totale, come è avvenuto per un ragazzo francese che nel 2007 si è sottoposto a una terapia simile. Per Ivano, accompagnato dalla fidanzata Francesca, sono stati giorni molto difficili. In meno di due settimane, i medici con lui hanno iniziato e concluso la fase 1 della sperimentazione, in cui è stata testata l’idoneità per il trapianto. «Non pensavo sarebbe stato cosi duro – racconta –. Sono arrivato a New York già stanco. Negli ultimi otto mesi ha fatto qualsiasi tipo di accertamento e anche un’operazione per l’asportazione di un adenoma. Poi ho manifestato tutti gli effetti collaterali che il dottore mi aveva preannunciato: dolori alla schiena, alle gambe e alle braccia, formicolio al viso. Il professore è contento che li abbia avuti, perché è sintomo che il midollo è stato stimolato a dovere. Insomma, sono contento di stare male». Negli Stati Uniti Ivano ritornerà tra qualche mese e ci resterà a lungo. L’aspettano 32 giorni di isolamento, 10 in day hospital, un piccolo ciclo di chemioterapia e quindi l’infusione del gene modificato. Per capire se la sperimentazione è veramente efficace serviranno almeno 5, 6 anni, periodo nel quale Ivano sarà un sorvegliato speciale. Se non dovesse andare tutto come previsto, c’è il rischio che queste cellule possano causare la leucemia. Le probabilità sono minime, ma tali da aver indotto uno dei dieci pazienti ad abbandonare dopo la fase 1. Per Ivano la tensione è tanta, anche perché sulle sue spalle ricadono le speranze di tutte le mamme di bambini affetti dalla talassemia. «Mi scrivono perchè vogliono capire. Ecco perché ho deciso di rendere pubblica questa mia avventura. Che non è solo mia, interessa anche il destino di tante altre persone. Non voglio creare illusioni, ma spiegare che la talassemia puo’ essere messa in discussione», dice mentre passeggia nel salotto della McDonald Foundation, il centro di accoglienza, a pochi metri dall’ospedale, dove lui e Francesca risiedono spesati di tutto, perché è rientrato tra i pazienti a cui l’ospedale ha finanziato il progetto. Quando ammette che, nonostante la sua fiducia nei medici, ha un po’ di paura e che Francesca inizialmente non era d’accordo, lo fa sottovoce. E ormai per i circa 1000 talassemici sardi, Ivano è un punto di riferimento. La ricerca ha fatto passi da gigante. La svolta è arrivata negli Anni 90. Come spiega anche Enzo Galanello, direttore del Microcitemico di Cagliari e così ora la talassemia è compatibile con la vita. E Ivano lo ripete come fosse un mantra. Il giorno dopo il suo arrivo a New York, prima di iniziare la terapia, insieme a Francesca, la bussola della coppia, si è concesso una passeggiata nel verde di Central Park. Cercavano la statua di Alice nel Paese delle Meraviglie, ma per caso si sono ritrovati nel luogo sacro ai fan di John Lennon: davanti alla pietra dove è incisa la parola “Imagine”. In musica, il sogno di Ivano avrebbe sicuramente la stessa melodia: «Immagino, i bambini affetti da talassemia che non condurranno una vita intera con questa malattia, anzi sono convinto che non ricorderanno neppure di averla avuta nella loro infanzia». Un sogno. Ma è grazie al suo coraggio se un giorno diventerà realtà. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Apr. ’13 CONTRO I DOLORI ACUTI ORA L'ITALIA E LA SPAGNA ALLEATE NEI PROTOCOLLI Italia e Spagna si alleano nella lotta contro il dolore più grave. Lo confermano i risultati del simposio “Italy in Spain” sulla gestione del dolore, promosso dal Centro Studi Mundipharma e dall'Instituto Mundipharma spagnolo, con il patrocinio di Aisd, FederDolore, Fondazione Paolo Procacci e della Sociedad Española del Dolor. L'Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce negli oppioidi forti il trattamento ottimale per la cura del dolore cronico moderato-severo; nonostante ciò, il nostro Paese è ancora all'ultimo posto in Europa nell'impiego di questi farmaci. Nel 2012, il mercato a valori in Italia ha registrato una spesa pari a 85 milioni di euro: in Spagna si raggiungono i 143 milioni. C'è, però, una nota positiva: benché meno sviluppato, il mercato italiano sta crescendo a un ritmo più sostenuto (+27 per cento contro +18 per cento di quello spagnolo), grazie anche alle semplificazioni nella prescrizione degli oppiacei introdotte dalla Legge 38 del 2010. Spesso, all'origine delle reticenze nell'uso di questi medicinali, vi è il timore di effetti collaterali quali nausea e stipsi, che tuttavia oggi si possono prevenire. _____________________________________________________ Sanità News 08 Apr. ’13 DALL’OMS ARRIVA L’ALLARME PER LA DENGUE Una ricerca pubblicata su Nature ha dimostrato che le stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanita' circa la diffusione della dengue nel mondo vanno triplicate. Lo studio e' stato condotto da Simon Hay dell'Universita' di Oxford e ha creato la prima mappa dettagliata di distribuzione della dengue, consentendo di calcolare il numero totale di persone colpite dal virus a livello globale, regionale e nazionale. I risultati aiuteranno a stimolare gli sforzi per la realizzazione di vaccini, farmaci e strategie di controllo. I dati rivelano che la dengue e' onnipresente in tutte le zone dei tropici con variazioni delle aree a rischio fortemente influenzate da pioggia, temperatura e urbanizzazione. Le stime parlano di 390 milioni di infezioni da dengue in tutto il mondo ogni anno, di cui 96 milioni raggiungono gravita' clinica o sub-clinica. Si tratta di piu' del triplo delle recenti stime dell'OMS ferme a 50-100 milioni di infezioni all'anno. "Abbiamo scoperto che il clima e la diffusione della popolazione sono fattori importanti per predire il rischio attuale di dengue in tutto il mondo" ha spiegato Hay. "Con la globalizzazione e la costante marcia all'urbanizzazione, anticipiamo che ci potrebbero essere drammatici cambiamenti nella distribuzione della malattia. In futuro il virus potrebbe insinuarsi in aree finora non considerate a rischio". Dei 96 milioni di infezioni il 70% e' in Asia, con l'India che da sola rappresenta circa un terzo di tutte le infezioni. I risultati indicano, inoltre, che con 16 milioni di infezioni l'Africa e' quasi equivalente alle Americhe. THE GLOBAL DISTRIBUTION AND BURDEN OF DENGUE Nature (2013) Dengue is a systemic viral infection transmitted between humans by Aedes mosquitoes1. For some patients, dengue is a life-threatening illness2. There are currently no licensed vaccines or specific therapeutics, and substantial vector control efforts have not stopped its rapid emergence and global spread3. The contemporary worldwide distribution of the risk of dengue virus infection4 and its public health burden are poorly known2, 5. Here we undertake an exhaustive assembly of known records of dengue occurrence worldwide, and use a formal modelling framework to map the global distribution of dengue risk. We then pair the resulting risk map with detailed longitudinal information from dengue cohort studies and population surfaces to infer the public health burden of dengue in 2010. We predict dengue to be ubiquitous throughout the tropics, with local spatial variations in risk influenced strongly by rainfall, temperature and the degree of urbanization. Using cartographic approaches, we estimate there to be 390 million (95% credible interval 284–528) dengue infections per year, of which 96 million (67–136) manifest apparently (any level of clinical or subclinical severity). This infection total is more than three times the dengue burden estimate of the World Health Organization2. Stratification of our estimates by country allows comparison with national dengue reporting, after taking into account the probability of an apparent infection being formally reported. The most notable differences are discussed. These new risk maps and infection estimates provide novel insights into the global, regional and national public health burden imposed by dengue. We anticipate that they will provide a starting point for a wider discussion about the global impact of this disease and will help to guide improvements in disease control strategies using vaccine, drug and vector control methods, and in their economic evaluation. At a glance _____________________________________________________ Sanità News 08 Apr. ’13 AL VIA UNA COLLABORAZIONE FRA PUBBLICO E PRIVATO PER CONSERVARE I CORDONI OMBELICALI Il 95% dei cordoni ombelicali in Italia finisce nel bidone dei rifiuti dal momento che la donazione e la conservazione delle cellule staminali del sangue cordonale sono opportunità che raramente vengono presentate alla coppia che sta per avere un bambino, nonostante sia noto che con il cordone ombelicale vengono gettate preziose risorse, utili a numerosi pazienti. La Fondazione InScientiaFides, unitamente alle università Luiss e La Sapienza di Roma, ha elaborato e realizzato uno studio scientifico che può dare un contributo importante al dibattito sulle cellule staminali estratte dal sangue del cordone ombelicale. I risultati ottenuti saranno presentati da Daniele Mazzocchetti, responsabile sviluppo e ricerca di Isf, al congresso Ebmt, fra i più importanti del settore dell’ematologia e dei trapianti, in programma a Londra. Le ricerche sono state condotte nei laboratori della biobanca InScientiaFides, fra le 40 accreditate Fact Netcord nel mondo e in quelli delle università. Il modello prevede una collaborazione fra strutture pubbliche e private che si occupano di conservazione di cellule staminali cordonali, che elimini le contrapposizioni oggi esistenti, e che le veda protagoniste di un unico progetto, che abbia come obiettivo quello di accrescere il numero di unità conservate, siano esse donate pubblicamente o conservate in modo privato. “Le cellule staminali e le loro potenzialità terapeutiche – dice Luana Piroli, presidente della Fondazione Isf - sono nuovamente all’attenzione della gente per i casi di bambini ai quali alternativamente vengono concesse o negate le cure cosiddette ‘compassionevoli’. La luce dei riflettori dei media ha generato anche molta confusione, quasi che l’utilizzo delle staminali nel nostro Paese debba dipendere dalle decisioni di un Tribunale. Va spiegato che non è così. Da 25 anni le staminali sono utilizzate secondo indicazioni cliniche per le quali è consolidato l’uso per il trapianto di cellule staminali ematopoietiche, con comprovata documentazione di efficacia per un’ottantina di gravi patologie, affermando l’opportunità della raccolta dedicata di sangue cordonale. A stabilirlo è un decreto legislativo del 2009 e nell’autunno scorso anche l’Unione Europea ha invitato i Paesi dell’UE a stimolare donazione e conservazione tramite la diffusione della conoscenza di tale opportunità. Il lavoro scientifico che abbiamo svolto con LUISS e La Sapienza apre una strada nuova in questa direzione, a vantaggio della salute dei cittadini”. _____________________________________________________ Sanità News 08 Apr. ’13 LA MEDITAZIONE AUMENTA LA TEMPERATURA GLOBALE DEL CORPO Gli scienziati della University of Singapore hanno confermato che la temperatura globale del corpo aumenta se si pratica un certo tipo di tecniche di meditazione, chiamate g tum-mo, proprie dei monaci tibetani che potrebbero aiutare ad aumentare l'immunita' per combattere contro malattie infettive o immunodeficienza. Precedenti studi su queste pratiche avevano mostrato solo aumenti di temperatura nelle parti periferiche come dita delle mani o piedi. I ricercatori hanno raccolto dati durante una cerimonia particolare in Tibet, durante la quale i monaci sono stati in grado di alzare la temperatura corporea (e perfino asciugare lenzuola bagnate avvolte intorno ai loro corpi) nel freddo clima himalayano (-25 gradi) durante la meditazione. Utilizzando l'elettroencefalografia e misure della temperatura, il team di scienziati ha osservato un aumento della temperatura corporea fino a 38,3 gradi. Lo studio è pubblicato su PLoS ONE