RASSEGNA STAMPA 17/03/2013 LA VALUTAZIONE C'È, I FONDI NO L'AUTOVALUTAZIONE NON BASTA  LA VERA SFIDA DA AFFRONTARE È RIDARE QUALITÀ AGLI ATENEI UNIVERSITÀ, 70MILA ISCRITTI IN MENO IN SOLI DIECI ANNI AOUSS: ACCORDO PER LE INDENNITÀ A 25 MEDICI L'UNIVERSITÀ ALLA SVOLTA DEI CORSI ONLINE LAUREE IN INGLESE PURE IN FRANCIA ARCANGELI: COME UCCIDERE LE UNIVERSITÀ L'ERASMUS ADESSO TRASLOCA FUORI DALLA UE UNIVERSITÀ DI SASSARI, VALANGHE DI RICORSI IN VISTA TULLIO DE MAURO: ECCO S'AVANZA UNO STRANO DOCENTE «INSENSATO SEPARARE LA TEORIA DALLA PRATICA» E I PROGRAMMI TORNANO AI SAPERI DI BASE ATENEI, STOP AI CORSI CON POCHI DOCENTI  LA LAUREA NON È PIÙ UNA GARANZIA  OPEN ACCESS, LA SVOLTA È GIÀ QUI NUOVA ENERGIA DAL GHIACCIO CHE BRUCIA GLI STUDENTI MESSICANI NON PROTESTANO PIÙ NELL'ATENEO ECOSOSTENIBILE NIENTE ASCENSORI PLATONE CONFUTATO IN TRE PAGINE SCILIPOTI E LA FUSIONE FREDDA HA ANCORA SENSO IL COPYRIGHT?  VERSO LA CIVILTÀ DEL DOPOLAVORO IL FRANCESCANO ANTI-GESUITA  LA BIOECONOMIA E I PROGETTI PER UN FUTURO SOSTENIBILE MONTI: «UN ATTACCO CIBERNETICO PUÒ PARALIZZARE IL PAESE» ========================================================= TEST MEDICINA: IL TAR “ISCRIVE” CENTO RAGAZZI TEST: MEDICINA, IL RETTORE DIFENDE IL TEST TEST: SUL WEB ESULTANZA E VELENI TEST: VIOLATE LE REGOLE DI SEGRETEZZA CAPPELLACCI: «VIA L’ASL DI OLBIA» AOUCA: DE FRANCISCI: «IL TRASFERIMENTO NON È PIÙ RINVIABILE» AOUCA: SANITÀ»IL NUOVO MICROCITEMICO AOUCA: MEDICO UNIVERSITARIO RISARCIRÀ 43MILA EURO AOUSS: «ABUSI ALLA AOU», QUATTRO IMPUTATI BONCINELLI: C'È VITA NELLA SPAZZATURA MA È PIÙ GRANDE IL GENOMA DELLA CIPOLLA DI QUELLO DELL'UOMO NEL 2012 CALA DEL 9.1% LA SPESA FARMACEUTICA CONVENZIONATA GLI IMMIGRATI INCIDONO MARGINALMENTE SULLA SPESA FARMACEUTICA ITALIANA SALUTE. NEL LIMBO I TAGLI DELLA SPENDING REVIEW SEMPRE PIÙ CONTAGI IN CORSIA E LA RICERCA È FERMA DA ANNI L’EVOLUZIONE DEI BENDAGGI LA RIVOLUZIONE KINESIO IL FUTURO DELLE STAMINALI È NEI LABORATORI, NON NEI TRIBUNALI STAMINALI, "STOP ALLE TERAPIE OMPROPRIE" GLI SCIENZIATI CONTRO IL METODO STAMINA TUTTI I VANTAGGI DEL LASER ANCHE PER L' ODONTOIATRTA ESTETICA "DAL GENOMA LE NUOVE CURE CONTRO IL CANCRO CINA: DAL '71 336 MILIONI DI ABORTI MALATI PER TROPPA MEDICINA? QUANTO RISPETTO C'È PER LA PERSONA MALATA PROGRESSI IN CARDIOCHIRURGIA GRAZIE A UNA PAZIENTE «XXL» IL CHECK-UP PUÒ SERVIRE MA DEVE ESSERE TAGLIATO «SU MISURA» LE COLONSCOPIE SENZA DOLORE CHE STUPISCONO ANCHE IL GIAPPONE  VEDERE O ASCOLTARE, PER IL CERVELLO FA POCA DIFFERENZA EUROPA, SALUTE E BENESSERE A DUE VELOCITÀ QUEI «SUPERVIRUS» CHE CI MINACCIANO PIÙ DEL TERRORISMO CON I RADIOFARMACI DIAGNOSI PRECOCE PER PARKINSON E ALZHEIMER GLI ITALIANI OVER 50 ACCELERANO SULLE CURE ANTI-AGE  ALLARME MALATTIE RARE SONO OLTRE 7000 I PAZIENTI IN SARDEGNA ========================================================= _____________________________________________________ Italia Oggi 12 mar. ’13 LA VALUTAZIONE C'È, I FONDI NO Profumo porta in salvo il regolamento. Incertezza sull'avvio. Restano le critiche Sistema senza un euro in più, mancano esperti e ispettori DI ALESSANDRA RICCIARDI La macchina è pronta. Toccherà ora metterci la benzina perché il nuovo sistema di valutazione della scuola italiana possa camminare (si veda Italia0ggi di sabato). «Senza oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica», è la clausola di invarianza della spesa che informa il regolamento definitivamente varato dal consiglio dei ministri di venerdì scorso. E infatti non c'è un euro in più per un sistema che dovrà monitorare e supportare circa 8 mila scuola. Mancano gli ispettori, ne serve uno per ogni nucleo ispettivo: in servizio ce ne sono una trentina, contro una pianta organica di oltre 330. Nel 2008 è stato bandito un concorso per 145 posti, ma solo 80 candidati hanno superato gli scritti e sono in attesa degli orali. E poi vanno reclutati gli esperti che collaboreranno all'attività di supporto dei nuclei (due esperti e un ispettore è la composizione prevista). Il tutto nell'ambito delle risorse già disponibili. Insomma, se portare a casa il regolamento è stata un’impresa per il ministro Francesco Profumo, tra i rilievi del Cnpi, quelli del Consiglio di stato e, non meno importanti, le contrarietà della Cgil e del Pd, riuscire ad alimentare la macchina sarà l'impresa che toccherà al prossimo governo. Certo non aiuta la situazione di incertezza politica, a cui si aggiunge il sempre precario equilibrio dei conti pubblici italiani. Condizioni che secondo rumors dell'amministrazione di viale Trastevere potranno facilmente condurre a uno slittamento dell'avvio a regime della valutazione. Anche per attendere la conclusione del progetto Vales, la sperimentazione in corso presso 300 scuole che dovrà fornire gli indicatori di valutazione. Progetto che a questo punto potrebbe essere esteso ad altri istituti dal prossimo settembre. Si guadagnerebbe così un anno di tempo, utile anche per mettere a punto le relazioni con il mondo della scuola dove non tutti sono entusiasti del sistema proposto. Il nuovo modello di valutazione esterna del rendimento delle scuole ha l'obiettivo di rendicontare i miglioramenti degli istituti e di supportare le scuole in difficoltà, così come accade in molti paesi europei. Il sistema si compone di tre gambe: l'Invalsi, 'istituto che attualmente si occupa di rilevare gli apprendimenti degli studenti, l'Indire, 'istituto di ricerca per l'autonomia scolastica, e gli ispettori. Ma saranno le scuole il punto di partenza del processo attraverso procedure di autovalutazione che saranno svolte con il supporto informatico del ministero e che dovranno valutare i progressi degli studenti tra l'ingresso e ''uscita, anche alla luce del contesto sociale ed economico. L'Invalsi, che individuerà le scuole da sottoporre a verifica in base ai rapporti, definirà gli indicatori di efficienza a cui gli istituti e i loro dirigenti dovranno rispondere, mentre l'Indire dovrà favorire i processi di innovazione in ambito didattico, in particolare agendo sul versante della formazione dei docenti. I dati sull'andamento degli apprendimenti saranno rilevati attraverso test di valutazione che si faranno su base censuaria in II e V elementare, I e II media, II superiore (dove già accade ora), e poi in V superiore. Ogni scuola dovrà stilare il proprio piano di miglioramento delle perfomance. In base ai risultati raggiunti, i direttori scolastici regionali valuteranno i dirigenti scolastici per i successivi incarichi e per la quota di salario accessorio. Nessuna ricaduta, invece, per gli stipendi dei docenti. Resta critica la Flc-Cgil guidata da Mimmo Pantaleo: «È davvero incredibile l'arroganza di questo governo che in limine mortis licenzia il regolamento». Pollice verso anche di Gilda degli insegnanti: «Troppa fretta», dice il coordinatore Rino Di Meglio, «c'è il rischio di aggravio di lavoro per i docenti». Per la Cisl scuola il giudizio è invece positivo anche se, puntualizza il segretario Francesco Scrima, « ora servono risorse per far funzionare il sistema in modo che sia veramente di aiuto alle scuole». Invita a dare «centralità al lavoro dei docenti, superando», dice il segretario Massimo Di Menna, «un assetto di verifica di stampo burocratico/ procedurale che è fortemente penalizzante». _____________________________________________________ Il Sole24Ore 11 mar. ’13 L'AUTOVALUTAZIONE NON BASTA  L'impulso a sviluppare in Europa l'accreditamento, l'assicurazione di qualità e la valutazione dei corsi universitari nasce nel quadro del Processo di Bologna, che dal 1999 (anno della Dichiarazione), si prefigge di dar vita a un'area europea dell'istruzione terziaria con caratteristiche almeno comparabili, se non omogenee, al fine di facilitare la mobilità degli studenti (e in parte dei docenti) tra i vari Paesi, e un agevole riconoscimento dei titoli di studio conseguiti nell'area. È in questo contesto che assume un rilievo particolare la messa a punto di criteri e princìpi condivisi in materia di accreditamento, affidati, a livello transnazionale, all'European association for quality aqssurance in higher education. Spetta all'Enqa, infatti, accreditare le agenzie nazionali di accreditamento e promuovere linee guida e procedure comuni. Anche se i nuclei di valutazione interni all'ateneo sono stati previsti dalle norme sull'autonomia finanziaria del 1993 e rafforzati nel 1999, l'Italia sconta ancora un certo ritardo su questo fronte. L'Anvur è nata solo nel 2011, e in attesa di completare almeno un biennio di attività come agenzia di accreditamento è per il momento membro candidato dell'Enqa. L'introduzione del sistema Ava - il trinomio autovalutazione, accreditamento, valutazione - si propone quindi di allineare il nostro sistema alla prassi prevalente in molti Paesi dell'Unione. Essenziale è il primo dei tre termini: nessuna valutazione può prescindere dal monitoraggio e, appunto, la valutazione che ciascun ateneo effettua al suo interno. Il rischio di un approccio diverso è infatti che le procedure di accreditamento finiscano per essere considerate una vessazione esterna, o, quasi peggio, un inutile adempimento formale. Certamente alcune esperienze estere invitano alla cautela, specie sul primo fronte: in Gran Bretagna, dopo qualche eccesso legato al Teaching quality assesment (Tqa) l'agenzia Hefce ha alleggerito le procedure, e in Francia si sta valutando se sostituire all'Aeres strumenti meno complessi di valutazione. Non c'è dubbio, però, che una maggiore consapevolezza dei processi e dei fini di un'analisi della qualità sia un obiettivo fondamentale, soprattutto se diviene lo strumento per un'autonoma riflessione sulle specificità dei singoli corsi di laurea, i suoi obiettivi, l'incastro con gli orizzonti della ricerca e il mondo del lavoro (non si tratta di orizzonti incompatibili). La via italiana all'accreditamento sconta anche alcune peculiarità del sistema. Nonostante fosse stata concepita come misura transitoria, resta in vigore una classificazione rigida delle classi di laurea, che comporta obblighi specifici in materia di programma di studio e resta soggetta al vaglio preventivo del Cun. Altrettanto prescrittivi, e rafforzati da Ava, sono i requisiti legati al numero minimo di docenti necessari per attivare un corso di studio, altrove demandati al buon senso autoregolamentato delle istituzioni, e particolare rilievo rivestirà da noi l'accreditamento delle sedi universitarie, soprattutto quelle decentrate, di cui andranno soppesate le strutture e l'effettivo funzionamento. Negli ultimi anni ne sono state disattivate circa un terzo, così come sono stati chiusi quasi 200 corsi di laurea che attraevano ogni anno meno di 15 matricole. Molta "autovalutazione", evidentemente, è già stata effettuata, anche se sarà importante per docenti, studenti e famiglie poter contare su dati trasparenti e comparabili su base nazionale e internazionale. Alessandro Schiesaro  _____________________________________________________ Avvenire 14 mar. ’13 LA VERA SFIDA DA AFFRONTARE È RIDARE QUALITÀ AGLI ATENEI Il pedagogo Benedetto Vertecchi ROMA — «Il sistema scolastico italiano dovrebbe essere riformato dalle fondamenta». Professor Benedetto Vertecchi, mister Pisa ha ragione? «Andreas Schleicher conosce l'Italia. Ha una moglie italiana, i suoi figli hanno frequentato le nostre scuole, ma non centra il problema». Quale è il problema allora? «Dietro una questione di preparazione professionale c'è la crisi culturale del paese. Il linguaggio è sciatto, il conformismo impera. Gli insegnanti non hanno la solidità necessaria». Il titolo di studio carta straccia? «È colpa della decadenza delle IL PEDAGOGO università: i titoli non garantiscono Benedetto più nulla I laureati diminuiranno Vertecchi ancora. Tutte le nazioni industriali professore di avanzate stanno togliendo qualità pedagogia all'istruzione superiore». Che cosa devono fare i professori italiani? «Insegno all'università dal 1980 e ho una seria sfiducia nei docenti universitari, che nutrono molti giochi di potere». (c. z.) _____________________________________________________ L’Unità 10 mar. ’13 UNIVERSITÀ, 70MILA ISCRITTI IN MENO IN SOLI DIECI ANNI * I dati del Cineca confermano l'allarme negato poche settimane fa dal ministro Profumo Numeri in peggioramento: in tre anni un calo di 30mila domande. Il peso delle tasse tra le cause MARIO CASTAGNA castagna.mario@gmail.com Poche settimane fa era stato il Consiglio Universitario Nazionale a dare l'allarme: le iscrizioni all'università crollano inesorabilmente. Ora arriva anche la conferma del Cineca. Questo consorzio, nato ne11969 per costituire una struttura dedicata al super calcolo, oggi si occupa anche di quasi tutti i servizi informatici del ministero dell'Istruzione e dell'Università e di molti atenei italiani. Si trova inoltre a gestire l'elaborazione informatica delle immatricolazioni universitarie e dispone quindi della banca dati più aggiornata in materia. Secondo il Cineca, negli ultimi dieci anni le iscrizioni sono diminuite di 70.000 unità mentre, addirittura, negli ultimi tre anni sono 30.000 i ragazzi che hanno deciso di non iscriversi negli atenei italiani. Si è tornati indietro di quasi un quarto di secolo. Ne11988-1989 gli immatricolati erano 276.249, mentre quest'anno i diplomati iscritti alle varie facoltà sono stati appena 267.076. La notizia data dal Cun qualche settimana fa aveva riempito le pagine dei giornali ma subito il ministro Profumo aveva provato a gettare acqua sul fuoco. In un'intervista sul quotidiano La Stampa aveva provato a minimizzare: «Credo che per dare giudizi si debba partire da dati che abbiano valore statistico reale. In quel caso invece è stato considerato un anno di riferimento in cui c'è stata una bolla di iscrizioni». Il Ministro si riferiva al grande numero di iscrizioni «tardive», spesso lavoratori che ricominciavano il loro percorso universitario, dimenticando però il valore sociale di queste iscrizioni. L'Italia infatti è il paese con il minor numero di lavoratori formati e qualificati durante la loro carriera lavorativa. Secondo Profumo quindi non erano diminuite le iscrizioni dei ragazzi appena diplomati. A confutare questa notizia arrivarono i dati del Cnvsu, che attraverso il proprio rapporto annuale sullo stato dell'università italiana, ha denunciato per anni il crollo, non solo delle iscrizioni universitarie, ma addirittura degli studenti che raggiungevano il traguardo del diploma di maturità. Se nel 1980 solamente un diciannovenne su tre si iscriveva all'università, dopo circa 25 anni si era arrivati al massimo storico. Infatti nell'anno accademico 2003-2004 il 56,5% dei diciannovenni decise di immatricolarsi. Da quel momento in poi è iniziato però un lungo ed inesorabile declino che ha visto crollare questa percentuale del 9%. Nel 2010 solamente il 47,7% dei ragazzi ha deciso di iniziare il lungo percorso verso una laurea, più o meno il livello raggiunto alla fine degli anni 90. Purtroppo sono due anni, da quanto Francesco Profumo si è insediato a viale Trastevere, che il CNVSU non pubblica più il proprio rapporto ed è diventato estremamente difficile avere dei dati ufficiali sullo stato dell'Università italiana. Non proprio la rivoluzione della trasparenza che tutti si aspettavano. Oggi purtroppo si deve fare affidamento ai dati forniti dal Cineca che, seppur non sia l'ufficio statistico ufficiale del ministero, è oggi la migliore fonte disponibile. I corsi di laurea triennali sono stati i più colpiti dalla diminuzione di iscritti. In dieci anni hanno perso poco più di 90.000 iscritti, un terzo del totale. Quest'anno gli iscritti sono stati 226.283, ottomila in meno rispetto ad un anno fa ed il crollo demografico purtroppo non c'entra nulla. Infatti il numero dei diplomati è cresciuto nell'ultimo anno di 11.000 unità. Gli studenti quindi decidono di non iscriversi all'università e di fermarsi al diploma di maturità. Tra le motivazioni sicuramente è l'aumento dei costi da sostenere durante la frequenza dei corsi. «Negli atenei abbiamo assistito a pesanti aumenti delle tasse: ben 283 milioni in più negli ultimi 5 anni», racconta Luca Spadon, portavoce nazionale di Link, Coordinamento universitario. Ma non sono solo i costi a rendere difficile la vita degli studenti italiani. Sempre Luca Spadon accusa il blocco del turnover: «Con la perdita di oltre il 22% dei docenti in 5 anni, molte università hanno ridotto la loro offerta didattica. Questo ha portato ad un aumento sconsiderato dei corsi a numero chiuso». Se non si fa nulla per invertire il trend, l'Italia rischia di precipitare all'ultimo posto nella classifica europea dei giovani laureati. La Norvegia surclassa tutti con il 46,1% di laureati nella fascia d'età tra i 25 ed i 34 anni. L'Italia è penultima, superando solo la Turchia. Indietro di 25 anni: 267mila gli immatricolati Nell’88 erano 9mila in più Siamo penultimi in Europa _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 mar. ’13 L'UNIVERSITÀ ALLA SVOLTA DEI CORSI ONLINE Visti da lontano di Massimo Gaggi In California insegnamenti digitali di base offerti da società private S B520. Ricordatevi questo codice. Potrebbe diventare il simbolo di un'altra svolta epocale: la fine dell'università fatta di atenei che svolgono all'interno tutta la loro attività accademica, producendo laureati a scadenze prefissate. La rivoluzione digitale fin qui ha solo lambito le università che, anzi, cercano di cavalcare l'onda organizzando i loro corsi online. Quelle più prestigiose hanno creato apposite società (edX fondata da Harvard e dal MIT di Boston e Coursera di Stanford, Princeton, Columbia e altre trenta accademie) che offrono corsi gratuiti anche di livello elevato. Chi li segue, però, non ottiene voti validi ai fini della laurea. Le cose potrebbero ora cambiare in California, che ha tre ingredienti capaci di farla diventare la culla di una rivoluzione dell'insegnamento: è lo Stato accademicamente più dinamico, ha le tecnologie della Silicon Valley, e vive una gravissima crisi delle finanze pubbliche che lo obbliga a cercare soluzioni ardite. E per risolvere il problema del «collo di bottiglia» — corsi di base necessari per accedere all'istruzione di livello superiore sottodimensionati in tutti gli istituti pubblici, dai «community college» a Berkeley, alla University of California — Darrell Steinberg, capo della maggioranza democratica al Senato della California, è deciso a cambiare sistema: saranno le società private dei corsi online a offrire gli insegnamenti di base (con voto finale valido) che le università non riescono a svolgere in misura adeguata. Il piano, quello della proposta SB520, quasi certamente diventerà legge, vista la grande influenza del proponente e del governatore Jerry Brown che lo spalleggia. Le accademie, che ora si sentono scavalcate, avvertono che perdere il controllo di una parte del loro curriculum è pericoloso: ne risentirà la qualità dell'insegnamento, ma anche l'occupazione. Che ne sarà di tanti professori se un solo corso può essere seguito online da 160 mila studenti, come è accaduto a Sebastian Thrun, allora docente di Stanford, quando, nel 2011, ha tenuto le prime lezioni di «intelligenza artificiale» in Rete?  Le università obiettano ma sanno di remare controcorrente: anche Brown spinge per un uso più ampio dei corsi online come antidoto all'impennata dei costi dell'iscrizione ai campus delle università e come risposta ai problemi di bilancio. Brown già pensa di esportare il suo modello fuori dalla California e nelle università private. Che resistono ma non combatteranno all'ultimo sangue perché sanno che la rivoluzione è già iniziata. La State University del Colorado e quella californiana di San Josè già hanno fatto accordi con Udacity, l'accademia privata online fondata da Thrun (nel frattempo uscito da Stanford) che ha per azionisti due fondi di «venture capital»: fornirà loro corsi «chiavi in mano». Nell'era dell'economia immateriale anche il campus diventerà virtuale? «Non così in fretta, ad Harvard stiano tranquilli» ironizza l'economista trasgressivo Tyler Cowen, «ai ragazzi servirà sempre una piazza per incontrarsi». massimo.gaggi@rcsnewyork.com _____________________________________________________ Italia Oggi 16 mar. ’13 LAUREE IN INGLESE PURE IN FRANCIA Cade un altro bastione. Sarà modificata la legge Toubon che l'aveva finora impedito Corsi entirely taught in English, tenuti solo in lingua britannica DI ANDREA BRENTA Uno spettro si aggira per la Francia. E scrittori e membri dell'accademia francese di belle lettere hanno cominciato a inquietarsi. Lo spettro ha le fattezze di Geneviève Fioraso. Il ministro francese dell'istruzione superiore e della ricerca ha infatti presentato un progetto di legge che prevede di modificare la legge Toubon: ovvero la legge 94-665 del 4 agosto 1994 che rende obbligatorio l'uso della lingua francese nelle pubblicazioni governative, nelle pubblicità, nei luoghi di lavoro, nei contratti e nelle contrattazioni commerciali e soprattutto nelle scuole finanziate dallo stato. Grazie al progetto di legge del ministro, dei corsi «entirely taught in English», interamente tenuti nella lingua di Shakespeare, potrebbero svilupparsi a grande scala. Molte università e grand école già li hanno istituiti, ma ciò è illegale. Al contrario, non sono tenuti al rispetto della legge Toubon gli istituti «a carattere internazionale» o quelli che contano un certo numero di studenti e insegnanti stranieri. Il progetto di legge intende semplificare le cose. «Un segnale positivo», ha detto il ministro, «per gli studenti stranieri anglofoni. Contiamo il 12% di studenti stranieri, intendiamo passare al 15% entro la fine del prossimo quinquennio». L'insegnamento della lingua francese agli studenti stranieri non sparirà però del tutto. Intanto, i rappresentanti della Conferenza dei presidi di università e della Conferenza delle grand école, che da anni accusano la legge Toubon di rappresentare un potente freno all'arrivo in Francia dei migliori studenti stranieri (cinesi e indiani in testa), si dicono soddisfatti. Attualmente è in lingua inglese il 30% dei corsi delle scuole di ingegneria e l'80% di quelli delle scuole di commercio. Una proporzione paragonabile ai master universitari in scienze, economia e ingegneria. Secondo un'inchiesta condotta nel 2008 su 2 mila direttori di laboratori di ricerca, la supremazia della lingue inglese nelle scienze esatte è schiacciante. «In un laboratorio francese di medicina, più della metà delle persone parla solo inglese», osserva JeanLoup Salzmann, presidente della Conferenza dei presidi di università. «Le nostre valutazioni delle ricerche si fanno in inglese e così anche i progetti europei e quando un professore che arriva dall'estero viene accolto nelle nostre università ci si rivolge a lui in inglese». All'università Tolosa-I, nota per l'eccellenza dei corsi di economia, la metà degli insegnanti non parla francese. Ma alcuni scrittori, come Olivier Rolin, non sono affatto d'accordo. «Non vedo perché le università si dovrebbero convertire all'inglese», ha detto l'autore di Port Sudan. «L'argomentazione secondo la quale questi corsi permetterebbero di attirare gli studenti migliori desiderosi di seguire un corso in inglese è assurda. Essi continueranno a preferire di andare negli Stati Uniti, in Gran Bretagna o in Canada. La conseguenza inevitabile e immediata di un tale progetto», ha concluso Rolin, «sarà quella di accrescere non l'attrattività dell'università francese ma l'influenza dell'inglese nell'insegnamento superiore del nostro paese». _____________________________________________________ Unione Sarda 17 mar. ’13 ARCANGELI: COME UCCIDERE LE UNIVERSITÀ Se il diritto allo studio diventa delitto allo studio di Massimo Arcangeli* VEDI LA FOTO Di recente ho partecipato come relatore a un bel seminario sul giornalismo promosso, all'Università di Cagliari, da alcune associazioni studentesche. Dei giornalisti ascoltati ho apprezzato la freschezza d'idee, la serietà dell'impegno civile e sociale, la propensione per un pensiero “differente”. Tutte cose che, con la complicità della riforma, hanno perlopiù abbandonato le asfittiche università italiane. Ma ecco un identikit degli esemplari che, molto frequentemente, vi si aggirano. I ricercatori a vita (specie in via di estinzione). Sessantenni o giù di lì, hanno messo piede all'università profittando delle vecchie sanatorie ope legis prodotte dallo Stato assistenziale e hanno poi tirato i remi in barca, non producendo più nulla. Sono in compagnia di associati e ordinari che ruminano anche loro vecchie ricerche e le spacciano per nuove; incuranti del presente, evitano con somma cura di impantanarsi nel superliceo nel quale stanno affondando, anno dopo anno, gli atenei.  I folgorati sulla via della riforma. Compilano infaticabilmente moduli e tabelle, conoscono a menadito la nuova normativa, si smarriscono di fronte alla più lieve flessione del gradimento della loro materia, entrano in depressione se ottengono un insuccesso in aula. Docili soldatini al servizio della docimologia à la page, si comportano da diligenti insegnanti di scuola; guai a ricordargli gli obblighi del lavoro di scavo intellettuale, del dialogo con la comunità scientifica, dell'aggiornamento scientifico permanente.  I fannulloni conclamati. Per non dare troppo nell'occhio si muovono con circospezione sul luogo di lavoro, rintanandosi nei loro studi. Disinteressati alla ricerca tanto quanto alla didattica, riducono gli esami di profitto, per stare alla larga dai problemi, a quiz a crocette per semianalfabeti. Nessuno gli ha mai insegnato a formulare prove serie a risposta multipla o aperta, né hanno d'altronde mai avuto il benché minimo interesse a imparare a farlo.  A chi giova questa generale allergia al lavoro di ricerca, sia essa indotta dalla flaccidità intellettuale, dal superiore richiamo della vocazione didattica, dal cronico disimpegno? Innanzitutto ai rettori, per i quali l'unica cosa che conta davvero è che l'ateneo sforni laureati su laureati (pena la riduzione dei fondi), e poi al legislatore, che ha interesse ad anestetizzare il pensiero critico, a disarmare le militanze scomode, a respingere le proposte didattiche troppo coraggiose o innovative.  Il diritto allo studio si è trasformato in un delitto allo studio: lo studio del modo migliore per far fuori una volta per tutte l'università. I nostri studenti, fortunatamente, sono però ancora lì. Che rinuncino a smascherare i fannulloni del primo tipo, abbozzino un malizioso sorriso sui fannulloni del secondo, si vendichino dei fannulloni del terzo, continuano a essere loro, nel bene e nel male, i migliori giudici del nostro operato. Per sincerarsene basterebbe rendere di dominio pubblico le schede di valutazione degli insegnamenti impartiti. Vi troveremmo giudizi sensati, e marcheremmo la distanza tra chi fa bene il proprio lavoro e chi si sottrae del tutto ai suoi doveri professionali. Sarebbe un buon inizio per ridare dignità allo studio, per tornare a valorizzare l'intelligenza critica, per ricominciare a respirare l'aria salutare della ricerca. Fuori, ma soprattutto dentro, le aule universitarie.  *Università di Cagliari _____________________________________________________ Internazionale 26 mar. ’13 TULLIO DE MAURO: ECCO S'AVANZA UNO STRANO DOCENTE Negli Usa continua a crescere la Khan Academy (le lezioni video sono salite a quattromila). In Europa solo ora il ciclone che minaccia i modi antichi dell'insegnamento medio superiore arriva con forza, epicentro a Berlino. Qui giovani studiosi (Jonas Liepmann, Hannes Klópper, Marcus Riecke) stanno avviando un'impresa europea per la produzione di corsi interattivi in rete nelle più varie discipline, in parte già collegati ad alcune grandi università. Si chiama Jversity, il sito dà notizie ed esempi. Ragioni e prospettive sono illustrate anche con un volume di cinquecento pagine (edition Kórber-Stiftung, Amburgo) sull'università del ventunesimo secolo e sulla possibile unità di insegnamento, ricerca e società. In esso un anziano studioso, Yehuda Elkana, e uno dei giovani di iversity, Hannes Klópper, analizzano lo stato degli insegnamenti terziari nel mondo e ragionano su necessità e possibile realizzazione di una sfida radicalmente innovativa (ma il vecchio Leibniz già ci pensava): allargare i confini dell'accesso al sapere critico e scientifico più solido e avanzato. Tre grandi forze alimentano il ciclone: l'insoddisfazione delle tradizionali lezioni frontali; la speranza che la rete porti ad apprendimenti interattivi più efficienti della tripletta ascolto silente/lettura individuale/interrogazioni ed esami (che mostrino la capacità di ripetere ciò che il docente ebbe a dire); il bisogno di internazionalità. A parte la Zeit e Financial Times la grande stampa tace. E fa male. _____________________________________________________ Italia Oggi 14 mar. ’13 «INSENSATO SEPARARE LA TEORIA DALLA PRATICA» l'esperto Bertagna: puntare di più sull'apprendistato, gli studi superiori non possono essere solo universitari DI NICOLETTA MARTINELLI I n Italia siamo rimasti ancorati a una visione che separa l'età in cui ci si forma da quella in cui si lavora. Come se fosse possibile individuare un momento in cui la formazione comincia, come se non si trattasse di un percorso continuo e globale, da zero a cento anni». È questo modo di ragionare che secondo Giuseppe Bertagna, direttore del dipartimento di Scienze umane e sociali dell'Università degli Studi di Bergamo, ha creato la situazione fotografata dalla ricerca di AlmaLaurea. Una situazione in cui anche i laureati fanno più fatica a trovare un impiego e quando lo trovano non è ben pagato. «Studio e lavoro non sono realtà parallele ma circolari. Se vogliamo che le cose cambino non possiamo più accettare che dopo la scuola dell'obbligo l'unica formazione prevista sia quella universitaria. Bisogna trovare altri modi, peraltro già praticati in molti Paesi europei, che garantiscano la formazione» prosegue il professore. Non si tratta di conciliare studio e lavoro ma di viverli come un'unità, non un binomio o, peggio, una dicotomia, ma una sintesi: la riflessione coniugata con l'azione. L'apprendistato dovrebbe permettere — come altrove succede — di conseguire in azienda il titolo di studio anche superiore, la laurea o il dottorato. E dato che la formazione non si improvvisa «questo — prosegue Bertagna — stimolerebbe le aziende a migliorare il loro li vello qualitativo a dotarsi del know how necessario per proporsi in questo campo». I laureati sono senza lavoro mentre il 37 per cento dei manager risulta privo di una laurea, non tutti hanno completato la scuola dell'obbligo. E nell'immediato futuro su 407 mila assunzioni previste, solo il 14,5% riguarda i laureati e ben il 32,3% lavoratori senza alcuna formazione specifica. Del resto — e sempre più di frequente — il titolo universitario non è sinonimo di preparazione: «Molto spesso ci accontentiamo di titoli che sono solamente vuote etichette. Invece di barattoli ben etichettati ma che non custodiscono alcuna competenza — suggerisce il professore — dovremmo preferire barattoli anonimi ma con un contenuto utile. Ai titoli formali dovremmo anteporre la preparazione reale». Altro problema è la farraginosità con cui è possibile — o, meglio, impossibile... — la certificazione delle competenze, il riconoscimento di quanto si è appreso in ambiti diversi dalla scuola: «Oggi è una fatica di Sisifo, una possibilità poco praticata perché affossata da chilometri equatoriali di burocrazia. Da noi a 15 anni — spiega Bertagna — tutti hanno imparato che chi studia non lavora e chi lavora non studia, tutti hanno imparato a considerare il lavoro come sinonimo di depressione intellettuale». Più disoccupati ira i laureati Studiare? Resta la scelta migliore _____________________________________________________ Italia Oggi 12 mar. ’13 E I PROGRAMMI TORNANO AI SAPERI DI BASE DI GIOVANNI BARDI Arrivate a destinazione, dopo più di un decennio, le indicazioni nazionali per il primo ciclo, serviranno alle scuole per costruire i propri curricoli, rivolti a indirizzare gli studenti dì scuola dell'infanzia, primaria e secondaria di primo grado dal prossimo anno. Le indicazioni, presentate la scorsa settimana dal ministro Francesco Profumo e dal sottosegretario Marco Rossi Doria, da una parte confermano la validità dell'impianto educativo della scuola di base, e dall’altra rilanciano la priorità, all'interno dei mutamenti socio-demografici in atto, di garantire a tutti gli alunni il possesso di solide conoscenze e competenze iniziali, «fondamentali», dice il Miur, «per lo sviluppo successivo del sapere e per l'esercizio della cittadinanza». Il regolamento è entrato in vigore con il decreto ministeriale n.254 del 16 novembre 2012, pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 30 del 5 febbraio 2013, e sostituisce sia le indicazioni nazionali del 2004 che le indicazioni per il curricolo del 2007. Il testo definitivo è arrivato dopo una consultazione con le scuole, chiusasi il 7 luglio scorso, a cui hanno partecipato circa 10mila istituti distribuiti in tutta Italia. La gestazione è stata complessa, si è passati dalla personalizzazione della Moratti. intorno a cui si costruivano i piani di studio delle indicazioni del 2004, al restyling nel 2007 di Fioroni. Le indicazioni di Profumo si inseriscono anche nel solco della continuità con il curricolo verticale perseguito a suo tempo dallo stesso ministro Berlinguer. Non mancano gli elementi di continuità, quindi, ma nemmeno di discontinuità, a cominciare dalla novità del contesto in cui le indicazioni si inseriscono, che può contare, stavolta, sulla generalizzazione del modello dell'istituto comprensivo, introdotta, da Berlusconi con il controverso dimensionamento del 2011. D'altro canto, se da una parte la revisione delle indicazioni nazionali è stata a suo tempo un'idea di Marsiastella Gelmini, Per armonizzare le indicazioni della Moratti con quelle di Fioroni, Profumo prosegue sin dal titolo sulla strada del curricolo tracciata dalle indicazioni del collega del 2007. Ma anche qui non senza eccezioni, come testimonia ad esempio la reintroduzione del profilo dello studente, previsto nel 2004 dalla Moratti, che comporta la certificazione di una serie competenze alla fine della terza media. Ma a differenza del Pecup della Moratti, più ispirato dalla tradizione pedagogica nazionale, stavolta l'orizzonte di riferimento è l'Europa. Le competenze da certificare nel profilo delle competenze alla fine del primo ciclo di istruzione risultano infatti in larga sostanza mutuate dalla raccomandazione del parlamento e consiglio europei del 18 dicembre 2006, recante le competenze chiave per l'apprendimento permanente a cui già si ispirano, tra l’altro, le competenze chiave di cittadinanza da certificare alla fine del biennio delle superiori, introdotte dallo stesso Fioroni. Nel valorizzare, quindi, il respiro internazionale della scuola che si allunga insieme all'obbligo, il ministro Profumo tiene anche a sottolinearne la centralità nell'inclusione sociale. È un altro fatto che queste indicazioni arrivino in una scuola caratterizzata da un numero sempre più alto di studenti di nazionalità non italiana, passati dagli inizi degli anni 90, da 60mila a 700mila. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 11 mar. ’13 ATENEI, STOP AI CORSI CON POCHI DOCENTI IL NUOVO ACCREDITAMENTO  Riduzioni per 40 sedi su 90: fuori chi non rispetta il parametro del numero di professori di ruolo  Gianni Trovati I primi a dover rimettere mano all'organizzazione, in gran fretta, sono gli atenei telematici, fioriti negli ultimi anni per intercettare una domanda di formazione spesso "alternativa" a quella tradizionale. Progressivamente, però, il salire della marea investirà anche le università fisiche, e nel giro di quattro anni imporrà a 40 atenei su 90 di alleggerire la propria offerta di corsi di laurea rispetto a quella attuale. La marea è quella dei nuovi requisiti di accreditamento contenuti in uno degli ultimi decreti attuativi della riforma Gelmini, firmato il 30 gennaio scorso dal ministro dell'Università Francesco Profumo: dal 2013/2014, ogni corso di laurea dovrà rispettare una serie di parametri per ottenere l'accreditamento ministeriale, senza il quale dovrà chiudere bottega. Tra i criteri per il "patentino" ministeriale spicca quello relativo alla docenza, che imporrà a ogni corso di laurea un numero minimo di professori di ruolo. I parametri Il livello, come accennato, salirà progressivamente, in quattro anni. Ai corsi che vorranno nascere o ripartire a settembre servirà almeno un docente di ruolo per anno (dunque il minimo è tre per le lauree di primo livello e due per le magistrali), poi la richiesta salirà fino ad arrivare a regime, dal 2016/2017, a quattro docenti all'anno. Per le università non statali e per quelle nate solo online sono previsti sconti, ma molto ridotti, (tre docenti all'anno a regime invece di quattro), mentre un regime diverso riguarderà i corsi delle professioni sanitarie e di scienze motorie. Già da questa sintesi, però, emergono chiare due caratteristiche del nuovo sistema: progressivi quanto si vuole, i parametri sottopongono tutti a un trattamento analogo, e non offrono vie d'uscita. L'impatto sulle telematiche Proprio per questa ragione i primi effetti drastici si concentreranno sulle università telematiche, che spesso fino a oggi hanno potuto moltiplicare la propria offerta di corsi pur viaggiando su una struttura iper-leggera dal punto di vista della docenza di ruolo. Alla Guglielmo Marconi, per esempio, la banca dati ministeriale dell'offerta formativa registrava, nel 2011/2012, 30 corsi di laurea, da ingegneria a giurisprudenza, da economia a lettere e lingue, ma il censimento dei docenti (sempre targato ministero dell'Università) non andava oltre i 22 professori di ruolo. Per mantenere lo stesso numero di corsi, il prossimo autunno servirebbero 75 docenti, più del triplo di quelli attuali, e una volta a regime, i nuovi parametri ne chiederanno 225, cioè dieci volte tanto. Simile il quadro offerto dall'E-Campus, con nove corsi all'attivo e due soli docenti di ruolo, mentre alla telematica Leonardo potrebbe bastare una piccola revisione, e San Raffaele e La Sapienza (sempre telematiche, da non confondere con gli atenei "fisici") dovrebbero superare indenni il primo scoglio. Diversa la situazione a Link Campus, la filiazione italiana dell'Università di Malta presieduta dall'ex ministro Vincenzo Scotti, per la quale il database ministeriale non registra docenti di ruolo. Gli atenei tradizionali L'entrata in gioco dei nuovi parametri non è comunque solo questione da accademia "virtuale". La tabella qui a lato confronta corsi e docenti attuali con le richieste dei requisiti a regime, e mostra l'esigenza di interventi profondi anche in grandi atenei tradizionali. I numeri sono indicativi, perché non possono tenere conto dell'articolazione di offerta e docenza per area disciplinare e settori didattici, ma mostrano distanze rilevanti fra il panorama attuale e quello chiesto dall'accreditamento a regime in università come L'Aquila, Genova e Campobasso, e fra le non statali alla Maria Ss. Assunta di Roma e all'università di Enna. La situazione nei poli più grandi, dalla Sapienza di Roma alle Statali di Milano e Torino, è decisamente più tranquilla, ma questo è un dato ovvio. I requisiti di docenza, insieme a quelli sulla platea studentesca di riferimento, puntano a "pulire" il panorama didattico dai corsi che raccolgono non più di una manciata di iscritti. I tagli già effettuati Da questo punto di vista, l'università non è all'anno zero: già i «requisiti minimi» elaborati anni fa dal Comitato nazionale di valutazione, dei quali il nuovo sistema di accreditamento è l'erede, seguivano la stessa filosofia, insieme al «pacchetto serietà» dell'allora ministro Fabio Mussi, e le difficoltà nei conti degli atenei hanno fatto il resto: tra 2009 e 2011, per esempio, i corsi attivi con meno di 20 iscritti sono diminuiti del 28,6%, e quelli con meno di 5 studenti si sono più che dimezzati. L'accreditamento, almeno nelle intenzioni, vuole rendere sistematico questo principio, dando ai parametri la forza di legge per impedire che qua e là si torni indietro. @giannitrovati gianni.trovati@ilsole24ore.com _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 mar. ’13 L'ERASMUS ADESSO TRASLOCA FUORI DALLA UE Stiano pure tranquilli tutti quei ragazzi che temono di non avere più la possibilità di partire per un Erasmus. Avranno anche loro la possibilità di sviluppare un'esperienza interessante e tanto apprezzata dal mondo del lavoro. Non sembra infatti che questa opportunità sia destinata a morire, come si era temuto qualche mese fa per mancanza di fondi. Anzi, l'anno prossimo si rinnoverà.  Pare. Non c'è infatti ancora un accordo definitivo e non si sa ancora se si chiamerà. «Yes Europe» oppure «Erasmus for all». Di sicuro si sa che aumenteranno il numero dei paesi coinvolti e che questi si estenderanno oltre ai confini europei. Il focus del programma comunque resterà sempre sull'istruzione superiore ma è previsto un maggiore bilanciamento anche verso gli altri settori (istruzione scolastica, formazione, apprendimento degli adulti, sport e gioventù).  Per chi volesse partire entro l'anno grazie al «vecchio» Erasmus, si affretti perché restano attivi solo pochi bandi. Ricordiamo che ogni studente nel corso degli studi può usufruire di una sola borsa/status Erasmus per studio e di una sola borsa/status Erasmus per placement.  Sono quindi due le opportunità di mobilità che possono essere sfruttare e realizzate anche nello stesso anno accademico. L'importo di base delle borse dei finanziamenti è di 230 euro mensili anche se a queste vanno aggiunte le integrazioni messe a disposizione dalle universitào dalle aziende, nel caso di un tirocinio.  Attenzione infine. Per evitare problemi al rientro, con conseguenti esami non conteggiati, prima di partire è importante definire un piano di studi ed accordarsi precisamente con il proprio ateneo sulle materie da seguire all'estero.  Luisa Adani _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 8 mar. ’13 AOUSS: ACCORDO PER LE INDENNITÀ A 25 MEDICI Il Tar chiede tre milioni all’Università, per il momento l’Aou si accollerà gli arretrati dal 2011 a oggi di Vincenzo Garofalo SASSARI Dopo le due sentenza del Tar che obbligano l’Università di Sassari a pagare in tutto 3 milioni di euro a 25 docenti-medici per le indennità di posizione e di esclusività accumulate dal 2001 al 2011, il rettore, Attilio Mastino, alza la voce contro Regione e Asl e corre ai ripari siglando un protocollo d’intesa con l’Azienda ospedaliera che, per il futuro, mette al riparo l’Ateneo da nuove richieste di pagamenti. La convenzione è stata firmata ieri mattina, ma intanto il rettore commenta amaramente le due sentenze del Tar: «In un periodo di crisi economica così grave come quella che sta attraversando tutto il Paese, sentenze del genere, con una richiesta di pagamento da 3 milioni di euro rischiano seriamente di mettere in ginocchio l’università di Sassari – alza la voce Attilio Mastino –. Pur non contestando il diritto dei docenti di richiedere quanto loro dovuto, ci sono da fare alcune precisazioni sull’intera vicenda. La prima è che come amministrazione ci riserviamo di rivolgerci direttamente alla Regione, alla Asl n°1 e all’Azienda ospedaliera, in quanto riteniamo che i veri debitori siano questi tre enti: sono loro che hanno beneficiato dell’attività di assistenza sanitaria dei nostri docenti, e dovrebbero essere loro a onorare quel debito – prosegue il magnifico –. Bisogna anche dire che la legge cui fanno riferimento i ricorrenti e il Tar, la legge 517 del 1999, è una norma che finora non è mai stata applicata. Questo non significa che il problema non esista e nemmeno che l’Ateneo si stia disinteressando. Da quando sono rettore mi sono adoperato per risolvere la delicata questione, concludendo un intricato percorso con un protocollo d’intesa fra Università e Aou che sanerà la situazione dal 2011 in poi. Purtroppo restano in sospeso le prestazioni relative ai dieci anni precedenti, e se tutte si concludessero come da sentenza del Tar, per l’Ateneo sarebbe una catastrofe». I dettagli dell'accordo con l'Aou saranno resi noti oggi, intanto l'università dovrà pensare a come sborsare in un colpo solo 3 milioni di euro per pagare i debiti con soli 25 docenti. Anche perché i tempi imposti dal Tribunale amministrativo regionale sono strettissimi: le due sentenze sono state depositate il 28 febbraio scorso e danno 45 giorni di tempo all’Ateneo per sanare la situazione debitoria: «In caso di inerzia verrà nominato un Commissario ad acta», è scritto nel documento che riporta le decisioni dei giudici Marco Lensi, Grazia Flaim e Giorgio Manca. Il verdetto del Tar è stato richiesto dai 36 docenti per ottenere dall’Università il rispetto di due prime sentenze emesse, sempre dal Tribunale amministrativo della Sardegna, nel 2008, e mai onorate dall’ateneo. Le richieste di pagamento riguardano la doppia funzione (docente universitario e medico alle cliniche) svolta dai professori negli anni passati. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 10 mar. ’13 UNIVERSITÀ DI SASSARI, VALANGHE DI RICORSI IN VISTA di Vincenzo Garofalo SASSARI Il pagamento delle indennità pregresse ai medici-docenti e a tutti i dipendenti che hanno lavorato nella Sanità fa tremare l’Università sassarese. Dopo le due sentenze del Tar, depositate la scorsa settimana, con cui si intima all’Ateneo il pagamento di un totale di 3 milioni di euro a saldo del credito vantato da venticinque medici-professori, ora l’amministrazione universitaria rischia di essere messa al tappeto da una valanga di richieste simili. Un altro centinaio di dipendenti dell’Università di Sassari che hanno svolto attività di assistenza, ricerca e formazione presso la Asl prima e l’Aou poi, si sono rivolti al Tar per far rispettare i loro diritti e ottenere il pagamento delle indennità di posizione e di esclusività stabilite per legge. Di questi cento dipendenti che chiedono il saldo delle indennità dal 2001 al 2011, secondo le previsioni e i conteggi dello stesso Ateneo, almeno 39 dovrebbero ottenere una sentenza a proprio favore. Ciò significa che l’Università sarà costretta a sborsare ancora diversi milioni di euro per chiudere i conti con il passato. Per il presente e per il futuro, invece, l’Ateneo si è coperto le spalle siglando un protocollo d’intesa con l’Azienda ospedaliera: «Si tratta di un accordo storico che fa salvi i sacrosanti diritti del personale universitario e ci permette di guardare al futuro con maggiore serenità», ha spiegato il rettore, Attilio Mastino, nel corso di una conferenza convocata ad hoc, alla presenza dei rappresentanti dell’Aou e delle sigle sindacali attive all’interno dell’Ateneo. «Con l’accordo l’Azienda ospedaliera sassarese riconosce che il personale in questione ha lavorato e lavora per l’Aou e si fa carico del pagamento delle relative indennità, a partire dal 2011 e per il futuro. Questo solleva i nostri bilanci di un onere davvero gravoso, specie in tempi di crisi economica e di tagli ai trasferimenti, come quelli che stiamo attraversando». Si tratta di cifre importanti: 109 posizioni per il 2011, con pagamenti per 1 milione 566mila e 559,17 euro, 103 posizioni per una somma di un milione 550mila 121,25 euro per il 2012 e per l’anno in corso una cifra identica a quella del 2011. La preoccupazione quindi resta per i debiti relativi al passato. «La legge 517 del 1999 non è mai stata applicata finora in Sardegna – spiega ancora il rettore – Non dovrebbe essere l’Università a saldare quel debito, bensì Regione, Asl e Aou, perché le attività lavorative sono state svolte a beneficio di questi enti e non dell’Università – continua Attilio Mastino – Chiederemo al più presto un incontro con il presidente Cappellacci perché deve essere la Regione a farsi carico di questi debiti». Nel frattempo, però, ci sono le sentenze del tribunale amministrativo che devono essere rispettate entro 45 giorni, a partire del 28 febbraio: «A fine mese sarà il Consiglio d’amministrazione dell’Ateneo a decidere cosa fare – spiega ancora Mastino – ci sono quattro possibilità: ricorrere in appello, pagare le cifre e poi rivalersi sulla Regione, pagare i debiti chiedendo ai ricorrenti di accettare una rateazione, non pagare e aspettare che il Tar nomini un commissario ad acta». _____________________________________________________ Il Sole24Ore 12 mar. ’13 LA LAUREA NON È PIÙ UNA GARANZIA  Occupazione. Rapporto AlmaLaurea: a un anno dalla fine del corso la retribuzione non supera i mille euro  La disoccupazione colpisce ormai anche i profili un tempo ricercati  L'INQUADRAMENTO  Il lavoro stabile (contratto a tempo indeterminato) riguarda il 41% dei laureati di primo livello, solo il 34% di quelli specialistici  Claudio Tucci ROMA Buste paga piuttosto leggere (a un anno dalla laurea la retribuzione viaggia intorno ai mille euro al mese), impieghi meno stabili e una disoccupazione in aumento che colpisce anche profili «tradizionalmente caratterizzati da un più favorevole posizionamento sul mercato del lavoro, come per esempio gli ingegneri». Certo, la laurea rimane un buon investimento (in prospettiva garantisce maggiori tassi di occupazione e salari più elevati). Ma non c'è dubbio che (anche per la crisi) le performance occupazionali dei laureati si siano «deteriorate». Oggi all'università «Cà Foscari» di Venezia, alla presenza del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, AlmaLaurea presenterà i nuovi dati 2012 (per la prima volta sono stati indagati anche i laureati di secondo livello a cinque anni dal termine degli studi). E se a un anno dalla laurea la disoccupazione fra i diplomati triennali cresce dal 19% al 23%, e dal 20% al 21% fra i laureati specialistici, nel periodo più lungo (a 5 anni dalla laurea, cioè) la disoccupazione si riduce a valori "fisiologici" (6%) e l'occupazione, indipendentemente dal tipo di diploma, sale all'85,8% (a un anno dal conseguimento del titolo è invece al 66%). Di qui l'importanza «di investire in capitale umano», ha sottolineato il direttore di AlmaLaurea, Andrea Cammelli. Che chiede anche di «generalizzare gli stage curriculari» che fanno crescere la probabilità di occupazione del 12% (rispetto a chi non può vantare tale esperienza formativa). Del resto, non è un mistero che in Italia «abbiamo un numero di laureati più basso degli altri paesi», ha evidenziato il rettore della «Cà Foscari», Carlo Carraro: « Bisogna quindi invertire la rotta. E la laurea rappresenta un buon investimento anti-crisi. Nel Nord-Est, per esempio, i laureati occupati sono cresciuti del 5% l'anno negli ultimi 5 anni». Snocciolando ancora i dati del rapporto (che ha coinvolto più di 400mila laureati post-riforma) spicca pure come, a un anno dal titolo, il lavoro stabile (contratto a tempo indeterminato o veri autonomi) riguardi il 41% dei laureati occupati di primo livello (-1% rispetto all'indagine 2011) e il 34% dei laureati specialistici. A 5 anni dalla laurea la stabilità sale al 70% degli occupati. Ma rispetto all'indagine 2008 la stabilità lavorativa ha subito una forte contrazione: -10 punti percentuali tra i triennali e -6 punti tra gli specialistici, per effetto essenzialmente del crollo dei contratti a tempo indeterminato. In crescita invece il lavoro nero (laureati senza contratto): riguarda il 7% dei "colletti bianchi" di primo livello e degli specialisti e il 12,5% dei laureati a ciclo unico (vale a dire i dottori in medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza). A un anno dalla laurea, poi, il guadagno mensile netto è di circa mille euro. Anche qui però, con il tempo, si migliora: a 5 anni dal titolo la retribuzione sale a 1.440 euro al mese. Ma con forti disparità per livello e percorso di studio. Gli psicologi, per esempio, sono ai minimi, con un guadagno di appena 963 euro. Poco meglio fanno i professori con 1.122 euro. Cifre decisamente più elevate si registrano per gli ingegneri (1.748 euro) e per i medici (1.662 euro netti al mese). _____________________________________________________ TST 13 mar. ’13 OPEN ACCESS, LA SVOLTA È GIÀ QUI FRANCESCO VACCARINO POLITECNICO DI TORINO La ricerca scientifica non potrebbe esistere senza la diffusione dei suoi risultati. Lo strumento principe sono le pubblicazioni scientifiche. Come funzionano? Le ricerche sono principalmente finanziate da fondi pubblici. Una volta ottenuti dei risultati, vengono stesi articoli per condividere scoperte e osservazioni. Gli elaborati vengono inviati a riviste specializzate e la pubblicazione è soggetta ad una valutazione tra pari, la «peer review»: ogni articolo è sottoposto ad esperti che, in forma anonima e gratuita, ne esaminano la correttezza e la rilevanza. In caso positivo, il lavoro è pubblicato e nella maggioranza dei casi la rivista consente l'accesso ai contenuti pubblicati solo dietro pagamento di abbonamenti o acquisti singoli dai costi talvolta esorbitanti. Insomma, il sistema delle pubblicazioni è mantenuto dal denaro pubblico, ma limita l'accesso alla conoscenza. Certo, le case editrici creano del valore aggiunto, ma, grazie a Internet, le cose stanno cambiando. Il movimento «open access», di cui è stato epigono Aaron Swartz, propone che i risultati delle ricerche finanziate con fondi pubblici debbano essere di pubblico dominio e accessibili gratuitamente. L'idea, che sembrerebbe «solo» etica, ha anche grandi risvolti, sia economici sia di sviluppo. Entro il 2016, infatti, il volume d'affari legato al «Big Data» raggiungerà i 24 miliardi di dollari e i risultati della ricerca sono sempre più parte rilevante di questo emergente mondo dei dati. Sono dati di qualità, organizzati e validati, che possono trasformarsi in miniere di sapere implicito da scoprire. Ad esempio, analizzando le co-occorenze di proteine citate negli articoli su un certo disturbo, si possono scoprire nuove vie per comprenderne la fisiologia. Il Congresso Usa e l'amministrazione Obama hanno lanciato il «Fair access to science and technology research act», cioè l'obbligo per le agenzie federali (con budget oltre i 100 milioni) di fare in modo che i risultati delle loro ricerche siano gratuitamente accessibili entro sei mesi dall'apparizione sulle riviste. Quasi un omaggio postumo a Swartz e all'«Open access guerilla manifesto». E l'Europa? Qualche passo in questa direzione era iniziato con il 7° Programma-quadro e con iniziative quali il progetto «Porto» del Politecnico di Torino, guidato da Juan Carlos De Martin. Il ministro dell'Istruzione Profumo ci ricordava da queste pagine del suo impegno per l'«open access» e del valore di questo approccio per una società basata sulla conoscenza quale vorrebbe essere l'Europa di «Horizon 2020». Speriamo che la Commissione sia altrettanto lungimirante degli Usa da raccogliere l'invito. _____________________________________________________ Il Giornale 13 mar. ’13 NUOVA ENERGIA DAL GHIACCIO CHE BRUCIA PRIMI AL MONDO Oltre il nucleare Annuncio choc di Tokyo Prodotta con gli idrati di metano, estratti dai fondali dell'oceano Le riserve ammontano all'intera somma di carbone e petrolio Riccardo Cascioli Gas naturale estratto dagli idrati di metano depositati nei fondali degli oceani: un sogno coltivato da decenni per rispondere al crescente fabbisogno di energia, e il Giappone ci è arrivato per primo. Lo ha annunciato ieri un portavoce del ministero dell'Industria giapponese, parlando del primo esperimento riuscito per produrre energia dagli idrati di metano, sui fondali dell'oceano a circa 50 chilometri dalle coste della principale isola giapponese, nella Depressione di Nankai. Gli idrati di metano sono solidi cristallini, simili al ghiaccio, in cui molecole di metano sono intrappolate in una sorta di gabbia formata da molecole di acqua, ed è sorprendente quanto metano sia contenuto in questi cristalli: basti pensare che in un metro cubo di ghiaccio si possono trovare 170 metri cubi di metano, si può letteralmente dare fuoco al ghiaccio. Gliidrati di metano riformano per una combinazione di temperature fredde e fortissima pressione, condizioni che si presentano nei fondali degli oceani a una profondità di almeno 4-500 metri e sotto il permafrost delle regioni continentali, a una profondità di almeno mille metri. Nel mondo ci sono riserve immense di metano intrappolato in questi «gabbie di ghiaccio»: le stime hanno ancora un grosso margine di incertezza, ma si considera che possano ammontare almeno alla quantità di tutte le riserve conosciute di combustibili fossili o 50 volte l' attuale disponibilità di gas naturale. E per quanto riguarda il Giappone si stima che nei depositi poggiati sul fondo delle acque territoriali ci sia abbastanza gas per soddisfare il fabbisogno nazionale per almeno cento anni. Una vera manna per un paese senza altre risorse energetiche e dopo la crisi provocata dall'incidente nucleare di Fukushima, di cui proprio in questi giorni ricorre il secondo anniversario. La presenza di gas all'interno di molecole di acqua ghiacciata, di origine totalmente biologica, è stata individuata già oltre cento anni fa, ma è solo negli ultimi decenni che si è compresa con chiarezza la potenzialità di questi giacimenti in chiave di energia. Molti paesi, inclusi Stati Uniti, Canada e Russia, hanno quindi iniziato progetti per poter estrarre e commercializzare il metano estratto dagli idrati, ma è soprattutto in Asia con India, Cina e Giappone che questa corsa si è fatta particolarmente pressante. Il Giappone, ad esempio, sta lavorando nella zona di Nankai fin dal 1998 con un progetto guidato dalla società governativa Japan Oil, Gas and Metals National Corporation (Jogmec). Per raggiungere il risultato sperato, gli ingegneri giapponesi ha riferito il portavoce governativo hanno usato un metodo di depressurizzazione per trasformare gli idrati di metano in gas metano. Le trivellazioni, già annunciate nel gennaio scorso, sono state condotte a mille metri di profondità ei test di produzione dovrebbero durare ancora due settimane, ma è chiaro che prima di poter arrivare alla commercializzazione dovrà passare ancora del tempo: entro il 2018 è l'obiettivo fissato. Tral'altro devono anche essere studiate attentamente le conseguenze di questo metodo di estrazione dal punto di vista ambientale, perché alcuni esperti temono che possa provocare crolli e smottamenti di sedimenti, che a loro volta possono essere responsabili di gigantesche onde di maremoto. Inoltre, il metano liberato dai fondali e non catturato essendo un gas serra potrebbe avere anche effetti sul clima vista sia la quantità di gas esistente attualmente intrappolato. COS'È Il gas che nasce negli abissi e sfida l'oro nero Gli idrati di metano sono gigantesche riserve di metano depositate nel fondo del mare. Si tratta di composti, solidi, formati da acqua —sotto forma di ghiaccio—e metano, in pratica intrappolato nel ghiaccio stesso. Si creano in determinate condizioni: principalmente elevate pressioni e basse temperature. Ecco perché si trovano in genere in fondo al mare dove l'acqua è molto fredda e la pressione molto elevata. Servono profondità dai 500 ai 4000 metri. E dunque i fondali oceanici ne sono ricchissimi: si stima più del doppio dell'equivalente in metano di tutti i depositi fossili (petrolio, carbone, gas naturale). _____________________________________________________ Internazionale 26 mar. ’13 GLI STUDENTI MESSICANI NON PROTESTANO PIÙ Alejandro Almazn, Orsai, Argentina. Il movimento #YoSoyi32 ha provato a rivoluzionare il sistema politico. Ma non c'è riuscito per colpa della disorganizzazione interna e degli attacchi della stampa Agli inizi del 2012 ero così depresso per la recente separazione da mia moglie che niente riusciva a scuotermi. Ma l'n maggio è successo qualcosa che ha stupito tutti, perfino i suoi protagonisti: gli studenti dell'Universidad iberoamericana, un istituto di gesuiti a Città del Messico, hanno perso la pazienza ed Enrique Peiia Nieto ha fatto lo stesso con i ragazzi che lo avevano infastidito con le loro domande. Dopo aver visto i video e le foto pubblicate su Twitter, ho pensato che a nessuno era venuto in mente di opporsi in modo così chiaro al candidato alla presidenza del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri). "Fuori, assassino!", gli hanno gridato gli studenti. Gli hanno anche tirato una scarpa. Da quel momento altre università del paese si sono mobilitate contro Peiia Nieto e migliaia di persone si sono unite alla protesta degli studenti. Tutto si è scatenato per la supponenza che può far crollare anche il leader più arrogante. Il Pri (che ha governato il Messico per più di settant'anni) avrebbe dovuto saperlo. "Ho deciso di usare la forza pubblica per mantenere l'ordine e la pace", ha risposto Paia Nieto agli studenti dell'Iberoamericana quando gli hanno chiesto una spiegazione sui fatti di San Salvador Ateneo, un paesino dove nel zoo 6, quand'era governatore dello Stato del Messico, aveva inviato migliaia di poliziotti. Il bilancio di quella repressione era stato terribile: una trentina di donne violentate, due studenti morti e più di duecento contadini arrestati "È stata un'iniziativa legittima", ha ripetuto Paia agli studenti con disinvoltura, forse perché quel giorno credeva ancora che tutto gli fosse permesso. Pover'uomo. Dopo pochi minuti è dovuto scappare dall'università con la coda tra le gambe. Forse oggi quell'episodio sarebbe solo un aneddoto di cui parlare a tavola se la reazione dei dirigenti del Pri non fosse stata la solita: prima colpire e poi pensare. Alla radio dell'Iberoamericana Pedro Joaquin Coldwell, il presidente nazionale del Pri, ha fatto fuoco e fiamme. Ha dichiarato che l'incontro era una trappola e ha assicurato che, dietro ai ragazzi, c'erano gruppi provenienti dall'estrema sinistra e dai movimenti sociali, che risolvono le cose con le molotov. Coldwell ha definito gli studenti con i migliori aggettivi del suo decrepito dizionario: intolleranti, violenti prezzolati, dementi, infiltrati e altre gentilezze del genere. Quando le sue dichiarazioni si sono diffuse sui social network, all'Iberoamericana si sono scandalizzati tutti. Uno studente di scienze della comunicazione ha registrato un video con centotrentuno ragazzi che, libretto universitario al la mano, dimostravano a Coldwell di non essere violenti al soldo di nessuno né pazzi da rinchiudere in manicomio. Da YouTube il video è passato su Twitter, e un alunno del Tecnológico de Monterrey, giocando con il numero degli studenti nel video, ha creato l'hashtag #YoSoyi.3z. PASSO FALSO La sera del 3 maggio zoo6 Peiìa Nieto, governatore dello Stato del Messico da otto mesi, si era trovato davanti a un bivio: cercare un dialogo con i contadini di San Salvador Ateneo o fargliela pagare. La storia era cominciata a mezzogiorno, a dieci chilometri da Ateneo: nel comune di Texcoco alcuni commercianti non avevano avuto il permesso di vendere fiori. Gli abitanti di Ateneo avevano preso i machete, il loro simbolo di resistenza, ed erano andati al mercato per esprimere solidarietà ai fiorai. Mentre trattavano con le autorità di Texcoco, erano arrivati i poliziotti. Se l'inferno esiste, dev'essere passato da lì. Tra gas lacrimogeni, spari e manganellate, Ignacio del Valle, il leader dei cittadini in rivolta, fu arrestato. Un funzionario, che quel giorno si trovava nell'ufficio di Pena Nieto, ha raccontato al settimanale Proceso che il governatore cercò subito il presidente, Vicente Fox. "Fox non rispose, ma fece sapere a Pena Nieto che, nel caso in cui avesse deciso di non trattare, lo avrebbe appoggiato". Fox aveva una buona ragione per volersi vendicare di Ignacio del Valle: l'uomo si era opposto alla costruzione di un nuovo aeroporto nella zona di Ateneo. Pefia Nieto scelse la strada più efficace e lasciò tutto nelle mani di Wilfrido Robledo, a capo dell'agenzia di sicurezza dello stato. L'operazione Restate coinvolse tremila agenti. Nove giorni dopo, sul quotidiano Reforma, si parlò di una riunione tra Pena Nieto e i suoi collaboratori. In quella riunione si era discusso della necessità di dare alcuni poliziotti in pasto alla giustizia Robledo si era arrabbiato: "Non azzardatevi neanche a sfiorare uno qualsiasi dei miei ragazzi. Hanno agito come richiedeva la situazione", aveva detto. Sei anni dopo i fatti di Ateneo, gli studenti dell'Iberoamericana hanno chiesto una spiegazione a Pena Nieto e lui ha fatto un passo falso. Secondo Ryszard Kapukinski, i libri dedicati ai movimenti sociali non dovrebbero cominciare con un capitolo sulla corruzione del potere, ma descrivendo in che modo l'essere umano vince la paura e l'apatia e diventa libero. È quello che hanno fatto i ragazzi dell'Iberoamericana, un istituto privato che in quasi settant'anni di storia ha sempre preferito chiudere gli occhi, la bocca e lo stomaco. Sei anni fa ho studiato per un semestre in quell'università. Avevo avuto l'impressione che i ragazzi sprecassero la loro intelligenza parlando di feste e capricci. Ma i miei pregiudizi sono stati smentiti: nel 1968 l'Universidad nacional autónoma de México (Unam) e il Politecnico ci insegnarono a non tacere davanti all'autoritarismo; nel zou l'Iberoamericana ci ha spinto a scendere in piazza come se manifestare contro Pefia Nieto fosse un dovere. Pena Nieto, quello del ciuffo sulla fronte che dà l'impressione che gli manchino un po' di capelli. Quello dei denti bianchi. Quello che beve solo vodka, perché è nauseato dal brandy. Quello che rimedia al suo complesso di essere basso con delle solette speciali per guadagnare un paio di centimetri. Quello che non esce senza prima spruzzarsi un po' di profumo Carolina Herrera. Quello che da bambino credeva di avere il potere di far addormentare i camaleonti. Quello che giocava a fare il burocrate e immaginava che una bambola della donna bionica fosse la sua segretaria. Quello appassionato di dolci e patatine fritte. Quello che non sa ballare. Quello che ha sempre voluto avere un animale con "la faccia e l'intelligenza del delfino e le corna del cane". Quello che ammira Napoleone Bonaparte. Ho conosciuto questo stesso Pefia Nieto nel 2004, poco prima che si candidasse a governatore dello Stato del Messico. Quella mattina era nervoso e si guardava intorno. Cominciò tessendo le lodi dello zio, il governatore dello stato Arturo Montiel, accusato di corruzione e malversazione di fondi pubblici. Poi, mentre il suo assistente gli passava un fazzoletto per asciugarsi il sudore sulla fronte, mi parlò in modo confuso del suo futuro. Sapeva di essere piacente, ma conosceva i suoi limiti: era scontroso e non aveva doti retoriche. I deputati degli altri partiti credevano che passasse la notte sveglio per imparare le frasi da dire la mattina dopo. Forse per questo mi descrisse il futuro di un senatore senza pretese. "Mi ci vedi come governatore?", mi chiese quando ci salutammo. "Lei è il nipote di Montiel", gli risposi, e lui mi rivolse un insolito sguardo vispo. Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2012, Pena Nieto non era più il politico disarmato che balbettava davanti al pubblico: si era trasformato in uno showman nato. Nei comizi ballava i jingle appiccicosi che ricordavano gli anni ottanta, cantava con entusiasmo (ma male) Gloria di Laura Branigan e si piantava sul palcoscenico con la sicurezza dei gatti che saltano sui tetti. E anche se le doppie borse sotto gli occhi sembravano chiedergli un po' di riposo, lui si nutriva dei baci delle sue ammiratrici. Mentre seguivo la campagna elettorale per l'agenzia Notimex ho detto a un vecchio amico del Pri che Pefia Nieto era il Justin Bieber messicano. "Non sa niente della vita, ma infrange cuori che è una bellezza". "Sarà anche un prodotto fabbricato dalla tv", mi ha risposto l'amico del Pri, "ma fa bene il suo lavoro: è o non è un istrione?". COME NEGLI ANNI NOVANTA Alla fine di una storia ci si domanda sempre perché la rottura arrivi proprio quel giorno e non un altro. Lo stesso bisognerebbe fare per il movimento #YoSoyi3z. Perché, due mesi prima delle elezioni, un gruppo di studenti che non era legato a nessun partito ha perso la pazienza e ha deciso di reagire, se i modi di Pefia Nieto erano noti da tempo? Dovremmo chiederci come mai gli studenti non sono scesi in piazzao meglio: come mai non siamo scesi in piazza quando si sono resi conto che Televisa giocava in modo sporco. La tv ci ha obbligato a vedere in continuazione Pefia Nieto e la sua signora, un'attrice di telenovelas che ha capito la strategia di propaganda del marito: doveva essere un personaggio che piace alla gente senza rubare la scena al protagonista. Perché gli studenti si sono ribellati proprio l'il maggio? Forse perché, quando meno ce l'aspettiamo, scocca una scintilla e salta tutto per aria. Forse perché Pefia Nieto, Televisa e altri mezzi d'informazione del paese hanno abusato della capacità di sopportazione dei giovani. Forse perché gli studenti non hanno mai dimenticato i brogli con cui, nel zo o6, Felipe Calderón aveva vinto le elezioni contro il candidato di sinistra Andrés Manuel López Obrador (del Partito della rivoluzione democratica, Prd). O perché la guerra contro il narcotraffico lanciata da Calderón ha trasformato il Messico in un cimitero e i ragazzi hanno tenuto il conto delle vittime e degli abusi di potere. Oppure perché i giovani, spaventati per il loro futuro, si sono resi conto di non voler finire in uno dei tanti cartelli della droga del paese. Comunque siano andate le cose, l'il maggio abbiamo cominciato ad avere bisogno gli uni degli altri. Qualcuno ha pensato che la primavera messicana sarebbe stata come quella che, l'anno prima, aveva scosso i paesi arabi. Confesso di essermi immaginato con un fucile in mano, circondato da ragazzi spinti dalla voglia di costruire un paese migliore. Ma le rivoluzioni tendono a essere drammatiche e a nessuno piacciono i drammi. È vero: la rivoluzione è l'ultima cartuccia che rimane e gli studenti di #YoSoy132 hanno avuto la pazienza e la forza di volontà per cercare di rendere più democratici i mezzi d'informazione o, almeno, per fargli ammettere la loro simpatia verso Pefia Nieto. Non ci sarebbero state pallottole, ma un intero arsenale di parole. L'ultima settimana di maggio il Pri ha diffuso la voce che Peiia Nieto aveva superato l'incidente dell'Ibero americana. In pochi ci hanno creduto. Il candidato alla presidenza dormiva e mangiava a malapena, era sempre arrabbiato e gli era venuto un tic alla palpebra destra. Alcuni consulenti gli hanno consigliato di aumentare la sua dose di cinismo e di lasciar manifestare i ragazzi fino a quando non si fossero stancati e non fossero tornati a casa. In politica, si dice, bisogna saper aspettare, ma Pefia Nieto non ha avuto pazienza. Ha voluto rialzare la testa dopo il colpo subito all'università dei gesuiti e ha diffuso un manifesto per recuperare la sua immagine di politico che ascolta i giovani, capisce i bisogni dei cittadini e non mente. Non ha funzionato. La credibilità che si era guadagnato a forza di spot in tv si affievoliva ogni volta che il movimento #YoSoy132 attecchiva in una nuova università. Pefia Nieto ha cominciato a perdere punti. La sua candidatura, pensava la gente, era un sopruso: bisognava fare qualcosa. Di solito il potere chiede ai padroni dei mezzi d'informazione la restituzione di un favore al momento opportuno. Si fanno concessioni e affari, si annienta il nemico e si brinda in santa pace. I governi di Vicente Fox e di Felipe Calderón (tutti e due del Partito d'azione nazionale, Pan) non l'hanno capito, ma il Pri non ha mai dimenticato quest'arte. Dopo l'il maggio molti giornalisti hanno preso posizione a favore del padrone. Un columnist ha scritto che dietro il movimento #YoSoyi3z c'era Andrés Manuel López Obrador, l'avversario di Paia Nieto. Un giornalista, in tono pedante e volgare, ha accusato alla radio gli studenti di essere finanziati dal miliardario messicano Carlos Slim. Televisa e Tv Azteca hanno registrato due o tre ragazzi che gridavano degli slogan e, nei loro telegiornali di punta, si sono chiesti se questo potesse essere considerato un movimento sociale. Anche i sondaggisti hanno cercato di scoraggiare la protesta giovanile: nelle loro analisi Pefia Nieto era sempre in vantaggio. Il Pri e forse anche Calderón (che ha sempre considerato Pefia Nieto il miglior candidato a cui cedere la fascia presidenziale) sono passati al piano B: screditare i giovani ed etichettarli come violenti. Se questa strategia aveva funzionato negli anni novanta contro il Partito della rivoluzione democratica e l'Esercito zapatista di liberazione nazionale, perché non poteva avere successo anche nel 2012? Invece l'unico risultato è stato quello di far aumentare la rabbia degli studenti. IL CATTIVO Quando sono andato alla prima manifestazione convocata dal movimento #YoSom ho capito che in Messico molte persone sono alla ricerca di una speranza. In quella concentrazione di giovani ho letto la speranza che tutto sarebbe andato bene, che il movimento avrebbe riempito tutti i vuoti del paese. Riuniti davanti all'Estela de luz , il monumento che celebra l'indipendenza del paese a Città del Messico, i ragazzi hanno giocato a carte scoperte: #YoSoy132 era un movimento pacifico, chiedeva un'informazione corretta sui quattro candidati alla presidenza della repubblica, era contrario al duopolio televisivo (Televisa e Tv Azteca) e voleva che il dibattito presidenziale previsto per il io giugno fosse trasmesso dalla tv pubblica. Gli studenti non erano disposti ad accettare che i due canali pubblici del paese preferissero trasmettere una partita di calcio, un programma a premi o la puntata di una telenovela. Quel giorno i ragazzi non hanno mai gridato slogan contro E nrique Pefia Nieto. Non ce n'è stato bisogno. Il Pri ha cercato di convincerci che il suo candidato avesse il sostegno della maggioranza della popolazione: ha organizzato una manifestazione a Città del Messico a favore di Mia Nieto, ma la maggior parte dei manifestanti, al massimo mille persone, è arrivata con pullman organizzati. La manifestazione è stata piuttosto ridicola. In alcuni stati, soprattutto nel nord del paese, la situazione era più favorevole al candidato del Pri: seguendo la vecchia formula per cui al povero bisogna dare dei soldi per non perdere la sua gratitudine, Pena Nieto è riuscito a farsi difendere in tutti i comizi. Negli stadi, negli auditorium e nelle piccole piazze era il re. Ma per strada era il repressore, la faccia di un partito corrotto che risolveva ogni questione sbattendo i pugni sul tavolo. Per i giovani messicani, Pena Nieto è diventato il cattivo per definizione. Fin dall'inizio un gruppo di studenti ha formato il coordinamento generale per discutere se il movimento #YoSoy13 2 doveva dichiararsi apertamente contrario a Pena Nieto oppure opporsi a tutto quello che la sua candidatura rappresentava. Uno dei vizi giovanili è quello di discutere all'infinito di qualsiasi cosa, e i dibattiti del coordinamento non sono stati un'eccezione alla regola: i ragazzi esigevano un processo politico a Calderón per le migliaia di vittime della guerra contro il narco traffico, chiedevano medicine gratuite, accesso all'acqua per tutti e, alla fine, anche che Pemex (l'azienda petrolifera pubblica messicana) non fosse privatizzata. Nonostante l'inconcludenza delle loro riunioni, il movimento conservava intatta la sua legittimità. Su un punto i ragazzi si sono trovati subito d'accordo: il coordinamento generale doveva trasformarsi in un'assemblea generale interuniversitaria. Ma questo non è bastato a risolvere i contrasti interni. Così sono nati due gruppi ben definiti: uno che lottava per il voto utile e l'altro favorevole ad annullare il voto, uno che avrebbe rispettato comunque i risultati delle elezioni e l'altro pronto a parlare di brogli in caso di vittoria di Pena Nieto, uno che non metteva in discussione il neoliberismo e l'altro che chiedeva un cambiamento del modello economico. Mancava ordine, è vero, ma c'era molto entusiasmo. PAROLA D'ORDINE Le maschere dell'ex presidente Carlos Salinas de Gortari (considerato il burattinaio di Pena Nieto) e gli insulti contro il candidato del Pri si sono moltiplicati manifestazione dopo manifestazione. L'ostilità verso Pena Nieto era irreversibile. All'inizio di giugno le manifestazioni a Città del Messico hanno attirato come una calamita anche anziani e bambini. Tutti saltavano, perché "chi non salta Pena Nieto è". A Città del Messico i manifestanti hanno cominciato a simpatizzare per un politico che, negli ultimi sei anni, era stato catalogato dal potere come il diavolo: il leader della sinistra Ltipez Obrador. Il 10 giugno si è svolto il secondo dibattito. Pena Nieto è arrivato all'Expo Guadalajara a bordo di una Suburban grigia antiproiettile, ma non antimanifestazioni. A quell'ora del pomeriggio a Città del Messico, a Monterrey, a Querétaro, a Cancùn, a Chihuahua, a Tijuana, a Morelia, a Puebla, a Durango e anche a Guadalajara molti giovani sono scesi in piazza per gridare che non lo volevano come presidente. Lui aveva un'espressione impassibile. Per colpa di quei ragazzi non era più una macchina acchiappavoti e simpatie. Alcuni mezzi d'informazione non riuscivano più a proteggerlo dalle manifestazioni, che mal si conciliavano con la fama che cercavano di sbandierare. Pena Nieto si è presentato al dibattito pensando di dover tirare ganci, montanti e destri mortali alla mandibola. Ma López Obrador, il suo principale avversario, non l'ha attaccato, e il candidato del Pri ha fatto passare il tempo come se volesse conquistare un record di noia. Il movimento #YoSoyl3z aveva afferrato Pefia Nieto per la collottola e non voleva mollarlo. Due giorni dopo il secondo dibattito è successo qualcosa di strano. Guillermo Osorno, il direttore del mensile G atopardo, l'ha descritto bene in un articolo: "Il pomeriggio del 12 giugno, mentre si stava svolgendo un'assemblea al Politecnico, è stata convocata una conferenza stampa davanti al monumento alla rivoluzione, a Città del Messico. Era nato un gruppo dissidente del movimento #YoSoy132 chiamato #GeneraciónMX. Il nuovo gruppo aveva pubblicato un video su YouTube per spiegare perché aveva abbandonato il movimento. Gli studenti coinvolti sostenevano di essere usciti da #YoSoyi32 perché si erano resi conto della mancanza di una direzione precisa. La sinistra non aveva rispettato il loro movimento e se n'era appropriata. Invece loro si ritenevano apartitici: promettevano di non attaccare e di non sostenere nessun candidato, e proponevano un programma di riforma politica. Sono arrivato alla conferenza stampa un po' in ritardo. C'era una marea di giornalisti e ho immaginato che avessero circondato i ragazzi del gruppo dissidente #GeneraciónMX. Ma, mentre mi facevo strada tra la folla, mi sono reso conto che c'era solo una persona: Rodrigo Ocampo, dell'Instituto tecnológico autónomo de México, che aveva partecipato ad alcune iniziative del movimento #YoSoyl3z. Ocampo, alto e con i capelli i ngelatin ati, stava spiegando ai giornalisti perché era l'unico a presentarsi alla conferenza stampa. Lui e i suoi compagni avevano ricevuto delle minacce ed erano spaventati. ()campo non ha detto chi fosse l'autore delle minacce e, soprattutto, chi fossero gli studenti legati ai partiti di sinistra. Si è allontanato dal monumento insieme a un ragazzo. Oltre alle voci che legavano #YoSoyl3z alla sinistra, ne giravano altre che mettevano in relazione #G eneraciónMX e il Pri. Ocampo e il suo gruppo sono spariti nel nulla". Sono ricaduto in depressione a metà giugno e ho smesso di seguire #YoSoyl3z. Ma Vanessa Job, una brillante giornalista che ha seguito il movimento come nessun altro, ha riempito questa mia lacuna. L'assemblea si è mossa con la stessa lentezza del coordinamento e i ragazzi sono passati al piano C: ogni università o facoltà si è dotata di un'assemblea autonoma. Così, per un po' di tempo, gli studenti del movimento #YoSoyl3z sono stati una fonte continua di sorprese: hanno proposto un terzo dibattito (a cui Pefia Nieto non ha partecipato e che è stato trasmesso su internet), hanno protestato davanti alla sede di Televisa, hanno organizzato dei seminari di formazione per gli osservatori elettorali, sono saliti sui mezzi pubblici e hanno girato per le strade dello Stato del Messico per convincere la gente a non votare per Pefia Nieto, hanno distribuito volantini nelle grandi città per spiegare che razz a di partito fosse il Pri e su Twitter hanno attaccato Pefia Nieto. Ma queste assemblee autonome hanno avuto un costo: ci sono state delle infiltrazioni e, a poco a poco, si sono perse le mezze misure. Gli studenti sono stati accusati di fare delle sciocchezze. E ha cominciato a circolare la voce che alcune università fossero già cadute nelle mani del Pri. Credo che questo sia stato l'inizio della fine, se è vero che il movimento è finito. La notte del 1 luglio si è saputo che Enrique Pefia Nieto aveva vinto le elezioni con un vantaggio di quasi sei punti percentuali. López Obrador non ha riconosciuto la sconfitta, ma non ha invitato i suoi sostenitori a mobilitarsi. "Agiremo per vie legali", dichiarava Obrador in ogni conferenza stampa e sosteneva che il Pri avesse investito più di un miliardo di pesos (più di sessanta milioni di euro) solo nella campagna elettorale di Pefia Nieto. I giovani, forse senza saperlo, erano gli unici su cui potevano contare quelli che come me avevano votato per López Obrador. E poi cos'è successo? Quello che è accaduto dopo è molto triste. Tutte le prove che López Obrador ha consegnato al tribunale elettorale non hanno convinto i magistrati del fatto che il Pri aveva comprato almeno cinque milioni di voti. 1131 agosto 2012 Pefia Nieto è stato dichiarato presidente del Messico. Al tempo stesso qualcosa si è spento nei ragazzi. E, come se non bastasse, Televisa ha avuto l'idea d'invitare alcuni leader del movimento #YoSoy132 a un programma che va in onda ogni domenica sera. La parola d'ordine era delegittimare il movimento. In quattro mesi, da luglio a ottobre, si è rotto il filo che univa i ragazzi e ognuno è tornato alla sua vita quotidiana. Abbiamo smesso di avere bisogno gli uni degli altri. Il leader politico è spesso affascinato dai simboli. Enrique Pefia Nieto, per esempio, ha pensato che la polizia federale dovesse accerchiare il parlamento già una settimana prima del suo giuramento. Ha anche annunciato che saremmo tornati ai vecchi tempi-per niente belli, peraltro-quando la polizia politica uccideva, sequestrava e faceva sparire la gente. Ha scelto dei ministri a cui nessuno affiderebbe i propri figli. Durante la cerimonia per il passaggio di consegne, ha abbracciato Calderón come si abbracciano i complici. Ha invitato al palazzo presidenziale Paquita la del Barrio, la popolare cantante messicana che spinge l'odio per gli uomini fino alle sue estreme conseguenze. TRAPPOLA I giornalisti ne hanno parlato, ma non si sono resi conto che il vero simbolo era un altro: le pallottole di gomma e i gas lacrimogeni lanciati contro gli studenti. La maggior parte dei mezzi d'informazione ha descritto gli studenti come dei selvaggi e molti messicani hanno creduto a questa versione. Io no. Le testimonianze di alcuni familiari dei sessantanove ragazzi arrestati a Città del Messico dopo la manifestazione del dicembre, il giorno dell'insediamento del nuovo presidente, dimostrano varie cose: nella manifestazione convocata dal movimento #YoSoyl3z c'erano degli infiltrati; la polizia federale ha sparato direttamente contro gli studenti; tra gli arrestati c'erano turisti, impiegati, un lavoratore del cinema, vari studenti, un fotografo freelance, ma non c'erano i responsabili degli atti vandalici nel paseo de la Reforma; in questura i ragazzi fermati sono stati trattati come animali; Enrique Pefia Nieto forse dimentica, ma non perdona mai. Su Twitter e su altri social network il movimento #YoSoyi3z ha cercato di difendersi. Ha pubblicato un video in cui un poliziotto federale spara a un ragazzo in testa e un altro in cui alcuni infiltrati, prima di scontrarsi con i poliziotti, parlano con loro da buoni amici. Il movimento studentesco #YoSoyl3z non si è ancora ripreso dalla trappola in cui è caduto, ma sono sicuro che lo farà. In fin dei conti niente d'importante nasce senza metterci il tempo necessario. ? fr L'AUTORE Alejandro Almazan è uno scrittore e un giornalista messicano. Nato a Città del Messico nel 1971, è tra i fondatori del settimanale Emeequis. I suoi ultimi libri sono El ma's buscado (Mondadori 2012) ed Entre perros (Mondadori zoo9). _____________________________________________________ Repubblica 17 mar. ’13 NELL'ATENEO ECOSOSTENIBILE NIENTE ASCENSORI si consuma meno energia e si resta in forma DANIELE MASTROGIACOMO Diversi progetti a Roma Tre grazie all'associazione Viridis e ai docenti di Econoznia L E ORME verdi seguono una traiettoria a curve. Iniziano all'ingresso della facoltà e si fermano apochimetri dall' ascensore. Gli studenti le seguono; ne restano attratti, divertiti e curiosi. Poi, di fronte al bivio verso le scale restano interdetti. Giusto qualche secondo, il tempo di alzare gli occhi e leggere il cartello che spicca in alto. Un fumetto, con una scala di numeri che indicano la quantità di risparmio energetico e il consumo di calorie. "Prendi le scale, ci guadagni" è lo slogan di uno dei tanti progetti nati dal basso che sta rivoluzionando il mondo dell'università Roma Tre. In tempi di crisi, di tagli, divuoti della cultura e del sapere scientifico la base degli studenti ha deciso di ricominciare da zero. Soprattutto se si tratta di studenti specializzati in Economia dell'Ambiente: la scienza di un futuro che è già presente.«Non abbiamo dei dati precisi», ci spiegano Marzia, Giorgia e Francesca, studentesse delle Facoltà di Economia dell'Università Roma Tre, «ma da un calcolo empirico abbiamo scoperto un risultato che ci ha convinte di essere sulla strada giusta. L'uso delle scale per raggiungere i cinque piani dell'istituto al posto dell'ascensore ha portato ad un risparmio energetico del 15 per cento». Il progetto è uno dei tanti messi in piedi in pochi mesi e a costo zero. Sono sperimentali. Durano una trentina di giorni. Servono a verificare la loro efficacia e a capire come vengono accolti e usati. «Per renderli definitivi», ricordano le tre ragazze, «occorre l'autorizzazione dell'Università. Ma se i risultati sono convincenti e incidono sui comportamenti degli studenti e del personale dell'ateneo allora si installano dei veri rilevatori di risparmio energetico o di salvaguardia dell'ambiente e l'impianto entra in funzione». Il primo esperimento di evitare gli ascensori è stato accolto con entusiasmo dalla maggioranza degli studenti. Ma anche dai docenti. Le risposte raccolte da un veloce rilevamento sono eloquenti. «I primi lo fanno perché nel cartello appeso davanti all'ascensore», dicono le tre ragazze, «sono indicate anche il numero di calorie che si bruciano. Gli stessi dati sono riportati sulle scale. Più sali, più bruci calorie, più risparmi watt. E' anche un modo di fare movimento, ginnastica. I professori scelgono le scale per spirito di adattamento e per riferirlo a casa, ai propri figli». Il risparmio energetico si lega così all'educazione alimentare: un tema assai sentito dopo l'allarme sull'aumento del- l' ob esità tra i bambini italiani troppovideo dipendenti e abituati a girare sempre in auto. Il cibo controllato si lega ai rifiuti da riciclare e questi alla raccolta differenziata, fino all'uso completo della carta per fotocopiatrice, alla consapevolezza che, per esempio, il biglietto delle metro non è di carta e non è riciclabile. Pochi lo sanno. Da due anni, Marzia, Giorgia e Francesca hanno creato un'associazione. Si chiama Viridis, verde in latino (viridis@e-viridis.org). «La cultura ambientalista», ci rac - contano, «è molto diffusa nelle nuove generazioni. Ma è applicata male e poco nella realtà che frequentano tutti i giorni. Abbiamo pensato che spettava a noi, come studenti, applicare la conoscenza ecologica proprio nell'università dove ci prepariamo per trasmetterla all'esterno». Così, presto le ragazze si sono accorte che i tre cestini della differenziata erano sparpagliati in punti diversi, con delle scritte stampate su fogli strappati in pochi giorni. «Li abbiamo messi vicini, con colori diversi e oggi vengono riempiti ognuno con il materiale previsto», raccontano. Il successo del primo progetto ha attirato altri studenti. Tanto che oggi Viridis può contare sulla collaborazione di una trentina di aderenti. Il preside della Facoltà, Carlo Maria Travaglini, ha assecondato le iniziative. Ma è stato soprattutto l' entusiasmo di StefaniaAngeletti, incaricata della mobility manager, la struttura del Comune che si occupa di gestire gli spostamenti casa-lavoro dei dipendenti e degli studenti tra gli Atenei romani, ad aver allargato il numero di iniziative. Oggi la Facoltà di Economia di Roma Tre si presenta come un palazzo moderno, pulito e attrezzato. Un'eccezione, anche visiva, rispetto al degrado in cui versano i poli universitari della Capitale. I tappi delle bottiglie raccolti in un contenitore ermetico, le biciclette elettriche da impiegare nell'esercizio fisico e al tempo stesso come ciclo-generatori. La carta già usata per le stampanti riciclata sul lato ancora bianco. «L'obiettivo", commentano Marzia, Giorgia, Francesca, "è coordinarci con le facoltà di ingegneria, fisica e chimica». Per quattro giorni, dal 15 al 18 aprile, la Facoltà sarà al centro di un ciclo di confronti dedicati a quattro temi che riguardano il futuro degli economisti ambientali: riciclo dei rifiuti, agro-alimentare e sostenibilità, energia e ambiente, mobilità sostenibile e turismo. Fuori, tra le aiuole un tempo abbandonate, già si lavora alla creazione di un giardino botanico che sarà curato collettivamente. L'idea è arrivare ad un orto. Tutto bio. Magari sul tetto. Con legumi e verdure da usare per la mensa. Il futuro ci costringerà a sfruttare questo dono che ci ha dato la natura. Mangiare alla Facoltà di Economia ambientale sarà un'eccellenza. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 17 mar. ’13 PLATONE CONFUTATO IN TRE PAGINE la verità secondo gettier  Un breve articolo del 1963 uscito su «Analysis» metteva in discussione la teoria millenazia secondo cui la verità è conoscenza vera giustificata  Nicla Vassallo Lo ammetto: «invidio» Edmund Gettier. Nato nel 1927, oggi professore emerito all'University of Massachusetts Amhrest, polverizza, da giovane, in tre paginette una millenaria, se non la, teoria, già rintracciabile in Platone, stando a cui la conoscenza è credenza vera e giustificata. Stiamo parlando di conoscenza, ovvero di quanto a cui dobbiamo aspirare per concretizzare la nostra essenza di umani; no, non stiamo parlando di sciocchezze, o di varie ed eventuali. Lo invidio perché alla Cornell University ha mentori di grande levatura filosofica, oltre che dal bel profilo etico; perché nella prima università in cui viene assunto a insegnare (la Wayne State University) i suoi colleghi si chiamano non "nessuno" o "inventori dell'acqua calda", bensì Alvin Plantinga, Keith Lehrer, R.C. Sleigh; perché sollecitato a pubblicare (cosa che non amava, al pari, del resto, di Socrate) scrive quelle paginette. Le paginette più memorabili della storia recente della filosofia internazionale. Della loro pubblicazione su «Analysis», nel 1963, cade quest'anno il cinquantennio, anniversario ipercelebrato, anniversario in cui ci si chiede ancora se quello che alla storia passa come il problema di Gettier sia stato risolto, o sia irrisolvibile. «Analysis», rivista tra le più prestigiose, ove escono (referatissimi) i lavori migliori, tutti "short", su diversi rami della filosofia, notoriamente epistemologia, per l'appunto, ovvero teoria della conoscenza, filosofia morale, filosofia politica, logica filosofica e filosofia del linguaggio (sul piano internazionale non sono così distinte come accade invece da noi), metafisica; no, non ci dobbiamo stupire se non compare alcuna storia della filosofia. Quelle tre paginette, intitolate «Is Justified True Belief Knowledge?», con tanto di risposta negativa alla domanda, nel senso che la credenza vera giustificata risulta necessaria e insufficiente alla conoscenza, sono state discusse da tutti i grandi epistemologi, e non solo, basti pensare a Robert Nozick. Tre paginette che, almeno stando ad alcune voci (non certo arbitrarie: lo stesso Alvin Plantinga pare che ne abbia riferito) al giovane Gettier non piacevano e così, inizialmente, vengono tradotte in spagnolo per destinarle a una qualche oscura rivista sudamericana. Fortuna, invece, che cinquant'anni fa le abbiamo lette su «Analysis», e che da lì la loro risonanza non abbia mai avuto termine. A testimoniarlo, una volta di più, è oggi Richard Foley, tra l'altro vice chancellor for strategic planning alla New York University, che sollevando acutamente, nonché provocatoriamente, una domanda simile a quella di Gettier, ovvero «When is True Belief Knowledge?», risponde in modo solo in apparenza semplice: se una proposizione è vera, la crediamo vera, siamo giustificati a crederla tale, e ciononostante la conoscenza ci viene negata, questo dipende dalle informazioni (conoscenze pregresse, direi io) di cui disponiamo o di cui manchiamo. Sì, ma forse il termine «informazioni» è più utile (ha ragione Foley, anche se non sempre perspicuo, al fine di ritenere che la soluzione del problema di Gettier sia cosa fatta, mentre, invece, il termine «conoscenze» ci riconduce dritti, dritti nelle sue stesse fauci: difatti, cosa vuol dire conoscere e cosa intendiamo con conoscenza?). Ernest Sosa riconosce originalità e genialità all'approccio di Foley, mentre Hilary Kornblith (il migliore interprete del naturalismo filosofico quineano) giudica il volume una lettura necessaria. Già, e qui ricompare la mia invidia: Hilary Kornblith lavora, proprio come Gettier, e insieme a lui, alla Massachusetts Amhrest. Andate a vedere cosa viene riportato sulle pagine dell'università, e cosa, immagino, loro stessi approvino: di Kornblith molto, di Edmund Gettier compare la data di assunzione (il 1967) e le sue aree di interesse: nessuna pubblicazione, neanche quell'articolo di tre paginette che ha rivoluzionato la filosofia. Ecco, lo invidio: merito riconosciuto per un articolo, che ha destabilizzato e rivitalizzato la filosofia, senza poi la necessità a seguire a pubblicare, né la velleità di spacciarsi per "eccezionale" filosofo, quando di fatto lo è; questione di stile. Lui, Gettier, nella sua foto sul sito universitario, compare sorridente, con una polo grigia su uno sfondo verde. Nulla di più. Da parte mia, posso solo condividere la polo e sperare che nel nostro Paese ci si accorga della grandezza della conoscenza, della cultura, dell'anniversario del problema di Gettier, congiuntamente al fatto che il percorso della vita passa attraverso la conoscenza. Per chi la vita la vuole percorrere, e non utilizzare. Richard Foley, When is True  Belief Knowledge, Princeton  University Press, Princeton & Oxford, pagg. 162, $ 35,00 _____________________________________________________ Il Sole24Ore 17 mar. ’13 SCILIPOTI E LA FUSIONE FREDDA a 20 anni dalla fusione fredda all'italiana  STRANI SOGNI DI ENERGIA PULITA  La scoperta di Fleischmann e Pons nel 1989 non è stata mai replicata, ma Celani, Piantelli e Focardi e molti altri pare non si siano scoraggiati  Sylvie Coyaud Lo slogan elettorale di tutti era «Più soldi per la ricerca». Da un ventennio, ogni governo li taglia; la maggioranza approva, ma qualche iniziativa bipartisan tenta di finanziare ricerche che alcuni eletti giudicano valide. Il 21 dicembre scorso, per esempio, l'onorevole Scilipoti alla testa di sei colleghi sfidava l'imminente fine del mondo da calendario maya e chiedeva fondi per la fusione fredda – detta oggi Lenr dall'inglese Low Energy Nuclear Reactions – alla luce di «importanti risultati ottenuti dal dottor Francesco Celani all'Infn,... dal professor Piantelli, già Università di Siena,... dal dottor Andrea Rossi, anche grazie a Sergio Focardi, professore emerito» dell'Università di Bologna. Ci sono «repliche indipendenti», affermavano gli onorevoli. Sulle riviste para-scientifiche compare a volte la frase «la fusione fredda è stata riprodotta 17mila volte, stando a una stima pubblicata dall'Istituto di fisica delle alte energie, dell'Accademia delle scienze cinese». L'assenza di data e di fonte per la stima significa che i cinesi ci lavorano in segreto, ovvio. Nei mille resoconti raccolti on-line infatti, si trovano solo dati in conflitto con quelli di esperimenti altrui. Quanto alla scoperta fatta nel 1989 da Fleischmann e Pons, che ha generato tutta quell'attività, non è stata replicata né dai due chimici né da altri. Molte aziende offrono comunque caldaie a fusione fredda e perfino centrali termoelettriche da un megawatt in cambio di un milione ammortizzato in quattro anni e che per altri 25 garantisce una rendita annua che cresce da due a sei milioni. Teniamo i dépliant a disposizione dei nuovi eletti e veniamo alle risorse da destinare al made in Italy. Dopo due decenni passati a migliorarne la resa, il reattore a fusione fredda del dottor Celani consuma tuttora 50 watt e ne fornisce parecchi di meno, l'Infn se ne è disinteressato. Ma non due informatici in fuga. Per commercializzarlo, hanno fondato in Inghilterra la Kresenn, una start-up che forse rientrerebbe in patria se questa mostrasse una generosità adeguata. Nel 2005, il dottor Celani prevedeva 25 milioni di euro e notava un atteggiamento «molto positivo... nei circoli politici di alto livello», atteggiamento confermato dal l'onorevole Scilipoti e colleghi durante un incontro a Montecitorio il 2 luglio 2012 e da un esponente del Movimento 5 Stelle poco prima del voto. In questi giorni compie vent'anni la pila Piantelli-Focardi che non ha mai più prodotto l'energia in eccesso riferita dagli inventori sul Nuovo Cimento del gennaio 1994. Due anni dopo, una replica al Cern ne smentiva i dati, ma il professor Piantelli non si è scoraggiato. Ha ottenuto numerosi brevetti e la Regione Toscana ha destinato un milione all'azienda di famiglia, la Nichenergy, perché ne costruisca un prototipo. Un altro milione farebbe comodo, l'azionariato popolare lanciato nel 2011 non essendo andato a buon fine. Compiuti 75 anni, nel 2007 il professor Focardi decise di aiutare il dottor Rossi nel mettere a punto un reattore simile alla pila Piantelli-Focardi, da qui una priorità contestata e l'assenza di brevetto internazionale. Secondo il dottor Rossi – detto "lo Sceicco della Brianza" dai tempi in cui la sua Petroldragon doveva estrarre petrolio dai rifiuti – l'Energy catalyzer detto e-cat dovrebbe potenziare il sistema di riscaldamento domestico. Nel marzo 2011 annunciava di avere una fabbrica in Florida che avrebbe sfornato e-cat a migliaia in tempo per il Natale. Da allora fabbriche e investitori sono apparsi e scomparsi, però l'azienda ha licenziatari per la vendita esclusiva in tutti i continenti e clienti segreti per lo hot-cat da un megawatt. Come l'e-cat, è un reattore nucleare privo di certificazione di sicurezza che tra poco si potrà prenotare dalla Prometeon di Verona. Il dottor Rossi non chiede fondi pubblici, nel suo caso gli onorevoli lo fanno più che altro per valorizzare un patrimonio culturale. La fusione fredda si fonda infatti sulla teoria – tutta italiana – della coerenza elaborata da Giuliano Preparata ed Emilio Del Giudice e suffragata nel 2002 da un esperimento il cui resoconto è stato respinto da tutte le riviste scientifiche. Per incentivarne le applicazioni al campo dell'energia pulita, gratuita e infinita, al Parlamento basterà aggiungere alla legge sull'energia del 2009 un sostegno agli importanti risultati di cui parlava l'interpellanza di dicembre. Non parlava invece del motore Boux che ci permettiamo di sottoporre alla considerazione del Parlamento. Con un generatore, un condensatore e un paio di resistenze, 250 euro a dir tanto, sfrutta la fusione atomica spontanea con «una resa del 250%, una potenza gratuita del 150%!». Oltre allo schema, il signor Boux ha mandato a Carlo Rubbia una lettera che riassume la teoria del l'atomo e dell'universo appresa dagli alieni della flotta Pleiadeana. Il Parlamento chiederebbe, noi non osiamo, a Carlo Rubbia cos'ha risposto una volta che ha ripreso i sensi? _____________________________________________________ Il Sole24Ore 17 mar. ’13 HA ANCORA SENSO IL COPYRIGHT?  Già contestato e difficile da proteggere, nell'era di internet sembra dover decadere. E se tutela la creatività, innesca anche un approccio al guadagno  di Tim Parks Ho, o no, il diritto, come autore, di impedire alla gente di riprodurre i miei libri gratis? Dovrei averlo? Conta veramente qualcosa? «Mi hanno privato del diritto di avere uno schiavo», ha scritto Max Stirner a proposito dei diritti umani. Una frase paradossale per ricordarci che quelli che chiamiamo diritti non sono altro che ciò che la legge concede a una parte o all'altra in ogni conflitto di interessi. Non esistono diritti in natura e i diritti sono spesso diversi in Paesi diversi. Il copyright, quindi, fa parte di un apparato legislativo che governa il rapporto tra individuale e collettivo, il più delle volte difendendo il primo a scapito del secondo. Si avrà il copyright solo in una società in cui si riconosce un valore altissimo all'individuo, all'intelletto individuale e ai prodotti dell'intelletto individuale. Di fatto, l'introduzione di una legge sul diritto d'autore è uno dei segni del passaggio da una visione gerarchica e olistica della società a una basata su speranze e aspirazioni dell'individuo. Non sorprende che la prima a muoversi legalmente verso la creazione del concetto di copyright sia stata la Gran Bretagna di fine Seicento. Ufficialmente l'idea è che lo scrittore, l'artista o il musicista dovrebbero ricevere il giusto riconoscimento per i propri sforzi. Il che è curioso. C'è pochissima giustizia nei proventi che ricevono gli artisti. Opere dal valore identico producono guadagni totalmente diversi o nessun guadagno affatto. C'è chi diventa miliardario e chi non riesce neanche a pubblicare. È possibilissimo che la qualità delle opere di questi due scrittori sia molto simile. Lo stesso libro può avere un destino totalmente diverso in Paesi diversi. Ogni idea di giustizia per i guadagni degli artisti è naif.  In realtà, più brutalmente, il vero scopo del copyright è di impedire ad altri di lucrare sulla mia opera senza pagarmi un tributo, perché la mia opera appartiene a me. È mia. Parliamo di proprietà e di controllo. La legge, al momento, mi riconosce come il proprietario di quello che scrivo, pertanto ho il diritto di seguire la sorte di ogni copia del libro che ho pubblicato e di chiedere una percentuale sul prezzo di vendita. Questo diritto è lo stesso sia che io venda duecento copie del libro in un'edicola locale sia che ne venda venti milioni in cinque continenti. E quando muoio passo questa proprietà ai miei figli che percepiranno le royalties su ogni copia prodotta e venduta della mia opera, come se avessero ereditato un'azienda o una proprietà. Ma soltanto per settant'anni. Dopo tutte queste concessioni all'individuo, e poi alla sua famiglia, alla fine la società nega che la proprietà intellettuale equivalga alla proprietà fisica. I miei eredi possiederanno la mia casa per sempre, ma a un certo punto il prodotto della mia mente diventerà di dominio pubblico. Qui la logica, ufficialmente, è che ormai io ho avuto, e la società, per sviluppare una cultura condivisa, incoraggiando l'accumulo del sapere collettivo, ha bisogno di avere libero accesso ai prodotti del mio intelletto. Nel recente passato la durata del copyright è stata estesa da 50 a 70 anni dopo la morte dell'autore. Capiamo subito che una simile decisione è arbitraria e potrebbe facilmente cambiare di nuovo. Era proprio necessario che il nipote di James Joyce potesse chiedere più o meno quello che voleva per le citazioni dall'opera dell'autore, persino nei testi accademici, fino a sessantanove anni dopo la sua morte? Ha senso che se cito tre o quattro versi dai Quattro Quartetti in un libro sulla meditazione io debba pagare duecento sterline per il lascito letterario di T.S. Eliot? Si ha l'impressione che gli stessi autori si sarebbero ribellati, il che ci illumina sul vero motivo per cui è concesso che le opere escano dalla protezione dei diritti. Perché questa sarebbe stata la volontà dell'autore. Una volta protetta la stretta cerchia familiare, la disponibilità delle sue opere e la celebrità sono più importanti per un autore dei redditi di discendenti che non ha mai conosciuto. La decadenza del copyright è una concessione ai sogni di immortalità dell'autore a spese della famiglia. Il diritto d'autore è sempre stato contestato e difficile da proteggere. Dickens, Lawrence, Joyce e schiere di autori minori hanno tutti lottato contro le edizioni piratate delle loro opere. Nel Novecento, l'apertura di un mercato internazionale dei libri e i progressi nelle tecniche di riproduzione hanno esasperato il problema. Ci si può aspettare davvero che ogni Stato difenda i diritti degli autori stranieri quando la maggior parte dei bestseller internazionali proviene da una decina di Paesi e in misura preponderante dagli Stati Uniti? Né la violazione del copyright viene generalmente "percepita" allo stesso modo del furto, con o senza scasso; non ho mai sentito di pirati del copyright afflitti dal senso di colpa o dal rimorso. A rendere ancor più instabile la situazione, l'innovazione introdotta insieme da internet e dall'ebook ha aumentato notevolmente la possibilità di copiare e distribuire libri piratati. Si ha sempre più l'impressione che questa legge possa decadere. Per capire come possa sopravvivere nell'era del testo elettronico, dobbiamo chiederci, al di là di ogni pietismo e sottigliezza legale, qual è la sua vera funzione sociale e se c'è almeno una larga fascia di persone che desiderano che quella funzione continui. Il copyright dà allo scrittore un forte incentivo finanziario e rinchiude il suo lavoro nel mondo del denaro; ogni libro diventa un biglietto della lotteria. Vendite enormi significheranno guadagni enormi. Il copyright quindi incoraggia un romanziere a indirizzare la sua opera non al suo gruppo di riferimento più prossimo, a coloro di cui più brama l'approvazione, ma al maggior numero possibile di lettori che possano permettersi un libro in brossura. Tantissimi romanzi, lunghi quanto scadenti, non si scriverebbero affatto senza la legge sul copyright. È un diritto che crea anche spazzatura. Da una parte, allora, concedendo il copyright la società dichiara di nutrire un grande rispetto per la creatività individuale – ogni membro della società può sognare di poter un giorno beneficiare del diritto d'autore, di trasformare il genio in denaro – dall'altra però trascina l'autore in una mentalità borghese; d'ora in poi avrà un forte interesse in mercati stabili e ben vigilati. Insomma, il diritto d'autore lega lo scrittore alla polis; colpisce infatti quanto pochi oggi siano gli scrittori creativi realmente rivoluzionari, impegnati cioè nella ricerca di un modello di società davvero diverso. C'è un atteggiamento vagamente sovversivo, liberale e antiautoritario, questo sì, che paradossalmente è diventato quasi convenzionale; ci si aspetta da un autore che sia insoddisfatto della società. Allo stesso tempo, con un assegno delle royalties che dipende da accordi internazionali, trasferimento elettronico di fondi e una disponibilità a perseguire la pirateria, l'autore o l'autrice sono più creature dello status quo che suoi nemici. _____________________________________________________ Corriere della Sera 17 mar. ’13 VERSO LA CIVILTÀ DEL DOPOLAVORO dal nostro inviato a New York MASSIMO GAGGI Ogni innovazione che eliminava posti in un settore ne creava di nuovi in un altro Nel passato è andata sempre così, oggi non più. Ecco che cos'è successo F orse Marc Andreessen esagera o è addirittura fuori strada quando sentenzia che in futuro ci saranno solo due tipi di posti di lavoro: quelli in cui dici al computer cosa fare e quelli nei quali è un computer a dirti quello che devi fare. Con il corollario inquietante della scomparsa del ceto medio che, già messo alle corde dagli effetti della globalizzazione (concorrenza del lavoro dei Paesi emergenti che ha proletarizzato la middle class), verrebbe definitivamente spazzato via dalla rivoluzione tecnologica che polarizza ulteriormente i redditi: da un lato gli esecutori, dall'altro quella che Richard Florida ha definito la «classe creativa». Che, però, nei dieci anni trascorsi dalla pubblicazione del saggio del celebre sociologo americano, ha cominciato a restringersi man mano che l'«intelligenza artificiale» delle macchine ha imparato a sostituire mestieri sempre più sofisticati. Forse esagera il genio delle tecnologie digitali che vent'anni fa creò il primo browser, Netscape, poi svuotato e schiacciato da Bill Gates con il suo Internet Explorer. Andreessen va preso sul serio: è un imprenditore con la capacità di vedere nel futuro che oggi guida l'impresa di venture capital più dinamica della Silicon Valley. Ma a volte sembra ragionare sulla società con la mentalità da codice binario del programmatore, tutta fatta di zero e di uno. In fondo se l'Europa è in recessione e il Giappone ristagna da 15 anni, negli Usa gli ultimi dati dell'occupazione segnalano una leggera ripresa. Ma Andreessen non è solo nell'avvertire che i paradigmi del lavoro, dello sviluppo e del benessere che abbiamo conosciuto finora sono destinati a cambiare più di quanto non immaginiamo. Jaron Lanier, il tecnologo-musicista che tre anni fa fece scalpore con la sua critica spietata alla cultura di Internet in Tu non sei un gadget, sta per pubblicare negli Usa e in Italia Who Owns the Future?, un nuovo saggio (già disponibile in Gran Bretagna) nel quale descrive l'impatto mozzafiato della tecnologia sul mondo del lavoro (la fotografia digitale che ha fatto evaporare la Kodak con i suoi 140 mila dipendenti mentre Instagram, nuovo sovrano del regno delle immagini, aveva appena 13 dipendenti quando la comprò Facebook) e avverte che la rivoluzione del «tutto free» in Rete, oltre ad avvantaggiare gli utenti, garantisce benefici enormi a quelli che chiama i «server sirena»: non solo meno lavoro, ma anche distribuzione più diseguale del reddito in un mondo dominato dai monopolisti dei dati, da Google a Facebook, e con meno protezioni sociali. Prendiamo pure con beneficio d'inventario le visioni acute ma anche estreme di questi entusiasti e critici della tecnologia. Ma qualche settimana fa, al forum di Davos, è stato un personaggio mainstream come Larry Summers — docente di Harvard, ministro del Tesoro di Bill Clinton, consigliere economico di Obama alla Casa Bianca fino a non molto tempo fa — a parlare del rischio di un mondo nel quale gli economisti gioiranno per il ritorno a una piena occupazione raggiunta, però, con posti di lavoro la cui specializzazione dipende dalla profondità della piscina dei ricchi che si è chiamati a pulire. Più che sulla progressiva scomparsa del posto fisso, insomma, dovremmo concentrarci sul venir meno di molti mestieri e professioni ormai svolti dalle macchine. L'era dei robot, annunciata per decenni, sta arrivando davvero: un nuovo mondo fatto non solo di strumenti elettronici con sembianze vagamente umane come quelli che negli ospedali giapponesi già assistono gli anziani o i robottini cingolati della General Electric che gironzolano sulle piste degli aeroporti, fermandosi di tanto in tanto a ispezionare i motori dei jet appena arrivati. La «robot economy» o, meglio, l'era del software, va ben al di là della macchina che sostituisce l'operaio nel montare e verniciare un'auto o del bancomat al posto dello sportello bancario. È l'auto che si guida da sola sviluppata da Google. Sono i droni senza pilota e i programmi come TurboTax o TaxAct con i quali in questi giorni decine di milioni di americani preparano la dichiarazione dei redditi facendo a meno del commercialista. Sono gli aggregatori di notizie dei giganti del web che tolgono spazio alla stampa. Sono le università online che vogliono sfidare quelle con i professori in carne e ossa. Ed è anche Watson, il supercomputer dell'Ibm che, come ho raccontato qualche giorno fa sul «Corriere», comincia ad affiancare gli oncologi negli ospedali più avanzati d'America. E che prima o poi, secondo molti, li sostituirà, visto che le sue diagnosi risultano più accurate, basate come sono sull'esame comparato di una casistica infinita. Un nuovo mondo magistralmente descritto un anno e mezzo fa da Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, due professori del Mit di Boston, in Race Against the Machine: un libro-affresco che spiega come la rivoluzione digitale abbia accelerato l'innovazione, modificato gli effetti degli aumenti di produttività e creato una vera e propria mutazione genetica nel mercato del lavoro. Fin qui si è creduto che ogni innovazione che distrugge posti di lavoro in un settore ne crea molti altri in campi diversi, spesso nuovi: il motore a vapore ha lasciato disoccupati gli stallieri, ma ha creato l'industria ferroviaria. E gli Stati Uniti, prima dello tsunami finanziario del 2008, erano arrivati quasi alla piena occupazione anche con un'agricoltura ormai tutta meccanizzata. Ma ora i due economisti di Boston avvertono che la vecchia regola secondo la quale in un'economia in cui aumenta la produttività crescono anche i posti di lavoro non vale più. È in atto quello che chiamano un «grande sdoppiamento»: il lavoro digitale sostituisce quello umano senza crearne, necessariamente, dell'altro. Sembra una previsione cupa, ma in realtà i due autori amano la tecnologia: pensano che ci farà vivere meglio, se impareremo a prosperare anche lavorando meno. Facile solo a parole. Basta, comunque, accusare la globalizzazione: ormai molte produzioni delocalizzate in Asia stanno tornando in Occidente. Solo che finiscono in fabbriche automatiche, mentre ormai i robot sostituiscono gli operai anche nei Paesi a basso costo del lavoro come India e Cina. Più pessimista l'analisi di Robert Gordon, economista della Northwestern University, che pochi giorni fa alla Ted Conference di Long Beach, una specie di Davos delle tecnologie digitali sulle rive del Pacifico, è stato protagonista di un appassionante faccia a faccia proprio con Erik Brynjolfsson. A dare retta a Gordon (e al suo Beyond the Rainbow sull'evoluzione degli standard di vita in America) viene il sospetto che siamo arrivati alla fine dell'era del progresso: le innovazioni che hanno prodotto la rivoluzione industriale e l'esplosione del benessere hanno avuto un impatto moltiplicatore sul mondo del lavoro ben diverso da quello dell'economia digitale. E non sono ripetibili: la lampadina di Edison ha portato all'elettrificazione, agli ascensori, alle lavatrici e a mille altre applicazioni industriali e domestiche. Ma l'onda è finita con le grandi innovazioni della metà del secolo scorso: la televisione, il trasporto aereo, le autostrade, l'aria condizionata. Poi ci siamo fermati: «Solo una volta nella storia — dice Gordon — si passa dai 10 chilometri all'ora di un cavallo ai 900 di un Boeing». I jet di oggi volano alla stessa velocità di quelli di oltre mezzo secolo fa: rassegniamoci alla fine dell'«effetto magico» che l'innovazione ha prodotto sull'economia per quasi 200 anni. Per Brynjolfsson, invece, l'innovazione tecnologica non sta rallentando ma accelerando. Tutti e due, però, riconoscono che la politica deve prepararsi ad affrontare un quadro profondamente diverso rispetto ai paradigmi del passato: un sistema più produttivo, ma che forse non richiederà più enormi volumi di lavoro. Timore condiviso da Al Gore nel suo recente saggio The Future: «I luddisti avevano torto. Temevano che la rivoluzione industriale avrebbe creato una disoccupazione strutturale. Invece produsse più lavoro e redditi più elevati. Ma non c'è alcuna garanzia che la storia si ripeta». Inutile fasciarsi la testa, meglio provare a ragionare su come adattarsi alla nuova realtà, su come trarre beneficio dalla tecnologia senza creare traumi sociali insostenibili. Di ricette ne circolano tante: dalla riduzione generalizzata degli orari di lavoro proposta da Jeremy Rifkin fin dal 1995 quando pose per primo, col suo La fine del lavoro, il problema dell'impatto della tecnologia sull'occupazione, fino alla decrescita di Serge Latouche. Ma molte di queste idee sono state giudicate fin qui impraticabili in società che hanno bisogno comunque di crescita. Lanier ora propone un sistema di micropagamenti che costringa i «server sirena» a compensare la gente per i dati che fornisce loro. Un quadro incerto e frastagliato complicato anche dal fatto che la politica viene chiamata a rompere schemi consolidati, a tentare svolte coraggiose e anche a rischiare qualche salto nel buio proprio mentre quasi tutte le democrazie liberali dell'Occidente vivono processi di sfaldamento e un indebolimento di tutti i poteri. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 17 mar. ’13 IL FRANCESCANO ANTI-GESUITA  storia di clemente xiv  Nel 1769 i sovrani combattevano la Compagnia di Gesù. Per chiuderla, fu eletto dal conclave il frate Lorenzo Ganganelli  Maria Antonietta Visceglia Le fazioni cardinalizie, che avevano dominato i conclavi del Seicento, vivono nel corso del secolo successivo un processo di trasformazione che ha il suo momento cruciale nel conclave del 1769, alla morte di Clemente XIII. Durante il regno di questo pontefice, la questione gesuitica – che covava come grande problema della società del tempo – era esplosa con l'espulsione dei padri della Compagnia dal Portogallo, dalla Francia, dalla Spagna, da Napoli, da Malta, da Parma. Alla morte di papa Rezzonico essa divenne il fulcro del conflitto che segnò il drammatico conclave che avrebbe eletto un francescano di modesta famiglia romagnola: il frate conventuale Giovan Vincenzo Ganganelli. Il tradizionale gioco fra le fazioni delle famiglie papali, capeggiate dai nipoti, e quelle che facevano riferimento ai principi e ai sovrani, guidate dai «cardinali protettori» o dagli stessi cardinali-principi, sembrò in quel conclave eclissarsi: non era l'appartenenza al seguito di una famiglia papale che costituiva ora la fazione, e neppure l'adesione a un "partito" nazionale. Certamente restavano ancora attivissimi nel collegio i due Albani, nipoti di Clemente XI – Alessandro e il giovane Gian Francesco la cui presenza era prova "corporea" della persistenza del nepotismo nonostante la sua abolizione avvenuta alla fine del Seicento – ma l'azione curiale dei due porporati, che si esplicava in un intenso e sempre interessato maneggio diplomatico, aveva assunto ormai una dimensione personale. Anche papa Rezzonico lasciava nel collegio un cardinale con il suo cognome, con la carica di Maggiordomo pontificio; questi però non solo non aveva al proprio seguito una fazione, ma neanche un «soggetto da proporre». In realtà una sola divisione attraversava, nel 1769, il corpo elettorale ed era assolutamente inedita: alla fazione di Palazzo, legata alla Compagnia di Gesù e fieramente ostile alla politica antigesuitica degli Stati, si contrapponeva lo schieramento degli "indifferenti". Numericamente la prima compagine era sicuramente molto più cospicua (almeno due terzi dei cardinali) e animata da uno spirito di forte rivalsa: nella corrispondenza diplomatica spagnola si parla del partito filogesuitico come di uno «Squadrone Volante resuscitato» (con riferimento alla fazione che nel conclave del 1655 si era opposta a ogni ingerenza delle Corone nelle elezioni papali). Ideale candidato di questo schieramento sarebbe stato il cardinale Serbelloni, legatissimo al filogesuitico segretario di Stato di Clemente XIII, Luigi Maria Toreggiani. Ma la risposta delle potenze europee, decise a perpetuare il loro condizionamento sulle elezioni non fu meno forte. Da un lato proposero un patto reciproco fra gli Stati, definito «unione delle Corone», che vincolasse il futuro pontefice all'impegno di decretare lo scioglimento della Compagnia di Gesù (un accordo difficile, sul quale gravavano molti dubbi e soprattutto da parte dei cardinali francesi); dall'altro imposero il veto su un numero consistente di cardinali. Come sempre circolarono i dossier sulle carriere dei porporati, con le valutazioni dei loro caratteri e delle inclinazioni politiche e spirituali; ma questa volta un criterio pareva assumere valore assoluto: l'atteggiamento dei candidati nei riguardi della Compagnia di Gesù. E invece, ecco emergere dalle votazioni del conclave la scelta finale di un frate francescano romagnolo, per molti quasi sconosciuto, sulla cui posizione rispetto alla Compagnia i pareri erano assolutamente discordi. Avrebbe assunto il nome di Clemente XIV. È difficile valutare quanto abbia inciso nell'andamento delle consultazioni un avvenimento straordinario come la visita al conclave, nel mese di marzo, dell'imperatore Giuseppe II con il fratello arciduca Pietro Leopoldo. L'evento viene evocato nei resoconti del tempo come una parentesi mondana nel clima teso della sede vacante. Certamente lo fu per il popolo romano, che si rallegrò con le luminarie, le corse dei cavalli, le feste pubbliche. Nell'intervallo pasquale (la liturgia della Pasqua, com'è noto, sospendeva il conclave) l'aristocrazia colse l'occasione per fare bella mostra di sé nei balli, negli incontri mondani e nelle conversazioni. Ne approfittarono anche gli estenuati cardinali che introdussero gli illustri ospiti nella clausura, mostrando loro le singole celle, poi nella Sistina, «fecendogli vedere come si fa il papa», e quindi nella Paolina per una pausa di preghiera. Ma l'evento dovette avere sicuramente anche altri risvolti, e comunque era un'azione di forte valenza simbolica che enfatizzava l'antico ruolo imperiale di advocatus ecclesiae. Il conclave del 1769 mostrò come nel Settecento la mano messa sull'elezione dei pontefici dagli Stati in via di avanzata secolarizzazione si fosse fatta più pesante. Divenne frequente la pratica, già apparsa nel conclave che portò alla tiara Lorenzo Corsini (1730), di accompagnare l'esclusiva con i cosiddetti biglietti ad includendorum, scritti di mano propria dal sovrano – imperatore o re di Francia o Spagna – su cui aggiungere ex post il nome del cardinale eletto. Essa dimostrava una maniera di guardare all'elezione papale desacralizzata e banalizzante. D'altra parte, l'intromissione delle Corone non si limitava a "indirizzare" l'elezione del Papa, ma tentava anche di influenzare la nomina nelle cariche più importanti (identificate in quelle di segretario di Stato, segretario dei Brevi, segretario dei Memoriali, Datario...). La pratica di vincolare il papabile nella scelta dei suoi collaboratori era stata parte integrante delle capitolazioni cardinalizie, i patti che i cardinali stipulavano nel Medio Evo e in Età Moderna impegnandosi reciprocamente a rispettarli in caso di elezione, ma le corrispondenze diplomatiche mostrano come dall'esterno del conclave anche le Corone cercassero di partecipare a questo gioco, indicando nomi e facendoli circolare da un'ambasciata all'altra. L'inasprimento della contrapposizione tra una Chiesa arroccata sulla difensiva e gli Stati sempre più aggressivi aveva influito profondamente sul sistema delle fazioni cardinalizie. Se nei primi due secoli dell'Età Moderna la dinamica dei conclavi era caratterizzata da una notevole articolazione e complessità, che rifletteva la più intensa collaborazione, se non la compenetrazione, tra Stato e Chiesa, nel Settecento si semplificava nella contrapposizione tra «zelanti» (il termine utilizzato per indicare i cardinali gelosi custodi della «ragion di Chiesa») e «politici». Tuttavia le fazioni, così trasformate, sopravvivevano, come dimostrano gli sviluppi del drammatico conclave del 1775. I lavori si svolsero in un clima sconvolto dai dubbi sulla morte del papa francescano che aveva, tra incandescenti polemiche, decretato la soppressione canonica della Compagnia di Gesù (1773), affrontando tutta l'impopolarità e le conseguenze di questa scelta. Gli ultimi anni della vita di Clemente XIV trascorsero tra gravi e inquietanti sofferenze psicologiche e fisiche, tra pronostici e profezie, fino allo spegnimento forse per veleno: sospetto mai dimostrato, ma fatto circolare ad arte, diffuso dalle gazzette in tutta Europa e amplificato dalla propaganda antigesuitica che attribuiva ora alla Compagnia persino la morte del Papa. per saperne di più Il testo che pubblichiamo sopra è tratto da Maria Antonietta Visceglia, Morte e elezione del papa. Norme, riti e conflitti. L'Età moderna, in uscita per Viella nel mese di aprile (collana «La corte dei papi», 500 pagine circa, € 35,00).  Presso lo stesso editore è appena uscito: Agostino Paravicini Bagliani,  Morte e elezione del papa. Norme, riti e conflitti. Il Medioevo (pagg. 338, € 25,00) _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 13 mar. ’13 LA BIOECONOMIA E I PROGETTI PER UN FUTURO SOSTENIBILE di ANTONIO CANU E' di qualche giorno fa la notizia dell'insediamento da parte della Commissione Europea di un Osservatorio sullo sviluppo della bioeconomia nell'Unione. Un'iniziativa che serve a mappare i risultati di una strategia - lanciata lo scorso anno - per indirizzare l'economia continentale verso un più ampio e sostenibile utilizzo delle risorse rinnovabili. Parliamo di bioeconomia, cioè di un'economia che dovrebbe slegarci man mano da quella legata al petrolio, che si fonda e si sviluppa sulle risorse biologiche disponibili e su un corretto e produttivo utilizzo dei rifiuti. Del resto, lo scenario di un Pianeta che ospiterà quasi 9 miliardi di abitanti e il rischio di non avere risorse sufficienti per tutti, non può che sollecitare investimenti in tale direzione. Già adesso utilizziamo il 50% in più delle risorse che la Terra può fornire e se non cambieremo i modelli attuali, questa percentuale salirà rapidamente. Tanto che nel 2030 - cioè tra una manciata di anni - anche due pianeti non saranno più sufficienti. La bioeconomia europea produce già un fatturato di circa 2000 miliardi di euro e impiega oltre 22 milioni di persone, pari al 9% dell'occupazione complessiva dell'Unione Europea. Si è calcolato che per ogni euro versato in ricerca e innovazione nella bioeconomia la ricaduta in valore aggiunto sarà pari a dieci euro entro il 2025. In Germania, il 13% di tutti i dipendenti e quasi l'8% del Pil tedesco sono direttamente connessi alla bioeconomia. Un'economia insomma, che funziona, in ascesa. E che si svilupperà sempre di più in alcuni comparti dell'industria chimica, biotecnologica ed energetica. A proposito di chimica. Storicamente l'uomo ha utilizzato la chimica per ottenere prodotti, principi, materiali utili allo sviluppo, a creare migliori condizioni di vita, al progresso. Allo stesso tempo proprio alla chimica si devono alcuni tra i peggiori disastri ambientali degli ultimi decenni. Abbiamo immesso nei sistemi naturali oltre 80.000 composti chimici che gli ecosistemi non sono in grado di metabolizzare e persistono nel tempo. Una chimica verde e sostenibile, che produca a basso o nullo impatto ambientale, che non lasci tracce, che sia parte dei processi di sviluppo compatibile, è quindi non solo un'opportunità economica, ma una necessità. L'importante è che i progetti ad essa legata siano chiari e sostenibili. Sappiamo bene come dietro la produzione di energie rinnovabili si siano spesso inseriti altri interessi, a dir poco speculativi. Come la logica di alcuni impianti - siano essi eolici o fotovoltaici o a biomasse - non è dipesa dalla necessità dell'operazione piuttosto dallo sfruttare incentivi o altre opportunità del momento. Allora non è il colore che fa diversa la chimica, piuttosto come viene utilizzata. Ci sono grandi potenzialità, si possono ottenere interessanti risultati in campo ambientale ed economico. Prendiamo ad esempio i rifiuti organici: questi non solo sono una valida alternativa ai concimi chimici, ma se trasformati in bio-energia possono coprire il 2% dell'obiettivo dell'Ue sulle energie rinnovabili. L'importante è ragionare e programmare in termini di sostenibilità. E nella sostenibilità ci sta anche il rapporto con il territorio, soprattutto la sua vocazione. Ci sta il coinvolgimento dei vari soggetti sociali e produttivi. Ci stanno anche le politiche di risparmio e recupero, quelle di efficienza. In questi giorni e molto di più che in campagna elettorale, si sente parlare di sostenibilità. Lo fa la politica in attesa di formare un nuovo governo. E' un passo in avanti da non sottovalutare, rispetto agli anni del ponte sullo stretto e di altri grandi opere. Magari è l'occasione buona per disegnare un paese, il nostro, a misura delle proprie risorse. _____________________________________________________ Corriere della Sera 7 mar. ’13 MONTI: «UN ATTACCO CIBERNETICO PUÒ PARALIZZARE IL PAESE» L'allarme: presto un decreto contro le nuove minacce ROMA — «Un attacco cibernetico può produrre effetti devastanti e immobilizzare l'intero Paese». È una platea particolare quella alla quale il presidente del Consiglio uscente, Mario Monti, affida un allarme, un annuncio e un auspicio: la sicurezza informatica del nostro Paese sarebbe in pericolo, per questo verrà pubblicato a breve un decreto per «accrescere le capacità di rispondere alle nuove minacce», con la speranza che «entro l'anno venga varato il piano nazionale per la sicurezza dello spazio cibernetico». È il quartier generale delle spie italiane, nella storica sede dell'Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna) per la prima volta aperta alla stampa, in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico della Scuola di formazione. Niente sedili ad espulsione telescopica o barbe finte in dotazione, ovviamente, solo un'austera aula magna rivestita in legno, dove siederanno, d'ora in poi fianco a fianco, i nuovi agenti di Aisi e Aise (le agenzie per l'informazione e la sicurezza interna ed esterna, ex Sisde e Sismi). Ma l'averne fatto varcare la soglia ai giornalisti vuole essere un «segnale» della nuova linea di «trasparenza» che nelle intenzioni di Giampiero Massolo, direttore generale del Dis (il dipartimento informazioni e sicurezza che coordina Aisi e Aise), dovrebbe caratterizzare il nuovo corso dell'intelligence: «Non siamo interessati — assicura Massolo, ambasciatore ed ex portavoce della Farnesina — alla riservatezza fine a se stessa». «Sì alla riservatezza», «no a ombre sul sistema», raccomanda Monti.  Altra novità assoluta la collaborazione con i privati. «Stiamo intensificando il rapporto tra intelligence e aziende private e presto faremo una convenzione per lo scambio di informazioni», annuncia Massolo. L'idea, spiegano, è quella di un'intelligence meno arroccata in se stessa, che possa ricevere contributi e analisi anche da aziende di interesse strategico nazionale. Nuovo anche il reclutamento delle spie. Pescate, spiega Massolo, «al 60% non dai soliti bacini»: ovvero le forze di polizia, le forze armate e gli amici degli amici. Ma con due selezioni online e attraverso una collaborazione con le università. Profili di «qualità elevatissima», assicurano ai servizi, capaci di affrontare le sfide del futuro: in grado di muoversi senza ostacoli nel mondo del web; capaci di padroneggiare con scioltezza lingue rare; analisti iperspecializzati di scenari finanziari ed economici. Si arriva così alla piena attuazione della riforma del 2007, ha spiegato ieri Monti, di fronte ai vertici dell'intelligence (il direttore dell'Aise, Adriano Santini, e quello dell'Aisi, Arturo Esposito), ministri e autorità. Ora scatta la fase due. Adeguare i servizi ai nuovi scenari. «Il nuovo decreto in arrivo — spiega Monti — pone le basi per ottenere un sistema organico, sotto la guida del premier, in cui le varie componenti possono dare un contributo sinergico per meglio affrontare la minaccia cibernetica». A Palazzo Chigi viene istituito il Nucleo per la sicurezza cibernetica con funzioni di raccordo delle attività svolte dagli enti competenti e di punto di riferimento nazionale per i rapporti con Onu, Ue, Nato e con altri Stati. In caso di crisi si attiva un tavolo di coordinamento presieduto dal consigliere militare del premier. Al Dis il decreto affida la formulazione delle indicazioni necessarie ad individuare le cyber-minacce, riconoscere le vulnerabilità e adottare le migliori soluzioni. Virginia Piccolillo ========================================================= _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 16 mar. ’13 MEDICINA: IL TAR “ISCRIVE” CENTO RAGAZZI LA SENTENZA»TRASPARENZA NEGATA Accolto il ricorso contro lo svolgimento del test: «I compiti e i candidati potevano essere abbinati prima della correzione» di Gabriella Grimaldi   SASSARI Quasi cento ragazzi saranno ammessi alla facoltà di Medicina di Sassari grazie a una sentenza del Tar della Sardegna. Un giudizio clamoroso, pubblicato ieri, in grado di far rientrare in gioco tante persone che si erano presentate, ai primi di settembre del 2012, al Palazzetto dello Sport per sottoporsi al test di ammissione al numero chiuso e che nella graduatoria finale, aggregata a quella della facoltà di Medicina e Odontoiatria di Cagliari, si erano piazzate al di sotto del livello utile per potersi iscrivere al corso di laurea. Al centro del ricorso presentato dai giovani aspiranti medici il fatto che le commissioni abbiano identificato i ragazzi durante la prova chiedendo loro di mettere, accanto al codice segreto, la propria carta d’identità. A spiegare il senso del ricorso preso in esame dal collegio presieduto dal giudice Marco Lensi, è l’avvocato dell’Udu (Unione degli Universitari) Michele Bonetti: «I membri della commissione hanno potuto individuare, durante le fasi di correzione, i singoli compiti, risalendo a chi appartenevano e violando così tutte le regole di segretezza e anonimato dei concorsi pubblici». I giudici del Tar hanno accolto il ricorso che chiedeva l’annullamento dei bandi di concorso, della graduatoria finale, dei verbali della commissione e dei provvedimenti che hanno individuato il Palazzetto dello Sport come sede per lo svolgimento del test. Proprio questi ultimi atti sono stati stigmatizzati dai legali: «A Sassari, oltre ad aver individuato gli scritti dei candidati venendo a conoscere i nominativi prima della correzione – dice il coordinatore dell’Udu Michele Orezzi – il concorso si è svolto in condizioni vergognose. I ragazzi non avevano neppure un banchetto dove sedersi durante una prova espletata in un locale del tutto inadeguato». Già il giorno dopo, le proteste per il modo in cui si era svolta la selezione si erano susseguite rapidamente. Ad un certo punto dell’impegnativo test era partito per errore l’allarme antincendio, dopo poco tempo si era diffuso, sempre per errore, il suono di una radio a tutto volume mentre per tutta la durata della prova i giovani candidati venivano disturbati dalle voci dei bambini che giocavano nei giardini del palazzetto. Insomma, condizioni ritenute lesive del diritto a un concorso equo. Il Tar, con una sentenza che segue un’altra già pubblicata in Molise, ha riconosciuto la lesione del diritto mentre secondo i legali che hanno rappresentato i ricorrenti sardi, sono a rischio anche le graduatorie a Bari, Foggia, Campobasso e Messina. I giudici cagliaritani hanno tuttavia ritenuto che l’annullamento della graduatoria avrebbe compromesso il risultato raggiunto dai candidati che avevano già superato la prova e che si sono già iscritti alla facoltà di Medicina e Odontoiatria per l’anno accademico in corso. Quindi il provvedimento riguarda soltanto i ricorrenti che si potranno iscrivere al corso di laurea in soprannumero «senza alcun effetto sulla posizione degli altri candidati utilmente collocati in graduatoria». È risultata infine improcedibile la domanda di risarcimento del danno poiché è stata accolta la domanda avanzata in via principale. L’amministrazione dell’università è stata invece condannata al pagamento delle spese giudiziarie sostenute dalla parte concorrente. Una decisione che certamente farà discutere negli ambienti universitari e non solo e che darà la possibilità a tanti giovani di sperare nel raggiungimento della tanto sognata laurea in Medicina. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 mar. ’13 MEDICINA, IL RETTORE DIFENDE IL TEST   Mastino e la sentenza del Tar che ha riammesso cento studenti. Ora “salta” il numero chiuso di Gabriella Grimaldi wSASSARI «L’università ha tenuto un comportamento assolutamente ineccepibile, trasparente e rispettoso dei diritti di tanti giovani cittadini e del loro futuro professionale». La notizia della sentenza del Tar che ha disposto l’ammissione di ulteriori cento studenti alla facoltà di Medicina, a causa di irregolarità nello svolgimento del test per il numero chiuso, ha suscitato l’immediata reazione del rettore dell’ateneo turritano Attilio Mastino. Il quale non ci sta a veder messa in dubbio la correttezza delle procedure amministrative messe in atto in occasione della selezione che si è svolta il 4 settembre del 2012. E annuncia già da ora che contro la decisione dei giudici del Tar cagliaritano l’università si costituirà in appello per poter porre in rilievo la sua posizione rispetto a quanto è accaduto. La sentenza del tribunale amministrativo ha infatti evidenziato la violazione delle regole di segretezza perché la commissione presente alla selezione ha identificato i candidati durante la prova chiedendo loro di mettere accanto al codice segreto il proprio documento d’identità. Secondo il Tar dunque era possibile abbinare il compito al nome del candidato prima della correzione. Il rettore Mastino a questo proposito obietta che «la commissione che ha eseguito l’espletamento della prova di accesso era semplicemente una commissione di vigilanza che non aveva alcun ruolo nella fase successiva della correzione dei compiti, affidata per disposizione del ministero al Cineca, un ente che ha sede a Bologna, e ciò proprio a garanzia di quelle regole di segretezza e anonimato che debbono contraddistinguere qualsivoglia selezione ad evidenza pubblica. L’università, in tutte le fasi di espletamento della prova, si è scrupolosamente attenuta alle disposizioni ministeriali che tra l’altro prevedevano che i candidati dovessero essere sempre prontamente riconoscibili dai componenti della commissione di vigilanza, da qui l’esigenza di esporre la carta d’identità». Secondo Attilio Mastino «inoltre, sempre per disposizione ministeriale, il Cineca ha ricevuto in consegna esclusivamente i moduli contenenti le risposte dei candidati, senza la scheda anagrafica, e ha provveduto alla correzione degli stessi tramite un sistema informatico che assicura il pieno anonimato. Soltanto dopo, al rilascio da parte della graduatoria elaborata unicamente sulla base dei punteggi assegnati e dei relativi codici, nel pieno rispetto delle regole di segretezza e anonimato a cui si è fatto giustamente appello, sono stati effettuati gli abbinamenti». L’università dice la sua anche per quanto riguarda la scelta, considerata inadeguata, del palazzetto dello Sport come sede per la prova. Gli stessi candidati infatti si erano lamentati del fatto che l’esame era stato disturbato da rumori molesti come musica a tutto volume partita per errore dagli altoparlanti, l’allarme anticendio, sempre frutto di un errore, e le voci dei bambini che giocavano nei giardini della struttura. Per non parlare del fatto che gli aspiranti medici erano stati costretti a rispondere agli ottanta test con i fogli poggiati sulle gambe. «Non credo fosse possibile – risponde il rettore – disporre una completa insonorizzazione del palazzetto dello Sport per vietare qualunque tipo di fastidio al lavoro dei concorrenti». Sta di fatto che adesso cento studenti in soprannumero entreranno di diritto nel corso di laurea, con tutte le polemiche che ne conseguono perché, secondo la sentenza del Tar, hanno diritto alla iscrizione a Medicina tutti i ricorrenti a prescindere dal numero di quesiti ai quali sono riusciti a rispondere. Perciò anche gli ultimi classificati nell’elenco delle persone che hanno sostenuto la prova potranno accedere al corso di laurea in Medicina e Chirurgia “saltando” di fatto l’ostacolo del numero chiuso. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 mar. ’13 SUL WEB ESULTANZA E VELENI   «Schiaffo ai raccomandati». «No, regalo ingiusto a chi ha fatto molti errori» di Luigi Soriga wSASSARI Quello dei test d’ammissione all’Università è da sempre un pentolone che ribolle. Il Tar questa volta è come se avesse sollevato il coperchio: sono sbrodolati malumori, sfoghi, indignazione, sospetti. Questo fiume in piena si è riversato subito nei social network, dove il dibattito e i post sono accesissimi. Il primo dato che emerge è questo: tutti gli studenti, anche se con motivazioni spesso distanti anni luce, sono entusiasti che un tribunale abbia finalmente bocciato un concorso pubblico. È il primo richiamo formale a un sistema che loro giudicano “mafioso” e malato. I ragazzi sono molto diffidenti su questo tipo di selezioni, ci sentono sempre puzza di marcio. Non vedono, in questo stillicidio fatto di crocette, un criterio di meritocrazia. Giudicano il superamento della prova spesso aleatoria, perché la potenzialità di un candidato non si può contenere in 80 caselle. Ma soprattutto temono che qualcuno dei concorrenti viaggi su una corsia preferenziale, che faccia più strada degli altri grazie alle raccomandazioni. A questo proposito la carta di identità apparecchiata durante l’esame accanto al codice identificativo segreto del candidato (i due elementi dovrebbero incrociarsi, per ragioni di anonimato, solo dopo la correzione) per i ragazzi la dice lunga sulle possibilità di dare qualche spintarella. Quindi per loro ben venga la bacchettata del Tar. È il primo passo per una spallata alle porte sbattute in faccia agli studenti e alla loro voglia di formarsi culturalmente. «I numeri chiusi sono una negazione del diritto allo studio – dicono – le università dovrebbero essere aperte, la selezione avverrà dopo con gli esami». Linea di principio condivisa, però poi ci sono i ragazzi che per il test di medicina hanno studiato mesi, e quel traguardo se lo sono sudato e meritato. Ora, tutto a un tratto, si vedono raggiunti da 100 concorrenti, molti dei quali distanziati parecchio in graduatoria: «C’è qualcuno che su 80 domande ha risposto esattamente solo a 16 quesiti, e ora grazie a un ricorso vinto si ritrova dentro, come chi ha consegnato un test perfetto. Questo non è giusto, l’università dovrebbe verificare la preparazione di questi “miracolati” sottoponendoli a un’ulteriore prova». Infine c’è l’esercito degli altri 900 esclusi, quelli cioè che non hanno superato l’esame di ammissione e non hanno nemmeno presentato ricorso. Qualcuno perché ignorava questa possibilità, qualcun altro perché non poteva sostenere le spese legali, nonostante non si tratti di grosse cifre. «Eppure tutti noi, e non solo quei cento che hanno vinto la causa, abbiamo fatto il test con la musica e gli schiamazzi nelle orecchie. Abbiamo poggiato il foglio sulle ginocchia e abbiamo affrontato la prova con gli stessi disagi. Quel test che ha violato la legge dovrebbe essere annullato per tutti, a prescindere dai ricorsi». _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 mar. ’13 CAPPELLACCI: «VIA L’ASL, MA NON I SERVIZI»   Il governatore e l’assessore garantiscono che la sanità in Gallura non sarà penalizzata. Giovannelli: pronti alla battaglia   LO SCIPPO»LA MANNAIA DELLA REGIONE di Luca Rojch wOLBIA Il futuro da paziente terminale della Asl 2 si fa sempre più certo e disintegra le relazioni diplomatiche tra la Gallura e Cagliari. La Regione affila la mannaia, nessuna smentita sulla necessità di ridurre le Asl da 8 a 4, ma la precisazione da parte del governatore Ugo Cappellacci e dell’assessore alla Sanità Simona De Francisci che dimezzare le Asl non significa tagliare i servizi sanitari. La battaglia degli ospedali è appena cominciata, e se da Cagliari viene verniciata da guerra per tagliare le poltrone, in Gallura somiglia a un banale taglio dei posti letto. Olbia e il territorio rischiano di scomparire dalla geografia della sanità. «Il dimezzamento delle Asl non significa tagliare i servizi sanitari – dice Cappellacci –. Ma l’esatto contrario, razionalizzare la spesa pubblica e la macchina amministrativa per destinare maggiori risorse ed energie per garantire il diritto fondamentale alla salute. La sfida è costruire un sistema sanitario che sia più a misura d’uomo e meno a misura della politica». Le parole del governatore sembrano confermare l’intenzione di accorpare le Asl del nord Sardegna. Anche l’assessore Simona De Francisci cerca di spegnere i fuochi di guerra scoppiati nel territorio. Con un comunicato ufficiale un po’ smentisce, e un po’ no la decisione di cancellare la Asl di Olbia. «Nessun taglio della Asl in Gallura sarà formalizzato martedì dalla giunta regionale – spiega l’assessore –. In ogni caso, il dimezzamento delle Asl da 8 a 4 annunciato dal presidente della Regione nei giorni scorsi non andrà a scapito dell’assistenza sanitaria. Il diritto della salute dei cittadini non viene messo in discussione. La riforma delle Asl avverrà nell’ottica di una razionalizzazione degli enti, per offrire servizi migliori e inquadrati nel contenimento della spesa». L’assessore sembra con la sua smentita confermare che la Regione voglia ridimensionare le Asl, anche se la De Francisci è certa che il diritto alla salute non sarà intaccato. Il mantra è sempre lo stesso. «In ogni caso la qualità della sanità non è legata alla quantità delle Asl, ma all’efficienza di un sistema che prescinde da dove si trova la sede legale di una azienda. Dove mettere gli uffici che dovranno governare la sanità del nord Sardegna sarà stabilito in seguito. Attraverso la considerazione del luogo migliore per gestire le esigenze della popolazione. Anche ai galluresi saranno garantiti, nelle sedi oggi già attive, i servizi sanitari e amministrativi funzionali alla loro salute». Ma il sindaco Gianni Giovannelli, tra le mani un documento che somiglia a una dichiarazione di guerra votato da tutto il Consiglio, demolisce l’interpretazione cagliaritana della riforma delle Asl. «La Gallura ha un gap di posti letto rispetto ad altre Asl. Il nuovo atto aziendale colmava questa lacuna – dice Giovannelli –. Accorpare le Asl di Olbia e Sassari non significa cancellare poltrone, di quelle a noi non importa, ma cancellare i posti letto di cui la Gallura ha bisogno, e che Sassari ha in eccedenza. Alla fine la nostra Asl per paradosso servirebbe per mantenere il gap. Facciamo prima il riequilibrio dei posti letto, poi parliamo di riorganizzazione. Basta con questa visione cagliaricentrica». Il vice presidente della Provincia Pietro Carzedda ha scritto una lettera a Cappellacci per manifestare la sua contrarietà alla notizia della possibile soppressione della Asl. «Faccio appello al tuo senso di responsabilità – scrive Carzedda – perché sia garantito il mantenimento dell’Azienda sanitaria. E ti chiedo di riconsiderare una decisione che penalizzerebbe ancor di più questo territorio già colpito dalla soppressione della Provincia e della sezione distaccata del tribunale di Olbia, oltre alla cancellazione degli uffici regionali e statali». E anche il sindaco di Calangianus Giò Loddo punta il dito contro il nuovo scippo che danneggia tutta la Gallura. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 mar. ’13 VIOLATE LE REGOLE DI SEGRETEZZA Una sentenza, quella del Tar di Cagliari scritta dal giudice Marco Lensi, che ha suscitato clamore. Di fatto cento ragazzi dei 1178 che avevano partecipato alla selezione del 4 settembre 2012 a Sassari si potranno iscrivere al corso di laurea in Medicina e Chirurgia perché sono state violate le regole di segretezza durante l’espletamento della prova. I componenti della commissione avevano infatti chiesto ai candidati di poggiare il loro documento d’identità accanto al foglio della prova e al codice segreto che avrebbe dovuto garantire l’anonimato fino a dopo la correzione degli elaborati. In questo modo, hanno ritenuto i giudici, l’abbinamento tra il compito e il candidato era possibile prima dell’invio al Cineca di Bologna, il centro nazionale che provvede alla correzione con strumenti informatici. Gli ammessi al corso, che da diversi anni è a numero chiuso, erano stati 120 più 20 posti disponibili per Odontoiatria. Ad essere ammessi all’iscrizione senza tenere conto della prova preliminare soltanto i ricorrenti, mentre restano fuori gli altri 958 giovani presenti nella graduatoria, che è stata risparmiata dal collegio giudicante perché un provvedimento di annullamento sarebbe stato lesivo dei diritti acquisiti da chi aveva superato la prova e si era già regolarmente iscritto ai corsi per l’anno accademico 2012-2013. I concorrenti avevano dovuto rispondere a 80 quesiti dei quali 40 concernenti la cultura generale e la logica, undici di chimica e altri undici di fisica e matematica. Gli ultimi diciotto invece riguardavano argomenti di biologia. Il ricorso è stato presentato dallo studio legale degli avvocati Michele Bonetti e Santi Delia che già in precedenza avevano contestato la regolarità dello svolgimento della prova effettuata in altre regioni italiane vedendo accolte le richieste. (g.g.) _____________________________________________________ L’Unione Sarda 8 mar. ’13 AOUCA: DE FRANCISCI: «IL TRASFERIMENTO NON È PIÙ RINVIABILE» SALUTE. Diktat dell'assessore regionale alla Sanità ai vertici dell'Aou e della Asl 8 Clinica Macciotta: si chiude VEDI LA FOTO «La chiusura definitiva della clinica Macciotta di Cagliari e il trasferimento dei piccoli pazienti dei reparti di Neonatologia e Pediatria non sono più rinviabili. Neonati e bambini, assieme alle loro famiglie, hanno diritto a essere curati in ambienti sicuri e decorosi». È il messaggio che lancia l'assessore regionale della Sanità Simona De Francisci ai vertici dell'Azienda ospedaliero-universitaria di Cagliari e della Asl 8. L'assessore fa appello alla sensibilità dei direttori generali affinché siano rispettate le tempistiche per il trasferimento sia del reparto di Neonatologia al Blocco Q del Policlinico universitario (entro aprile) che di quello di Pediatria nel nuovo ospedale Pediatrico (a giugno) che sorgerà dove oggi è dislocato il Microcitemico.  POLICLINICO «Come Regione - sottolinea De Francisci - abbiamo attuato ogni azione sia per accelerare la dismissione della clinica Macciotta, sia per aprire, allo stesso tempo, il Blocco Q del policlinico universitario che per ampliare l'attuale Microcitemico. Di recente si era valutata anche l'ipotesi di trasferire temporaneamente i piccoli pazienti al Brotzu, ma poi il trasloco nelle nuove sedi si rivelerà comunque più veloce e meno oneroso di soluzioni provvisorie».  L'APPELLO «Faccio dunque appello alla sensibilità ai vertici dell'Aou e della Asl 8 perché, ognuno per le proprie competenze, mettano in campo tutte quelle azioni che accelerino i processi di trasferimento e si possa garantire così ai piccoli pazienti sistemazioni finalmente a norma. Restando ferme, ribadisco, le due date: che la Neonatologia sia spostata al Blocco Q entro aprile e Pediatria al nuovo ospedale pediatrico entro giugno», conclude l'assessore De Francisci. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 15 mar. ’13 AOUCA: SANITÀ»IL NUOVO MICROCITEMICO L’ospedale dei bambini: si apre in estate Il 21 marzo un altro incontro tra Regione, Asl 8 e azienda universitaria sulle date dei trasferimenti dei nuovi reparti ENNIO FILIGHEDDU Ci stiamo attrezzando per il delicato trasloco della neonatologia al blocco Q del policlinico   CAGLIARI Il 21 marzo nuovo incontro Regione, Asl 8, azienda ospedaliero-universitaria per ribadire le date di trasferimento della clinica Macciotta dall’edificio del 1938 che, dopo un paio di incidenti, ha richiamato l’attenzione dei vigili del fuoco e il 30 maggio 2013 dovrà essere sgombro, salvo nuove proroghe per ora non immaginabili. La condizione perché avvenga il trasferimento è che i nuovi locali del Microcitemico siano pronti e qui sono chiamati in causa i direttori generali dell’Asl 8 e dell’azienda mista ospedale-università. I quali, richiesti ancora una volta di fornire date certe, ripetono: la neonatologia intensiva approderà al blocco Q del policlinico entro la fine di aprile, la pediatria e la neuropsichiatria infantile troveranno il loro spazio al Microcitemico entro giugno. Fervono i contatti con gli ospedali italiani che in passato hanno affrontato trasferimenti di neonatologie: «Non è questione semplice – spiega il direttore generale dell’azienda mista Ennio Filigheddu – ci stiamo attrezzando per affrontare al meglio un trasloco delicato». Dunque l’impegno c’è e le date vengono riaffermate come sicure, il trasferimento tocca anche alla chirurgia pediatrica ora relegata al Santissima Trinità e pienamente coinvolta nel “Bambin Gesù” sardo. Con il dichiarato interesse della Regione per avviare l’ospedale sotto la gestione Cappellacci è possibile che le date possano essere davvero certe. Qual è l’ostacolo invisibile al rispetto degli impegni? Nei fatti uno: il progetto del nuovo Microcitemico appaltato alla Siemens nasceva come un ampliamento delle attività già avviate, successivamente si è deciso di trasformare il nuovo Microcitemico in un ospedale pediatrico completo e quindi si è previsto di trasferirci anche la prima clinica universitaria, la neuropsichiatria infantile e di aprire anche il necessario pronto soccorso pediatrico. Negli stessi spazi, insomma, si è dovuto far posto anche ad altre discipline, si è rallentato per capire come fare. Il nuovo Microcitemico, infatti, è composto dall’ala vecchia ristrutturata e dall’ala nuova. I vecchi reparti hanno chiesto e a quanto pare ottenuto di non essere in alcun modo ridimensionati, da qui il rompicapo su come sistemare i nuovi arrivi più numerosi per pazienti e personale. Per fortuna, a proposito di spazi, nel dibattito interno tra universitari è prevalsa l’idea di tenere accanto all’ostetricia la terapia intensiva neonatale (blocco Q del policlinico universitario). Un problema di spazi in meno per il nuovo Microcitemico, un dubbio in più sull’organizzazione del nuovo ospedale che nasce per i bambini ma non ha la neonatologia. (a.s.) _____________________________________________________ Unione Sarda 17 mar. ’13 AOUCA: MEDICO UNIVERSITARIO LAVORAVA COI PRIVATI, RISARCIRÀ 43MILA EURO Nonostante il contratto in esclusiva e la conseguente indennità percepita dall'azienda ospedaliera universitaria di Cagliari, l'endocrinologa Laura Petrini, 69 anni, ha lavorato per anni anche in strutture private a Carbonia, Guspini e in via Messina. Nei primi due casi non era stata autorizzata, ragion per cui è stata condannata dalla Corte dei Conti a restituire all'erario 43.723 euro, oltre la rivalutazione monetaria e gli interessi legali. A pronunciare la sentenza, depositata di recente, è stato il collegio presieduto da Mario Scano (a latere il giudice estensore Maria Elisabetta Locci e Antonio Contu) che ha anche condannato il medico, difeso dagli avvocati Mauro Barberio e Stefano Porcu, al pagamento delle spese di giudizio. I giudici erariali hanno comunque pressoché dimezzato le pretese del vice procuratore generale della Corte dei Conti, Mauro Murtas, che aveva citato il medico per un danno all'azienda ospedaliero-universitaria di 85.612 euro. I guai per l'endocrinologa cagliaritana erano iniziati nel 2009, quando i militari del Nas di Cagliari avevano effettuato delle ispezioni in una farmacia di Carbonia. «Dall'esame dei registri di carico e scarico» si legge nella sentenza, «si rilevava che la farmacia preparava un cospicuo numero di capsule a base di fendimetrazina (sostanza inserita nella tabella degli stupefacenti) e, altresì che, sin dal 1999, un consistente quantitativo di tali preparati era stato eseguito sulla scorta di prescrizioni redatte dalla dottoressa Petrini». Medicinali che, secondo l'accusa, venivano prescritti per dei piani terapeutici legati a cure dimagranti. Per quei fatti, in ogni caso, la Procura della Repubblica ha ottenuto il rinvio a giudizio del medico con l'accusa di traffico di sostanze stupefacenti e prescrizioni abusive, falsità ideologica in certificati e peculato, facendo scattare anche gli accertamenti della Corte dei Conti, visto che formalmente l'endocrinologa - per via del suo contratto di esclusiva con l'Endocrinologia e la Diabetolgoia dell'Università - non avrebbe potuto lavorare anche a Carbonia. La Procura erariale aveva chiesto quasi 90 mila euro, ma i giudici hanno ridimensionato le pretese, limitandosi alla sola violazione del contratto di esclusiva per il periodo dal 2006 al 2009 (data in cui il medico è stato collocato in quiescenza). Francesco Pinna _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 14 mar. ’13 AOUSS: «ABUSI ALLA AOU», QUATTRO IMPUTATI L’INCHIESTA » SANITÀ SOTTO LA LENTE DELLA PROCURA L’ex commissario Cavalieri accusato con tre medici: ha sospeso una dirigente con procedimento considerato arbitrario di Elena Laudante   SASSARI Un procedimento disciplinare, nei confronti di una dirigente, molto severo. Tanto severo da comportare sanzioni addirittura più gravi di quanto previsto dalla legge: sospensione dall’ufficio e dalla retribuzione per un mese. Il risultato di una trafila di presunti abusi che sarebbero stati commessi per colpire la dirigente da punire. Anche a costo questo - sospetta oggi la magistratura - di commettere reati piuttosto gravi. Come quelli di abuso d’ufficio, falso materiale e ideologico, contestati dalla procura della Repubblica all’ex commissario straordinario dell’Azienda ospedaliero-universitaria, Gianni Cavalieri, 63 anni, attualmente tra i membri esterni del consiglio d’amministrazione dell’Università di Sassari. Solo di abuso d’ufficio, in concorso con Cavalieri, sono accusati anche Mario Trignano, 68 anni, direttore dell’istituto di Patologia chirurgica, Andrea Montella, 55 anni, ordinario del Dipartimento di Scienze biomediche e Antonio Tognotti, originario di Oristano, 48 anni, dirigente del servizio Bilancio dell’Azienda ospedaliero-universitaria. Trignano, Montella e Tognotti sono imputati in qualità di componenti dell’Ufficio procedimenti disciplinari dell’Aou, all’epoca dei fatti, tra l’inverno e la primavera del 2011. Per i quattro, il pm Carlo Scalas ha chiuso le indagini e atteso che chiedessero di essere sentiti per spiegare la loro posizione, magari chiedere l’archiviazione dell’inchiesta. Ma hanno scelto di non essere interrogati e, trascorso il termine di legge, il magistrato ha firmato per tutti la richiesta di rinvio a giudizio, che li ha fatti diventare imputati. Il prossimo 28 maggio dovranno comparire davanti al giudice dell’udienza preliminare Maria Teresa Lupinu per dimostrare la loro estraneità a quanto contestato dalla Procura, oppure scegliere eventuali riti alternativi. L’inchiesta punta a capire se quanto accaduto all’Azienda mista alla dirigente Anna Maria Pes può in qualche modo essere assimilato al mobbing, quella forma di persecuzione sul luogo di lavoro da codificare con l’ipotesi di abuso d’ufficio, perché il codice penale non la contempla. Ma il senso della disavventura della dirigente, tutelata dagli avvocati Rita Vallebella e Franca Lendaro, sarebbe questo. Sarebbe stata vittima cioè di una serie di violazioni commesse dagli ex vertici Aou per danneggiarla, non è chiaro per quali ragioni, attraverso un procedimento disciplinare nel quale gli inquirenti hanno individuato una sfilza di irregolarità. Anzitutto, la genesi di quel procedimento, che parte il 21 febbraio 2011 quando Cavalieri nomina Montella, Tognotti e Trignato componenti dell’Ufficio procedimenti disciplinari e subito trasmette loro i documenti per l’avvio della pratica. Solo che quegli atti li aveva ricevuti un mese prima e avrebbero dovuto essere trasmessi, con contestuale comunicazione dell’avvio del procedimento all’interessato, cinque giorni dopo la ricezione, non 25 giorni dopo. Ma il primo vizio individuato dalla Procura si inserisce proprio tra queste due fasi, l’avvio del procedimento ( 27 gennaio) e la trasmissione all’ufficio competente (21 gennaio). A metà febbraio (il 16), l’allora commissario adotta una delibera che “approva il regolamento per l’irrogazione di sanzioni disciplinari al personale della dirigenza medica”. Eppure su una proposta di delibera, dal contenuto coincidente, il direttore amministrativo Pietro Tamponi (estraneo all’inchiesta) aveva dato parere contrario. Solo che nella delibera decisiva del 16 febbraio si dava atto dell’assenza di Tamponi (effettivamente fuori ufficio) tralasciando però che in realtà lui avesse già detto no a quel regolamento. Di qui, l’accusa di falso materiale e ideologico aggravato contestato al solo Cavalieri. Nel trasmettere gli atti all’Ufficio dei tre coimputati poi Cavalieri avrebbe «arbitrariamente deciso che la sanzione dovesse essere più grave di quella indicata» dalla legge, scrive il pm nel capo di imputazione. E avrebbe nominato due dei tre componenti, Trignano e Montella, senza che questi ne avessero la qualifica, perché docenti universitari e non dirigenti dell’azienda ospedaliera. Altre “pecche”: non sarebbero stati rispettati i termini che la legge assegna per consentire alla dirigente di difendersi. E quando la dirigente chiede gli atti del procedimento, l’Azienda li consegna senza nomi e parti di testo. A poco servono le intimazioni dei suoi legali, che fanno notare come il potere disciplinare fosse decaduto a causa delle quelle presunte irregolarità: la sanzione è arrivata, puntuale e salata. _____________________________________________________ Il Corriere della Sera 10 mar. ’13 BONCINELLI: C'È VITA NELLA SPAZZATURA La parte del Dna ritenuta inutile svolge in realtà un ruolo cruciale di EDOARDO BONCINELLI D a tempo abbiamo appreso due cose sorprendenti ma inoppugnabili sul nostro genoma: possediamo più Dna di quanto ci sembra necessario, così che qualcuno ha potuto parlare in passato di Dna in eccesso o «Junk Dna», cioè «Dna spazzatura», e inoltre l'Rna, il cugino minore del Dna, è sempre più importante per la fisiologia della cellula, cioè in definitiva del nostro corpo. Nella considerazione di questo problema esistono almeno due aspetti, uno qualitativo e uno quantitativo. Su quello qualitativo non ci sono dubbi: molta parte del nostro Dna totale è tirato in ballo dalla cellula in una maniera o nell'altra. I dubbi possono sorgere sul piano quantitativo: quanta parte del nostro Dna è così effettivamente tirato in ballo? 10, 30, 70 o 100 per cento? Consideriamo il primo aspetto del problema, biologicamente più interessante, che si riassume dicendo che l'Rna sembra fare sempre più cose nella cellula e che anche la parte del Dna che sembrava non utilizzata viene copiata in molecole di Rna che hanno diverse funzioni. Il nostro patrimonio genetico è costituito da molecole di Dna, che se ne stanno ben protette all'interno del nucleo delle cellule. Perché il suo messaggio esca però dal nucleo e venga recepito e realizzato dalla cellula, occorre l'intervento di un altro acido nucleico, l'Rna. Questo lo sappiamo da decenni. Quando una particolare regione del Dna deve attivarsi per produrre la proteina che specifica, occorre per prima cosa che se ne faccia una «copia conforme» costituita di Rna, chiamato Rna messaggero. Si dice che quel tratto di Dna viene «trascritto» per dare quel messaggio. Si chiama «trascrizione», infatti, l'operazione di copiatura del messaggio portato dal Dna in una molecola di Rna. Questo Rna messaggero esce dal nucleo, va nel citoplasma, si adagia su una successione di ribosomi in fila e lì ottiene che il suo messaggio venga «tradotto» in una proteina. Si chiama «traduzione» la sintesi di una specifica proteina come realizzazione finale di un particolare messaggio genetico.  Da tempo non ci si sapeva spiegare perché il ruolo dell'Rna, più fragile ma più duttile del Dna, fosse così limitato, considerando soprattutto che molti ritengono che sia esistito in un lontano passato un «mondo a Rna», nel quale la maggior parte delle operazioni genetiche, compresa la stessa codificazione del patrimonio genetico, era opera dell'Rna in congiunzione con alcune proteine. Negli ultimi trent'anni è apparso sempre più chiaro che il ruolo dell'Rna non è confinato al semplice schema riportato sopra. L'Rna sembra anzi farne di tutti i colori, per regolare in ogni particolare l'attività dei diversi geni, tanto a livello trascrizionale, che post- trascrizionale e traduzionale. Ciò non appare solo dalle ricerche del consorzio internazionale Encode, ma anche dal lavoro di molti altri gruppi attivi nel mondo, e per fortuna anche in Italia.  Il primo punto chiaro è che buona parte del genoma, un'elica del Dna come l'altra, appare trascritta in lunghe molecole di Rna. Gli Rna messaggeri che codificano le loro rispettive proteine appartengono ovviamente a tale categoria, ma esiste anche una moltitudine di molecole di Rna che non sono in grado di codificare proteine e che sono perciò dette non-codificanti. Tra quelle che raggiungono una certa stabilità, si usa distinguere quelle di lunghezza inferiore a 200 nucleotidi, detti piccoli Rna non codificanti e quelle di lunghezza superiore, detti grandi Rna non codificanti, che esplicano ruoli parzialmente diversi. I grandi Rna non codificanti sono trascritti, provenendo da diverse regioni del genoma, sia sull'elica di Dna su cui si trova il gene in questione, elica di solito detta «elica senso», che sull'altra, di solito detta «elica antisenso», e possono comprendere tratti molto vasti di Dna. Le loro funzioni sono svariate e spaziano dal controllo della vita media e della traducibilità dell'Rna messaggero in questione, al controllo della trascrizione del tratto di Dna dove risiede il gene stesso. Questo tipo di controllo può essere a sua volta esercitato attraverso meccanismi detti epigenetici, che tengano cioè conto di quanto è successo un momento prima nella cellula e ne conservino la memoria. Senza alterare la sequenza del tratto di Dna in questione, ne può promuovere o bloccare la trascrizione, attraverso un certo numero di modificazioni del cromosoma, che possono andare dalla modificazione del Dna alla modificazione chimica delle proteine che avvolgono il Dna stesso e che costituiscono insieme a esso la cosiddetta cromatina. I complessi proteici che realizzano queste modificazioni hanno bisogno di essere guidati con precisione verso i tratti di Dna in questione e sembra che in questo possano essere aiutati da appositi grandi Rna non codificanti. Più variegato, ma anche più avanzato, è il quadro dei piccoli Rna non codificanti, fra i quali spiccano i cosiddetti microRna (miRna), lunghi solo 21-23 nucleotidi, che hanno la funzione di regolare la stabilità e la traducibilità degli Rna messaggeri sui quali agiscono appaiandovisi. Questa costituisce probabilmente la più grande novità degli ultimi vent'anni e sta suggerendo un'enorme mole di esperimenti. Questi piccoli Rna fanno a loro volta parte di trascritti molto più lunghi, che vengono poi tagliati e rielaborati: le parti corrispondenti ai microRna vengono conservate e sopravvivono, mentre tutto il resto viene frammentato e metabolizzato. L'azione dei microRna avviene dopo l'appaiamento di questi con sequenze specifiche presenti sull'Rna da regolare, e che costituiscono il vero bersaglio dei diversi microRna. Solo piccole regioni di questi grandi trascritti sono quindi attive nel controllare gli Rna che daranno luogo a messaggeri veri e propri e quindi alle proteine finali.  È abbastanza evidente che, accanto ai geni veri e propri che codificano proteine, devono esistere nel genoma molti altri quasi-geni che codificano i diversi Rna non codificanti proteine. Inoltre il numero di tali quasi-geni sembra più alto nella nostra specie che in altre, abbastanza alto in verità da giustificare la nostra complessità paragonata a quella di altri organismi.  Quello che è certo è che bisogna smettere di immaginare il genoma come pieno di materiale inutile e prepararsi a ripensare dalle fondamenta il concetto di gene. Il nostro patrimonio genetico, infatti, brulica di geni, se solo li si sa vedere. È noto da tempo che solo un 2 per cento del nostro Dna specifica direttamente la struttura delle proteine e quindi se chiamiamo gene quel tratto di Dna che specifica la sequenza di una determinata proteina, solo il 2 per cento del Dna contiene geni. E tutto il resto del Dna del nostro genoma che cosa ci sta a fare? C'è da considerare inoltre che il Progetto Genoma ne ha contati solo 24 mila di tali geni nell'uomo, un numero piuttosto basso, paragonabile a quello posseduto da un moscerino o da una piccola piantina. Se si considera poi che molti geni si assomigliano considerevolmente in molte specie, non si capisce bene quale sia la nostra peculiarità, e in che cosa ci distinguiamo da una scimmia, ma anche da un lupo. È noto, per esempio, che i nostri geni sono simili al 98,6 per cento a quelli di uno scimpanzé, che pure è abbastanza diverso da noi. C'è quindi qualcosa che non va.  Una maniera per uscire da queste difficoltà è quella di pensare che la natura delle proteine di cui siamo fatti non sia tutto, e risulti al contrario di gran lunga più importante il modo con il quale queste sono combinate tra di loro. Possiamo pensare le diverse proteine un po' come i diversi mattoncini del Lego, che sono sempre fondamentalmente gli stessi, ma con i quali si può costruire una casetta, una cattedrale o un autocarro. Se è così, allora non contano tanto il numero e la struttura delle proteine, ma come vengono accostate e giustapposte. Non sono quindi solo i geni direttamente codificanti proteine che contano, ma il modo con il quale quelli vengono accesi o spenti e più in generale fatti agire. Ebbene, emerge ora che il Dna in eccesso è la sede di una frenetica attività, tutta finalizzata, direttamente o indirettamente, a controllare le proteine del corpo. Ciascuno dei passi che portano alla produzione delle diverse proteine deve essere infatti finemente controllato ed è controllato in maniera piuttosto complessa ma ferrea proprio dal Dna che si riteneva inutile! La verità è che il Dna di buona parte del genoma viene trascritto, cioè copiato in molecole di Rna più o meno lunghe e sono proprio queste molecole che, anche se non sono direttamente tradotte in proteine, ne controllano la sintesi finale. Come dire che nel genoma ci sono numerosissimi geni dei quali prima non ci eravamo accorti. Se chiamiamo geni soltanto i tratti di Dna che specificano direttamente la sequenza di una determinata proteina, questi non sono più di una ventina di migliaia, ma se chiamiamo geni tutti i tratti di Dna che sono trascritti in altrettante molecole di Rna e che cooperano al controllo della sintesi delle diverse proteine, questi sono tanti di più, un numero che ancora non conosciamo in tutta la sua estensione. Queste molecole di Rna fanno tutti i mestieri possibili: controllano la trascrizione degli Rna messaggeri, ne determinano la sopravvivenza e perfino l'efficienza della traduzione finale in proteine funzionanti.  Il problema che si pone ora riguarda quanto del Dna totale serve veramente alla cellula, contribuendo a modellare il corpo di un organismo e si presta così a essere un bersaglio della selezione naturale. Calcoli evolutivi piuttosto complessi dicono che solo il 10 per cento del genoma è oggetto di questo processo di selezione. Se questo è vero, come spiegare le affermazioni che vogliono che quasi tutto il Dna del genoma sia effettivamente trascritto e quindi verosimilmente funzionale? Trattandosi di una scienza sperimentale, la risposta più giusta sembra essere: «Vedremo». Ma possiamo già farci un'idea di come tratti di Dna trascritti possono non essere critici nella formazione dell'individuo e quindi «funzionali» nel vero senso della parola. Basta che le sequenze significative, e quindi intoccabili, siano un po' qui e un po' là, come i microRna, mischiate con lunghe sequenze che fanno solo da «ponte» o da «riempitivo» fra quelle che contano veramente. A me sembra onestamente che siamo di fronte a un problema abbastanza semplice, ma nella scienza «mai dire mai». _____________________________________________________ Il Corriere della Sera 10 mar. ’13 MA È PIÙ GRANDE IL GENOMA DELLA CIPOLLA DI QUELLO DELL'UOMO di TELMO PIEVANI I l «Dna spazzatura» aveva appena compiuto quarant'anni, essendo stato così battezzato dal genetista Susumu Ohno nel 1972. Era il periodo in cui si scopriva che ampie porzioni del patrimonio genetico sembravano «neutrali», cioè indifferenti all'azione della selezione naturale. Il «Junk Dna» fu definito da Ohno come un qualsiasi segmento di genoma che non ha un'utilità immediata, ma che potrebbe occasionalmente acquisire una qualche funzione in futuro, come quando accumuliamo i ferrivecchi in garage con la vaga speranza di poterli un giorno, chissà, riciclare. Il Dna spazzatura parve a molti come il vero dominatore statistico del genoma, rimasuglio di esperimenti falliti della natura, trattenuto nell'evoluzione perché i processi molecolari che generano Dna extra, notò Sydney Brenner, sovrastano quelli che lo ripuliscono e lo riducono. Finché non dà fastidio, la selezione naturale lo tollera. Il concetto e l'annessa metafora ebbero un enorme successo. François Jacob descrisse l'evoluzione del genoma come un bricolage di parti riciclate e riutilizzate per nuove funzioni.  Quando poi, nei primi anni del nuovo millennio, si scoprì, con il progetto Genoma Umano, che soltanto una piccola percentuale del patrimonio ereditario è costituito da geni che codificano proteine (non più di 25 mila geni per la specie umana, cifra di vari ordini di grandezza inferiore a quanto era stato previsto considerando la nostra complessità biologica) il «Junk Dna» ebbe il suo trionfo. Si concluse che il genoma umano era ridondante, pieno di materiale di risulta e di rumore di fondo. I minuscoli frammenti di Dna che codificano proteine galleggiano come zattere in un vasto oceano genetico privo di senso. Ma uno sguardo più attento e più sistematico ha in questi anni rovesciato la prospettiva. Secondo il consorzio internazionale che sta scrivendo l'«Enciclopedia degli elementi del Dna» (Encode), è vero che meno del 2 per cento del genoma è costituito da geni che codificano proteine, ma una porzione più consistente (tra il 9 e il 18 per cento) potrebbe essere legata a funzioni di regolazione. Ecco perché i primi sono così pochi: ciò che conta sono le loro relazioni e regolazioni. Nel Dna spazzatura forse si nascondono tesori, in particolare le sequenze che trascrivono le tante forme di Rna implicate nell'intricata trama delle regolazioni geniche. È in questo groviglio di prodotti genici che si annidano le cause di molte malattie, e soprattutto le dinamiche di trasformazione tumorale. Dunque la posta in gioco è molto alta. Dopo i primi risultati pubblicati nel 2007, le centinaia di scienziati di Encode hanno continuato il loro lavoro, giungendo nel settembre 2012 a una conclusione ancor più radicale: addirittura l'80 per cento del genoma risulta trascritto in Rna e dunque, si suppone, funzionale. Il messaggio è chiaro: l'apparenza di inutilità era dovuta alla nostra ignoranza circa la complessità del codice genetico. È tipico della scienza: grazie a nuovi studi ci rendiamo conto di quanto non sapevamo. Il «Junk Dna» è un concetto fuorviante, meglio archiviarlo dopo quarant'anni di onorata carriera. Nel genoma c'è dunque un linguaggio nascosto che non avevamo visto? Posta così, la domanda ha attratto i sostenitori dell'Intelligent Design, la dottrina neocreazionista americana, che infatti hanno festeggiato la notizia. Naturalmente è un'inferenza del tutto impropria, visto che la funzionalità di un sistema non implica affatto che sia stato intenzionalmente «progettato» per un fine da qualcuno. I risultati di Encode non sono invece piaciuti per niente ad altri biologi, che in un articolo apparso alcuni giorni fa su «Genome Biology and Evolution» hanno attaccato duramente il progetto. «Le loro statistiche sono orribili, è il lavoro di un gruppo di tecnici male addestrati», ha sentenziato senza mezzi termini il primo firmatario, Dan Graur, biologo molecolare alla Houston University. Avere un'attività biologica (essere trascritto) non significa necessariamente avere una funzione, secondo i dissenzienti. Le stime sono imprecise e l'intero lavoro sembra «un vangelo senza evoluzione», perché non avanza ipotesi su come quelle parti non codificanti, ma trascritte, possano essersi conservate nell'evoluzione. Ma l'accusa è anche di politica della ricerca: è sbagliato investire tutti questi soldi in progetti di «Big Science» se non si è poi in grado di interpretare l'enorme massa di informazioni, trasformandola in modelli di spiegazione attendibili. Il dato grezzo dei bioinformatici va tradotto in conoscenza. Tutto sommato, la notizia riguardante la morte del «Junk Dna» potrebbe essere alquanto esagerata, o se non altro prematura. Come spiegare, altrimenti, il fatto che la cipolla ha un genoma cinque volte più grande di quello di un essere umano? Difficile ammettere che la pur dignitosa cipolla sia cinque volte più complessa di noi. Il tema della ridondanza era già ben presente in Darwin, secondo il quale non tutto in natura deve essere utile: la selezione fa i conti con molte strutture in eccesso che non hanno alcuna funzione, come gli organi vestigiali e le correlazioni di crescita. Ma «l'impronta dell'inutilità», come la definì Darwin nell'Origine delle specie, solleva ancora avvincenti controversie scientifiche. I genetisti di Encode potrebbero essere vittime dell'umana propensione a vedere schemi pieni di significato in un mare di dati casuali. Oppure, come pensano i più, hanno scoperto che almeno una parte del Dna spazzatura custodiva in realtà funzioni finora sconosciute. Come ha scritto il coordinatore di Encode a Cambridge, Ewan Birney, «quello a cui somiglia il genoma è un'autentica giungla, una foresta fitta, una muraglia di elementi attraverso la quale bisogna aprirsi il passaggio»: dal «Junk Dna» al «Jungle Dna». E allora per farsi strada nella giungla non resta che continuare la ricerca, finanziando sia quella «Big» sia quella «Small».  _____________________________________________________ Sanità News 14 mar. ’13 NEL 2012 CALA DEL 9.1% LA SPESA FARMACEUTICA CONVENZIONATA Continua per il sesto anno consecutivo il calo della spesa farmaceutica convenzionata SSN, che nel 2012 registra un -9,1% rispetto al 2011. La riduzione della spesa farmaceutica convenzionata e' dovuta alla diminuzione del valore medio delle ricette (-9,3%), legata a vari fattori: i ripetuti tagli dei prezzi dei medicinali, le trattenute imposte alle farmacie, il progressivo aumento del numero di medicinali equivalenti e la distribuzione diretta o per conto di medicinali acquistati dalle ASL. Il contributo delle farmacie al contenimento della spesa continua ad essere rilevante: nel 2012 e' stato, complessivamente, di circa 800 milioni di euro. Oltre che con la diffusione degli equivalenti e la fornitura gratuita di tutti i dati sui farmaci SSN, le farmacie concorrono a limitare la spesa con lo sconto per fasce di prezzo, che ha prodotto nel 2012 un risparmio di oltre 536 milioni di euro, e con la quota dello 0,64% di cosiddetto pay-back, che vale oltre 73 milioni di euro. A tali pesanti oneri va aggiunta la trattenuta dell'1,82% sulla spesa farmaceutica, aumentata, da luglio 2012, al 2,25%. Tale trattenuta aggiuntiva ha comportato, per le farmacie, un onere quantificabile in circa 186 milioni di euro per il 2012. Anche i cittadini, con i ticket, contribuiscono sostanzialmente nella stessa misura delle farmacie al contenimento della spesa. Le quote di partecipazione a carico dei cittadini crescono a seguito degli aumenti dei ticket a livello regionale, ma anche a causa del ricorso dei cittadini a medicinali di marca piu' costosi, con pagamento della differenza di prezzo rispetto all'equivalente meno costoso. "Quest'ultimo fenomeno - osserva il presidente di Federfarma - e' alimentato dalle polemiche sull'efficacia dei generici e sulla sostituzione da parte del farmacista". Dall'analisi della composizione dei consumi di farmaci in regime di SSN emerge che nel 2012 i farmaci per il sistema cardiovascolare si confermano la categoria a maggior spesa pur facendo segnare, a parita' di consumi, un calo del -13,5% rispetto al 2011, a seguito del maggior utilizzo di medicinali a brevetto scaduto di prezzo piu' basso. Da segnalare il forte calo della spesa (-14,5%) per farmaci antimicrobici, cui corrisponde una riduzione dei consumi: i cittadini hanno utilizzato quindi meno antibiotici, grazie anche alle varie campagne informative per promuoverne il corretto utilizzo. Per quanto riguarda le categorie di farmaci piu' prescritte, anche nel 2012 si collocano al primo posto gli inibitori della pompa acida (farmaci per gastrite, ulcera, reflusso gastrico), che fanno segnare un sensibile aumento dei consumi rispetto al 2011 (+7,1%). All'interno della categoria dei farmaci antipertensivi diminuisce il ricorso agli ace-inibitori e aumenta quello ai betabloccanti. I dati sono in corso di pubblicazione sul sito www.federfarma.it, nella sezione 'Spesa farmaceutica'. _____________________________________________________ Sanità News 5 mar. ’13 GLI IMMIGRATI INCIDONO MARGINALMENTE SULLA SPESA FARMACEUTICA ITALIANA L'incidenza degli immigrati sulla spesa farmaceutica italiana incide in modo minimo, quasi per nulla, sul Ssn, Servizio sanitario nazionale. E' quanto emerge dal 'Rapporto sulla prescrizione farmaceutica in un Paese multietnico' presentato all'Istituto superiore di sanità (Iss) a Roma. Il Rapporto é stato redatto in collaborazione tra Iss, Società italiana di farmacia ospedaliera, Società italiana di medicina delle migrazioni, Cineca e Consorzio Mario Negri sud. Per la ricerca, riferita al 2011, è stato preso in esame un campione di circa 710mila immigrati residenti in Italia su un totale di quattro milioni e mezzo, ovvero il 16% dei residenti in quell'anno. L'etá media è di 33 anni, donne prevalenti nel 53% dei casi. Dal confronto, compiuto con un campione italiano di pari età e sesso, emerge che nel 2011 la spesa farmaceutica della popolazione immigrata é stata di 330 milioni di euro, pari al 2,6% della spesa farmaceutica complessiva a fronte di una popolazione immigrata che nel 2011 rappresentava il 7,5% dei residenti in Italia. Il 52% della popolazione immigrata e il 59% di quella italiana hanno ricevuto in quell'anno almeno una prescrizione di farmaci, per una spesa farmaceutica a carico del Ssn che é stata di 72 euro per l'immigrato e 97 per l'italiano. Per Enrico Garaci, presidente Iss, "la sanitá pubblica italiana si dimostra ancora una volta solidale con le fasce deboli della popolazione mostrando la forza del nostro sistema solidaristico e universale". _____________________________________________________ Il Sole24Ore 14 mar. ’13 SALUTE. NEL LIMBO I TAGLI DELLA SPENDING REVIEW I tagli alla sanità restano bloccati STATO-REGIONI I governatori hanno deciso di fare muro sui tagli di più di 20mila posti letto e di quasi 200 cliniche private ROMA Restano nel limbo i tagli della spending review agli ospedali. Ieri il Governo ha tentato il blitz inserendo a sorpresa il regolamento del ministro della Salute, Renato Balduzzi, all'ordine del giorno della Stato-Regioni. Ma i governatori hanno fatto muro chiedendo il rinvio di qualsiasi decisione e poi, davanti all'alternativa posta dall'Economia di far decorrere da quel momento la «mancata intesa» (che dopo 30 giorni farebbe scattare comunque il disco verde al provvedimento), hanno minacciato di abbandonare il vertice. Per evitare un altro scontro istituzionale in un momento politicamente complicatissimo, è stato così deciso di rinviare il punto: forse già la prossima settimana i governatori incontreranno Monti, come chiedono da mesi, poi ci sarà una nuova Stato-Regioni dove, prendere o lasciare, sarà precisa la decisione finale. Ma chissà se davvero la soluzione la si troverà con questo Governo o con quello che (chissà quando) arriverà. Va da sé che per le Regioni è dirimente il contenuto del provvedimento. Sul quale col Governo dei professori Monti non sono riuscite a concordare quelle modifiche che considerano necessarie. Tanto più che restano, intatti, i dubbi sulla tenuta finanziaria del sistema sanitario dopo i tagli da 31 miliardi assestati fino al 2015 al Ssn. Una situazione che, sostengono i governatori, rischia di far precipitare nel baratro dei piani di rientro anche le cosiddette "Regioni virtuose" in regola con i conti. Soprattutto di questo parleranno col premier, dal quale peraltro assai difficilmente non potranno ricevere risposte rassicuranti sulla dotazione finanziaria del Ssn. Con l'applicazione del provvedimento, secondo le stime del ministero della Salute, verrebbero tagliati 14mila posti letto per acuti e incrementati (se mai sarà possibile, soprattutto nelle Regioni commissariate) e di 6.653 quelli per le lungodegenze. Il taglio riguarderebbe anche 193 cliniche private accreditate sotto i 60 posti letto. Il tutto secondo un metodo di tagli lineari che scontenta tutti. «Un colpo di mano che ci rovinerebbe, pensato da chi evidentemente non sa niente di sanità», ha commentato l'assessore lombardo Mario Melazzini. R.Tu. _____________________________________________________ Il Giornale 13 mar. ’13 SEMPRE PIÙ CONTAGI IN CORSIA E LA RICERCA È FERMA DA ANNI Intervista Parla Giovanni Rezza Molti germi non rispondono più ai trattamenti da «ultima spiaggia Gianni Rezza, Direttore del dipartimento delle malattie infettive dell'Istituto superiore di Sanità, da Londra si annuncia una futura catastrofe sanitaria planetaria. Non è una visione troppo pessimista? «L'allarme non è per niente campato per aria, è reale. A lungo termine potranno circolare nel mondo batteri resistenti e armi spuntate per combatterli». Perché? «Da anni e anni non esiste più ricerca sugli antibiotici. Si è lavorato molto sui farmaci antivirali ma non per antibiotici avanzati. Evidentemente rendono di meno alle case farmaceutiche». Ma sono così pericolosi questi superbatteri? «Fanno parte della famiglia delle klebsielle e si diffondono rapidamente negli ospedali. Quando poi finiscono nei reparti di rianimazione provocano problemi gravissimi sui pazienti già debilitati». Anche in Italia esiste questo fenomeno? «Certamente. Negli ultimi tre anni è passata dal 15 al 27 per cento la quota dei germi che non rispondono nemmeno ai farmaci considerati "l'ultima spiaggia". E attualmente ogni ospedale ha un problema di resistenza ai batteri. Inoltre, quando l'infezione prende piede in un reparto è difficilissimo estirparla». Qual è lo scenario? «Abbiamo pochi antibiotici e di questo passo potremmo tornare al Medioevo. Se ricominciano a circolare i microcobatteri della tubercolosi e le klebsielle, i batteri che pensavamo di aver sconfitto diventeranno dei killer difficili da combattere». Come si può prevenire una diffusione di questi germi micidiali? «Con una politica oculata sull'uso dell'antibiotico. Non dev'essere preso a "sbafo" e in ogni occasione di malessere. Va ingerito a giuste dosi e quando serve altrimenti nel fisico insorgono resistenze e nel momento del bisogno l'antibiotico non reagisce più». _____________________________________________________ Il Sole24Ore 26 mar. ’13 L’EVOLUZIONE DEI BENDAGGI LA RIVOLUZIONE KINESIO Nasce in Giappone, oggi e usato dagli sportivi di tutto il mondo. Il dottor Antonio Pagni illustra i plus dell'innovativo bendaggio Negli anni Settanta/Ottanta ho iniziato una lunga esperienza nel campo dei bendaggi di vario genere, ho vissuto in prima persona sia in teoria che pratica con dimostrazioni in collaborazione delle più importanti aziende del settore, l'evoluzione dei vari tipi di bendaggi, dalla semplice fascia elastica fino ai bendaggi funzionali come il taping e ogni tipo di fasciatura ha le sue caratteristiche in base al tipo di patologia. Con il trascorrere degli anni, lavorando con atleti professionisti, mi accorsi che i bendaggi elastici adesivi davano risultati superiori agli altri perché contenevano, drenavano, lasciavano minori postumi e riduceva il dolore permettendo un più rapido recupero dell'atleta. Quando un muscolo è “edematoso" lo spazio tra la pelle e il muscolo è compresso, limita il flusso linfatico creando pressione nei recettori causando segnali di disagio Cioè dolore, di conseguenza riduzione del movimento. Così utilizzai questa metodica su alcuni calciatori della Nazionale• italiana di calcio ai Campionati Mondiali Usa del 1994. Tuttavia, le fasciature elastiche adesive del periodo creavano qualche problema di durata e di tenuta, tanto che necessitavano, prima dell'applicazione, un'accurata igiene della pelle e la durata era breve perché non traspiravano e potevano sviluppare intolleranze o reazioni di tipo allergico. Inoltre, non erano impermeabili all'acqua. Nel 1988 fu introdotto ufficialmente in 'tali in America e in Europa il kinesio è anallergico, elastico adesivo, non medicato e resistente all'acqua. La metodica, in realtà nata in Giappone, fu utilizzata per la prima volta in campo riabilitativo alla fine degli anni Ottanta sulle atlete della Nazionale giapponese: volley femminile. Oggi viene utilizzato in tutto il mondo da sportivi pro6sionisti. Può essere applicato per diverse patologie: reumatologia, fisioterapia, linfatica, neurologia, sportivi, posturale, ecc. Può essere mantenuto per qualche giorno dopo r,rplica4ione. Per le varie tecniche di taping sono previste procedure di corsi formativi solo professionisti, per garantire risultati di alto livello terapeutico. In letteratura ci sono pochi lavori scientifici sulla riabilitazione con il kinesio in neurologia. Il dottor Gino Volpi, referente per le malattie cerebrovascolari dell'unità operativa in neurologia dell’asl Asl 3 di Pistoia, ha contribuito insieme alle mie colleghe a uno studio pilota dal 2009 al 2010: il kinesio è stato applicato a pazienti colpiti da ictus. Secondo i dati riportati da Alice (Associazione per la lotta all’ictus cerebrale) in Italia sono, infatti, oltre 700mila le persone the ogni anno vengono colpite da grave malattia. L'applicazione del cerotto viene fatta in base a test biomeccanici, in modo che sia accertata la professionalità nell'applicazione del cerotto stesso. Il consiglio è quello di rivolgersi a fisioterapisti d'esperienza e operatori specializzati e qualificati nell'applicazione dello stesso. Antonio Pagni _____________________________________________________ TST 13 mar. ’13 IL FUTURO DELLE STAMINALI È NEI LABORATORI, NON NEI TRIBUNALI Icona dei nuovi studi è la sperimentazione made in Italy per rigenerare la cornea Prima venerate come elisir taumaturgico poi sacralizzate e periodicamente al centro delle cronache: per fare chiarezza tra miti e opportunità sulle cellule staminali l'Università degli Studi di Milano, venerdì prossimo, coordinerà «UniStem 2013», in collaborazione con 34 atenei italiani, altri sette europei, in una diretta condotta da 200 ricercatori, manager, comunicatori, esperti di etica e tecnici: un evento rivolto a oltre 15mila studenti delle scuole superiori (le informazioni sono su wwwunistem.it). «Le staminali sono un argomento esemplare della sfida della scienza, vale a dire vincere la scommessa di coinvolgere figure a vario livello, dal cittadino allo studente, dal ricercatore al politico, dal legislatore al filosofo, ciascuno con il proprio "expertise", per stabilire nuove linee guida di fronte alle malattie: pensiamo soprattutto a quelle che rappresentano un nodo sempre più drammatico, come il Parkinson, l'Alzheimer, l'Huntington o la Sla». Così Elena Cattaneo, ordinario al dipartimento di Bioscienze dell'Università di Milano, tra i l'Università di Milano, tra i massimi esperti mondiali di staminali neurali. La curiosità attorno alle sta-minali nasce non solo dalla complessità del tema, continuamente oggetto sia di controversie sia di speranze, ma anche dal ruolo di primo piano che l'Italia sta acquisendo nella ricerca. «Alcune delle intuizioni più preziose - spiega la professoressa - sono maturate proprio nei laboratori italiani, come all'Università di Modena e Reggio-Emilia, insieme con l'Ospedale San Raffaele di Milano, dove è stata messa a punto una terapia che è il faro mondiale per comprendere sempre meglio come addestrare le staminali». Lo studio, pubblicato sul «New England Journal of Medicine», a firma di Paolo Rama, Michele De Luca e Graziella Pellegrini, «riguarda un metodo per selezionare staminali adulte dal limbo dell'occhio (l'anello che circonda la pupilla) e poi isolarle e coltivarle per rigenerare la cornea». Il trapianto su pazienti ustionati ha ottenuto un recupero della vista incredibilmente stabile nel tempo. «Questa straordinaria conquista insegna che il punto cruciale è riuscire a selezionare i corretti tipi di staminali e metterli a contatto con i fattori appropriati che li differenziano nell'esatta tipologia del tessuto lesionato da rigenerare». Ma la biologia di queste cellule sembra in via di chiarimento, - - anche grazie agli studi dello svizzero Lorenz Studer che, dal laboratorio al Memorial Sloan-Kettering di New York, oggi riesce a ottenere neuroni da staminali embrionali. «Il merito del metodo Studer -continua la professoressa - è l'aver individuato i segnali necessari e il numero di cicli di divisione con il quale la popolazione di cellule ha raggiunto la maturità opportuna per essere trapiantata». In effetti, se inserite nell'organismo a uno stadio «qualunque», le staminali, in genere, prendono due strade: smettono di crescere, come facevano in provetta, e muoiono, o proliferano, causando tumori. La strategia adatta - come ha provato Studer - è quella di prelevarle dalla coltura al momento in cui siano abbastanza «istruite», ma non troppo mature. Altrimenti sono incapaci di armonizzare la crescita del tessuto da riparare. «Questa intuizione rappresenta un notevole progresso verso l'ipotesi applicativa delle staminali neurali, in particolare a partire dal Parkinson», secondo Cattaneo. Grazie alla microchirurgia una sospensione di neuroni dopaminergici - le cellule che muoiono nel cervello dei pazienti con Parkinson viene iniettata nella zona da cui dovrebbero cominciare a ricostruire le vie atrofizzate. Nei ratti e nei topi in cui è stato indotto il Parkinson, e che sono stati trattati da Studer, c'è stato un recupero delle capacità distrutte dalla malattia. Analogamente, il gruppo della professoressa Cattaneo cerca ora di sviluppare un protocollo per ottenere i neuroni che degenerano nella Corea di Huntigton, a partire da staminali embrionali. Il consolidamento di un valido protocollo deve tenere conto della riproducibilità dell'esperimento per fugare timori, ma anche truffe o errori. Tra le tante, la professoressa ricorda il caso delle staminali prelevate dal midollo osseo e utilizzate per la cura delle malattie cardiache, un tentativo che non ha mai portato a risultati. «Inoltre – conclude - lascia perplessi vedere tribunali che si sostituiscono alla medicina e approvare ipotetici trattamenti con staminali, in assenza dei requisiti di efficacia e sicurezza, come avviene nel nostro Paese. Servono i risultati per parlare di cure. Come servono le sperimentazioni cliniche se si vuole parlare di cure compassionevoli: senza prove ad essere autorizzati sono solo gli abusi delle sofferenze» _____________________________________________________ Repubblica 15 mar. ’13 STAMINALI, "STOP ALLE TERAPIE OMPROPRIE" Appello di medici e ricercatori a Balduzzi. E a Brescia garantita solo un'infusione a Sofia ELENA DUSI ROMA — La decisione del ministro della Salute Renato Balduzzi di autorizzare l'uso di cellule staminali con il "metodo Stamina" in alcuni ospedali pubblici fa infuriare ricercatori e scienziati. «È uno stravolgimento dei fondamenti scientifici e morali della medicina» scrivono in una lettera al ministero 13 fra i principali scienziati del campo. L'autorizzazione di Balduzzi apre la porta degli ospedali italiani al controverso metodo della Fondazione Stamina, che consiste in una o più iniezioni con non meglio precisate "cellule staminali mesenchimali" prelevate dal midollo dei genitori dei bambini malati. La tecnica non ha mai dimostrato di essere efficace, visto che nessun medico esterno alla Stamina ha visitato i bambini dopo il trattamento. La decisione di Balduzzi di autorizzare il metodo, Nel mirino la decisione di autorizzare delle cellule in alcuni ospedali secondo i firmatari della lettera, "disconosce la dignità del dramma dei malati e dei loro familiari", dal momento che "scegliere per sé una terapia impropria o immaginaria rientra frai diritti dell'individuo, ma non rientra fra questi diritti decidere quali terapie debbano essere autorizzate dal governo". La lettera è firmata, fra gli altri, da Paolo Bianco (direttore del laboratorio sulle staminali della Sapienza di Roma), Elena Cattaneo (stesso ruolo all'università di Milano), il rettore dell'ateneo del capoluogo lombardo Gianluca Vago ei docenti Giulio Cossu (embriologia), Alberto Mantovani (anche direttore dell'Istituto Humanitas), Andrea Biondi (pediatra alla Bicocca) e Silvio Garattini (direttore del Mario Negri). Una seconda lettera rivolta a Balduzzi è partita sempre ieri dai presidenti diana decina di società scientifiche italiane ed europee (fra le altre, immunologia, ematologia e oncologia pediatrica, terapia genica). "Come medici e ricercatori abbiamo seguito con grande sconcerto la notizia della possibilità di trattare pazienti affetti da gravi malattie del sistema nervoso con staminali al di fuori di ogni evidenza scientifica e di ogni regola" si legge. Fra i firmatari delle due lettere, oltretutto, ci sono alcuni. responsabili di quei laboratori che Balduzzi ha autorizzato a somministrare staminali, come il San Gerardo di Monza, l'università di Modena e Reggio, gli Ospedali Riuniti di Bergamo e il Policlinico di Milano. Il 7 marzo il ministro aveva autorizzato il trattamento Stamina per Sofia, la bambina di tre anni di Firenze con leuco distrofia metacromatica (malattia rara che provocala progressiva degenerazione del sistema nervoso). Ma aveva posto la condizione che le staminali fossero iniettate in uno dei 13 laboratori italiani autorizzati a manipolare queste cellule, e non agli Spedali Civili di Brescia. In questa struttura Sofia aveva ricevuto una prima infusione a novembre del 2012. Ma un'ispezione dei Nas aveva trovato molte irregolarità e l'Alfa (l'Agenzia italiana del farmaco) aveva vietato alla struttura di proseguire il trattamento. La decisione di Balduzzi era stata accolta subito con un rifiuto dai genitori di Sofia ("Non accettiamo cure diverse da quelle della Stamina"). E oggi incassa anche la dura critica di medici e scienziati. Gli stessi Spedali di Brescia hanno fatto sapere che effettueranno la seconda infusione di staminali su Sofia, ma poi cesseranno i trattamenti a meno che non sia un giudice a imporlo. La Fondazione che promette cure miracolose con le staminali, nel frattempo, è finita sotto indagine a Torino. Il procuratore Raffaele Guariniello ipotizza i reati di truffa e associazione a delinquere. La Stamina avrebbe chiesto soldi ai pazienti (le cure sperimentali e compassionevoli devono essere gratuite). In un'intercettazione, il suo presidente avrebbe detto «per fortuna i malati sono in aumento». _____________________________________________________ Corriere della Sera 14 mar. ’13 GLI SCIENZIATI CONTRO IL METODO STAMINA Tredici professori scrivono per convincere Balduzzi: efficacia non provata 14 marzo 2013. Il mondo della scienza si ribella al ministro della Salute Renato Balduzzi per quanto riguarda le staminali con il metodo Stamina. Una lettera aperta. Scrivono: «La comunità dei ricercatori e medici che lavora per sviluppare trattamenti sicuri ed efficaci contro gravi malattie comuni o rare è perplessa di fronte alla decisione, sull'onda di un sollevamento emotivo, di autorizzare la somministrazione di cellule dette mesenchimali, anche se prodotte in sicurezza da laboratori specializzati. Non esiste nessuna prova che queste cellule abbiano alcuna efficacia nelle malattie per cui sarebbero impiegate. Non esiste nessuna indicazione scientifica del presunto metodo originale secondo il quale le cellule sarebbero preparate. Ci sembra questo uno stravolgimento dei fondamenti scientifici e morali della medicina, che disconosce la dignità del dramma dei malati e dei loro familiari».  Non proprio formale come lettera. «Non rientra tra i diritti dell'individuo — continuano — decidere quali terapie debbano essere autorizzate dal governo, e messe in essere nelle strutture pubbliche o private. Non rientra tra i compiti del governo assicurare che ogni scelta individuale sia tradotta in scelte terapeutiche e misure organizzative delle strutture sanitarie. Non sono le campagne mediatiche lo strumento in base al quale adottare decisioni di carattere medico e sanitario». E ancora: «La neutralità intellettuale e morale scelta dal ministero, rispetto al vero merito della questione sollevata, oggettivamente incoraggia e supporta pratiche commerciali che direttamente o indirettamente sottendono alla propaganda di terapie presunte». E le cosiddette «terapie compassionevoli» non possono essere «un percorso utile ad allentare la vigilanza regolatoria». Come dire, strada aperta a ipotetiche e miracolose cure per il cancro, stregonerie varie, terapie ancora in sperimentazione o ai primi stadi della ricerca. Firmano in 13. Ricercatori: Paolo Bianco, Andrea Biondi, Giulio Cossu, Elena Cattaneo, Michele De Luca, Alberto Mantovani, Graziella Pellegrini, Giuseppe Remuzzi, Silvio Garattini. Il filosofo della scienza Giovanni Boniolo, lo storico della medicina Gilberto Corbellini, il giurista Amedeo Santosuosso, il rettore dell'università di Milano Gianluca Vago.  Intanto, la situazione creatasi tra sentenze dei giudici, il blocco dell'Agenzia del farmaco ai laboratori degli Spedali civili di Brescia, l'intervento di politici e media, la soluzione pilatesca di Balduzzi, ha portato la piccola Sofia (il caso su cui è intervenuto Balduzzi) ad una seconda infusione di staminali secondo Stamina ma a nessuna garanzia futura per le altre tre infusioni previste. La direzione generale degli Spedali di Brescia ha fatto sapere che «non è previsto il completamento della terapia, a meno di un'imposizione da parte delle autorità giuridiche o sanitarie nei confronti degli Spedali». La cura della Stamina Foundation non è infatti autorizzata dal ministero e dall'Aifa. Il ministero della Salute sembra stia lavorando per trovare una soluzione, attraverso un atto concreto, per consentire alla piccola Sofia di continuare la cura Stamina.  Il nodo resta comunque quello che il protocollo di Stamina non è pubblico per ragioni di brevetto (richiesta di brevetto). E quindi altre cell factory autorizzate dovrebbero accettare personale di Stamina Foundation che lavori utilizzando quel metodo «misterioso». Eppure basterebbe che la Stamina Foundation rendesse noto il metodo per sottoporlo a verifica e renderlo praticabile da tutti. Che è poi la regola della scienza. Tanto, a questo punto, il brevetto è relativo. Tutti sanno chi ha messo a punto il metodo.  Mario Pappagallo @Mariopaps _____________________________________________________ Il Sole24Ore 26 mar. ’13 TUTTI I VANTAGGI DEL LASER ANCHE PER L' ODONTOIATRTA ESTETICA È ancora una cura di nicchia ma capace di sostituire in modo definitivo il trapano. Lo confermano il professor Giovanni Olivi e la dottoressa Maria Daniela Genovese Dal 1986 anno della sua fon' dazione a oggi lo studio medico dentistico InLaser si conferma come un punto di riferimento a livello internazionale nell'ambito dei trattamenti odontoiatrici mediante la tecnologia laser ma non solo. Sotto la direzione del professor Giovanni Olivi e della dottoressa Maria Daniela Genovese, lo studio ha elaborato numerosi protocolli davvero innovativi, oggi adottati in tutto il mondo. Eppure la possibilità del laser resta una cura di nicchia, impiegata da poco meno del 10% dei dentisti in Italia. "L'utilizzo di questa tecnologia specifica il professor Olivi comporta un beneficio a ogni tipo di cura odontoiatrica, con un effetto di biostimolazione che migliora e accelera i processi di guarigione. Lavori come, ad esempio, l'applicazione di faccette in porcellana o corone in ceramica vanno così a inserirsi su un tessuto in grado di adattarsi con maggiore efficacia rispetto a quello trattato con le tecnologie tradizionali". Se il tanto temuto trapano lavora per contatto e per usura della superficie dentale, gli apparecchi laser ad Erbium e ad Erbium Cromo lo sostituiscono in maniera definitiva, potendo operare sia sul dente che sull'osso o gengiva senza un contatto diretto e lavorando per selettività sul tessuto interessato. "Nel caso di un dente cariato continua Olivi è dunque possibile preservare completamente il tessuto sano, con un intervento microinvasivo; fondamentale a questo proposito tino strumento come il microscopio, al fine di poter garantire risultati migliori in tutta sicurezza. Aumenta così la precisione della cura e la conservazione del tessuto sano, una caratteristica questa che spesso sfugge al paziente e che si dimostra indispensabile negli ambiti di odontoiatria estetica". Naturalezza e salute del sorriso sono gli obiettivi di InLaser, per ripristinare forma e funzione di denti e gengive; lo studio e la cura del particolare fanno la differenza per risultati di eccellenza. L’odontoiatria estetica soddisfa le esigenze di chi voglia eliminare il colore scuro dei propri denti; dire addio ad antiestetiche otturazioni, carie o fratture; a chi accusi un sorriso sminuito dalla presenza di denti mancanti, storti o affollati. Unitamente a II lì profilo biografico di caratura internazionale, il professore Olivi può vantare un diploma aggiuntivo in Medicina estetica e, con le sue competenze estetiche, può scegliere al meglio tra le opzioni disponibili per evidenziare un irresistibile sorriso: intervenire con il laser per sbiancamento dentale o per ridisegnare la simmetria di denti gengive e labbra. Vanno ricordate poi le tipologie laser a diodi e Neodimio per il trattamento dei tessuti molli. "Nei casi di malattie parodontali, gengiviti ecc. precisa la dottoressa Genovese questi laser svolgono un'efficace azione decontaminante, uccidendo i batteri e coagulando il tessuto che si va a rimuovere. Inoltre, tra i vantaggi più evidenti, basti immaginare l'efficacia della terapia laser per la cura dei bambini: quale che sia l'intervento da eseguire, tempistiche e pericolosità sono abbattute drasticamente a favore di un'odontoiatria infantile efficace ma non traumatizzante". Va ricordata inoltre una funzione di grande importanza ricoperta da InLaser: oltre alla sua attività di insegnamento presso l'Università di Genova con il corso di master in "Laser dentistry" (frequentato da colleghi provenienti da tutto il mondo), il professor Olivi è promotore di una corsistica di odontoiatria laser specifica per diverse applicazioni e aurore con la dottoressa Genovese di numerosi testi di odontoiatria laser (per maggiori informazioni sarà utile una visita al sito www.inlaser.it). Stando all'esempio dello studio InLaser dunque, il presente dell'odontoiatria si configura all'insegna di trasformazioni sostanziali indirizzate alla conservazione massima dei tessuti e a un abbattimento delle tempistiche di intervento. "Stiamo già attrezzandoci spiega Genovese per applicare tecniche computerizzate `chair side', che consentono di produrre i manufatti in studio nell'arco di una giornata. Oltre a ciò va ricordato il progresso compiuto negli ultimi anni dall'ortodonzia che perinette di risolvere problemi di estetica in maniera invisibile e molto confortevole". Quali sono, unitamente a ciò, le peculiarità indispensabili per fidelizzare la propria clientela? Il professor Olivi non ha dubbi. "Oggi, con la corretta applicazione delle nuove tecnologie si può fare davvero tanto e bene; ma resta centrale la necessità di un rapporto umano con il paziente. La tendenza imperante è quella di grandi centri odontoiatrici chiamati a produrre numeri importanti: ciò che ci preme evidenziare invece è la natura squisitamente artigianale del nostro lavoro, al quale affianchiamo un dialogo sincero con i clienti, affinché possano contare su referenti che ne comprendono esigenze, desideri e paure". ROMA _____________________________________________________ La Stampa 17 mar. ’13 Virgilio Sacchini Oncologo "DAL GENOMA LE NUOVE CURE CONTRO IL CANCRO " GLI STATI UNITI «Rispetto al nostro Paese qui si investe molto di più nella ricerca» Il professor Virgilio Sacchini lavora al Memorial Sloan-Kette- ring Cancer Center di New York, il più prestigioso ospedale de gli Usa per la cura dei tumori. Quale è stato il suo percorso precedente? «Mi sono specializzato in chirurgia e oncologia all'Istituto Nazionale di Tumori di Milano, poi ho seguito il professor Umberto Veronesi quan- do ha fondato il nuovo Istituto Europeo di Oncologia sempre nel capo- luogo lombardo. Nel 2000 mi hanno invitato come professore di chirurgia alla Cornell University e mi hanno anche offerto di lavorare nel reparto di senologia al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York. Dove mi sono fermato». Da quando è negli Stati Uniti si sono fatti molti progressi in campo onco- logico? «Sì, soprattutto negli ultimi anni per quanto riguarda la genetica dei tumori». In che senso? «Prima di tutto per l'identificazione delle persone a rischio di sviluppare un tumore. Ora, studiando il Dna, siamo in grado di capire se c'è una parti- colare predisposizione verso determinati tumori, tipo quello mammario, ovarico, pancreatico, tiroideo o anche verso il melanoma. Sappiamo che alcuni geni producono delle proteine protettive in grado di riparare il Dna danneggiato da sostanze chimiche. Quando il gene è alterato, invece, non può più produrre queste proteine protettive e così si sviluppa il tumore». Come si fa a sapere se e quando bi- sogna fare queste analisi personalizzate? «Esistono particolari criteri per decidere se un paziente è a rischio, ad esempio per i tumori mammari, quando la familiarità è alta per una madre o una zia che l'hanno avuto». Lo si può fare anche in Italia? «Certo, ma a volte i tempi sono diversi». In generale il tumore si può prevenire? «Sì, se si sanno le cause, ad esempio il fumo per il tumore polmonare e le so- stanze con coloranti a base di anilina per quello della vescica». Dai tumori quanto si guarisce? «Purtroppo si muore ancora in una percentuale del 47-48%. Per alcuni, come quello della mammella, si guarisce al 98%, per altri come al pancreas solo al 15%». Qual è il più frequente? «In assoluto il tumore femminile del seno, poi quello polmonare e quindi il colon». E quello alla prostata? «È anche questo molto frequente». Il professor Veronesi esprime spesso rammarico per non essere riuscito, nella sua lunga carriera, a debellare questo male terribile... «Penso che gli investimenti che negli anni precedenti so- no molto mancati debbano riguardare la ricerca di laboratorio, con l'obiettivo di scoprirei meccanismi biologici e genetici delle cellule tumorali». A che punto siamo nella ricerca? «Ci stiamo avvicinando sempre di più alla comprensione di tutti questi meccanismi». Ma le terapie di chemio e radio sono sempre efficaci? «Non sono così efficaci come vorremmo e per questo si stanno mettendo a punto nuovi farmaci intelligenti, vale a dire mirati sulle cellule tumorali senza disturbare quelle sane». Negli Stati Uniti siete più avanti rispetto all'Europa? «Qui si investe molto di più in ricerca e l'investimento è proporzionale alle scoperte che si possono fare». Perché negli Stati Uniti la medicina è così costosa per i pazienti? «Dipende dalla categoria di pazienti. L'ospedale ha diverse convenzioni con lo Stato e con le assicurazioni e, quindi, il paziente viene "caricato" in misura minima, sempre che abbia un'assicurazione». In quanto italiano, come è stato accolto dalla comunità medico-scientifica americana? «Molto bene, perché i medici italiani sono particolarmente preparati e le nostre università sono considerate eccellenti». Cos'è l'«American Cancer Italian Foundation», nel cui comitato scienti- fico lei è presente? «È una fondazione benefica senza sco- po di lucro, fondata da italiani e italo- americani a New York con la finalità di raccogliere fondi per giovani medici e ricercatori italiani che vogliono specializzarsi negli Usa». È vero che negli Usa si punta sull'estrema specializzazione? «Sì, invece noi italiani siamo più interdisciplinari. La tendenza americana può rappresentare un limite in alcune situazioni cliniche o nella gestione di certe complicazioni». Un suo desiderio, professore? «Che le analisi e i trattamenti possano essere estremamente personalizzati per poter valutare i rischi e combatte- re le malattie di ciascun individuo». Insomma, lei è soddisfatto della sua esperienza a New York? «Sì. Quella di 13 anni fa è stata una scelta molto difficile, ma il risultato è sicuramente positivo». Lei non tornerebbe in Italia? «Tornerei, se avessi la possibilità di portare tutte le esperienze che ho maturato negli Stati Uniti». _____________________________________________________ Unione Sarda 17 mar. ’13 CINA: DAL '71 A OGGI PRATICATI 336 MILIONI DI ABORTI I medici cinesi hanno eseguito 336 milioni di aborti dal 1971 ad oggi, secondo dati shock diffusi dal ministero della Sanità. La cifra si avvicina a quella più volte ripetuta dall governo, secondo cui senza la politica di rigido contenimento delle nascite varata dall'inizio degli anni Settanta oggi i cinesi sarebbero 400 milioni in più degli 1,3 miliardi dell'ultimo censimento di tre anni fa. Secondo dati riportati dal Financial Times, dal 1973, anno in cui fu legalizzato l'aborto, ad oggi, negli Usa, che hanno una popolazione di 315 milioni di persone, sono stati realizzati 50 milioni di aborti. I dati diffusi a Pechino rivelano inoltre che nello stesso periodo 196 milioni di uomini e donne cinesi sono stati sterilizzati e che 403 milioni di donne sono ricorse alle spirali intrauterine per evitare gravidanze indesiderate. _____________________________________________________ Corriere della Sera 17 mar. ’13 MALATI PER TROPPA MEDICINA? I pericoli dell'accanimento diagnostico T oo much medicine, troppa medicina: è questa la vera epidemia del nostro tempo.  Se fino a qualche anno fa i medici si concentravano sui malati per cercare di risolvere i loro problemi, adesso tendono a focalizzarsi sui sani per scoprire malattie in erba, e qualche volta finiscono per crearle davvero.  È la medicalizzazione della vita che, invece di promuovere la salute, promuove la malattia. È l'eccesso di diagnosi che comportano certi check-up eseguiti a tappeto o certi screening (esempio: quanti casi di tumore alla prostata identificati dal Psa — l'antigene prostatico specifico nel sangue — sono stati individuati e curati con effetti collaterali tipo l'impotenza, quando, invece, potevano tranquillamente andare avanti senza alcun pericolo per la vita di una persona?) ed è l'eccesso di cure inutili che ne deriva (cure che hanno effetti collaterali per i pazienti e che costano ai sistemi sanitari). Si tratta di overdiagnosis (troppe diagnosi) e overtreatment (troppi trattamenti), come dicono gli anglosassoni che da un po' di tempo stanno dibattendo il problema.  Nel 2002 la rivista inglese British Medica Journal pubblicava un articolo intitolato Too much medicine?, con un punto interrogativo. Parlava di medicalizzazione della nascita (troppe ecografie in gravidanza e troppi cesarei), del sesso (la diagnosi di disfunzione erettile dopo la scoperta del Viagra) e anche della morte (la tecnologia come accanimento terapeutico). Ora, nel 2013, più o meno a 10 anni di distanza, la stessa rivista lancia una campagna dal titolo Too much medicine, questa volta senza punto interrogativo. E invita i medici a farsi pionieri di una «de-medicalizzazione» della medicina che dia più potere ai pazienti, che resista alla diseases-mongering (la mercificazione delle malattie, un'operazione di marketing che crea malattie in vista della commercializzazione di un farmaco: una delle patologie create ad arte sarebbe la fobia sociale, la diffusa timidezza, che si vorrebbe curare con gli antidepressivi) e che metta a disposizione dei malati cure veramente utili e risparmi loro quelle inutili.  E cita alcuni esempi di possibili eccessi di diagnosi e di trattamenti. Uno verte sullo screening per il tumore al seno. Uno studio, pubblicato nell'ottobre scorso su Lancet, indica che una donna ogni cinque cui viene diagnosticato grazie alla mammografia un tumore al seno presenta una malattia che non evolve e che non porta alla tomba. Ma questa donna viene trattata con la chirurgia e con i farmaci.  Non solo: il Dsm V, il nuovo manuale dei disturbi mentali che sta per essere completato, amplia troppo, secondo alcuni, la definizione di malattia mentale, considerando disturbi mentali anche i sintomi fisici di patologie come il tumore o le cardiopatie (la nuova definizione sarebbe: disordine da sintomi somatici). E ancora: si sta assistendo a un boom di diagnosi non solo di tumore alla prostata, ma anche di cancro alla tiroide, di malattie croniche del rene, di deficit dell'attenzione e di sindrome da iperreattività nei bambini. Tutte condizioni che poi vengono trattate con le medicine. «Ma il grande problema dell'ipermedicalizzazione — commenta Pier Mannuccio Mannucci, direttore scientifico del Policlinico di Milano — riguarda oggi soprattutto gli anziani. Spesso queste persone sono affette da più patologie per ognuna delle quali assumono farmaci. Ma queste medicine, che di solito sono state sperimentate su altre categorie di pazienti e per singole malattie, quando sono somministrate contemporaneamente agli anziani, possono creare problemi di interazione che a tutt'oggi non sono ancora stati ben studiati». _____________________________________________________ Corriere della Sera 17 mar. ’13 QUANTO RISPETTO C'È PER LA PERSONA MALATA Luoghi dove non ci si cura solo della malattia, ma c'è attenzione alla persona e rispetto della sua dignità. Questi gli ospedali che tutti vorremmo quando ci ammaliamo e siamo in condizioni psicologiche fragili, lontano da casa e dagli affetti. Per migliorare la qualità dell'assistenza, Agenas-Agenzia nazionale per i servizi sanitari, in collaborazione con l'Agenzia di valutazione civica di Cittadinanzattiva e le Regioni, ha individuato per la prima volta un "sistema di valutazione del livello di umanizzazione delle cure" e l'ha poi testato in 54 ospedali di tutta Italia.  In base a studi nazionali e internazionali gli esperti hanno identificato, insieme ai cittadini, 140 indicatori per quattro aree. «Per la prima, che riguarda i "processi assistenziali e organizzativi orientati al rispetto e alla specificità della persona", abbiamo focalizzato l'attenzione sulle fragilità dei degenti e sui servizi che alleviano i loro disagi — spiega Angelo Tanese, direttore dell'Agenzia di valutazione civica di Cittadinanzattiva —. Il malato ricoverato va trattato come persona che ha diritto alla privacy e al rispetto di esigenze specifiche, come quelle linguistiche o religiose». Secondo il test in 54 ospedali, pudore e riservatezza sono ancora poco rispettati; inoltre, nella maggior parte delle strutture il modulo del consenso informato è scritto solo in italiano.  Tra gli indicatori per rilevare "accessibilità fisica, vivibilità e comfort " il sistema di valutazione considera sia aspetti "alberghieri", come orari dei pasti o presenza di aria condizionata, sia aspetti strutturali, come le barriere architettoniche. «Se in tutti gli ospedali visitati è presente almeno un percorso accessibile per chi ha una disabilità motoria, la situazione è critica per i non vedenti — dice Francesco Di Stanislao dell'Università Politecnica delle Marche, esperto di Agenas — . I reparti pediatrici valutati, invece, sono tutti "a misura di bambino"». Rispetto all'area "accesso a informazioni, semplificazione e trasparenza", l'indagine condotta con il nuovo sistema ha rilevato modalità di prenotazione complicate e carenze anche per la consultazione digitale di referti e cartelle cliniche. Esaminata, infine, la relazione tra paziente e personale sanitario. «Per valutarla — riferisce Tanese — abbiamo usato indicatori come la formazione dei medici (ancora carente) e la presenza (scarsissima) di servizi di accoglienza». «I dati raccolti da cittadini e operatori sanitari sono stati "certificati" dalle direzioni sanitarie: un modo per confrontarsi sugli aspetti più critici e migliorarli — sottolinea Di Stanislao —. Per ora abbiamo sperimentato il sistema su un campione, ma lo estenderemo a tutti gli ospedali italiani». Maria Giovanna Faiella _____________________________________________________ Corriere della Sera 17 mar. ’13 PROGRESSI IN CARDIOCHIRURGIA GRAZIE A UNA PAZIENTE «XXL» Due donne, ricoverate entrambe nel Dipartimento Cardiotoracovascolare De Gasperis dell'ospedale Niguarda di Milano durante le vacanze di Natale del 2010. Non si conoscevano, non potevano essere più diverse fra loro ma hanno condiviso un destino, essere le prime pazienti al mondo su cui sia mai stato provato un innovativo metodo per introdurre un catetere nel circolo sanguigno per sostituire la valvola aortica.  In entrambe questa valvola, che si trova fra ventricolo sinistro e aorta e si apre per far passare il sangue dal cuore al sistema circolatorio, era danneggiata, "indurita" al punto di essere inservibile. Era necessario sostituirla, magari con un intervento mininvasivo come l'impianto della valvola aortica per via transcatetere o TAVI: i medici inseriscono un catetere nell'arteria femorale o nella succlavia, arrivano fino alla valvola e operano "dall'interno", senza aprire il torace. Una tecnica oggi abbastanza diffusa (si veda box), che consente di operare anche pazienti troppo a rischio per sottoporsi a un intervento a cuore aperto. Ma che non era praticabile per le due donne ricoverate al Niguarda. «Una era esile e arrivava a malapena a un metro e cinquanta di altezza: per entrare con un catetere abbiamo bisogno di arterie femorali o succlavie di almeno 6-7 millimetri di diametro e in lei erano più piccole — racconta Silvio Klugmann, direttore della Cardiologia 1 - Emodinamica al Niguarda —. Con l'altra avevamo il problema opposto: pesava 150 chili per un metro e sessanta di altezza e la Tac aveva dimostrato che la sua arteria femorale era "irraggiungibile", sepolta sotto un pannicolo di grasso. Eppure la Tavi pareva l'unica strada, perché l'obesità rendeva ad alto rischio un intervento chirurgico».  Che cosa fare? I medici, consultandosi con Luigi Martinelli, direttore del reparto di Cardiochirurgia, hanno deciso di provare una via d'accesso mai tentata prima, impiantando la protesi direttamente nell'aorta attraverso un taglio di pochi centimetri sul torace destro. «Il punto prescelto e la tecnica sono ben noti ai cardiochirurghi, che li usano per inserire le cannule della circolazione extracorporea: abbiamo deciso di tentare perché ci siamo fidati dell'esperienza maturata in altri frangenti chirurgici e con la Tavi stessa» dice Klugmann. Così, intorno a Natale venne operata la signora piccolina e a distanza di una settimana, a cavallo di Capodanno, la paziente obesa. Interventi perfettamente riusciti, che hanno dato l'avvio a un metodo che ora viene usato sempre più spesso: si stanno ad esempio raccogliendo i dati ottenuti su pazienti operati in Germania e Regno Unito, ma capofila delle sperimentazioni resta il Dipartimento De Gasperis dove la tecnica è stata ideata e applicata per la prima volta.  «Qui abbiamo già eseguito l'intervento per via transaortica in circa 40 pazienti — riferisce Klugmann —. Il metodo può essere consigliabile per chi ha vasi più piccoli di 6 millimetri, arteropatie ostruttive e aneurismi dell'aorta addominale che rendono impraticabili per il catetere i vasi più distanti dal cuore, per i soggetti con scoliosi grave.  Dopo l'intervento basta un drenaggio di un paio di giorni: il recupero perciò si ha in tempi brevi come con la Tavi standard, inoltre il dolore postoperatorio è inferiore rispetto ad altre tecniche di ingresso. Si entra infatti incidendo la muscolatura intercostale che si trova nella parte alta della gabbia toracica ed è meno coinvolta nella respirazione: questo significa che, poi, allargare il torace per respirare non provocherà grossi fastidi». Entrando direttamente nell'aorta, inoltre, c'è il vantaggio di essere molto vicini al punto dove si deve inserire la protesi, per cui si riescono a controllare meglio le fasi dell'intervento e si sistema con più facilità la valvola nella posizione precisa.  T anto che una tecnica molto simile è stata usata per un'altra "prima" mondiale: l'impianto di una nuova valvola mitralica in una protesi biologica già sostituita chirurgicamente: «È successo nel 2012 con una paziente anziana a cui era già stata cambiata la valvola mitrale (si trova fra atrio e ventricolo sinistro, ndr) con una biologica, in tessuto animale — racconta Klugmann —. La valvola impiantata era diventata rigida, ma qualsiasi tipo di intervento era ad alto rischio e non sapevamo come raggiungere la mitrale senza mettere in pericolo la signora. Allora, sempre attraverso una piccola incisione sulla destra del torace, abbiamo raggiunto direttamente l'atrio e siamo riusciti a inserire una nuova valvola biologica dentro la prima degenerata. Anche in questo caso l'approccio innovativo è nato dalla discussione fra medici, mettendo a confronto i pareri del cardiochirurgo e dell'emodinamista: ogni paziente è un caso a sé, per cui occorre confrontarsi e di volta in volta decidere per la scelta di intervento più adatta».  _____________________________________________________ Corriere della Sera 17 mar. ’13 IL CHECK-UP PUÒ SERVIRE MA DEVE ESSERE TAGLIATO «SU MISURA» I pacchetti di esami uguali per tutti non sono incisivi Invece è efficace la prevenzione centrata sul singolo A llettanti coupon per check-up completi, favolose esperienze e sconti pazzeschi: si risparmia fino all'80 per cento. Così dichiara la pubblicità di Groupon, il sito che offre servizi scontati ai consumatori iscritti: un check-up medico completo, con analisi del sangue, controllo metabolico e ormonale, viene a costare 39 euro invece di 140. Da quando una delle più prestigiose istituzioni mediche americane, la Mayo Clinic di Rochester, Minnesota, ne ha inventato il format negli anni Settanta, il check-up, inteso come una serie di esami per valutare lo stato di salute di una persona e scoprire malattie nascoste o fattori di rischio, ha avuto una grandissima fortuna fino ad approdare, oggi, sul web. Ma il check-up generale, da eseguire una volta ogni tanto (certi sistemi sanitari, come quello francese, lo offrono ogni anno gratuitamente; in Usa e Canada rappresenta la seconda causa di consultazione medica), non serve gran che.  I sospetti circolano da tempo negli ambienti medici e hanno trovato l'ultima conferma nella revisione di una serie di studi, pubblicata sul British Medical Journal dalla Cochrane Collaboration, un'organizzazione indipendente nata con lo scopo di raccogliere, valutare criticamente e diffondere le informazioni relative all'efficacia degli interventi sanitari. I ricercatori del Nordic Cochrane Center di Copenaghen hanno preso in esame 18 ricerche, che hanno coinvolto oltre 182 mila persone, analizzandone, in particolare, nove in cui hanno contato 11.940 decessi, senza però notare differenze fra il numero di morti che si erano verificate nel gruppo di chi si era sottoposto a controlli periodici rispetto a chi, invece, non lo avevano fatto. Risultato: il check-up è inutile, anzi può essere controproducente. «Lo studio è molto attendibile e accurato — commenta Gino Roberto Corazza, presidente della Società italiana di clinica medica e clinico medico all'Università di Pavia — e dimostra che il check-up di routine non riduce la mortalità generale, quella cardiovascolare e quella per tumore. Non solo, non riduce nemmeno la morbilità (cioè la comparsa di malattie nel gruppo che si sottopone ai test) e le ospedalizzazioni». Allo studio si può credere, anche perché i pazienti sono stati tenuti sotto controllo per un periodo lungo, di circa 22 anni, sufficiente a valutare bene la mortalità. «Difetti della ricerca? Apparentemente no — continua Corazza —. Ma occorre ricordare che, in genere, chi si sottopone a questi controlli appartiene a una popolazione adulta e non anziana (gli anziani sono più a rischio di malattia e di solito seguono altri percorsi medici, ndr); non è quindi rappresentativa della popolazione generale». Il check-up, dunque, non è uno strumento che serve a mantenersi in salute e ha altri handicap, primo fra tutti quello dei costi.  «Questo tipo di controllo non è mirato sulla singola persona e non tiene conto di sesso e di età, da cui dipendono, invece, molte patologie — precisa Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale (Simg) —. E sparare nel mucchio costa, ma non solo. Probabilmente in qualche caso il check-up suggerisce supplementi di esami che a loro volta fanno lievitare la spesa».  Il check-up, perciò, è proprio il contrario della medicina dei nostri giorni che è quella «centrata» sul paziente (e non sulla malattia) e può comportare effetti collaterali come eventuali rischi connessi a procedure invasive, ansie legate non solo a falsi risultati positivi (che segnalano, cioè, un problema che in realtà non c'è e possono comportare altri test e altri costi), ma anche a finte rassicurazioni dovute a falsi risultati negativi (in altre parole: i test non rilevano la presenza di un problema perché sono poco specifici oppure il problema, che al momento non c'è, può insorgere in tempi successivi, anche ravvicinati, ed è per questo che il check-up non rappresenta mai un salvacondotto per i mesi a venire). Nonostante questo, però, l'offerta di pacchetti di esami continua con l'aiuto del web. L'anno scorso uno studio danese ha individuato 56 siti che offrivano questo tipo di prestazioni, rilevando che dei 36 diversi test proposti, almeno l'80 per cento risultava inaffidabile. E c'è un'azienda americana, produttrice di Tac spirali (si tratta di apparecchiature capaci di fotografare nei minimi dettagli l'intero corpo umano e di rilevarne anche piccole alterazioni) che qualche tempo fa propagandava l'esame come Christmas Gift, un regalo di Natale da fare agli amici e ai propri cari, come segno di grande attenzione alla loro salute.  Le conclusioni della Cochrane Collaboration sul check-up non mettono però al bando la possibilità per un medico di prescrivere esami specifici per valutare lo stato salute di un suo paziente e invitano le persone a percorrere altre strade per mantenersi in salute e allontanare le malattie. Nel primo caso, l'interlocutore ideale è il medico di famiglia: tutti prima o poi ci finiscono, magari per un'influenza, ed è allora che il medico a seconda del sesso e dell'età del suo assistito, dei suoi precedenti familiari di malattia e di fattori di rischio specifici, potrà prescrivere esami mirati a valutare il suo stato di salute. «Ogni esame deve essere prescritto dopo un ragionamento clinico che presuppone un'anamnesi (cioè la raccolta della storia clinica del paziente, ndr) e una visita — commenta Corazza. — Altri esami, come la misurazione della pressione arteriosa, invece, sono d'obbligo, sempre». Il percorso da seguire per mantenersi sani si chiama, invece, prevenzione primaria: in generale comprende tutti quei comportamenti che hanno, come obiettivo, quello di impedire la comparsa della malattia. E per quanto riguarda le patologie più diffuse, come quelle cardiovascolari, i tumori, il diabete di tipo 2, certe malattie polmonari, l'obesità, i comportamenti preventivi si conoscono bene: dieta sana ed equilibrata, attività fisica, abolizione del fumo. Il vero problema sta nell'insegnarli e nel metterli in pratica. «Purtroppo da noi la medicina territoriale, — commenta Corazza — che dovrebbe promuovere l'educazione sanitaria e la prevenzione, non funziona. Il territorio è un fallimento». La prevenzione primaria, comunque, non sono gli screening, cioè quelle indagini a tappeto, studiate per particolari categorie di persone, che hanno l'obiettivo di individuare certe malattie al loro esordio e di curarle prima che provochino danni peggiori: in questo caso si deve parlare di diagnosi precoce. Stiamo parlando della mammografia per il tumore al seno, del Psa (l'antigene prostatico specifico nel sangue) per il tumore alla prostata e della ricerca del sangue occulto nelle feci (o della colonscopia) per il tumore al colon. Anche questi screening sono oggi oggetto di dibattito perché, secondo alcuni studi, porterebbero a un eccesso di diagnosi e di trattamenti per forme tumorali che lasciate a sé non avrebbero dato problemi. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 12 mar. ’13 LE COLONSCOPIE SENZA DOLORE CHE STUPISCONO ANCHE IL GIAPPONE  PISA. Dal nostro inviato Da spin off della Scuola Sant'Anna a startup con un prodotto di grande interesse clinico, sul fronte della prevenzione sanitaria, ancora in fase di definitiva affermazione come impresa. La società, Era Endoscopy srl, con quartier generale nell'incubatore del polo tecnologico di Peccioli, in provincia di Pisa, è nata nel 2004 su iniziativa di tre ricercatori del Sant'Anna: Samuele Gorini, ingegnere meccanico; Giuseppe Pernorio, ingegnere biomedico; e Alberto Arena, ingegnere elettrico. Il concetto intorno a cui ruota l'attività è riassumibile nello slogan: robotica e monouso.  Tutto origina da un brevetto che consente di effettuare colonscopie senza dolore e senza rischi per il paziente, grazie a un piccolo robot, una sorta di bruco comandato da un normale joystick, che si muove all'interno del corpo umano utilizzando un software proprietario. Il sistema, detto "endotics" è già impiegato nelle strutture ospedaliere di Pisa, Napoli, Cagliari, Ferrara, Torino e presto anche di Modena e Matera. «Ci siamo specializzati sulla diagnosi del tumore del colon retto perchè è una delle principali cause di morte nel mondo e solo in Italia provoca oltre 35mila nuovi casi all'anno, circa dieci volte le vittime della strada», spiega Giuliano Gorini, amministratore delegato di Era Endoscopy e fratello di uno dei fondatori. «Il nostro prodotto consente di fare una colonscopia indolore - aggiunge - senza ricorrere a sedazione o anestesia, più sicura e più facile perchè richiede un solo operatore che manovra come dalla consolle di un videogioco». I clienti della piccola azienda pisana sono strutture sia pubbliche che private. Ma lo sviluppo del business, che potrebbe avere presto un impulso internazionale, è lento per motivi di costo e i tempi di certificazione. «Stiamo ottenendo la certificazione per operare sul mercato asiatico che sembra più interessante - dice Gorini -. La nostra tecnologia è monouso e costa 600 euro: risulta molto più affidabile e, come detto, assolutamente non dolorosa, ma certamente più dispensiosa di una visita con la strumentazione tradizionale». Gorini, che si è inserito nell'azienda dopo un'esperienza manageriale a Milano, pronostica il salto dimensionale per i prossimi anni: «Siamo ancora una startup, ma nel settore biomedicale la velocità di crescita all'inizio è quasi sempre bassa - racconta -. Il potenziale di cui disponiamo, però, è enorme: per questo, oltre che al mercato nazionale, guardiamo con grande interesse all'estero, a cominciare dal Giappone».  E proprio una multinazionale nipponica, secondo indiscrezioni raccolte dal Sole 24 Ore (e non confermate), avrebbe già opzionato una partecipazione dentro Era Endoscopy. «È prematuro - conclude Gorini - ma pensiamo di raccogliere nei prossimi anni i frutti del lavoro fatto». Il 2015 è la data a cui guardano. C.Per. _____________________________________________________ Le Scienze 15 mar. ’13 VEDERE O ASCOLTARE, PER IL CERVELLO FA POCA DIFFERENZA Gli schemi di attivazione dei neuroni che consentono di produrre una rappresentazione mentale di un’azione compiuta da altre persone sono gli stessi in soggetti ciechi e vedenti. Lo afferma una ricerca tutta italiana che ha usato la risonanza magnetica funzionale per monitorare l’attivazione cerebrale di alcuni volontari che guardavano dei video o ne ascoltavano solo  l’audio (red) In che modo un non vedente dalla nascita si rappresenta mentalmente un’azione compiuta da un’altra persona? Il quesito, stando ai risultati pubblicati sulla rivista PLoS ONE da Emiliano Ricciardi, Pietro Pietrini e colleghi del Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica dell’Università di Pisa, ha una risposta sorprendente: nello stesso modo in cui se la rappresenta un soggetto con una visione normale. La rappresentazione mentale delle azioni si basa su un’organizzazione funzionale distribuita, che coinvolge cioè aree cerebrali diverse e con funzioni specifiche settoriali. In quest’ultimo studio, l’obiettivo era chiarire in che misura questa rappresentazione distribuita e più astratta dell’azione coinvolgesse effettivamente una codifica comune a diverse modalità sensoriali.  A due gruppi di volontari, costituiti da soggetti con cecità congenita e da soggetti con visus normale, sono stati presentati scene con semplici azioni svolte da altre persone (come battere un chiodo con un martello o bussare alla porta) o scene naturali (come il cadere della pioggia). Bussare alla porta: un'azione semplice che viene rappresentata mentalmente nello stesso modo sia quando la scena viene vista e ascoltata sia quando se ne colgono solamente i suoni (© Bloomimage/Corbis)Durante il test, l’attività delle diverse aree cerebrali dei volontari veniva monitorata mediante una tecnica diimaging in risonanza magnetica funzionale (fMRI). I dati così ottenuti sono stati analizzati e classificati mediante tecniche automatiche di riconoscimento di pattern, che hanno consentito di distingueri gli schemi di neuroni attivati dai video di azione da quelli dei video con scene naturali, indipendentemente dal fatto che fosse coinvolto solo il senso dell'udito (nel caso dei non vedenti) o anche quello della vista (nel caso dei soggetti normali). "Lo studio dimostra che la rappresentazione del mondo esterno nel nostro cervello si basa su un codice neurale astratto, che non dipende da una singola modalità sensoriale e che anzi si sviluppa identico anche in chi nasce privo della vista”, ha sottolineato Pietrini. "In altre parole, i non vedenti codificano ed elaborano la percezione uditiva di un’azione come se l’avessero veduta".  "Con queste nuove metodologie di analisi dell'attività neurale in vivo”, ha concluso il ricercatore, "stiamo iniziando letteralmente a 'leggere' nella mente delle persone. La speranza - ormai non più solo fantasia - è che con la ‘lettura del pensiero’ si possa arrivare a mettere a punto sofisticate interfacce cervello-computer che permettano alle persone con gravi disabilità di comandare dispositivi con la forza della mente". _____________________________________________________ Le Scienze 13 mar. ’13 EUROPA, SALUTE E BENESSERE A DUE VELOCITÀ La salute e le condizioni socioeconomiche della popolazione sono in progressivo miglioramento, ma esistono ancora forti disparità tra le diverse nazioni. È quanto risulta dal nuovo Rapporto della Regione Europea dell’OMS, che comprende oltre all’Unione Europea, tutta l’area ex sovietica, Turchia e Israele. Tra i fattori di rischio rilevanti vi sono il forte consumo di alcool e il fumo, ma preoccupano anche la povertà e la crescente disoccupazione (red) In Europa il livello di salute della popolazione sta complessivamente migliorando, ma persistono ancora notevoli disuguaglianze tra le diverse nazioni. È questo uno dei dati salienti che emerge dal Rapporto dell’Ufficio regionale europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), che viene pubblicato ogni tre anni. L’OMS è suddiviso in sei strutture organizzative regionali, e l’Ufficio europeo comprende, oltre all’Unione Europea, tutta l’area dell’ex Unione Sovietica, la Turchia e Israele. Si tratta complessivamente di 53 nazioni per complessivi 900 milioni di abitanti.  Uno dei fattori principali per valutare lo stato di salute della popolazione è la speranza di vita. Secondo il rapporto, questo parametro sta aumentando costantemente: dal 1980 al 2010, in tutta la regione si è registrato un incremento di cinque anni, con una speranza di vita media di 76 anni (80 per le donne e 72,5 per gli uomini). Il miglioramento è dovuto sia alla diminuzione della mortalità complessiva, sia al miglioramento delle condizioni socioeconomiche e alla concomitante riduzione dei fattori di rischio.  Mappa in falsi colori della mortalità in Europa per tutte le cause: si passa da poco più di 500 decessi ogni 100.000 abitanti (zone più chiare) a oltre 1200 (zone più scure) (cortesia OMS)I dati disaggregati mostrano un primato della Spagna per le donne (quasi 85 anni), che supera di stretta misura Francia, Italia e Svizzera, e di Israele per gli uomini (quasi 80 anni). Ma mentre nel caso delle donne il valore medio diminuisce con sorprendente regolarità procedendo da ovest a est, arrivando a poco più di 73 anni in Ucraina e Kyrgyzstan, per gli uomini la mappa è molto più a macchia di leopardo, anche se in fondo alla classifica c'è ancora l'Ucraina con circa 63 anni. Per quanto riguarda la mortalità, l’80 per cento dei decessi è dovuto a malattie non trasmissibili, che comprendono patologie cardiovascolari e polmonari e tumori maligni. Le patologie cardiovascolari (infarto del miocardio, ictus etc.) rappresentano ancora la prima causa di morte (50 per cento dei decessi), nonostante gli enormi progressi fatti negli ultimi anni soprattutto nel campo della cardiologia interventistica ed emodinamica, in cui le tecniche di angioplastica hanno dimiuito fortemente l'impatto degli eventi coronarici acuti. La variabilità dei dati registrati è però molto ampia: se nell'Unione Europea occidentale la mortalità per un attacco ischemico improvviso prima dei 64 anni è di poco inferiore a 9 decessi ogni 100.000 abitanti, in Russia lo stesso parametro sfiora 105. Il cancro è la seconda causa di morte, con il 20 per cento dei decessi, ma la sua incidenza è destinata ad aumentare con l’invecchiamento progressivo della popolazione. Il restante 10 per cento si deve a patologie polmonari come la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). I dati riguardanti la mortalità per fasce di età mostrano che il 70 per cento dei decessi avviene dopo i 65 anni. In Europa, le malattie infettive hanno un’incidenza decisamente inferiore al resto del mondo, e i casi di contagio sono sotto controllo. Quelli di tubercolosi, per esempio, sono diminuiti del 30 per cento dal 1990 al 2010. Tra i maggiori fattori di rischio per la salute vi sono il fumo e il consumo di alcool. Si stima che il tabagismo sia diffuso in più di un quarto della popolazione al di sotto dei 15 anni, quindi con una prospettiva di mantenimento della dipendenza dalla nicotina anche in età adulta e con forti ripercussioni sullo stato di salute. In questo campo, l’impegno dell’OMS ha prodotto nel 2005 il Programma quadro per il controllo sul tabacco (FCTC), che fornisce un insieme di principi di riferimento per aiutare i governi nazionali a contrastare l’epidemia di tabagismo e i suoi effetti sulla salute, per esempio varando normative stringenti sul commercio e la pubblicità delle sigarette, oltre a reprimerne la vendita illegale.  Anche l’alcool rappresenta un’emergenza: si stima che esso sia responsabile del 6,5 per cento di tutte le morti. L'Europa ha infatti il primato mondiale di consumo medio pro capite annuo di alcolici – 10,6 litri - senza apprezzabili variazioni rispetto al passato. Anche in questo caso, si evidenziano forti differenze: si passa dai 22 litri pro capite della Moldavia agli 0,2 litri del Tajikistan (l’Italia è al di sotto della media, con circa 9 litri pro capite). _____________________________________________________ Corriere della Sera 16 mar. ’13 QUEI «SUPERVIRUS» CHE CI MINACCIANO PIÙ DEL TERRORISMO L'allarme inglese: «Se ne occupi il G8» DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA – C'è «una bomba ad orologeria che minaccia gli inglesi». Tutti quanti, senza distinzione di età, di sesso, di etnia. Allarme rosso: l'inefficacia degli antibiotici, o per meglio dire la «resistenza» che i batteri hanno sviluppato ai trattamenti medico-farmaceutici, è un pericolo pari a «quello del terrorismo» e, in quanto tale, deve essere inserito nella lista dei grandi rischi per i sudditi di Sua Maestà.  Se non fosse che a mettere sull'avviso Downing Street è la professoressa Dame Sally Davies, verrebbe quasi da dubitare di una sparata del genere. Improvvisa e inaspettata. Ma Dame Sally Davies non è di certo persona che quando parla può passare inosservata. Oltre a un carriera accademica di prestigio e oltre alla direzione generale della ricerca presso il ministero della Sanità, questa specialista in malattie del sangue è da qualche tempo Chief Medical Officer, ovvero la prima autorità della scienza medica in Inghilterra e affianca il governo nella determinazione delle politiche sulla salute dei cittadini. La Bbc la classifica fra le sei donne più importanti del Regno Unito. Dunque, se Dame Sally Davies sostiene che i batteri hanno la forza di sconfiggere i loro «nemici» e che se non si «passa all'azione immediatamente» la prospettiva assai ben poco incoraggiante è quella «di tornare indietro di due secoli», con milioni di individui uccisi dalle infezioni, occorre prendere molto sul serio la denuncia che fa nel rapporto annuale.  Di sicuro non si tratta di un'uscita estemporanea. Se il Chief Medical Officer dell'Inghilterra invita Downing Street a «inserire la resistenza agli antibiotici» nell'agenda del G8, programmato a Londra per aprile, è perché i dati accumulati nei laboratori indicano un trend per niente allegro. Negli ospedali la casistica dei pazienti ormai insensibili agli antibatterici è diventata troppo consistente per passarci sopra. La minaccia va classificata «al pari del terrorismo». Il guaio è che «non abbiamo nuove tipologie di antibiotici da almeno una trentina d'anni, dall'inizio degli anni Ottanta, e le grandi company non hanno in cantiere ricerche e prodotti utili al caso». L'atto d'accusa di Dame Sally Davies è chiaro: «Non sono farmaci che regalano profitti per cui le multinazionali sono ferme». La ricerca si indirizza verso quei prodotti per i quali si prospetta, come nel trattamento «dell'alta pressione e del diabete, un utilizzo prolungato nel tempo». Laddove, invece, il medicinale è una «trincea» di breve durata, la ricerca è congelata. Si assume un antibiotico per pochi giorni per cui le aziende lo ritengono di scarsa «profittabilità». Il risultato è che, andando avanti di questo passo, fra 20 anni «non saremo più in grado di curare le infezioni, non saremo più in grado di curare alcuni tumori e di eseguire alcuni trapianti».  Il mercato non rende, le società non investono. Un cortocircuito. Un fallimento da avidità di utili. Ecco, allora, l'urgenza che sia Londra a portare subito la questione al vertice degli otto «grandi», il G8, e davanti alle istituzioni europee in modo che si finanzino quegli organismi e quelle istituzioni il cui scopo «è promuovere lo sviluppo delle medicine». Per il Chief Medical Officer non c'è alternativa: se si mobilitano tante risorse contro il terrorismo, è necessario mobilitarne altrettante per la salute e per la cura delle infezioni. «Altrimenti ci ritroveremo nell'Ottocento».  Fabio Cavalera _____________________________________________________ Sanità News 12 mar. ’13 CON I RADIOFARMACI DIAGNOSI PRECOCE PER PARKINSON E ALZHEIMER Nuovi radiofarmaci saranno capaci di agire rilasciando una elevata dose di radiazioni, localizzando con precisione i tumori e, al tempo stesso, di fare una diagnosi precoce di malattie neurologiche come Parkinson e Alzheimer. Se ne e' parlato all'XI Congresso Nazionale dell'Associazione Italiana di Medicina Nucleare e Imaging Molecolare a Torino. I radiofarmaci sono molecole che contengono un isotopo radioattivo. Quelli usati per esami come la pet si legano a specifici bersagli nel corpo e l'isotopo fa da tracciante, marcando l'attivita' biologica dei bersagli. Al 'capostipite' di questi farmaci, il fluorodesossiglucosio (fdg), usato per le diagnosi dei tumori, stanno seguendo altre molecole, che riguarderanno anche ambiti non-oncologici. ''In fase di sperimentazione avanzata o prossimi all'approvazione – spiega Sergio Baldari, presidente del congresso – ci sono la F-colina per il cancro della prostata, la C-metionina per i tumori cerebrali, il fluoromidazolo per studiare un particolare fenomeno che si associa ai tumori resistenti alle comuni terapie, l'ipossia. Tutti questi radiofarmaci consentiranno di capire esattamente dov'e' il tumore e come si sta comportando, permettendo terapie veramente personalizzate''. Altri radiofarmaci pet sono utilizzati in campo non-oncologico. ''Lo stesso principio si puo' usare per altre patologie – continua Baldari –. Ad esempio la 18F-DOPA puo' individuare i primi segni del Parkinson, mentre il florbetapir permette di identificare le placche amiloidee, tipiche dell'Alzheimer. Infine, il flurpiridaz puo' essere usato per lo studio della cardiopatia ischemica associata alla coronaropatia aterosclerotica''. Accanto alle applicazioni diagnostiche, sempre piu' numerosi sono i radiofarmaci terapeutici, che oltre a scovare le singole cellule tumorali, le distruggono con la dose di radiazioni giusta, per non intaccare i tessuti sani. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 15 mar. ’13 GLI ITALIANI OVER 50 ACCELERANO SULLE CURE ANTI-AGE  Marika Gervasio La cura della bellezza non conosce crisi. Nonostante la contrazione del Pil gli italiani continuano a curare la propria immagine soprattutto attraverso il ricorso alla medicina estetica. In Italia le priorità sono: trattamenti anti-invecchiamento, come rivitalizzazione, filler (+24%), tossina botulinica (+15,6) e laser, che nei pazienti ultra cinquantenni arrivano fino al 38% delle richieste, seguiti da quelli per combattere sovrappeso, obesità e cellulite. È questa la fotografia scattata dagli esperti riuniti al Cosmoprof, che si è tenuto a Bologna nei giorni scorsi. Ma non si tratta di una tendenza solo italiana. La statunitense Iapam (International association for physicians in aesthetic medicine) conferma che i trattamenti non invasivi sono cresciuti esponenzialmente nonostante la crisi. Negli Stati Uniti il filler è al primo posto come trattamento più richiesto con il 28%, seguito dalla tossina botulinica (25%) e dai trattamenti anti-cellulite con il 23% di richieste.  Secondo le stime degli esperti, nel resto del mondo le tendenze non cambiano: infatti Oriente e Medio Oriente sono le nazioni che fanno un maggiore ricorso al filler, rispettivamente 38% e 35%; in Oriente tra l'altro questa pratica è richiesta addirittura dal 35% degli uomini, seguita dalle popolazioni latine del Sud America (32%) e dell'Europa mediterranea (30%). Si confermano mediamente richiesti ovunque, oltre agli Stati Uniti, i trattamenti anti-cellulite, effettuati da un pubblico esclusivamente femminile (Oriente 30%, Medio Oriente 27%, Europa mediterranea 25%, Sud America 24%). In forte ascesa anche il laser resurfacing soprattutto in Europa del Nord (20%) e America del Nord (18%).  «In Italia – commenta Alberto Massirone, membro del consiglio direttivo del Collegio italiano delle società scientifiche di medicina estetica – i trattamenti più richiesti sono sicuramente quelli anti-invecchiamento, come la rivitalizzazione, i filler, la tossina botulinica e il laser, ma anche il peeling profondo per pulire la pelle e dare una rigenerazione tissutale generale, premessa anche per un intervento chirurgico di lifting o di mini lifting». E aggiunge: «L'utilizzo, invece, del Prp (plasma arricchito di piastrine) è in espansione, anche se il caso italiano è ancora contenuto poiché la nostra legislazione impone che l'ambulatorio in cui effettuare questo tipo di trattamento abbia determinate caratteristiche e che sia collegato a una struttura ospedaliera per il trattamento del sangue e dei derivati». _____________________________________________________ L’Unione Sarda 8 mar. ’13 ALLARME MALATTIE RARE SONO OLTRE 7000 I PAZIENTI IN SARDEGNA Rappresentano un esercito silenzioso, che soffre e combatte. Sono le 7000 persone affette da una malattia rara in Sardegna, ovvero lo 0,44% della popolazione. Per loro la tragedia è duplice: sono persone malate che, per giunta, hanno l'ulteriore sfortuna di soffrire di una delle 6000 malattie classificate appunto come rare. Nella giornata mondiale dedicata a questo tipo di patologie, organizzata ieri dalla Asl8 al Microcitemico, è arrivato forte l'appello delle associazioni: «Occorre mettere al centro il malato, attraverso un dialogo comune tra operatori sanitari, amministratori e pazienti».  In Sardegna esiste una rete regionale per le malattie rare formata da un registro regionale (istituito nel 2008), un centro di riferimento regionale (il Microcitemico) e diversi registri di patologia (istituiti con una legge regionale lo scorso novembre). Nell'Isola, dove il livello di incidenza è storicamente maggiore rispetto alla media nazionale, la talassemia si conferma la malattia rara più diffusa, poi la Sla (2,4%, in media si ammalano 3 persone ogni centomila), quindi cheratocono e acalasia (2,3%). La metà delle persone viene colpita in età pediatrica e ad ammalarsi sono soprattutto le donne. Negli ultimi anni la Sardegna ha fatto passi da gigante. La convenzione stipulata con il registro del Veneto rappresenta un esempio significativo, perché «pur salvaguardando la professionalità dei medici sardi, consente di acquisire nuove e importanti informazioni sui piani diagnostici e terapeutici», ha spiegato Marcello Tidore, direttore del servizio assistenza ospedaliera dell'assessorato regionale alla sanità.  «Adesso, però, bisogna implementare la diagnosi precoce attraverso servizi di screening», ha spiegato Paola Pilia, del centro di riferimento regionale. In questa direzione si colloca il programma regionale di screening neonatale esteso delle malattie metaboliche ereditarie, curato da Franco Lilliu, specialista di disturbi del metabolismo nella seconda Clinica pediatrica. «Da luglio 2012 abbiamo monitorato 9.000 bambini e diagnosticato tre casi».Si tratta di un esame gratuito, si esegue entro le 48 ore dalla nascita e, grazie alla diagnosi precoce, evita che i bambini affetti da malattie metaboliche possano subire danni al cervello. (ma.mad.)