RASSEGNA 10/02/2013 STUDENTI IN FUGA DALL’UNIVERSITÀ UNIVERSITARI PERDUTI, UN GIALLO SENZA MISTERI CAGLIARI POCHI LAUREATI IN DISCIPLINE SCIENTIFICHE CRS4, CASSE VUOTE: RICERCA AL CAPOLINEA BOLLINO DI QUALITÀ PER I, DOTTORATI DI RICERCA SOLO 7 CERVELLI SU 100 RESTANO IN ATENEO RICERCATORI ITALIANI CERCASI STAGE, TIROCINI, RELAZIONI SOCIALI: IL LAVORO SI COSTRUISCE GIÀ ALL'UNIVERSITÀ MENO 200 MILIONI IN 5 ANNI PER LA RICERCA UNIVERSITARIA DA MILANO PAOLO FERRARIO SI CHIAMA «AVA» L'ULTIMO TASSELLO DELLA DISTRUZIONE DEGLI ATENEI AL SUD UNIVERSITÀ A RISCHIO, PAROLA DI ASSOCIATI L'EFFETTO DELLE CATTIVE RICETTE CHE DESTRA E SINISTRA HANNO SCARICATO SUGLI ATENEI UN POPOLO COSÌ IGNORANTE CHE NON SA DI ESSERLO I NEOLAUREATI, ALTRO CHE «CHOOSY» I «CERVELLI» TORNATI IN ITALIA BEFFATI DAL GOVERNO DEI PROF L'ULTIMA INVASIONE CINESE È NEL MERCATO DEI LAUREATI UN ROBOT A CACCIA DI BUGIE I BUONI E I CATTIVI DELL'EDITORIA SCIENTIFICA RICERCA EUROPEA, L'INTEGRAZIONE ANCORA NON C'È «IL NUCLEARE AIUTA LA TERRA» L'IMU? NO, TASSIAMO LE CITAZIONI FACILI PA, TANTA (INUTILE) SPESA SOPRATTUTTO IN SARDEGNA ECCO LA SOLUZIONE: LE UNIONI DI COMUNI TROPPA DISATTENZIONE AI RISCHI DI INTERNET UNA PASSWORD CI SEPPELLIRÀ?SOS PER NON MORIRE DI INTERNET ========================================================= SANITÀ. COSTITUITI GLI ORGANI D'INDIRIZZO DEGLI ATENEI ARRIVA LA RICETTA ELETTRONICA CLINICA PEDIATRICA ACCELEREREMO SUL POLICLINICO» NIENTE BROTZU QUEI FALSI MITI DEL CARO-ANZIANI GLI UOMINI DELL'ETÀ DELLA PIETRA SI PRENDEVANO CURA DEI DISABILI VACCINO, SPERANZA CONTRO IL TUMORE AL PANCREAS UN VIRUS CHE UCCIDE I TUMORI CANI A CACCIA DI TUMORI QUEL NASO ELETTRONICO MADE IN ITALY GRANDI VIE OLTRE IL VACCINO UN DECALOGO PER LA NUOVA LOTTA AL CANCRO RISCOSSA DEI CARNIVORI«È UNA SCELTA ETICA» OSPEDALI PSICHIATRICI: MALATI D'ERGASTOLO L’OMS RACCOMANDA MENO SALE E PIU’ POTASSIO DAGLI USA UNA STRADA PER CONTRASTARE LA RESISTENZA AGLI ANTIBIOTICI A VENEZIA ESAMI ANCHE NEL WEEKEND WATSON, COMPUTER IN CORSIA GLI OCCHIALI CHE AIUTANO I DALTONICI QUEI CIBI GRASSI CHE INVECCHIANO IL NOSTRO CUORE TEST SUI FARMACI ANCHE SU DONNE I NEURONI SPARLANO DI TE ========================================================= ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 feb. 13 STUDENTI IN FUGA DALL’UNIVERSITÀ In dieci anni perse 58mila immatricolazioni, crollano i finanziamenti ROMA È grande fuga dall'università italiana, svuotata di ogni sua componente: studenti, docenti, dottorati, borse di studio (quindi fondi) e perfino corsi di studio. A lanciare l'allarme è il Consiglio universitario nazionale che ieri ha diffuso un documento sullo stato di salute delle nostre facoltà. Negli ultimi dieci anni le iscrizioni sono passate da 338.482 (anno accademico 2003-2004) a 280.144 (2011-2012), con un calo di 58mila studenti (-17 per cento). Il Cun spiega che è come se in un decennio fosse scomparso un intero ateneo di grandi dimensioni, ad esempio la Statale di Milano. Questa volta non c'è la solita Italia a due velocità, perché il crollo delle immatricolazioni riguarda tutto il territorio. Il documento inoltre denuncia poi il calo del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) che per il 2013 si annuncia prossimo al 20per cento. In sostanza molte università sono «a rischio di dissesto - denuncia il Cun - e non possono programmare la didattica, figuriamoci la ricerca ». Ma a diminuire è anche il numero dei professori: -22 per cento negli ultimi sei anni e nei prossimi tre scenderanno ancora, perché i docenti non vengono assunti e perché le facoltà sono molto limitate nella possibilità di stipulare contratti di insegnamento. Fuori dall'Italia le cifre cambiano: la media Ocse è di 15,5 studenti per docente, contro i nostri 18,7. Siamo sotto la media europea anche per il numero di laureati, occupiamo il 34mo posto su 36 paesi. E solo il 19 per cento dei 30-34enni ha una laurea, contro il 30 per cento della media europea. Il 33,6 per cento degli iscritti è fuori corso e il 17,3 non fa esami. Segno negativo anche per borse di studio, corsi e dottorati. Nel 2009 i fondi nazionali per finanziare le borse di studio coprivano l'84 per cento degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75. Dal 2006 al 2012 sono scomparsi 84 corsi triennali e 28 corsi specialistici/magistrali, all'inizio per una razionalizzazione delle lezioni, poi per i tagli al personale docente. E ancora, nel confronto con la media Ue in Italia abbiamo 6mila dottorandi in meno che si iscrivono ai corsi. La riforma del dottorato di ricerca inserita dalla Gelmini non è mai partita e il 50 per cento dei laureati segue i corsi di dottorato senza borse di studio. A rischio anche il funzionamento dei laboratori: il taglio ai finanziamenti Prin (i fondi destinati alla ricerca libera di base per università e Cnr), passati dai 50 milioni l'anno ai 13 milioni per il 2012, compromette il ricambio delle attrezzature. Preoccupato per lo stato delle cose, Andrea Lenzi, presidente Cun, ha detto che proprio in questo momento di crisi bisognerebbe investire nella cultura. (a.d'a.) ___________________________________________________ Europa 07 Feb. ‘13 UNIVERSITARI PERDUTI, UN GIALLO SENZA MISTERI Crisi degli iscritti L'analisi del filosofo Giacomo Marramao: bisogna tornare alla concretezza e riprendere il dialogo tra scienza e politica, università e società FEDERICO ORLANDO Cosa sta succedendo fra quel milione e 700mila giovani iscritti (in corso, fuori corso o in semplice parcheggio) nelle università italiane? La domanda si è diffusa, ma non ha lambito il dibattito elettorale, per merito della Stampa, che l'altro venerdì titolava a tutta pagina: "Fuga dagli atenei - Persi in dieci anni 58mila studenti". Erano i dati del Cun (Consiglio universitario nazionale) che valutava al17 per cento il calo nell'ultimo decennio: «Come se l'intera statale di Milano non esistesse più». Il Corriere confermava la crisi con un intervento di Guido Fabiani, rettore di Roma Tre: la crisi c'è ed è particolarmente grave nel Lazio. Qui La Sapienza è scesa in dieci anni da 132mila a 110mila studenti. Ma tre giorni dopo il ministro dell'istruzione Francesco Profumo risolveva a modo suo il giallo: non si può parlare di fuga, perché l'anno di partenza, 2003, pativa il problema della "bolla", creata dal passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento universitario. Ma quale bolla, gli replicavano altri studiosi su Europa (vedi l'articolo di Paola Fabi pubblicato martedì 5 febbraio, "Ecco perché sbaglia"). Se c'è il problema della disaffezione agli studi? «Certo che c'è - risponde Giacomo Marramao, filosofo della politica a Roma Tre -. Insieme a Luciano Modica, che fu vice ministro all'università nel secondo governo Prodi, e ad altri colleghi, abbiamo chiesto al governo Monti un intervento urgente contro il degrado degli atenei: fisico, organizzativo, didattico, di dispersione territoriale, di non coordinamento tra scelte didattiche dei docenti e future scelte professionali degli studenti. Nessuna risposta». Salvo la proposta newdealistica di Bersani, di un piano di messa in sicurezza dell'edilizia scolastica e ospedaliera. Siamo il paese della scuola di San Giuliano di Puglia, del Policlinico Umberto I, e anche dell'accampamento di gazebo, a forma di igloo o di tunnel, montato nel recinto della Sapienza, per ospitare didattica e ricerca di Giurisprudenza, causa lavori in corso da cinque o sei anni. Bersani è stato anche l'unico (poi sono venuti Giannino e Ingroia) a rispondere con un corposo fascio di idee alle dieci domande ai candidati premier, poste da docenti e ricercatori (www.dibattitoscienza.it): provvedimenti generali per l'università e la ricerca pubblica, ricerca privata, politiche energetiche, ciclo dei rifiuti, messa in sicurezza del territorio dai rischi sismico e idrogeologico, Agenda digitale e proposte per la diffusione della banda larga, legge 40 sulla procreazione assistita, iniziative nella scuola contro l'analfabetismo scientifico e tecnologico, ricerca biomedica e uso degli animali. Anche alcuni candidati come Marino, Ichino, Ilaria Capua hanno risposto alle questioni formulate dal Gruppo 2003 (www. scienzainrete.it). Insomma, mentre i buoi fuggono dalle stalle, si comincia a capire che bisogna riprendere il dialogo tra scienza e politica, università e società. Tornare alla concretezza dei problemi, ma anche alle culture concrete. Il gagliardo Franco Ferrarotti, di cui si festeggiano in questi giorni i primi 90 anni, denuncia la nuova sociologia come «la scienza allegra dove tutti dicono la loro». (Come Bauman, sottinteso, che pretende di creare la società sull'acqua). Il battibec-co ad Agorà fra Nunzia di Girolamo (Pdl) e la capolista pd in Veneto Laura Puppato, «se il Veneto sia o no ancora terra di contadini», ha provocato inattese rivelazioni, come quella di un indignato Ferdinando Camon, che si dichiara da sempre orgogliosamente contadino. Può forse nascere, e non solo in certe aziende del Nord, il tanto atteso agricoltore col camice bianco? Una facoltà di agraria, c'informa Marramao, che l'anno scorso aveva 200 iscritti, quest'anno ne ha 800. Segno che, sotto la sferza della realtà, le situazioni deformate da abbandoni, baronie, crisi finanziaria, tendono ad autocorreggersi. A Genova il rettore Giacomo De Ferrari, tagliando spese fino a ieri tabù, racimola 300mila euro da destinare in tre anni a "piccoli stipendi" per aiutare borsisti, ricercatori, studenti in flessione di risultati per sfiducia. Vien da piangere pensando che proprio oggi un decreto del governo taglierà l'importo delle borse di studio, specie nel Sud: dove ieri è stata occupata l'università di Cagliari, la prima a scendere in lotta. «La sfiducia e l'incertezza che si manifestano nel corso di laurea, dipendono pure - nell'analisi di Marramao - dalla perdita di ruolo e di definizione sociale di molti mestieri. La telematica ha aperto immensi campi nuovi, ma non producono adeguata occupazione, perché digitare di continuo senza acquisire un sistema di nozioni, cioè una cultura, serve a poco. Per servire, occorrerebbe incentivare la creatività, di cui i ragazzi hanno perso le tracce per strada, scuole medie, licei, università. Senza creatività, i nostri laureati applicheranno software creati da altri. La crisi dei brevetti si sa. I giovani percepiscono che spesso diamo loro una speranza che non crea futuro. Eppure chimica, fisica, biologia, medicina, genetica esprimono ancora personalità e maestri di livello internazionale: i protocolli di cura di Veronesi sono applicati in tutto il mondo, Usa compresi. Ma debbono autopromuoversi: le istituzioni, dalle scuole agli istituti di cultura all'estero, stanno ferme. Nella campagna elettorale non c'è un "progetto Italia", ove si eccettui quello ricordato di Ber - sani. Ma non ho visto adeguato riscontro sulla stampa questi sforzi di ridarci un progetto. Così non è un "giallo" il calo degli studenti, fuggono perché l'università declina insieme alla società. E non si raddrizzerà fino a quando, come insegnano Francia e Germania in tempo di default, non faremo poderosi investimenti nella ricerca per far ripartire la crescita. Dalla ricerca elementare a quella più sofisticata. Al Dams, l'ottima creazione di Squarzina e Micciché, chi si laurea sa che teatro, cinema, danza si fanno mettendo insieme autori, scenografi, sceneggiatori, montaggio, regia, doppiaggio, colonna musicale, luce, costumi, eccetera. Così si acquisisce la flessibilità per potersi convertire in qualsiasi impegno professionale, con la rapidità richiesta. Vale per i computer, come per l'economia e la matematica. Gli strumenti econometrici acquisiti vent'anni fa - ne converrà anche Monti - non servono più, per fare il salto nel nuovo occorre che umanesimo scienza e politica suonino insieme». ALLARME CUN NN Più di cinquantamila iscritti in meno in dieci anni. È stato il Consiglio universitario nazionale a lanciare, la scorsa settimana, l'allarme sulla grande fuga dalle università italiane. Dall'anno accademico 2003-2004 (anno in cui entrò in vigore la riforma del 3+2) gli immatricolati sono scesi da 338.482 a 280.144 (anno 2011/2012). Un calo di 58mila studenti, pari al17 per cento in meno. Come se in un decennio fosse scomparso un intero grande ateneo. Un trend che riguarda tutto il territorio nazionale e la gran parte degli atenei. E ai diciannovenni, il cui numero è rimasto stabile negli ultimi cinque anni, la laurea sembra interessare sempre di meno: le iscrizioni sono calate del 4 per cento in tre anni, passando dal 51 per cento nel 2007-2008 al 47 per cento nel 2010- 2011. L'Italia, inoltre, nel 2012, è risultata al 34esimo posto, su 36 paesi che aderiscono all'Ocse, per il numero dei laureati. Solo il 19 per cento dei 30-34enni possiede una laurea, contro una media europea del 30 per cento (al 2009). I133,6 per cento degli iscritti all'università, infine, è fuori corso mentre i117,3 per cento non è attivo e non fa esami. (p. fa) ____________________________ La nuova Sardegna 7 feb. 13 CAGLIARI POCHI LAUREATI IN DISCIPLINE SCIENTIFICHE In Sardegna sono pochi i laureati in discipline scientifiche e tecnologiche. Solo l’8,1 per cento dei laureati, secondo il Check-up sul Mezzogiorno elaborato dalla Srm per conto di Confindustria. Una media leggermente inferiore a quella del Sud ma decisamente più bassa rispetto al Centro Nord e alle percentuali nazionali, (rispettivamente 14,9 e 12,2). Ancora più preoccupante il numero dei giovani che abbandonano prematuramente gli studi:nel Sud lo ha fatto il 21,2 per cento dei giovani dopo la terza media, Emergono forti differenze tra le regioni e la Sardegna, assieme a Sicilia, Puglia e Campania, registra percentuali di abbandono più elevate. Ma mentre Campania e Puglia fanno registrare le maggiori riduzioni del tasso di abbandoni scolastici, la Sardegna vede crescere la forbice con gli obiettivi fissati dall’Europa che prevede tassi non superiorei al 15% entro il 2020. ______________________________________________________ La nuova Sardegna 7 feb. 13 CRS4, CASSE VUOTE: RICERCA AL CAPOLINEA Il declino del Centro di calcolo matematico mentre la Regione, unico socio, vuole prendere in affitto nuovi ufficidi Alfredo Franchini CAGLIARI Brutti giorni per il Crs4 e per la ricerca in Sardegna. Il destino di quello che doveva essere il «centro di calcolo matematico più potente d’Europa» sembra segnato: le casse della società languono, ci sono i soldi per pagare ancora due o tre stipendi. Con il Crs4, in realtà, sta sprofondando tutta la ricerca che nell’isola era considerata agli inizi degli anni Novanta come «il petrolio», un settore su cui puntare per una crescita reale. E i presupposti c’erano tutti: con una felice intuizione la Regione diede vita al Consorzio 21, (da cui sarebbe nato il Parco scientifico e tecnologico della Sardegna) e a presiedere il Crs4 fu chiamato un premio Nobel: Carlo Rubbia. Con lui un gruppo di ricercatori di spicco. Nel corso degli anni le carte in tavola sono cambiate e ora il destino del Crs4 è tutto nelle mani di Sardegna ricerche, erede del Consorzio 21, presieduto dall’ex assessore agli Affari generali della prima giunta Cappellacci, Ketty Corona. Fuoriusciti piano piano tutti i soci esterni, al Crs4 è rimasto un socio unico: Sardegna ricerche. E così la presidente Ketty Corona è anche vicepresidente di quello che fu il Centro di calcolo matematico che, nei primi anni di attività, in coincidenza con la gestione di Carlo Rubbia, diventò un punto di riferimento per l’informatica e l’innovazione della Regione e fu propedeutico per l’istituzione del corso di laurea in ingegneria elettronica all’Università di Cagliari. Il portafoglio progetti si è assottigliato, dopo aver perso la spinta propulsiva, e l’attuale presidente, Paolo Zanella, un matematico di 80 anni, ha annunciato ai dirigenti che i soldi in cassa per i dipendenti e i tanti consulenti stanno per finire. Situazione preoccupante sia sul breve termine sia per il futuro; a breve preoccupa la mancanza di liquidità anche perché la giunta regionale ha rinunciato a scrivere la finanziaria per il 2013 e ha scelto di andare all’esercizio provvisorio. Il futuro è un’incognita proprio per il depauperamento dei progetti e delle risorse. E se una volta i modelli erano la Silicon Valley in California o Sophia Antipolis in Francia, adesso il modello è quello di un centralismo regionale che si manifesta anche nella prossima e imminente scelta di trasferire gli uffici di tutti gli enti che fanno ricerca, (e quindi anche il Crs4), in uno stabile da prendere in affitto. La delibera è già stata predisposta dall’assessorato all’Urbanistica, guidato da Nicola Rassu, e corrisponde al vecchio progetto, già avanzato dalla giunta Cappellacci, di costituire un unico polo nelle nuove costruzioni dell’imprenditore -editore Sergio Zuncheddu a Santa Gilla. Una localizzazione importante, secondo la giunta, perché nelle vicinanze c’è la sede della Regione in Viale Trento e alcuni importanti assessorati in Viale Trieste. ___________________________________________________ Italia Oggi 9 Feb. ‘13 BOLLINO DI QUALITÀ PER I DOTTORATI DI RICERCA Valutazione e accreditamento in arrivo anche per i corsi di dottorato. Dopo il provvedimento, adottato la scorsa settimana, che definisce i criteri per la valutazione e l'accreditamento dei corsi di laurea, il ministro Francesco Profumo ha firmato oggi il Decreto Ministeriale (94/2013) che delinea - in attuazione della legge 240/2010 - i criteri per l'istituzione e l'accreditamento dí corsi e sedi di dottorato. Il provvedimento, che ha l'obiettivo di migliorare e valorizzare la qualità dell'alta formazione universitaria, dà maggiore impulso ai dottorati congiunti tra enti di ricerca e atenei, ai dottorati di ricerca industriale e allinea gli ambiti disciplinari di riferimento dei dottorati italiani a quelli europei sul modello dell'European Research Council. Le attività di valutazione, che saranno svolte anche in questo caso dall'Anvur, prenderanno in esame criteri quantitativi e qualitativi, in modo da verificare l'adeguatezza delle strutture delle sedi di dottorato, la qualità dell'offerta didattica, il numero delle borse messe a disposizione, nonché la sostenibilità dei corsi attivati. Tra gli elementi più qualificanti, necessari per l'attivazione di corsi di dottorato, la presenza di un collegio dei docenti composto da almeno 16 persone in possesso di un curriculum che attesti risultati disciplinari a livello internazionale, il numero minimo di 4 borse per ogni corso di dottorato e una media di 6 per l'insieme dei corsi attivati da un'istituzione. Inoltre, sarà preso in considerazione anche il sostegno economico ai dottorandi attraverso la previsione di un ulteriore budget, pari ad almeno il 10% del valore della borsa annuale, per sviluppare il proprio percorso di ricerca. Il rispetto dei requisiti e delle caratteristiche previste sarà condizione necessaria a ricevere l'accreditamento, ovvero l'autorizzazione ad istituire enti e sedi di dottorato o nuovi corsi nel caso di enti già accreditati. Con l'emanazione del Decreto - che sarà sottoposto al vaglio della Corte dei Conti per gli adempimenti di competenza - le università entro 45 giorni dovranno adattare la propria regolamentazione interna. Successivamente, saranno gradualmente sottoposti alla valutazione dell'Anvur i dottorati previsti nella programmazione dell'anno accademico 2013/2014. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 8 feb. 2013 SOLO 7 CERVELLI SU 100 RESTANO IN ATENEO Allarme dell'Adi, l'associazione dottorandi e dottori di ricerca L'INDAGINE Sul podio nazionale svettano tutti e tre i Politecnici Diffuso il problema delle chance: i giovani più capaci (e formati) costretti a orientarsi all'estero Marzio Bartoloni ROMA I paradisi della ricerca esistono anche negli atenei italiani dove un drappello di università – a cominciare dai Politecnici di Milano, Torino e Bari fino a Firenze e Trento – contano da 50 a 70 giovani cervelli ogni 100 tra docenti e ricercatori strutturati. Contro una media italiana di meno di 30 ogni 100. Peccato che queste oasi della scienza – nella maggior parte dei casi – rischiano di vendere illusioni a tanti aspiranti scienziati che entrano negli atenei da precari e nella stragrande maggioranza dei casi ne vengono espulsi per sempre: solo il 7% degli assegnisti di ricerca – il primo scalino "professionale" dopo il dottorato e la figura più gettonata negli atenei da quando c'è il blocco del turn over – resterà a lavorare nei laboratori degli atenei. Il restante 93% dovrà cercare un lavoro altrove dopo essere stato formato e super specializzato in materie molto spesso di alto profilo scientifico e tecnologico: in particolare il 78% di loro uscirà dal percorso accademico al termine dell'assegno (che può durare al massimo fino a 4 anni), mentre il 15% uscirà dopo aver ricoperto una posizione da ricercatore a tempo determinato. Si tratta di migliaia di ricercatori ogni anno che sono costretti – quando non vincono il concorso da docente o non trovano un posto nelle aziende – di dover cambiare lavoro o peggio di dover fuggire all'estero. Insomma un patrimonio prezioso che va sprecato e mandato in fumo senza che nessuno batta ciglio. Viene quasi la tentazione di pensare che sia più virtuoso seguire l'esempio di Macerata che di ricercatori precari ne conta uno ogni 100 "strutturati". A lanciare l'allarme sui tanti cervelli "gettati alle ortiche" è l'Adi, l'associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani che oggi presenta a Roma un'indagine approfondita sul «Dottorato di ricerca e sul Post- Dottorato in Italia». Indagine dalla quale emerge tra l'altro anche un taglio deciso al numero dei dottorati – il primo passo nella ricerca dopo la laurea – che dal 2008 al 2011 sono diminuiti del 12%, da 15.437 a 13.633. Con l'aggravante che quelli muniti di borsa sono crollati del 16 per cento. «Non è accettabile sentir dire che chi sceglie questa strada fa un investimento o peggio una scommessa – spiega Francesco Vitucci, segretario nazionale dell'Adi –, in realtà l'investimento viene fatto da tutto il sistema universitario e in senso più ampio da tutto il Paese, ed è preoccupante che nessuno pensi seriamente del futuro di queste persone». In effetti su questo fronte qualcosa si è mosso negli ultimi mesi: il decreto sviluppo ha introdotto un credito d'imposta per le aziende che assumono personale altamente qualificato. Agevolazione che vale anche per le start up. In più è ormai a un passo dall'entrata in vigore – si aspetta a breve la pubblicazione in «Gazzetta» – il decreto che modifica le regole per il dottorato: il nuovo regolamento a cui ha lavorato il ministro Francesco Profumo introduce tra le altre cose la possibilità di svolgere la formazione anche all'interno della aziende. Un modo questo per stringere subito rapporti con il mondo del lavoro che può trasformarsi in un'assunzione alla fine del dottorato. «Sono iniziative positive che vanno ulteriormente incentivate – aggiunge Vitucci –, ma il problema più urgente è quello di sbloccare il turn over nelle università dopo anni di blocco il cui effetto è questa precarietà inaccettabile che si conclude nell'espulsione dall'università». Il reclutamento è stato congelato per tutto il primo anno successivo alla riforma Gelmini (il 2011) e anche il 2012 ha visto ingressi molto al di sotto delle previsioni: «Sono stati banditi solamente 800 posti di ricercatore a tempo determinato, troppo poco», spiega il segretario dell'Adi. A colpire tra i numeri diffusi dall'indagine dell'associazione dottorandi e dottori di ricerca è anche il fatto che il numero dei contratti nelle aree scientifico-tecnologiche è anche 3-4 fino a 6 volte superiore rispetto ai settori "umanistici" (aree sociali, filologiche letterarie e giuridiche). Ma il paradosso è che proprio in questi piccoli "giardini" scientifici è difficile che il ricercatore possa far attecchire la sua ricerca. Un ingegnere informatico ha solo il 3% delle possibilità di restare contro il 12% di chi studia scienze dell'antichità e il 16% di chi fa ricerca sulle scienze giuridiche. © RIPRODUZIONE RISERVATA Archivia _____________________________________________________ Il Sole24Ore 10 feb. 2013 RICERCATORI ITALIANI CERCASI Il nostro Paese ha un numero di studiosi troppo basso in rapporto al Pil dichiarato, e questo ci penalizza nella conquista dei fondi europei di Patrizia Caraveo Tutti gli Stati della Ue partecipano ai programmi europei in proporzione al loro Pil e la somma raccolta viene distribuita in base a criteri ben precisi. L'assegnazione dei fondi europei per la ricerca viene fatta con criterio puramente meritocratico. Può capitare che uno Stato, magari piccolo e quindi con un Pil modesto, ma con ricercatori straordinariamente bravi, possa accaparrarsi finanziamenti superiori all'ammontare del contributo. In questo caso, gli altri Paesi finanzieranno il vincitore. Ergo, è bene che i ricercatori investano tempo ed energia per formulare al meglio le domande di finanziamento. Non è un lavoro semplice: le regole europee sono complesse e la burocrazia dell'Unione non è sempre user friendly. Ma le regole sono uguali per i ricercatori di tutte le nazionalità che si affannano per presentare le domande entro le scadenze previste. Alcuni possono contare su un consistente aiuto istituzionale, altri se la devono cavare da soli. Una volta ricevute le domande, gli uffici di Bruxelles formano apposite commissioni, ovviamente internazionali, che devono procedere alla valutazione sulla base di una griglia di parametri. Alla fine, viene pubblicata la lista dei progetti approvati con i relativi finanziamenti ed è inevitabile tirare le somme per scoprire quale nazione guadagna e quale perde, finanziando inevitabilmente la ricerca degli altri Paesi. Purtroppo l'Italia non è nella categoria dei vincenti. I conti non sono certo difficili e neppure opinabili. Noi diamo all'Europa più di quanto riusciamo a portare a casa in finanziamenti approvati e questa perdita preoccupa molto il Miur. Resta da capire perché questo avvenga. È forse colpa della mancanza di competitività dei ricercatori italiani? Non si direbbe: sulla base delle classifiche internazionali i ricercatori italiani non sono affatto peggio degli altri. Anzi, nonostante gli scarsi investimenti fatti dalla Repubblica italiana in tema di ricerca e Università, le posizioni conquistate in termini di produzione scientifica sono decisamente buone. Eppure il tasso di successo delle nostre proposte è del 18% contro il 26 degli olandesi, il 24 dei francesi, il 23 degli inglesi il 21 dei tedeschi, il 19 degli spagnoli. La competizione è dura per tutti. Resta il fatto che gli olandesi vedono approvata 1 proposta ogni 4 presentate mentre per noi la media scende sotto a una proposta ogni 5. Certo, l'Italia non parte favorita. Fa impressione vedere come la Francia, il Paese immediatamente sopra a noi nella classifica del reddito pro capite in Europa, investa in ricerca circa il doppio dell'Italia. Per di più, crisi o non crisi, in Francia la spesa per la ricerca non viene tagliata. Nel suo indirizzo di buon anno, il Presidente del Cnrs (l'equivalente francese del nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche) saluta quanti andranno in pensione e assicura che tutti i posti verranno subito messi a concorso. Se pensiamo che negli enti di ricerca italiani solo il 20% dei posti lasciati liberi dai pensionamenti viene messo a concorso, capiamo subito dove stia davvero la differenza. Scelte politiche diverse fanno sì che la Francia abbia una popolazione di ricercatori molto più numerosa della nostra. Ovviamente il parametro importante non è solo il numero dei ricercatori ma il rapporto tra chi fa ricerca e la popolazione del Paese. Tra i magnifici 6 dell'Unione Europea, l'Italia è proprio il fanalino di coda con un numero di ricercatori ogni 10mila abitanti che è meno della metà di quello che mettono in campo Francia, Germania e Inghilterra e con significativa distanza da Olanda e Spagna. Il collega Stefano Covino nel suo blog «La mite scienza» fa notare che se si classificassero le nazioni europee sulla base del finanziamento medio ricevuto da ogni ricercatore attivo (calcolato dividendo l'ammontare dei finanziamenti per il numero di ricercatori messi in campo da ogni nazione) l'Italia farebbe un balzo in avanti, piazzandosi seconda, superata solo dall'Olanda. È una piccola consolazione che non serve ad appianare i bilanci ma ci aiuta a mettere a fuoco la causa vera del disavanzo: pochi ricercatori ottengono pochi finanziamenti. Il bilancio negativo tra il dare e l'avere tra l'Italia e l'Europa della ricerca è dovuto alla scarsità di ricercatori rispetto al Pil dichiarato (che non tiene conto della sostanziale frazione del sommerso) della nazione. Per competere ad armi pari con il resto dell'Europa bisognerebbe raddoppiare il numero dei ricercatori italiani. È un'azione urgente per il prossimo governo _____________________________________________________ Il Sole24Ore 7 feb. 2013 STAGE, TIROCINI, RELAZIONI SOCIALI: IL LAVORO SI COSTRUISCE GIÀ ALL'UNIVERSITÀ L'indagine. I risultati del settimo Rapporto della Fondazione per la sussidiarietà «ÉLITE INTRAPRENDENTI» Chi si attiva subito ha maggiori chance di trovare un posto a tempo indeterminato, soprattutto nel manifatturiero Marco Biscella Volete un buon percorso professionale e un lavoro che vi darà soddisfazione? Cominciate a darvi attivamente da fare già durante gli anni dell'università, prima di arrivare a prendere la laurea. Innanzitutto, siate molto «imprenditivi e disposti a impegnarvi in varie direzioni», cercate di maturare «esperienze di studio all'estero, stage e tirocini», coltivate «varie specializzazioni» e «una ricca dotazione di capitale sociale relazionale». Con questo spirito d'iniziativa pro-attivo potete candidarvi a entrare nelle "élites intraprendenti", formate da giovani laureati che oggi «lavorano a tempo indeterminato», soprattutto nei settori «education, chimica/petrolchimica e manifatturiero», con un nesso tra laurea e lavoro svolto «molto alto e di elevata specializzazione» e che guadagnano in media tra i 100 e i 200 euro in più rispetto al resto dei giovani laureati. Peccato che a questo profilo - tracciato a partire da un indice complesso, che comprende l'attivismo universitario, l'adattabilità al mercato e l'utilizzo dei canali di ricerca - appartenga solo un neolaureato su sei. E gli altri? Sono "precari in cerca di gloria" (39,6%), "adattivi ma deboli" (34,8%) oppure "rassegnati" (11,1%). A fare emergere questi identikit è il Rapporto "Sussidiarietà e..." 2013, dedicato a "neolaureati e lavoro" promosso dalla Fondazione per la sussidiarietà in collaborazione con il dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica e con il Consorzio AlmaLaurea (la ricerca verrà ufficialmente presentata a Roma, giovedì 7, alle 10.30, presso la Sala Aldo Moro di Palazzo Montecitorio). L'indagine ha coinvolto 5.750 laureati a distanza di quattro anni dal conseguimento del titolo, e tutti già impegnati in diverse attività lavorative (per inciso, un laureato impiega in media 4,8 mesi per trovare la prima occupazione). «La prima evidenza di questa indagine - spiega Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà - è che il laureato attivo in università, adattabile, collaborativo nella ricerca del lavoro, aperto ai rapporti e inserito in un mondo associativo appare il più adatto alla sfida dei tempi». Questo settimo Rapporto sulla sussidiarietà, infatti, non manca di riservare qualche sorpresa. La prima? «A differenza di quanto si è soliti supporre - aggiunge Vittadini - le reti informali, le raccomandazioni, entrano in azione soprattutto quando si è in presenza di percorsi universitari "deboli", di fatto poco richiesti dal mercato. Nella ricerca di un lavoro, per esempio, i canali di mercato (agenzie, autopromozione, social network) risultano più efficaci nel 48,4% dei casi, percentuale doppia rispetto ai canali relazionali, cioè parenti, amici, conoscenti, che consentono di accedere a professioni che offrono un minor utilizzo delle competenze, stipendi più bassi e minore stabilità contrattuale. E tra chi ha un indice di capitale sociale relazionale basso, il 41% ha anche un basso indice di realizzazione nel lavoro». Seconda sorpresa: questa non è, nel suo complesso, una generazione "choosy". Infatti, utilizzando un indice basato sulla disponibilità a trasferire la propria residenza in altra città o Paese e a svolgere lunghi trasferimenti casa/lavoro, si scopre che il 53% dei neolaureati ha un'adattabilità elevata, con punte superiori alla media tra gli uomini (63%), gli ingegneri (60%), i residenti al Centro-Sud (60%, dieci punti in più rispetto al Nord), chi ha un lavoro autonomo oppure non standard (60%). In uno scenario in cui è sempre più indispensabile che le persone acquisiscano competenze, conoscenze e abilità spendibili non più solo all'interno di un'azienda e che maturino un atteggiamento rivolto all'apprendimento attivo sul posto di lavoro, che ruolo può giocare la sussidiarietà - il principio che impone di dare priorità alle iniziative che nascono "dal basso" - alle dinamiche di passaggio dagli studi universitari al mondo del lavoro? «Oggi il titolo di studio, il "pezzo di carta" - conclude Vittadini - non è più sufficiente in sé per garantire una scalata sociale ai giovani. Viviamo purtroppo in un Paese dove la mobilità sociale ascendente risulta ampiamente bloccata. Per due motivi: da un lato, l'università italiana, appiattita su un livello buono, non è però selettiva, non premia il merito, fa poca specializzazione e internazionalizzazione, quindi bisogna incrementare master, dottorati, stage all'estero, interazioni con il mondo produttivo. Dall'altro, il mercato del lavoro fa fatica o è incapace di prendere le persone più valide. Allora occorre valorizzare lo studente non più solo come singolo, bensì come rete che si relaziona con il mondo scientifico, sociale, culturale, produttivo. Qui la sussidiarietà è ad altissimo livello». ___________________________________________________ Avvenire 9 Feb. ‘13 MENO 200 MILIONI IN 5 ANNI PER LA RICERCA UNIVERSITARIA DA MILANO PAOLO FERRARIO Precari e senza diritti: praticamente invisibili. È la drammatica condizione dei ricercatori universitari, che emerge dalla terza indagine su dottorato e post-doc presentata ieri alla Sapienza di Roma dall'Adi, l'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Prendendo a riferimento il numero di borse di dottorato bandite negli ultimi cinque anni da ventuno università statali italiane, passate dalle 5.045 del 2008-2009 alle 3.804 del 2012- 2013 (-24,33%), e arrotondando a 40mila euro l'importo triennale lordo di ciascuna borsa di dottorato, l'Adi ha calcolato che, soltanto nel quinquennio e negli atenei considerati, il taglio dei finanziamenti alla ricerca è stato di 202 milioni e 680mila euro. Per l'anno in corso, inoltre, il numero di posti di dottorato senza borsa (3.030) rappresenta quasi il 50% del totale. «È vero che in alcuni casi i posti senza borsa vengono coperti da fondi supplementari, esterni o meno - osservano all'Adi - ma in molti casi si tratta di dottorandi che non solo non percepiscono nessun sostegno economico, ma pagano anche le tasse». Stando ai conti dell'Associazione, mediamente queste tasse arrivano a superare i 2mila euro l'anno, cifra che, denuncia l'Adi, «è destinata certamente ad aumentare». Per superare questa situazione molto sfavorevole per i dottorandi - che in Italia sono ancora equiparati agli studenti, contrariamente a quanto prevede la Carta europea dei ricercatori adottata dai rettori italiani nel 2005 - l'Adi propone di «eliminare le tasse per i dottorandi senza borsa». Anche chi una borsa ce l'ha non naviga certo nell'oro. Da una comparazione europea emerge, infatti, che gli stipendi dei ricercatori universitari italiani sono tra i più bassi in assoluto. Mediamente, una borsa di dottorato, in Italia, è di 1.035 euro al mese, rispetto ai 4.100 della Svizzera. ai 3.400 della Norvegia e ai 2.440 della Danimarca. Corretto per il costo della vita, l'importo scende a 1.005 euro mensili in Italia, mentre resta più che dignitoso altrove: 2.531 euro in Svizzera, 2.252 in Norvegia e 1.920 in Finlandia. Va anche peggio per le prospettive di carriera, praticamente inesistenti. Alla luce degli 800 posti di ricercatore a tempo determinato banditi nel 2012, l'Adi ha calcolato che «il 93% degli attuali assegnisti non continuerà a fare ricerca nell'università», mentre soltanto i17% è destinato ad un posto di lavoro a tempo indeterminato. Uno «spreco di competenze», non solo per l'università ma anche per l'intero Paese, che nel resto d'Europa riguarda appena il 16% dei dottorandi. «Non si può semplificare questo problema in una semplice questione di "investimento" o "scommessa" fatti da chi vuole intraprendere questo percorso - avverte l'Adi Einvestimento viene fatto da tutto il sistema universitario, e in senso più ampio da tutto il Paese, ed è preoccupante che il dibattito sul reclutamento universitario non tenga conto di questi dati disastrosi». Tra i12008 e il 20131e borse di dottorato delle università statali, sono calate del 24,33% rapeQuasi il 50% dei ricercatori non viene pagato e anche chi ha una borsa arriva a malapena a mille euro al mese contro i 2.500 della Svizzera. Come se non bastasse il 93% non continuerà a lavorare nell'università dopo il triennio. «Uno spreco di competenze intollerabile», denuncia l'Adi ___________________________________________________ Il Manifesto 7 Feb. ‘13 SI CHIAMA «AVA» L'ULTIMO TASSELLO DELLA DISTRUZIONE DEGLI ATENEI .... E’ già pronto l'apparato burocratico per gestire la demolizione programmata dell'università e l'annunciato dissesto finanziario di venti atenei nel 2013. L'ultimo tassello si chiama Ava, autovalutazione- valutazione-accreditamento che, insieme al decreto sulla programmazione triennale, regolerà gli accorpamenti e le fusioni tra gli atenei e i corsi di laurea sopravvissuti alla catastrofe. «Stanno mettendo in pratica la visione degli ideologi del Corriere della Sera Giavazzi e Perotti- afferma Giuseppe De Nicolao, docente di automatica a Pavia e redattore della combattiva rivista offline Roars.it- quelli che hanno ispirato la riforma Gelmini che oggi Profumo sta attuando». Perché questo decreto è così pericoloso? Ava è l'erede del decreto 17 che aveva reso più stringenti i requisiti sui docenti per tenere aperti i corsi di laurea. IMPONE agli studenti sei questionari sulla qualità dei corsi, della didattica, più uno da far compilare ai docenti. Ritocca le formule numeriche che impongono il numero massimo dei corsi erogabili degli atenei legandoli al numero dei docenti disponibili. E poi ci sono altri vincoli... Quali? Uno particolarmente severo stilla «didattica assistita» che comprende lezioni frontali, laboratori, i precorsi. Viene stabilita la possibilità che gli ispettori dell'Anvur facciano visite a sorpresa per controllare che gli atenei forniscano dati veritieri. E uno scenario dai Farheneit - 151. Con i pompieri cl te irrompono negli scantinati dove si faceva didattica di nascosto. La colpa più grave sembra quella di trasmettere la cultura. E le conseguenze? Con il blocco delle assunzioni la progressiva diminuzione del numero dei docenti prevista nei prossimi anni ci sarà una proliferazione del numero chiuso delle facoltà, oppure la chiusura pura e semplice dei corsi di laurea. Molti atenei hanno già dovuto chiuderli perché non hanno docenti a sufficienza. L’idea di partenza sembra sensata. Se hai un certo numero di docenti e una certa qualità scientifica puoi tenere aperti i corsi, se non li hai è giusto chiuderli. In realtà, quelli imposti dal ministero sono requisiti molto pesanti introdotti con la convinzione che uno dei mali dell'università sia la sovrabbondanza dei corsi di laurea. Così sembra, anche perché in 10 anni l'università ha perso 58 mila studenti... Se da un lato è vero che c'è stata una strage degli immatricolati tardivi, cioè i ragazzi che intraprendono gli studi dai 24 anni in su, dall'altro lato non va molto meglio con i ragazzi freschi di diploma dove le riforme hanno sostanzialmente l’obiettivo di allargare l’accesso alla formazione terziaria. Alla luce di questa realtà, è paradossale la convinzione di chi continua a tagliare. L'Ocse dice che siamo l'ultimo paese in Europa nella percentuale dei laureati nella fascia 25-34 anni: 21% contro una inedia del 38%. Un abisso. Se vuoi risalire la classifica non si capisce allora perché continui a chiudere corsi di laurea, tagliare borse di studio o addirittura atenei. Per quale ragione questo invece avviene? Pare che i nostri politici non conoscano i dati Ocse e sono convinti che in Italia ci sia un'erogazione eccessiva di istruzione universitaria. C'è una forte spinta a non studiare, il messaggio che circola è che è inutile e dannoso. Per questo impongono vincoli soffocanti all'università e penalizzano il diritto allo studio. In questo paese procurarsi un'istruzione è una forma di hybris che va prevenuta o punita. È vero che queste riforme favoriranno la «concorrenza» tra gli atenei? Direi proprio di no, Il decreto Ava non vincola gli atenei privati a regole così rigide. hanno creato un sistema a doppia velocità dove gli atenei pubblici corrono con 'e mani e i piedi legati per consentire agli atenei privati di trarne Vantaggio. L’equazione impazzita che lega il blocco delle assunzioni dei prof all'estensione del numero chiuso dei corsi ___________________________________________________ Roma 8 Feb. ‘13 AL SUD UNIVERSITÀ A RISCHIO, PAROLA DI ASSOCIATI Congresso del Coordinamento Nazionale dei professori associati delle Università pubbliche italiane oggi e domani all'Università Federico Secondo ma in due sedi diverse. Oggi alle 10, in via del Forno Vecchio 36; domani alla stessa ora in via Costantinopoli 104. L'iniziativa ha luogo a Napoli per due ragioni. La prima è il grave rischio di retrocessione del sistema scuola ed università in una regione che è al tempo stesso quella con la più alta percentuale di popolazione giovane, e quindi quella che più di ogni altra dovrebbe trainare il Paese per farlo uscire dalla crisi in atto, e contemporaneamente la regione con i più alti indici di abbandono scolastico e di immatricolazioni nonché di disoccupazione giovanile. La seconda ragione è l'urgenza del messaggio alle forze politiche in campo per la prossima tornata elettorale che la produzione del sapere e della conoscenza è l'unica strada da percorrere per essere alla stessa altezza dei paesi europei. I dati recenti sulla riduzione gravissima del numero di studenti e di corsi di laurea delle università pubbliche rappresentano il risultato di decenni di attacchi all'istruzione e alla formazione del sistema pubblico che, al contrario, dal secondo dopoguerra in poi ha rappresentato il pilastro della nostra Repubblica democratica. CoNPAss è nato per difendere le istituzioni pubbliche del sapere e della conoscenza contro i progetti di privatizzazione delle scuole e delle università. Si batte per il ruolo unico con la valutazione della docenza universitaria, per la libertà dell'insegnamento e della ricerca e la libertà dell'accesso ai corsi universitari degli studenti. Al congresso e la tavola rotonda, sono stati invitati rettori ed esponenti delle forze politiche. ___________________________________________________ Il Manifesto 8 Feb. ‘13 L'EFFETTO DELLE CATTIVE RICETTE CHE DESTRA E SINISTRA HANNO SCARICATO SUGLI ATENEI Alberto Lucarelli Alberto Burgio Il recente rapporto del Consiglio universitario nazionale ha acceso i riflettori della stampa sull'università italiana. •È una buona cosa, naturalmente, anche se non è difficile prevedere che tra qualche giorno anche la questione sarà liquidata dalla centrifuga dell'informazione. Ad ogni modo, il punto è come si legge questo rapporto. E che cosa ci si legge. Le cifre- allarmanti e desolanti - più volte riprese dai giornali dovrebbero costituire il presupposto obbligato di ogni commento. E parlano univocamente di una università alla fame, strangolata dai tagli e da politiche «rigoriste» tradotte nella liquidazione di importanti tradizioni di ricerca, nella decimazione della popolazione studentesca e nella brutale riduzione dell'organico docente e tecnico-amministrativo. Alla faccia della deprecata «fuga di cervelli». Ma, ammesso e non concesso che tutti gli osservatori abbiano l'onestà di riconoscere questi dati, le interpretazioni divergono quando si discute sulle cause del disastro. L'università pubblica italiana (quella privata, naturalmente, fa storia a sé, avendo ben altri santi in paradiso) esibisce interessanti analogie con l'economia nazionale. Come questa è gravemente malata. Anch'essa soffre di una malattia iatrogena, provocata proprio dalle terapie che medici incompetenti (nell'ipotesi più benevola) o sciagurati (più verosimilmente) le hanno imposto. E anche in questo caso nessuno è disposto a riconoscere le proprie responsabilità. Qui veniamo al punto. Quali medici? Quali terapie? Pesantissime colpe gravano indiscutibilmente sulle ministre Moratti e Gelmini e su Tremonti, che apri la strada alla devastante controriforma legata al nome di colei che incarnò uno dei paradossi dello scempio berlusconiano: una ministra dell'istruzione talmente ignorante da non essere nemmeno capace di sillabare in parlamento il discorsetto preparato dai tecnici del ministero senza infarcirlo di strafalcioni come neppure il più svogliato liceale. Una ministra che si intestò la crociata sul merito dopo essere corsa giù in Calabria - lei padana - per strappare un titolo professionale che altrimenti non avrebbe mai conseguito. Che la destra abbia enormi responsabilità in questa vicenda è indubbio. Cinque anni fa scrivemmo un libro insieme a Gaetano Azzariti e Alfio Mastropaolo proprio per mettere in guardia su quanto stava per accadere dopo che l'allora ministro dell'economia Tremonti varò tagli micidiali, accrebbe il potere dei rettori e lanciò la brillante proposta di trasformare gli atenei in Fondazioni. Ma questo non significa affatto che la distruzione dell'università pubblica vada imputata alle sole bande berlusconiane. Il rapporto del Cun descrive uno scenario molto chiaro. Documenta la secca riduzione del personale e della popolazione studentesca. La discriminazione delle facoltà e dei saperi umanistici a vantaggio delle strutture che servono all'impresa privata. La sostituzione del sistema universitario nazionale previsto dai Costituenti con un pulviscolo di atenei in guerra tra loro (secondo la logica leghista della scomposizione del paese in un caleidoscopio di localismi). Non si tratta di un risultato imprevisto. E precisamente quel che si è voluto in primo luogo dal Pd di oggi e dai Ds ieri. L'idea di mettere gli atenei in concorrenza tra loro; l'idea di misurare il «merito» con criteri economici, legati alla redditività; l'idea di colpire la docenza e di alzare le tasse studentesche dentro la cornice di politiche di austerità asservite alla restaurazione neoliberale; l'idea di aziendalizzare gli atenei per garantirne l'efficienza amministrativa; l'idea di selezionare la «clientela» delle università concependo la formazione come una «opportunità» e non come un diritto (si pensi alla vergogna dei cosiddetti «prestiti d'onore») -tutto questo sta scritto a chiare lettere nei programmi del maggior partito del centrosinistra, non di rado scritti a quattro mani con gli «esperti» confindustriali. Una storia lunga almeno vent'anni, da quando a guidare la politica universitaria c'erano i non rimpianti ministri Berlinguer e Zecchino. Certo, oggi -qualche imbarazzo il rapporto del Con lo crea a chi si candida a governare l'Italia promettendo di volere cambiare musica. Lo crea perché lo scempio che esso documenta è in larga misura conseguenza di una stagione «riformistica» nella quale si sono voluti sistematicamente premiare le logiche del mercato e gli interessi del privato. Non sorprende quindi che la prima reazione del centrosinistra sia lo scaricabarile, pratica prediletta da un ceto politico leale e responsabile. Ma in questo caso è molto difficile fare carte false e prendere in giro studenti e lavoratori dell'università pubblica. I quali - per dirla con l'on. Bersani - «sanno leggere» e hanno buona memoria. ___________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 7 Feb. ‘13 UN POPOLO COSÌ IGNORANTE CHE NON SA DI ESSERLO di Tomaso Montanari Ho visto la scuola pubblica smantellata pezzo per pezzo, la ricerca agonizzare, l'università annichilirsi anno dopo anno. E, in parallelo, questo paese perdere grinta, ambizione, ridursi a una cartolina del passato in cui la cultura viene messa da parte in favore di non si sa bene quale scorciatoia... A una scuola pubblica peggiore può corrispondere solo un paese peggiore". È intorno a questa lucidissima, terribile pagina di Silvia Avallone che Roberto Ippolito costruisce Ignoranti (Chiarelettere, da oggi in libreria). Ignoranti non è un lamento, e non è stato scritto da un intellettuale fuori dal mondo: Ippolito è un giornalista economico ed un esperto in comunicazione, e il suo libro dimostra con i numeri e i dati di fatto quanto la constatazione della Avallone sia aderente alla realtà. L'ITALIA è un paese di ignoranti. "Il 71 per cento della popolazione — scrive il linguista Tullio De Mauro, citato da Ippolito — si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà; il 5 per cento non è neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33 per cento sa leggere ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di cinque ed è a forte rischio di regressione nell'analfabetismo, un ulteriore 33 per cento si ferma a testi di secondo livello". Se qualcuno si chiede come sia possibile che Silvio Berlusconi risalga nei sondaggi settimana dopo settimana grazie a promesse a cui possono credere solo gli analfabeti, ecco la risposta. Il nesso tra corruzione della politica e ignoranza è fortissimo: "Nel parlamento italiano la percentuale di laureati è scesa dal 91,4 per cento della prima legislatura al 64,8 della quindicesima. Una flessione di 27 punti percentuali, in controtendenza con le altre democrazie: negli Stati Uniti i laureati al Congresso superano il 94 per cento". E una politica analfabeta impone al Paese un futuro di analfabetismo: l'"attacco continuo alla scuola pubblica" (è il titolo di un paragrafo del libro) ha prodotto la scuola con l'età media degli insegnanti più alta d'Europa. L'89,3% ha più di quarant'anni, e i precari che li dovrebbero sostituire hanno esattamente quell'età media. ANZIANI, dunque, e drammaticamente sottopagati: "gli stipendi dei docenti italiani sono diminuiti dell'i% tra 2000 e 2009" mentre "nel resto dei paesi Ocse sono aumentati mediamente del 7%". Per non parlare delle scuole: edifici sporchi, inadeguati, pieni di topi: e nel paese con la retorica dell'infanzia più melensa e irritante del mondo, il 47,5 per cento delle scuole non ha un certificato di idoneità statica, e solo il 24,8 è stato sottoposto a verifica di vulnerabilità sismica. E gli stessi ministri e presidenti del Consiglio che non hanno fatto assolutamente niente per migliorare la situazione, e anzi l'hanno aggravata con i dissennati tagli lineari (Francesco Profumo e Mario Monti in testa) saranno in prima linea ai funerali delle vittime del prossimo crollo scolastico. Ma — fa notare Ippolito contro ogni retorica dell'antipolitica — la cultura non è solo "calpestata dalle istituzioni" (così si intitola un altro paragrafo), ma è come rigettata dalla stessa società. A partire dalla classe dirigente in senso più ampio: e Ippolito mette in fila alcuni degli strafalcioni dei giornalisti, della comunicazione ufficiale di Trenitalia, degli idolatrati giocatori di calcio (come non citare il "Rispetto l'omofobia" di Francesco Totti?). E non c'è da stupirsi: "il numero di lettori fra i dirigenti, gli imprenditori e i professionisti in Germania e Francia è grosso modo il doppio" che in Italia (i dati sono di Giovanni Solimine, L'Italia che legge, Laterza 2010). Ed è devastante dover ammettere che l'intesa tra la politica e i cittadini è spesso giocata proprio sul condiviso sospetto per la cultura. Alessandra Mussolini ringhia che "il nonno ha fatto opere, mica libri". Rispondendo a Massimo Giletti, Berlusconi ha detto che "Mario Monti è umanamente gradevole, ma è un professore": una colpa irredimibile. E Matteo Renzi è ben avviato sulla stessa strada. Se deve spiegare che Dante è vivo, specifica che non è "noioso come la spiegazione di un professore arrugginito". UN PAESE che accetta e favorisce le differenze basate sul censo e sullo status ereditario, e dunque differenze contro il merito, ma mal sopporta invece l'idea che esista un'élite fondata sulla conoscenza e lo studio: "si è verificato uno scadimento complessivo, un Mebetimento", dice lo scrittore e insegnante Marco Lodoli. Il quale, tuttavia, sente che il vento sta cambiando: "Credo si apra una nuova stagione. Si avverte una diversa atmosfera culturale dopo che i ragazzi e gli adulti hanno vissuto in una specie di circo". È da qui che può innescarsi "la scossa possibile" che dà il titolo all'ultimo capitolo del bel libro di Ippolito: "L'Italia ignorante non è l'Italia che può prendere slancio. Non contrasta le diseguaglianze, non favorisce l'avanzamento sociale. Ma i tanti fermenti esistenti, i successi dei talenti italiani... dicono che il sapere può dare la scossa". E per invertire la rotta basterebbe ricordare che: "Tagliare il deficit riducendo gli investimenti nell'innovazione e nell'istruzione è come alleggerire un aereo troppo carico togliendo il motore". In campagna elettorale tutti i nostri politici sarebbero pronti a sottoscrivere questa frase: per rimangiarsela, come sempre, nei fatti, già un minuto dopo la presa del potere. Chi l'ha detta, invece, l'ha anche messa in pratica: ma si chiama Barack Obama. ___________________________________________________ Avvenire 8 Feb. ‘13 I NEOLAUREATI, ALTRO CHE «CHOOSY» Rapporto Sussidiarietà: il 53% è altamente adattabile. Un posto in 4,8 mesi, contano reti e relazioni. Poca mobilità sociale Non è vero che i neolaureati italiani sono «choosy», schizzinosi, o comunque "difficili" nella ricerca di un posto di lavoro e poi nella capacità di adattarsi a quello che trovano. E non è più vero che la raccomandazione sia il modo migliore per trovare un impiego dopo la laurea: il mercato e le reti di relazione personali, così come i legami parentali forti (famiglia, amici, associazioni, ex professori...) riescono a fare molto meglio nel risolvere il problema dell'accesso al lavoro. Un "capitale sociale" fatto di relazioni personali, tra l'altro, che rappresenta una caratteristica del modello italiano e che — ecco dissolversi un'altra leggenda — sembra dare risultati migliori rispetto ai sistemi di altri Paesi europei: i neo- laureati italiani che hanno trovato un'occupazione hanno impiegato infatti 4,8 mesi in media, ,un dato sorprendentemente basso. E però vero, e questa è una nota scandalosamente dolente, che gli studenti provenienti da famiglie dei ceti dirigenti hanno una probabilità 3,4 volte superiore di terminare gli studi universitari rispetto ai colleghi appartenenti ai ceti popolari. Sono molte le indicazioni interessanti e gli spunti di riflessione offerti dal rapporto sulla Sussidiarietà 2012, dedicato ai neolaureati e al mercato del lavoro: un'indagine su un campione di 5.700 laureati a 4 anni dal conseguimento del titolo, che è stata condotta dalla Fondazione per la Sussidiarietà, presieduta da Giorgio Vittadini, e presentata ieri alla Camera alla presenza del ministro dell'Istruzione e dell'Università, Francesco Profumo. «Dobbiamo essere in grado di dare un maggior peso all'orientamento in tutte le transizioni della vita dei nostri ragazzi: dalle scuole medie alle scuole superiori, da queste all'università e dall'università al mondo del lavoro», ha detto Profumo riferendosi proprio al dato sulla scarsa mobilità sociale. Trai molti dati dell'indagine emerge che il 53% dei neolaureati dimostra un'adattabilità elevata al mercato del lavoro, con punte superiori alla media tra gli uomini (63%), tra gli ingegneri (60%), e tra i residenti al Centro-Sud (60%) — ben 10 punti in più rispetto ai "colleghi" del Nord — tra gli autonomi e i lavoratori non standard (60%). I più "adattivi" guadagnano poi quasi 100 euro al mese più degli altri. Mentre i canali più efficaci per trovare lavoro risultano quelli di mercato (agenzie private, autopromozione, risposta e pubblicazione annunci, social network), utili nel 48,4% dei casi, seguiti da quelli relazionali (24,3%). (M.Ca.) RI ___________________________________________________ Il Giornale 07 Feb. ‘13 I «CERVELLI» TORNATI IN ITALIA BEFFATI DAL GOVERNO DEI PROF Rientrati con un bando ad hoc, temono di dover partire di nuovo Ma Profumo non si occupa di loro. E preferisce richiamarne altri d i EnzaCusmai I «cervelli» rientrati in Italia due anni fa con il bando intitolato al premio Nobel Rita Levi Montalcini manifestano apertamente rabbia, delusione e amarezza per il governo dei professori. Un silenzio imbarazzante è caduto sui loro contratti in scadenza che non si sa se e come verranno rinnovati. Ma Francesco Profumo pensa solo al futuro. E firma un nuovo bando che dà il via libera ad una tranche di altri rientri di 24 giovani studiosi ora all'estero. Marco Veneroni, matematico, con esperienze in Olanda, Germania e Canada, mette in guardia: «Questo bando è una mossa tattica non seria: anziché cercare di stabilizzare i cervelli rientrati anni fa, il governo tecnico emana un nuovo bando sotto elezioni. Così io sto già pensando di tornarmene in Canada». Rincarala do se Luca Ce- rioni, 43 anni, arrivato da Londra, dove ha gettato alle ortiche un incarico di professore associato, un netto di 2600 sterline per uno studio sulla gestione delle grandi aziende. «In questo ultimo anno non è stato fatto nulla. Questi bandi sembrano solo strumentali e frutto di propaganda: visto il disinteresse del governo tecnico nei nostri confronti, aspetto speranzoso le decisioni del nuovo esecutivo». Il gruppo dei 23 è compatto, si muove sul web, con una rivolta silenzio sa ma agguerrita. Come la protesta di Serena Carra. «Non ci dicono nulla sui fondi e sul nostro futuro. Silenzio tombale, indifferenza totale. Abbiamo scritto al ministro Profumo che non ci ha mai risposto». Serena è una specialista in biologia molecolare. Era in Canada, poi si è spostata in Olanda, dove aveva un contratto a tempo indeterminato a 2300 euro al mese, uno staff tecnico fornito dall'università. Per problemi familiari ha deciso di rientrare in Italia e sono cominciate le difficoltà. «Guadagno meno e devo occuparmi anche di prenotare il materiale di laboratorio. E poi devo trovare lo stipendio per gli studenti che mi aiutano nella ricerca, ma peggio ancora, mi manca completamente la certezza di una continuità». Il suo contratto scade nel 2014, ma fin da ora ha bisogno di inviare domande per ottenere i fondi dalle associazioni. E ha le mani legate perché l'Università deve garantire il suo stipendio da ricercatore. L'ateneo aspetta il governo «che non dice nulla sui fondi e sui nostri progetti». E’ il gatto che si morde la coda. A spese dei ricercatori. Fabrizio Margaroli, che ha lasciato gli Stati Uniti a fine 2011 e ora divide la sua attività tra la Sapienza e il Cern di Ginevra, aggiunge: «A fine 2013 per tanti di noi scadranno i contratti e nessuno sa dirci nulla. Non abbiamo notizie di stanziamenti e considerati i tempi della burocrazia temiamo che il nostro lavoro vada in fumo». «In Italia - ammette - ci sono tante eccellenze, risorse umane di altissima qualità, ma bisogna fare i conti con una diffusa diffidenza nell'accoglienza e carenze strutturali. Entrambe non facilitano il lavoro. Alcuni colleghi, medici, comprano con i propri soldi le provette, io stesso mi sono dovuto arrangiare con un pc e una cassettiera portati da casa». La vita del ricercatore è tutta in salita, zeppa di ostacoli. Che spingono chi è rientrato in Italia a tornarsene nelle oasi estere. Chenon invogliano gli scienziati emigrati a tornare nel nostro Paese. Soprattutto attraverso un «bando- sirena» confezionato sotto elezioni. ___________________________________________________ Il Giornale 04 Feb. ‘13 L'ULTIMA INVASIONE CINESE È NEL MERCATO DEI LAUREATI LA SFIDA LA RIVOLUZIONE DEGLI ATENEI Il governo ha deciso di investire 250 miliardi l'anno per «produrre» 195 milioni di ingegneri, informatici e manager entro il decennio a Cina che non vuole rimanere indietro su niente, ora è concentrata su una nuova sfida: quella dei cervelli. Produrre non più solo parti di ricambio e magliette, giocattoli e vetture, ma laureati: giovani, preparati, pronti a competere con gli studenti americani, inglesi, giapponesi e tedeschi. Pronti a farsi assumere come manager, ingegneri, informatici, esperti di marketing, creativi dalle grandi società. Pronti a invadere il mercato del lavoro, non più solo dal basso, come manovalanza a costi inferiori, ma anche dall'alto, in quei posti al vertice che finora sono sempre rimasti nelle mani degli occidentali. Il governo cinese affronta l'impresa a modo suo, cioè in stile piano quinquennale: un investimento da 250 miliardi di dollari l'anno che alla fine, entro il decennio, dovrebbe portare a 195 milioni di studenti usciti da college e università. Un esercito. Competitivo, agguerrito, voglioso di entrare nel mondo delle industrie e delle multinazionali del Nord America e dell'Europa. Oggi in Cina ci sono otto milioni di laureati l'anno e tre ragazzi su cinque ottengono un diploma delle superiori. Rispetto al '96, un progresso enorme: i diplomati erano solo uno su sei. Ma - come spiega un lungo articolo del- l' Herald Tribune dedicato al boom dei laureati made in China - anche i numeri di oggi sono, in proporzione, segno di arretratezza: sono le stesse percentuali che gli Stati Uniti avevano raggiunto a metà degli anni Cinquanta. Però le previsioni dicono che in sette anni la Cina colmerà il divario: recupererà oltre mezzo secolo e arriverà alle percentuali americane, settantacinque diciottenni su cento con il diploma di una high school. Nell'ultimo decennio i laureati sono quadruplicati, il numero di college e università è raddoppiato (2.409). Le cifre non dicono tutto, ma molto: una crescita senza sosta, una avanzata programmata come tutto il resto, come gli investimenti nei settori dell'energia, delle auto ibride, delle biotecnologie e dell' information technology. Aumentano anche gli studenti che vanno all'estero, spesso con borse di studio: l'anno scorso negli atenei americani si è raggiunto il record di presenze, 194mila, il triplo di cinque anni prima. Le multinazionali (General Motors, General Electric, Ibm, Intel) se ne sono accorte e hanno già assunto migliaia di laureati delle università della Repubblica Popolare. Che anche sul fronte delle infrastrutture non vuole essere da meno dei rivali americani e come produce studenti, allo stesso ritmo costruisce campus, biblioteche, dormitori, dipartimenti e aule avveniristiche. L'unico fronte su cui i cinesi non riescano a tenere il passo è quello degli insegnanti: alla nuova Cina affamata di studio mancano professori, quelli giovani, motivati, innovatori, comunicativi. Quelli che servono per formare laureati brillanti e inventivi, non soltanto soldatini con voti eccellenti. Ci sono molti docenti alla prima cattedra, ce ne sono moltissimi alle soglie della pensione: mai quarantenni con alle spalle una certa esperienza sono pochi (e quei pochi non sono attratti dagli stipendi bassi, meno di trecento dollari al mese). La Cina della rivoluzione universitaria li cerca disperatamente. Soprattutto cerca laureati e corsi di qualità: i numeri appunto sono molto, ma non tutto. Se gli studenti migliori vanno ancora in America a perfezionarsi, un motivo c'è. Ma la rincorsa è più che cominciata e il governo sa in quale direzione vo glia muoversi: non soltanto produrre laureati, ma imprenditori di successo. Menti creative. Menti che possano garantire un futuro al- l' economia del gigante cinese, anche quando i vantaggi della manodopera abasso costo finiranno: allora ci vorrà l'innovazione, e per l'innovazione ci vogliono cervelli preparati. Perciò la grande macchina si è messa in moto, a colpi di miliardi. Spesa per l'istruzione in Cina La Stampa 08 Feb. ‘13 ZICHICHI-SHOW IN REGIONE «Bisogna far capire che la Sicilia è terra di Archimede e non di malia» LAURA ANELLO PALERMO Come trasportato da un raggio fotonico, l'assessore- scienziato Antonino Zichichi si è materializzato per incanto tra i banchi del Parlamento regionale siciliano, pelle abbronzata e calotta di capelli argentei. «Un alieno», scherzava qualcuno riferendosi anche al fatto che il fisico nominato alla guida dei Beni culturali due mesi' fa ha debuttato qui a Sala d'Ercole soltanto ieri. E lui, il professore, non ha mancato di stupire tutti con effetti speciali: «Oggi sappiamo - ha esordito, tessendo le lodi del suo mito Archimede - che nel mondo ci sono cento miliardi di galassie, tutte in movimento. Ogni galassia è fatta con cento miliardi di stelle, tutte in movimento. Con una velocità di un milione di chilometri all'ora, come andare da Palermo a New York in meno di un minuto. E come mai le stelle sembrano ferme nel cielo? Sembrano fisse perché sono lontanissime. Ma nel mondo tutto si. muove. Nessuno dall'alba della civiltà lo aveva capito, eccetto Archimede». In aula consiglieri tra sbigottiti e divertiti, tutti a evocare all'orecchio Maurizio Crozza, imitatore perfetto di Zichichi, che certo qui se la sarebbe spassata un sacco. Ma il fisico-assessore ci ha preso gusto, in un gioco pirandelliano in cui non si capisce più se ci sia o ci faccia. «La Sicilia non è terra di mafia, è terra di Archimede. Lui è l'unico uomo al mondo che nel corso di diecimila anni abbia saputo capire cose che noi non avevamo capito fino al 1929, neanche Einstein. Se Archimede non fosse stato dimenticato per duemila anni, oggi noi conosceremmo quello che invece sapremo nel 4.000». Una lezione tra fisica e filosofia. Che è continuata inerpicandosi sulle leggi della leva, il P-greco, l'era moderna «che nasce con Galileo e non con Newton», la cultura «che è pre-aristotelica, perché non va al passo con le grandi conquiste della scienza, ed ecco perché viviamo in pieno clima di Hiroshima culturale». A bocca aperta le due parlamentari del Pd Antonella Milazzo e Marika Girone che avevano rivolto all'assessore un'interrogazione per avere notizie «circa il futuro della gestione dei siti museali e del lavoratori delle società concessionarie dei servizi aggiuntivi». Questione alla quale Zichichi ha risposto dopo la lunga premessa. Quanto alle polemiche sulla sua assenza, ha tagliato corto: «Non è necessario essere fisicamente in un luogo per potere fare bene l'assessore. lo ho presentato ben dodici progetti per la Sicilia». Già, le dodici idee per il rilancio dei beni culturali nell'Isola, dove le istituzioni boccheggiano e perfino il museo Mandralisca di Cefalù con il suo «Sorriso» di Antonello da Messina è stato costretto a chiudere i battenti per mancanza di finanziamenti. Primo punto - e chi sennò? - Archimede. Poi la scienza nelle scuole, la creazione del primo polo delle rete sismica mondiale, il motore meteorologico «finalizzato a capire l'origine delle nuvole e la catena termodinamica conseguente». Infine la «Nuclear magnetic resonance» e la «Proton Therapy». E i musei? Pazienza, roba vecchia. Anzi, pre-aristotelica. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 10 feb. 2013 UN ROBOT A CACCIA DI BUGIE Si chiama Truth teller ed è stato introdotto dal Washington Post: controlla in tempo reale anche le dichiarazioni trasmesse in video Le bufale sul web hanno le gambe lunghe ma cresce l'impatto del fact checking di Luca Dello Iacovo Le bugie su internet hanno le gambe lunghe. Dopo il terremoto di Haiti un messaggio inviato nei social network annunciava biglietti aerei gratuiti per medici e infermieri disposti ad arrivare sull'isola. Era un falso, smascherato in poche ore, ma ha continuato a circolare per giorni. Le bufale, se non vengono smentite subito, rischiano di ingrandirsi e, scalpitando, possono sollevare massicce macchine del fango. Talvolta irreparabili. Chiarire al più presto la verità prima che un'altra bufala esca dal recinto è una frontiera del fact checking nei social media. Il «Washington Post» con il progetto Truth Teller mira a verificare le dichiarazioni quasi in tempo reale: il terreno di prova sarà il dibattito sulle tasse negli Stati Uniti. La piattaforma software trascrive in testi le frasi dei politici pronunciate nei video, poi avviene un confronto con una banca dati di fatti e, in seguito, il controllo con fatti già verificati in modo da decidere quanto le affermazioni siano attendibili. È ancora un prototipo da perfezionare e sarà anche un'applicazione software per smartphone e tablet. Negli ultimi anni il «Washington Post» ha costruito un vasto laboratorio creativo per il fact checking. Durante l'ultima campagna elettorale per la Casa Bianca i lettori del quotidiano hanno risposto a quiz con voti da uno a quattro "pinocchi" per capire quanto erano a conoscenza delle dichiarazioni dei candidati. «Sebbene il fact checking non sia sempre in grado di riparare i danni causati dall'informazione di scarsa qualità, la sua esistenza può aiutare a ridurla», spiega uno studio della New America Foundation. Negli Usa i giornalisti riuniti da PolitiFact hanno vinto il Pulitzer nella categoria "national reporting" e l'archivio Snopes è un'immensa (e frequentatissima) biblioteca antibufala sul web. Anche «Le Monde» ha avviato il blog Les décodeurs per il fact checking partecipativo. L'Italia non resta indietro. E la politica è un'area per test in diretta. A monitorare le affermazioni dei candidati ospiti durante «Lo Spoglio» su Sky Tg24 è un gruppo di ricercatori della facoltà di Economia dell'Università Tor Vergata con Il Sole 24 Ore. «Vero», «non vero», «parzialmente vero» sono gli esiti delle analisi, condivise con gli spettatori attraverso messaggi su Twitter. Al fact checking guarda Enrico Pozzi, docente di psicologia sociale all'Università La Sapienza. Con i suoi collaboratori ha coinvolto una community di circa 6mila persone da una rete più ampia di 35mila utenti online: fino al giorno delle elezioni sarà impegnata in modo volontario a valutare la veridicità di 5-6 messaggi provenienti, ad esempio, dai profili dei politici su Twitter. «Per il fact checking sono efficaci gruppi di interesse che all'interno di un social network siano capaci di agire come sottointelligenze collettive di analisi», dice Pozzi. E osserva che il pubblico online ha fame di verifiche, ma il sistema non deve risultare così complesso da essere riservato agli specialisti. Ricorda inoltre che il 70-75% delle opinioni diffuse non nasce all'interno dei social media, ma è influenzato dai media tradizionali. Nella piattaforma collaborativa Fact Checking di Fondazione ahref sono i cittadini che contribuiscono a verificare l'attendibilità di una notizia. Aggiungono commenti e fonti documentarie per sostenere le loro valutazioni (chi scrive ha partecipato allo sviluppo del progetto, ndr). È uno spazio aperto alla discussione di qualsiasi news che propone un metodo di ricerca della verità ispirato a quattro principi: accuratezza, imparzialità, indipendenza e legalità. L'universo di internet può diventare una macchina di produzione e amplificazione per voci e leggende metropolitane infondate. Può sorprendere, ma alcuni veramente credono che non sia mai avvenuto lo sbarco sulla Luna: le missioni della Nasa sarebbero state registrate in uno studio cinematografico. A smontare con pazienza e metodo la congettura è stato anche un blogger, Paolo Attivissimo. Che ha demolito inoltre le teorie cospiratorie sull'11 settembre e sulle scie chimiche. Non è l'unico fact checker italiano: a seguire il medesimo sentiero sono, tra gli altri, Cicap, Valigia Blu, Polisblog. L'esperimento del Truth Teller è ancora agli inizi. Anche Ibm ha presentato una domanda di brevetto per un software di fact checking a firma di David Ferrucci, padre dell'intelligenza artificiale di Watson. È meno lontano il traguardo di macchine capaci di capire quando gli esseri umani mentono. _____________________________________________________ Corriere della Sera 10 feb. 2013 «IL NUCLEARE AIUTA LA TERRA» di STEFANO GATTEI Lo scienziato James Lovelock controcorrente Dalle emissioni dei gas serra i rischi peggiori «Mi dispiace quando mi dicono che il mio pessimismo scoraggia quelli che avrebbero ridotto la loro quota di emissione di carbonio, ma d'altra parte per me questi sforzi sono, nella migliore delle ipotesi, una romantica assurdità e, nella peggiore, un'ipocrisia». E alle molte agenzie che consentono oggi ai viaggiatori di piantare alberi per controbilanciare il biossido di carbonio prodotto dal loro aereo, risponde che tali atti «assomigliano alle indulgenze che una volta venivano vendute dalla Chiesa cattolica ai peccatori benestanti per compensare il tempo che altrimenti avrebbero passato in Purgatorio». Non scrive certo per compiacere, James Lovelock, neppure coloro che (come lui) hanno a cuore il nostro pianeta e cercano di prendersene cura. Svincolato da legami con l'industria o l'accademia, Lovelock è da sempre uno scienziato indipendente, che non ha paura di dire ciò che pensa, suffragando le proprie affermazioni dati alla mano. Nel 1979 propone la sua teoria più celebre, l'«ipotesi Gaia», secondo cui tutte le componenti del pianeta Terra, viventi e non viventi, formano un gigantesco sistema, interagendo fra loro come se appartenessero a un unico organismo vivente. Considerata all'inizio come un tipico prodotto della New Age, la teoria acquista negli anni sempre più credibilità, anche grazie a una quantità crescente di dati empirici che la supportano. Nei decenni successivi Lovelock ribadisce la propria tesi in vari libri, il più recente dei quali è Gaia, ultimo atto, ora tradotto in italiano per Pacini Editore, all'interno della collana «Filosofia ambientale». «Uno degli errori più gravi commessi dagli scienziati nel XX secolo — dice Lovelock alla "Lettura" in una pausa dalla scrittura del suo nuovo libro — è stato quello di dare per scontato che tutto ciò che dovevamo sapere sul cambiamento climatico potesse essere dedotto da alcuni modelli fisico-chimici relativi all'atmosfera, sviluppati con computer sempre più potenti. La biosfera (e gli oceani in particolare) è stata considerata un elemento passivo, quando invece gioca un ruolo centrale». Tali modelli si sono rivelati inadeguati: sono infatti gli oceani ad assorbire la maggior quantità di calore, che rimane in profondità, sotto uno strato sottile (termoclino) nel quale la temperatura subisce una marcata variazione. «Non sappiamo quando accadrà, ma prima o poi quel calore verrà rilasciato e porterà a un brusco cambiamento climatico nell'intero sistema». Se con il suo primo libro Gaia (Bollati Boringhieri), Lovelock intendeva invitare la comunità scientifica ad affrontare il problema del riscaldamento globale in una prospettiva diversa, ora (a quasi 94 anni) il suo suona come un ultimo tentativo di spronare i membri della comunità scientifica ad abbandonare un vecchio modo di pensare e a guardare all'ambiente con occhi nuovi. Il suo è un invito ad abbandonare conformismi, ideologie e modelli astratti e a osservare con maggiore obiettività le trasformazioni ambientali in corso: in altre parole, «un invito a lasciare il sentimento per un uso critico della ragione». Le ricette proposte dallo scienziato britannico sono tanto controverse quanto sgradevoli sono le sue previsioni: sostenitore del ricorso all'energia nucleare, Lovelock ha spesso insistito sulla necessità di abbandonare le energie rinnovabili, in quanto scarsamente efficaci e dispendiose. «Molto spesso si ignora che i luoghi più contaminati dalla radioattività sono diventati, col tempo, i più ricchi di vita: è il caso dei terreni nei pressi di Cernobyl, o dei luoghi di sperimentazione degli ordigni nucleari nell'Oceano Pacifico. Gli animali e le piante non percepiscono la radiazione come pericolosa, e la riduzione delle loro vite che essa potrebbe causare costituisce una minaccia molto minore della presenza di esseri umani. Imponenti apparati burocratici si occupano dello smaltimento delle scorie e dello smantellamento degli impianti nucleari, ma nulla di paragonabile si interessa di quella che costituisce davvero la più diffusa fonte di inquinamento: l'anidride carbonica». E i maggiori produttori di anidride carbonica siamo noi stessi. Il nostro è un pianeta sovrappopolato, in cui sempre più persone ricorrono a quantità crescenti di energia e di risorse. «Gaia ha impiegato miliardi di anni per produrre esseri intelligenti, ma noi non costituiamo che una tappa di un lungo processo di evoluzione che potrà portare, in un lontano futuro, alla nostra estinzione e alla nascita di organismi più adatti a un nuovo ambiente». Ciò conduce a una seria riconsiderazione del nostro ruolo all'interno del sistema terrestre: «La Terra non si è evoluta unicamente a nostro vantaggio e qualsiasi cambiamento che le apportiamo è a nostro rischio. Non possediamo alcun diritto speciale: siamo soltanto una tra le tante specie viventi che contribuiscono a Gaia. È probabile che la Terra sia ormai avviata verso un'era calda, in cui potrà sopravvivere, sebbene in una condizione peggiore e meno abitabile per noi. Le prove che le cose stiano effettivamente così sono evidenti, e il processo è irreversibile». Fondamentale, dunque, è comprendere che la Terra costituisce un sistema vivente, «capace sia di resistere al cambiamento climatico sia di aumentarlo. È superbo, da parte nostra, pensare di sapere come salvare la Terra. Il nostro pianeta sa bene come badare a sé: tutto ciò che possiamo fare è provare a salvare noi stessi». ______________________________________________________ Le scienze 8 Feb. 2013 I BUONI E I CATTIVI DELL'EDITORIA SCIENTIFICA Avere finalmente libero accesso alle pubblicazioni scientifiche senza rinunciare alla peer review è un sogno che la comunità accademica accarezza da tempo. I tentativi in questa direzione sono stati molti, ma trovare fondi e punti di vista condivisi non è facile. Una nuova impresa editoriale finanziata dal governo francese e appoggiata da Timothy Gowers, medaglia Fields nel 1998, sembra avvicinarsi al traguardo di Roberta Fulci Una wikireview per gli articoli scientifici Un nuovo modello editoriale politiche della ricercasocietà Non più tardi di aprile: questi i tempi previsti per la pubblicazione online dei primi articoli di Episciences Project, un archivio multimediale di riviste scientifiche finalmente open access. Con, in più, la garanzia di una rigorosa peer review. L'impresa parte da un'idea di Jean-Pierre Demailly, matematico all'università di Grenoble: sfruttare una piattaforma pubblica già esistente, arXiv, per sviluppare un processo di revisione interamente gestito dai suoi fruitori. “Senza altre spese", precisa lo studioso in un'intervista pubblicata da Nature, "che quelle di manutenzione del sito”. Erano otto anni che Demailly teneva questa trovata nel cassetto, ma non ha potuto realizzarla finché non ha trovato il supporto del Centre pour la Communication Scientifique Directe (CCSD), un ente di ricerca francese già impegnato nella gestione di HAL, un sito simile ad arXiv. Peter M. Fisher/Corbis Con l'espressione open access si indica un sistema di pubblicazione che non prevede nessun pagamento da parte di chi legge. È open access qualsiasi giornale online i cui articoli si possano vedere per intero senza sottoscrivere abbonamenti o contributi di alcun genere. Di norma, le riviste scientifiche non funzionano così: il ricercatore può accedere ai contenuti di una tradizionale pubblicazione specializzata solo se la sua istituzione ha comprato l'abbonamento – tipicamente costosissimo - alla rivista in questione. Certo, si potrebbe argomentare, è il prezzo della peer review. La "revisione tra pari" è il meccanismo consolidato secondo cui ogni articolo specialistico, prima di essere pubblicato, viene valutato da due o tre esperti dell'argomento - i referee - che sono designati dal comitato editoriale della rivista e rimangono anonimi. Questo controllo costituisce da decenni un'importante garanzia di serietà per i lettori di riviste scientifiche. Ma i referee non sono affatto pagati per farlo. I costi sostenuti dalle riviste peer review quindi sono costituiti solo dalle spese redazionali e di stampa – sempre meno, ora che la loro diffusione è in gran parte digitale. E queste spese non giustificano prezzi così alti. William Timothy Gowers, vincitore della Medaglia Fileds nel 1998, promotore del boicottaggio della Elsevier (Thegowers/ Wikimedia Commons) Ecco cosa ha fatto indignare, un anno fa, Timothy Gowers, matematico all'università di Cambridge e vincitore della Medaglia Fields nel 1998. Al punto da indurlo a organizzare una raccolta di firme – oggi, oltre tredicimila – di scienziati che si sono impegnati a non collaborare più con la Elsevier, gigante olandese dell'editoria scientifica che pubblica centinaia di riviste specializzate. Il paradosso, secondo Gowers, è evidente: la Elsevier, e molti altri gruppi editoriali, pretendono dalle istituzioni cifre esorbitanti per l'accesso ad articoli in gran parte realizzati dai dipendenti di quelle stesse istituzioni. I presupposti di Episciences Project sono diversi. Il sito arXiv, finanziato dalla Cornell University, è frequentato da migliaia di scienziati - soprattutto fisici, matematici e ingegneri - e nasce come deposito di preprint, cioè articoli non ancora pubblicati, e quindi non ancora passati attraverso la peer review. È un modo per confrontarsi con i colleghi senza bisogno di aspettare i tempi, spesso lunghissimi, delle riviste. Per il momento il problema delle piattaforme autogestite come arXiv è che non prevedono alcuna forma di selezione. Il nuovo progetto dovrebbe superare questo limite. Il sito ospiterà un certo numero di riviste che faranno capo ad arXiv. Ognuna avrà un suo comitato editoriale, ma ci sarà anche un coordinamento generale, guidato dallo stesso Demailly. Ogni autore potrà scegliere di sottoporre a una certa rivista il suo preprint, e il sistema di revisione sarà organizzato dalla CCSD. Una volta che il lavoro è stato valutato, a fianco del preprint, i lettori troveranno anche la versione riveduta dell'articolo. Non è escluso che in futuro i lettori di Episciences Project possano contribuire alle spese di manutenzione, ma si tratterebbe di somme commisurate ai costi effettivi, e non confrontabili con i prezzi degli abbonamenti tradizionali. Lo stesso Gowers, che ha reso noto il lancio di Episciences Project sul suo blog, sarà nel comitato editoriale di una delle riviste coinvolte. Avere finalmente libero accesso alle pubblicazioni scientifiche senza rinunciare alla peer review è un sogno che la comunità accademica accarezza da tempo. I tentativi in questa direzione sono stati molti, ma trovare fondi e punti di vista condivisi non è facile. Una nuova impresa editoriale finanziata dal governo francese e appoggiata da Timothy Gowers, medaglia Fields nel 1998, sembra avvicinarsi al traguardo di Roberta Fulci ______________________________________________________ Le scienze 9 Feb. 2013 RICERCA EUROPEA, L'INTEGRAZIONE ANCORA NON C'È Un’approfondita analisi statistica ha dimostrato che l'integrazione della ricerca nell’Unione Europa è rimasta in buona parte sulla carta. Le reti di collaborazione sia nel campo delle pubblicazioni scientifiche sia in quello dei brevetti sono ancora molto solide ma all'interno dei confini degli Stati membri, mentre i collegamenti transnazionali crescono, non sono in linea con quanto avviene nei paesi sviluppati dell'area OCSE di Folco Claudi La nuova geografia della ricerca politiche della ricercaenti di ricerca Una ricerca europea sempre più integrata, ma non quanto si vorrebbe e, soprattutto, non quanto sperato e previsto sulla base delle ambiziose e lungimiranti politiche dell’Unione Europea messe in campo nell’ultimo decennio. È questa la fotografia, ampiamente documentata dai dati statistici, che emerge da uno studio condotto da Massimo Riccaboni e colleghi dell’Institute for Advanced Studies (IMT) di Lucca, il cui resoconto è pubblicato sulla rivista "Science". Finanziamento diretto, incremento della mobilità sia delle conoscenze sia delle risorse umane, politiche per accelerare l’innovazione: erano queste le direttrici dell’iniziativa European Research Area (ERA), delineate nel 2000 durante il Consiglio Europeo di Lisbona, durante il quale era stato elaborato il piano di sviluppo economico per il periodo 2000-2010. Le misure puntavano all'integrazione di un sistema di ricerca a livello europeo tramite l'accesso a risorse nell'ambito dei programmi quadro (Framework Programme). Ora, dopo 13 anni, è possibile stimare il livello di integrazione della ricerca europea localizzando gli “inventori” che hanno fatto richiesta di brevetto e gli autori delle pubblicazioni scientifiche, oltre ai relativi istituti. “L'obiettivo del nostro lavoro era quello di fare il punto dell'ERA con una metodo quantitativo, in particolare per misurare il progresso nell’integrazione dei paesi europei dal 1995 in poi”, spiega Riccaboni a “Le Scienze”. “Abbiamo quindi considerato i dati relativi ai brevetti di fonte OCSE, che per ogni richiesta ha 'georeferenziato' gli inventori e gli istituti di ricerca; per quanto riguarda invece le pubblicazioni è stato utilizzato la banca dati ISI, una fonte molto autorevole di dati relativi alla letteratura scientifica”. Unione Europea: una casa comune ancora tutta da costruire, anche nel campo della ricerca sicentifica (© Images.com/Corbis) Grazie a questi dati – 2,4 milioni di richieste pervenute tra il 1986 e il 2010 all’Ufficio brevetti europeo (EPO) e 260.000 record bibliometrici raccolti dalla Thomson ISI Web of Science per il periodo 1991-2009 – sono stati elaborate diverse "reti". In ciascuna di esse, i nodi sono costituiti dalle "unità territoriali standard", note anche come NUTS3, usate negli studi di statistica e corrispondenti alle dimensioni delle provincie italiane; i collegamenti tra due nodi rappresentano invece le collaborazioni tra due ricercatori che lavorano nelle unità territoriali collegate, oppure misurano la mobilità di ricercatori e inventori. Grazie poi ad alcuni specifici algoritmi sono state individuate le comunità, ovvero i sottinsiemi di nodi più fortemente collegati gli uni agli altri, al fine di confrontare i confini geopolitici dei network di ricerca e sviluppo (R&D). "Le reti considerate sono cinque: nella prima e nella seconda abbiamo ricostruito, rispettivamente, le reti di ‘coautoraggi’ nei brevetti e nelle pubblicazioni scientifiche, misurando dove sono localizzati gli autori che lavorano insieme, mentre nella terza i collegamenti rappresentano le citazioni di altri lavori o brevetti”, aggiungeo Riccaboni. "La quarta è la rete dei co-assegnatari dei brevetti, ovvero degli istituti coinvolti, mentre la quinta misura la mobilità degli inventori: analizzando i brevetti consecutivi si possono monitorare gli spostamenti di cui esiste traccia". Su queste cinque reti sono state effettuate due diverse analisi, la prima per valutare la loro estensione geografica e la seconda per stimare come siano cambiate nel tempo, anche in funzione degli incentivi europei. Nel primo caso si è trattato di un'analisi di clustering, che ha individuato le comunità delle reti: in tutta Europa sono risultate in buona corrispondenza con le reti nazionali, con l'eccezione di Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo che mostrano un buon livello d'integrazione entro i confini del Benelux (ovvero del territorio che comprende i tre paesi appena citati), così come di Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia entro i confini della Scandinavia. "Il fatto che le reti rimangano essenzialmente entro i confini nazionali è un indice significativo, soprattutto se si fa un confronto con un sistema veramente integrato come quello statunitense", sottolinea Riccaboni. "Chiaramente anche negli Stati Uniti i collegamenti possono avere una connotazione regionale per ovvi legami con il territorio, ma non c’è difficoltà per una città come Denver di collaborare per esempio con San Francisco”. Sopra, la sede del Parlamento Europeo a Bruxelles. La collaborazione tra i paesi dell'Unione Europea, pur essendo cresciuta, non è allo stesso livello di altri paesi sviluppati. © Image Source/Corbis La seconda analisi ha riguardato il confronto tra i paesi dell'Unione Europea con gli altri paesi dell'Organisation for Economic Co-operation and Development (OCSE) con un livello elevato di prodotto interno lordo (Stati Uniti, Canada, Australia, Corea del Sud). La questione più rilevante in questo contesto è infatti stimare se il tasso di crescita delle collaborazioni intra-europee sia maggiore o minore di quello che si osserva in generale nei paesi che fanno parte dell’OCSE. "Chiaramente, le collaborazioni scientifiche sono in aumento in tutti i paesi, per effetto della globalizzazione della ricerca, soprattutto quelli ad alta intensità R&D: si tratta di vedere, mutuando il linguaggio degli studi in campo biomedico, se il gruppo 'trattato', nel nostro caso i paesi europei interessati dagli incentivi all'integrazione, vada meglio o peggio del 'gruppo di controllo'". Il risultato che emerge dalle analisi statistiche è che in Europa per tutte e cinque le reti c'è stato un incremento di collaborazione, ma del tutto in linea con quello degli altri paesi sviluppati. Si può concludere dunque che gli incentivi all'integrazione non funzionano? "Il fatto che l'Agenda di Lisbona abbia fatto sostanzialmente un buco nell'acqua è riconosciuto ormai anche dai documenti ufficiali della Commissione Europea", risponde Riccaboni. "Misure più recenti come quelle della European Research Council (ERC) dovrebbero consentire di superare questa impasse, grazie per esempio a misure come la portabilità dei grant, che garantisce a un ricercatore di usufruire di una borsa anche trasferendosi in un altro istituto". In conclusione, lo studio di Riccaboni e colleghi può essere utile per avviare il dibattito sulle misure d'integrazione della ricerca, dimostrando l’utilità di strumenti statistici quantitativi applicati a dati e già disponibili per capire se le politiche abbiano effetto o meno. Un ulteriore sforzo però dovrebbe essere fatto per garantire la trasparenza e la disponibilità dei dati. E in questo, ancora una volta gli Stati Uniti hanno qualcosa da insegnare. _____________________________________________________ Corriere della Sera 10 feb. 2013 L'IMU? NO, TASSIAMO LE CITAZIONI FACILI di GUIDO VITIELLO Frasi e concetti sono sempre gli stessi: dal liquido Bauman allo scandaloso Pasolini Tra i più usati, gli aforismi erroneamente attribuiti a Voltaire, Goebbels e Allen R ipianare il debito pubblico sarebbe una sciocchezza, se solo ci decidessimo a prendere alcuni provvedimenti dolorosi ma risolutivi: una tassa sui luoghi comuni e sulle frasi fatte, per esempio, e ancor prima una tassa sulle citazioni abusate. Cinquanta centesimi ogni volta che ci si azzarda a riproporre il monito di Bertolt Brecht, «Sventurato il paese che ha bisogno di eroi». Almeno un euro per gli usi illeciti del motto filosofico di Ludwig Wittgenstein, «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Cinque euro per il George Santayana di «Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo». Una gabella molto più onerosa per guadagnarsi il diritto a ripetere impunemente il tormentone del Gattopardo, «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». La confisca dei beni (e una quarantina di scudisciate sulla pubblica piazza, già che ci siamo) per chi ha ancora il coraggio o l'impudenza di annunciare, con Goya, che «Il sonno della ragione genera mostri». Pensateci bene, un meccanismo di tassazione di questo genere non solo risanerebbe in tempi rapidissimi i conti dello Stato, ma porterebbe sicuri benefici anche in quel piccolo sistema valutario che è il dibattito pubblico e giornalistico, dove le parole sono monete e il citazionismo compulsivo innesca spaventosi fenomeni inflattivi. A furia di ripetizioni, quanto vale ormai sul mercato delle idee uno dei preziosissimi aforismi di Ennio Flaiano, o di Leo Longanesi? Non molto più di un marco nella Germania di Weimar, quando un chilo di banconote non bastava a comprare un chilo di pane. Ci sono autori così saccheggiati che non si può fare a meno di immaginarli come le mappe anatomiche dei bovini che si vedono alle pareti di qualche macelleria, suddivise per tagli da linee tratteggiate (lombata, girello, tracoscio, sottospalla). Il cliente sceglie una delle cinque o sei formule per cui sono noti, se la fa incartare, un ciuffo di rosmarino e via, è pronta per il banchetto del proprio discorso, con grande soddisfazione dei convitati. Per la macelleria citazionista, per esempio, Walter Benjamin si divide pressappoco così: angelo della storia (è il taglio più pregiato, diciamo pure il filetto), perdita dell'aura, riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, sex-appeal dell'inorganico e un po' di frattaglie sui passages parigini; Michel Foucault, diviso in aree contrassegnate da un numeretto, si presenta come segue: sorvegliare e punire, panopticon, cura di sé, dispositivo, eterotopia e soprattutto biopolitica (che ormai si dà via come il macinato, e serve a preparare i polpettoni più immasticabili). Pier Paolo Pasolini offre anche lui ottimi tagli, che non possono mancare in un buffet apparecchiato come si deve: scomparsa delle lucciole, omologazione, i poliziotti di Valle Giulia, «Il romanzo delle stragi», il discorso dei capelli, mutazione antropologica, scandalo del contraddirsi e via fino all'indigestione. Beninteso, vedersi ridotti a un pugno di frasi o a una sola formula è un destino a cui non sfuggono neppure i migliori, è il corso normale della decomposizione dei grandi organismi letterari. Nelle prime pagine della sua popolare Storia della filosofia greca Luciano De Crescenzo rievocava i suoi appunti iper-bignamizzati di liceale dove Talete diventava, brutalmente, «quello dell'acqua». Qualcosa di simile sta avvenendo, mentre è ancora in vita, al citatissimo Zygmunt Bauman, che è ormai «quello del liquido». Ma se proprio si deve esser ridotti a una sola parola, a una sola frase, che almeno sia una frase che abbiano pronunciato davvero. Tutti ricordano la nobile e cavalleresca sortita di Voltaire: «Non sono d'accordo con le tue idee, ma mi batterei fino alla morte perché tu possa esprimerle». Tutti, tranne Voltaire, che quando fu scritta era morto da più di un secolo: a mettergliela in bocca fu infatti Evelyn Beatrice Hall, nel libro biografico The Friends of Voltaire (1906). Già, direte voi, ma Voltaire ha pur sempre detto che «Il grado di civiltà di una nazione si misura visitando le sue carceri». Dragate pure la sua opera omnia: non ne troverete traccia. E certo, sostiene un'altra scuola, quella lì è di Dostoevskij. Ma niente da fare, pare che tra i milioni di parole dell'autore dei Karamazov l'aforisma sulle carceri manchi all'appello. Il caso più desolante (e spudorato) è quello di Primo Levi, brandito a ogni occasione dagli antisionisti arrabbiati per una frase («Ognuno è ebreo di qualcuno, oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele») che non solo non disse mai, ma che non si sarebbe mai sognato di dire. Woody Allen ha inventato centinaia di battute memorabili, ma forse sarà ricordato per l''unica che non ha mai detto: «Dio è morto, Marx è morto, e neanch'io mi sento molto bene». Chi è stato, allora? Groucho Marx, come sostiene qualcuno? Neppure. Eugène Ionesco? Ma Ionesco a sua volta citava una scritta murale sessantottina. Non se ne esce. Più ci addentriamo nel labirinto delle citazioni, più siamo costretti a mettere in dubbio le poche certezze nozionistiche di cui avevamo tappezzato il nostro cervello negli anni di scuola. Due professori americani, Paul F. Boller e John H. George, si sono divertiti anni fa a compilare un dizionario commentato di false citazioni, They Never Said It (Oxford University Press). Ne vien fuori che Goebbels non ha mai detto «Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola» (la frase è del drammaturgo Hanns Johst), Lenin non ha mai parlato di «utili idioti», e Maria Antonietta non ha mai suggerito di dare brioches al popolo affamato di pane, perché la stessa frase compare molti anni prima nelle Confessioni di Rousseau. Ma — questo è il punto — la regina avrebbe potuto dirla, suona plausibile, e tanto basta. Tutto sta a convincersi che il nome in calce a una citazione non è il riconoscimento di una paternità, o almeno non principalmente. È prima di tutto un colpo di gong, che conferisce solennità o perfino un tremito di fatalità alle parole appena pronunciate. Dunque, un autore vale l'altro. Non c'è frase abbastanza stupida che non possa riscattarsi se in coda ci si appende, a casaccio, un «Winston Churchill» o un «Oscar Wilde». Ma, con tutto il rispetto per i falsari e gli spacciatori di citazioni taroccate, c'è un esempio ancora più goliardico a cui dovremmo ispirarci. È il Lello Arena di Ricomincio da tre, che per darsi arie di persona profonda contrabbanda come propria una frase di Montaigne. L'ignaro Troisi, a sua volta, la ricicla per far colpo su una ragazza. E quando si sente obiettare «Ma che fai, parli con le frasi degli altri?», non gli resta che chiederle: «Perché, conosci Lello?». ______________________________________________________ L’Unione Sarda 2 feb. 13 PA, TANTA (INUTILE) SPESA SOPRATTUTTO IN SARDEGNA Nell'Isola la pubblica amministrazione costa 30 miliardi all'anno ma le risorse non sostengono gli investimenti in infrastrutture Ogni sardo produce mediamente 19.700 euro di prodotto interno lordo. Il 63% di questo importo (12.400 euro) serve a coprire le spese della Pubblica amministrazione, in senso stretto. Se si considera la spesa dell'intero Settore pubblico allargato (Spa) si arriva all'85% del Pil pro-capite (16.800 euro a testa). I nostri connazionali fuori dalla Sardegna devono fronteggiare una spesa pro-capite per la Pubblica amministrazione equivalente alla nostra, dato che contribuiscono anch'essi per 12.400 euro. L'importo della spesa dell'intero settore pubblico allargato a carico dei singoli cittadini italiani è invece inferiore di mille euro (15.700 euro). Tra le due aree confrontate vi è un'altra importante differenza: il valore del Pil pro-capite. Quest'ultimo in Italia è mediamente più elevato di quello sardo di 6 mila euro. TROPPE SPESE Ne deriva che l'incidenza media della spesa pubblica allargata a livello nazionale si ferma al 61% del Pil pro-capite, vale a dire 24 punti percentuali in meno rispetto alla Sardegna. La spesa complessiva del settore pubblico allargato ammonta nell'Isola a 30 miliardi di euro, di questi: 26,6 miliardi sono destinati a spesa corrente (l'89%), i restanti 3,4 miliardi agli investimenti (l'11%). Anche a livello nazionale si rileva lo stesso sbilanciamento verso le partite correnti. Tuttavia nell'Isola le infrastrutture pubbliche sono fortemente in ritardo rispetto alla media nazionale. Per cui, per superare il divario infrastrutturale che peraltro deprime la crescita del prodotto interno lordo regionale, sarebbe opportuno spostare parte delle spese correnti verso gli investimenti. GLI OCCUPATI Un altro dato rilevante riguarda gli occupati pubblici: in Sardegna sono 146 mila (contando Amministrazione pubblica e difesa, assicurazione sociale obbligatoria, istruzione, sanità e assistenza sociale), ossia uno ogni quattro occupati. Nel resto d'Italia sono invece uno ogni sei. Come terzo elemento di analisi si ricorda che il valore aggiunto della sola PA in Sardegna è pari al 26,4% dell'intero sistema economico, mentre nel resto d'Italia si ferma ben al di sotto: 17,4%. LO SBILANCIAMENTO Queste variabili mettono in evidenza quanto in Sardegna la pubblica amministrazione sia predominante rispetto agli altri settori. Seppure in misura più limitata questo vale anche a livello nazionale. Nonostante la dimensione in entrambe le aree sono limitati i ritorni, in termini di efficienza, dei servizi erogati. Una recente analisi condotta dal Centro studi di Confindustria sostiene che le semplificazioni della PA, a regime, determineranno un risparmio per le piccole e medie imprese manifatturiere pari al 28% dei costi attuali: 4 mila euro all'anno; per le imprese del terziario (più numerose in Sardegna) il risparmio arriverebbe a quasi 7 mila euro (il 30%). PIÙ EFFICIENZA Non vi è perciò alcun dubbio sugli effetti di un miglioramento del settore pubblico, non solo a livello micro, si pensi ai costi della burocrazia a carico delle piccole imprese, ma anche a livello macro, come dimostra uno studio della Commissione europea, che ha calcolato che la burocrazia in Italia ha un impatto reale sulla crescita economica, con un costo di 73 miliardi di euro, pari al 4,6 del Pil. Rendere più efficiente il settore pubblico significherebbe quindi ridurre il debito senza gravare ancora una volta sui cittadini attraverso il sistema della tassazione, ma anche offrire un maggiore efficientamento del sistema delle imprese. Il problema, che oramai ci trasciniamo da lungo tempo, è che le riforme bisogna farle e non solo enunciarle. A causa della frammentarietà delle procedure e l'incertezza nell'interpretazione, le riforme restano imbrigliate tra resistenza e incrostazioni burocratiche, generando solo aumento di costi. Occorre perciò implementare le semplificazioni e diffondere le conoscenze, in particolare quelle legate all'informatica. Francesco Manca Lucia Schirru centrostudi@unionesarda.it ______________________________________________________ L’Unione Sarda 2 feb. 13 ECCO LA SOLUZIONE: LE UNIONI DI COMUNI Poca produttività e scarsa efficienza Uno dei problemi della pubblica amministrazione (PA) italiana è rappresentato dagli inadeguati livelli di efficienza e di produttività, tra i più bassi al mondo, almeno tra i paesi avanzati. Questo significa che esiste un forte divario tra costi sostenuti e ciò che la PA restituisce a cittadini e imprese in termini di benefici. Recenti studi individuano in una PA efficiente uno degli elementi su cui investire per favorire lo sviluppo. Se da un lato gli enti pubblici sono, dunque, oggi uno dei principali ostacoli per la nostra economia, dall'altro essi possono essere un elemento fondamentale per la qualità della vita, poiché forniscono (o dovrebbero farlo) i beni e i servizi necessari per rendere più semplice e proficua la nostra esistenza. Al di là degli aspetti legati all'uso illecito delle risorse pubbliche, purtroppo, molto frequente, uno dei principali problemi è rappresentato dal controllo del loro utilizzo. Detto in altre parole, il cittadino dovrebbe poter valutare se al sacrificio che gli è richiesto (il pagamento delle imposte e di tutti gli altri tributi) corrispondono beni e servizi di valore almeno equivalente. I COMUNI Uno degli aspetti che qui è considerato riguarda il livello di efficienza dei comuni che rappresentano il livello istituzionale più vicino al cittadino e che, in virtù del principio di sussidiarietà, sono chiamati a intervenire per primi nel soddisfacimento dei bisogni. La Sardegna, con i suoi 377 comuni, si caratterizza per una forte frammentazione amministrativa. Le ridotte dimensioni della maggior parte dei comuni sardi (oltre l'80% ha meno di 5.000 abitanti, circa il 30% ha meno di 1.000 abitanti) e la progressiva e inesorabile riduzione delle risorse a disposizione, insieme all'aumento delle funzioni assegnate, rende la situazione dei comuni difficilmente sostenibile dal punto di vista finanziario. Ciò comporterà e ha già comportato una riduzione della quantità e della qualità dei servizi erogati. Se da un lato è giusto richiedere che maggiori risorse siano assegnate ai comuni, dall'altro lato è indispensabile che tali risorse siano utilizzate in modo più efficiente. Oltre a indispensabili interventi sui processi interni di ciascun comune, una strada da perseguire, ancora poco battuta, è l'associazionismo e in particolare le Unioni di comuni, veri e propri enti locali previsti dal nostro ordinamento giuridico, con l'obiettivo dell'esercizio associato di funzioni e servizi. Numerosi studi dimostrano come l'erogazione associata favorisca l'incremento di efficienza. In Sardegna esistono 35 Unioni di comuni che riuniscono circa 270 enti e coinvolgono 600 mila abitanti. Questi dati, in teoria, mostrerebbero il grande interesse verso le Unioni. LE DIFFICOLTÀ La realtà, tuttavia, è che le Unioni stentano a decollare, con un volume di servizi erogati ancora insufficiente. Ciò dipende da vari fattori. Innanzitutto, vi è un'atavica avversione a livello locale a rinunciare a parte della propria sovranità, sia dal punto di vista sociale che politico. Inoltre, l'erogazione in forma associata richiede una razionalizzazione organizzativa, ad esempio, con un unico ufficio a presidio di un determinato servizio, invece che uno per comune. Questo significa assegnare un solo incarico di tipo dirigenziale (nei comuni più piccoli si parla di “posizioni organizzative”) e ridurne la proliferazione. Questi fattori possono contribuire a spiegare il motivo per il quale l'associazionismo in Sardegna (ma anche nel resto d'Italia) non si sia ancora sviluppato a sufficienza. Se si riuscirà a superare tali ostacoli, l'erogazione in forma associata dei servizi potrà rappresentare, anche a prescindere dai recenti obblighi normativi, un importante strumento per migliorare i livelli di efficienza e di efficacia dei nostri comuni utilizzando al meglio le scarse risorse. Alessandro Spano Docente di Economia delle aziende e amministrazioni pubbliche Università di Cagliari ___________________________________________________ Avvenire 06 Feb. ‘13 TROPPA DISATTENZIONE AI RISCHI DI INTERNET DA MILANO BICE BENVENUTI Gran parte dei genitori italiani è convinta che se i loro figli restano a casa, magari chiusi nella loro cameretta a smanettare con il computer possono stare tranquilli. Che pericoli potrebbero correre i pargoli? Ma è solo un'illusione perché navigare in rete è tutt'altro che sicuro anche se tra le madri e i padri italiani non sembra essere molto diffuso l'allarme sui pericoli del web: una ricerca su un campione di circa mille minori indica che solo tre genitori su dieci sono attenti all'uso che i loro figli fanno di internet. Dallo studio, promosso da Moige e Istituto di terapia cognitivo interpersonale e illustrato ieri in occasione del "Safer internet day", emerge che 9 minori su 10 (1'87,8%) navigano in rete quotidianamente. La socializzazione e il divertimento sono le motivazioni principali che appassionano i ragazzi al web. I social network sono molto utilizzati: 6 su 10 (61%) dei ragazzi intervistati dichiara di esserci iscritto. I figli sono davanti allo schermo e i genitori che fanno? I minori dai 6 ai 10 anni che fruiscono della rete senza la presenza di un adulto sono il 31,2%, addirittura 7 su 10 (72,5%) per la classe dagli 11 ai 13 anni, fino ad arrivare alla quasi totalità nella fascia dai 14 ai 20 (8 ragazzi su 10 sono privi del controllo diretto di un adulto). Solo il 18,6% dei genitori impartisce limiti di tempo nell'utilizzo del computer ai figli. A documentare le insidie in cui si può incappare sul web sono i dati della polizia postale. Nel 2012, spiega il direttore del servizio, Antonio Apruzzese, sono stati 78 gli arresti effettuati per pedofilia online, con 335 denunce, 30.204 siti monitorati, 412 perquisizioni effettuate e 461 siti web pedopornografici inseriti nella lista nera. L'allarme lo lancia anche il ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri. «È necessario - auspica - sensibilizzare e informare sull'importanza del corretto utilizzo di internet e trasmettere la conoscenza dei rischi connessi all'uso improprio della rete e ai pericoli che nasconde dietro immagini seducenti». Il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo si schiera contro il cyberbullismo. «Dovremmo - osserva - cominciare a parlare di cyber- education. La scuola italiana ha la necessità di avviare fin dalle elementari un processo educativo: dobbiamo dare ai ragazzi gli strumenti per poter vivere in questa società più liquida». L'allarme Sette minori su dieci tra gli 11 ei 13 anni usano la rete senza la presenza di un adulto 11 ministro Cancellieri: devono conoscere i pericoli nascosti dietro immagini seducenti ______________________________________________________ L’Unione Sarda 4 feb. 13 UNA PASSWORD CI SEPPELLIRÀ?SOS PER NON MORIRE DI INTERNET i GIORGIO PISANOÈ iniziata che sembrava un gioco: bastava tenere a mente una parolina, quella ideale aveva otto lettere. Col tempo se n'è aggiunta un'altra e poi un'altra ancora. A valanga sono seguiti codici e pin insieme a quella strana espressione che fa user id (identità dell'utilizzatore) e che non ti consente di fare niente se non l'hai memorizzata. È un assedio silenzioso e perfetto quello delle nuove tecnologie: bisogna ricordarsi la parola-chiave per accendere il computer, quell'altra per entrare nel sistema e pure quell'altra ancora se vuoi vedere la posta elettronica. Segue il pin del bancomat, quello delle Poste, la password per affacciarsi su Facebook o Twitter, quella per vedere on line il conto in banca (ammesso che ne valga la pena). Senza dimenticare ovviamente quell'altra parolina che ti permette di fare acquisti su internet, pagare un biglietto aereo, comprare (sempre che ti interessi) un paio di scarpe.Andrea Casanova, cinquantacinque anni, due figlie, è il responsabile dei Servizi informatici dell'azienda ospedaliera-universitaria di Cagliari. Ha cattedra di Informatica e tiene corsi di Ingegneria del software, che fa impressione solo a dirlo. Spiega la rivoluzione digitale a medici e a studenti che confidano di sopravvivere alla rivoluzione tecnologica. Lavora su tre scrivanie: una al San Giovanni di Dio, un'altra all'università e una terza al Policlinico di Monserrato. Verrebbe da chiedergli se tre scrivanie significano anche tre password diverse ma francamente sembra una domanda da troglodita.Figlio di un agricoltore, fisico asciutto, sorriso rasserenante e cortesia analogica (cioè d'antan), il professore guarda il Pc senza l'occhio adorante. Si capisce che le tecnologie non sono un nuovo dio ma neppure quel niente che pare a tanti. Sulla scrivania vibra silenzioso anche un telefonino preistorico e già questo sembra confortante. Casanova racconta d'aver sentito l'irresistibile richiamo verso l'informatica osservando suo suocero ipnotizzato davanti allo schermo di un Commodore 64 (un vecchio cardampone dell'età della pietra). «Guardava, paralizzato dalla magìa, una grafica ridicola che gli mostrava uno sciatore in discesa libera». È stato in quell'istante che ha percepito in che direzione andava il futuro. Fortuna che nel momento in cui affidava il suo cervello e la sua curiosità alle nuove tecnologie, ha inghiottito un misterioso antidoto. Che oggi, in piena e felice peste elettronica, gli fa leggere libri cartacei, lo fa correre per mantenersi in forma, lo manda perfino a pesca per rilassarsi. «L'importante però è capire che non si può vivere ignorando il mondo digitale. Che ti piaccia o no, ci devi fare i conti». Anche perché un minuto dopo il battesimo di internet, niente era più come prima. Siamo travolti da password, pin e codici.«È problema molto dibattuto, questo. Io ne ho cinque o sei di password: risolvo creando un file nel mio smartphone dove inserisco tutti questi dati».E se perde lo smartphone?«Non esisto più, tecnologicamente parlando. La questione dell'accumulo di dati sarà risolto presto con la biometria».Cos'è la biometria?«È una caratteristica unica che ciascuno di noi possiede. Una specie di impronta digitale, per capirci. Sarà la chiave per poter accedere - noi e noi soltanto - a password, pin e tutto il resto senza dover collezionare parole-chiave o altro».Non è stressante tenere a mente tanti dati?«Non c'è dubbio, qualche strascico di nevrosi è inevitabile. È un piccolo scotto che dobbiamo pagare senza tuttavia dimenticare, neppure per un attimo, il ruolo delle nuove tecnologie».Che hanno rivoluzionato il mondo.«Esattamente, anche se per il momento solo il 10 per cento degli abitanti della Terra (siamo sette miliardi) ha accesso a internet».Quanto tempo si sopravvive senza controllare il telefonino?«È una tragedia, pare una reazione da scimmia addestrata. Tra i 150 studenti che frequentano il corso d'informatica c'è chi, nel test d'ingresso, ha dichiarato di utilizzare internet da sei a venti ore la settimana. Preferiscono informarsi sulla Rete a scapito della televisione. Dentro questa logica è naturale che si viva incollati al telefonino».Incollati quanto?«Ha mai fatto caso che durante le riunioni tutti o quasi partecipano tenendo il telefonino sotto gli occhi? Ciattano, vivono in connessione permanente. Ne faccio le spese anch'io».Cioè?«Una delle mie figlie vive e lavora a Milano. Per questo ho comprato a mia moglie uno smartphone. Mia moglie, lo preciso, è, anzi era, allergica alle tecnologie. L'altro giorno a colazione sono rimasto senza parole nel vederla che picchiettava sui tasti dello smartphone, occhi bassi e nessuna attenzione al mondo circostante».Password e codici sono segnali di una società che si autocontrolla ossessivamente?«Senz'altro sì ma questa è la punta dell'iceberg. Il vero problema della tecnologia è che di tutto quel che facciamo resta traccia. Noi non siamo quello che siamo ma solo quello che pubblichiamo. E questo ha spazzato via il diritto all'oblìo. C'è un grande dibattito filosofico sul tema: tutto quello che facciamo in Rete deve restare sempre e comunque a disposizione di chiunque?»Siamo sigle che camminano: non è avvilente?«Dietro le sigle ci sono persone, professionisti che pensano, discutono, si confrontano al riparo di una sigla. Inevitabile che accada tutto questo, è l'altra faccia della Rete, uno dei suoi ovvii effetti collaterali».Siamo davvero consapevoli della rivoluzione che sta cambiando le nostre vite?«Ecco, questo è il punto. Internet è conoscenza, è cultura, apertura al mondo. Si tratta di imparare a gestirsi e a gestire questo mezzo. Che è tutto e il contrario di tutto. È democrazia assoluta, a disposizione di tutti. Mica quello che facevano i medici fino a dieci anni fa».Perché, che facevano?«Si esprimevano in termini assolutamente incomprensibili per i comuni mortali e riuscivano a scrivere le ricette perfino peggio. Cos'altro era questo atteggiamento se non arroganza del potere? Per perpetuare la loro distanza dalla gente comune si erano barricati dietro un linguaggio iper-tecnico». I social network sono sterminate piazze di solitudine?«Lo sono senz'altro. Ma sono soprattutto e purtroppo l'unico mezzo che consente a tantissime persone di relazionarsi agli altri. E questo non è né positivo né negativo. Il guaio dei social network è altro».Cioè?«Anziché favorire il dialogo e il confronto, creano gruppi che si autoincensano e che sono assolutamente chiusi verso l'esterno, verso chi non viene riconosciuto uguale. Una delle vie di fuga è il blog».Perché?«Non so se ci siano sette miliardi di blog ma di sicuro ci andiamo vicino. Il blog, ossia un diario privato messo in Rete, è una sorta di febbre che sta portando a un risultato preciso: tutti scrivono, nessuno legge».Coi suoi studenti parla di questi argomenti?«Naturalmente. Ho anche affidato un compito a casa: iscrivetevi a un social network e fatevi sbattere fuori».Cosa vorrebbe dimostrare con questo?«La totale autoreferenzialità dei social network, che sono una giungla di idee. Guai a criticarli, guai a dissentire: il gruppo ti marginalizza e ti espelle. Ho voluto fare l'esperimento e sono stato puntualmente cacciato. Non è un caso che su internet non esistano malattie incurabili: qualunque sia il tuo problema, la Rete ha sempre una soluzione».Come difendersi?«Facendo scelte, utilizzando la propria cultura per orientarsi. Bisogna imparare a discernere. Internet è una porta magica che ti scaraventa in un pianeta immenso dove trovi di tutto. Se non sei attrezzato culturalmente qualche rischio c'è».Sta dicendo che internet non perdona gli stupidi e gli ignoranti?«Proprio così. Li spolpa, li svuota, li possiede. Riesce a dominarli totalmente. L'attrazione è fortissima: e tra luce e tenebre gli uomini preferiscono le tenebre. Questo lo dice l'Apocalisse e non si riferiva certo alle nuove tecnologie».Di tutto quello che scriviamo resta traccia eterna: abbiamo messo in piedi un gigantesco stato di polizia?«Sì, è terrificante doverlo ammettere ma è proprio così. Ci sono barriere di sicurezza, barriere d'accesso ma in linea di massima la situazione è quella».Si scrive su internet per certificare d'essere in vita?«In un certo senso. L'ho detto prima: noi siamo quello che pubblichiamo. Il resto è polvere».Ma che mondo è questo se dialogate senza mai guardarvi in faccia?«Internet è un immenso motore di ricerca che contiene cultura comunque intesa. Ai miei studenti ho mostrato che se cerchiamo su Google il termine coscienza ci appaiono oltre cinquantaduemila link. Allora mi domando: cos'è la coscienza? E subito dopo: l'informatica è libertà o un sistema di condizionamento e di controllo?»Conclusione?«Un conto è la nostra cultura, al resto pensa lo smartphone. Il problema della libera scelta se lo poneva Platone, se lo poneva Leonardo da Vinci. E non è che stessero pensando a internet. In queste parole c'è lo smarrimento che l'uomo ha provato ogni volta che si è trovato davanti a un ribaltamento epocale. La cosiddetta era digitale è esattamente questo».Quale futuro: vivremo-lavoreremo-ameremo-moriremo stando a casa?«Non credo: continueremo a viaggiare ma la memoria di quei viaggi resterà su internet. Non c'è più ragione che io crei un archivio personale: internet conserva tutto e mostra tutto».Da quando c'è la Rete nulla è più come prima: attivo e passivo.«Al corso di informatica per medici ho chiesto alle matricole con numero pari di parlare delle ombre di internet, a quelle dispari della luce. Cosa è venuto fuori? Il rischio di una dissociazione dei rapporti sociali è evidente. Il colloquio con un'altra persona avviene attraverso un mezzo elettronico. Due gli aspetti positivi: internet è sinonimo di libertà e di conoscenza. Ma libertà e conoscenza possono nascondere una manipolazione delle coscienze. L'unica via di salvezza è la propria cultura. Per capirci con un esempio: la scrittura è positiva o negativa? Per internet il quesito è identico».Se sei fragile però ti sbrana.«Decisamente. La Rete non ha pietà dei deboli». Quante generazioni sono state spazzate via dall'era digitale?«Molte. Vale una vecchia regola della nostra società: chi non si adegua, va fuori gioco. Voglio però dire che un settantenne può star dietro a questa rivoluzione se soltanto ha voglia di imparare quattro cosette».Le risultano irriducibili, gente che vive in uno stato pre- tecnologico?«Come no, e sono tanti. Io trasecolo quando sento certe mie studentesse annunciare che tra loro e le nuove tecnologie non ci sarà mai vicinanza. Non commento ma se vuoi vivere in questo mondo non puoi fare a meno di internet. Tornando al solito esempio: si può dire la scrittura non è adatta a me, quindi ci rinuncio?»Il villaggio globale è il migliore dei mondi possibili?«Una risposta netta non c'è. In Rete c'è l'eccellenza della cultura ma anche i pedofili, chi nega l'Olocausto e chi garantisce la guarigione per qualunque malattia. Si tratta di capire quale sia il percorso giusto, l'itinerario dove internet diventa una risorsa e non una trappola».pisano@unionesarda.it ========================================================= ______________________________________________________ L’Unione Sarda 5 feb. 13 SANITÀ. COSTITUITI GLI ORGANI D'INDIRIZZO DEGLI ATENEI Il patto Regione-Università Regione, Università di Cagliari e Sassari e le rispettive Aziende ospedaliero-universitarie migliorano i propri rapporti istituzionali grazie alla nascita, per la prima volta in Sardegna, degli Organi di indirizzo. I nuovi organismi sono stati nominati dalla Giunta che ha accolto la proposta dell'assessore regionale della Sanità, Simona De Francisci.ORGANI DI INDIRIZZO Il compito degli Organi di indirizzo è legato alla proposta di iniziative che coordinino, in maniera coerente, l'attività di assistenza delle Aou con quella più didattica delle Università. L'assessore ha parlato di «una lacuna colmata dopo tanti anni e che aveva inciso notevolmente nell'azione di programmazione delle Aziende».LE NOMINE È un protocollo di intesa tra Università e Regione a stabilire la composizione degli Organi di indirizzo che avranno un massimo di 5 rappresentanti (2 Regione, 2 Università e 1 di intesa tra assessore e rettori). Il presidente dell'Organo di controllo dell'Azienda mista di Cagliari è Pietro Paolo Murru, coadiuvato da Paolo Contu, Massimo Deiana, Cinzia Laconi e Mariangela Ghiani. Per l'Organo di indirizzo di Sassari, invece, il presidente è Ida Mura e gli altri componenti sono Lucia Giovannelli, Antonio Succu, Marcello Tidore e Francesco Sanna.LA NOVITÀ A spiegare le novità introdotte dalla nascita dei nuovi organismi e come cambierà l'attività nel rapporto tra i soggetti coinvolti è lo stesso assessore della Sanità. «Grazie al ruolo definito degli Organi di indirizzo - ha dichiarato - la Aziende ospedaliero-universitarie potranno contare su attività più integrate ed efficaci, traendo grande vantaggio nella loro gestione». La composizione degli organi, rappresentativa di Regione, Università e Aou, inoltre, «permetterà di migliorare i rapporti e le interlocuzioni tra istituzioni», ha concluso l'assessore De Francisci. (mat.s.) ______________________________________________________ L’Unione Sarda 9 feb. 13 ARRIVA LA RICETTA ELETTRONICA Firmato l'accordo tra l'assessorato regionale della Sanità e i medici di famiglia per la diffusione in tutta l'Isola del Sistema informativo sanitario integrato regionale: grazie al collegamento telematico, i medici invieranno dall'ambulatorio le prescrizioni di farmaci e prestazioni sanitarie e accederanno al fascicolo sanitario elettronico dei pazienti. Si va verso il collegamento in rete di tutte le farmacie e le strutture sanitarie della Sardegna e il progressivo abbandono della ricetta cartacea rossa, col passaggio alla ricetta telematica: saranno sufficienti la propria tessera sanitaria e un codice per ritirare in farmacia il farmaco prescritto. Per agevolare l'uso della ricetta elettronica da parte dei medici di famiglia, la Regione metterà a disposizione una task-force di informatici. «È un altro risultato molto importante - commenta l'assessore Simona De Francisci (nella foto) - che si inserisce nelle iniziative sull'informatizzazione della sanità, tra cui le tessere sanitarie con microchip, il Cup unico regionale e il ticket pagabile alle Poste». ______________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Febbraio 2013 CLINICA PEDIATRICA ACCELEREREMO SUL POLICLINICO» SCARTA LA SOLUZIONE DEL BROTZU Parla il direttore generale dell'azienda mista «No al trasferimento al Brotzu Accelereremo sul Policlinico» Scarta la soluzione del Brotzu («troppo dispendioso, sia in termini economici che per il personale») e punta tutto su un trasloco anticipato al Policlinico universitario: «Vogliamo trasferire la Terapia intensiva della clinica Macciotta entro aprile», spiega il direttore generale dell'azienda mista Ennio Filigheddu. Un'accelerata netta - fino a ieri le previsioni parlavano di giugno o luglio - per scongiurare il rischio di un doppio spostamento: prima al Brotzu e poi nelle nuove sale del blocco Q, a Monserrato. «Abbiamo grossi problemi strutturali, sia alla Macciotta che al San Giovanni di Dio», ricorda il manager scandendo l'età dei due edifici: la clinica è stata costruita nel 1938, l'ospedale addirittura nel 1844. «I disagi per i pazienti e per i dipendenti sono tantissimi».L'ALLARME Ecco perché all'inizio della settimana, dopo l'ennesimo allarme (un cortocircuito che ha fatto saltare l'impianto elettrico e bloccato anche i macchinari salvavita), si è cercata una soluzione immediata. Trasferire il reparto di Terapia intensiva neonatale al Brotzu. «Ma abbiamo verificato che non ci sono le condizioni per poterlo fare. L'ospedale, che ha dato la propria disponibilità, impiegherebbe oltre un mese ad allestire i locali necessari. Sarebbe uno sforzo inutile, visto che abbiamo la possibilità di finire i lavoro al blocco Q entro aprile. Salvo imprevisti», dice Filigheddu.I RITARDI DEL “BLOCCO Q” ”Il cantiere infinito di Monserrato sta per arrivare al traguardo. «I tempi di realizzazione degli appalti sono quelli previsti», avverte il direttore generale dell'azienda universitaria, «semmai sono stati i finanziamenti a essere arrivati in quattro tranche. Questo ci ha costretto a bandire quattro gare diverse, e ovviamente i tempi si sono allungati. Ma non si poteva fare di più: la Regione ci ha dato i soldi non appena ha avuto la disponibilità».MANCANO GLI ARREDI Nei prossimi due mesi si dovrebbe concludere l'installazione degli impianti nel blocco Q, poi verrà aggiudicata la gara per la fornitura degli arredi. La Pediatria e la Neuropsichiatria infantile della Macciotta invece troveranno casa in estate al Microcitemico, dove si dovrebbe trasferire anche il reparto di Pediatria del Brotzu. Ora si tratterà di incrociare le dita e sperare che i problemi legati all'età della struttura siano contenuti: «Abbiamo intensificato in turni e creato delle vere e proprie squadre di emergenza», dice Filigheddu. «Facciamo quello che si può per garantire un'assistenza di qualità nonostante la situazione». (m.r.) ___________________________________________________ Il Solo24Ore 11 Feb. ‘13 QUEI FALSI MITI DEL CARO-ANZIANI Altolà alle semplificazioni che correlano t'aumenta dei costi sanitari al boom della terza età La ricetta: adeguare l'apparato produttivo e sociale alle curve demografiche DI PAOLO PIERGENTIU * GIORGIO SIMON E FABIO SAMANI *** Periodicamente appaiono sulla stampa articoli o prese di posizione sul problema dell'invecchiamento della popolazione italiana. L'approccio in genere è del tipo quasi-catastrofico, il fenomeno viene descritto in termini negativi per motivi essenzialmente economici (sostenibilità della spesa pensionistica, spesa sanitaria), o socioculturali (società vecchia = società in decadimento). L'invito alla fine è sempre quello: "fate più figli", magari condito da considerazioni sulla carenza di strutture o risorse che permettano alla donna o alla famiglia di gestire i figli potendo anche lavorare o senni perdere benessere. La questione dell'andamento demografico è però un po' più complessa, e dovrebbe essere esaminata su più piani, oltre quello meramente economico. In tal modo, intatti, si potrebbero forse ribaltare gli allarmismi, e mostrare come si stia osservando un inevitabile, e positivo, aggiustamento delle dinamiche demografiche alle esigenze sociali e di equilibrio complessivo dell'ambiente in cui viviamo: un segno di civiltà. La bassa natalità dei Paesi industrializzati è il frutto di un processo ben studiato dalle scienze demografiche (per approfondimenti, rinvio a: The Abitable Planet, Unit 5: Population dynamics, accesso del 4 dicembre 2012). Fino a non più di due-trecento anni fa l'andamento demografico in Paesi come l'Italia era caratterizzato da alta natalità e alta mortalità (essenzialmente infantile). La popolazione cresceva, ma lentamente. Con !a rivoluzione industriale e il crescere del benesseri economico, gradualmente, la mortalità ha cominciato a declinare (soprattutto la mortalità infantile) e la popolazione ha cominciato a crescere. Poi, anche la natalità ha iniziato a declinare e la dinamica demografica si è avviata a un nuovo equilibrio. In termini numerici, in Italia la vita media nella seconda metà dcl XIX secolo (150 anni fa) era di 35 anni, solo il 30% della popolazione arrivava a 60 anni di età e il 7% a 80 anni. Ora la vita media è di circa 81 anni, il 93% delle donne arriva a (i0 anni (uomini: 46%n) e il 62% agli 80 anni (uomini: 39%n) (Lori A, Golini A. Cantalini B, ct al. Atlante dell'invecchiamento della popolazione, Progetto Finalizzato Invecchiamento, Cnr, Roma, in http://www.italz.it/ CNRPFINV/atlantc.htrn, accesso dcl 7 dicembre 2012). L'aumento della popolazione è dipeso quindi certo da una aumentata natalità, ma molto anche dall'incremento della vita media, la quale e essenzialmente dovuta alla diminuzione della mortalità in giovane età. Probabilmente il fenomeno non si è ancora assestato. Attualmente, in Italia, la natalità è più bassa della mortalità (la fertilità è stata nel 2010 di 1,31 tigli per donna (Istat, Natalità e fecondità della popolazione residente: caratteristiche e tendenze recenti, in http://www.istat.it/it/archivio/38402, accesso de! 7 dicembre 2012), sotto il tasso di sostituzione. E possibile che in futuro si vada verso un sostanziale riequilibrio, in quanto la diminuzione della mortalità comunque rallenterà. La decrescita della popolazione potrebbe quindi diminuire o addirittura arrestarsi, con un saldo 0 sul medio/lungo periodo. Ora, è vero che gli economisti adorano il seno) +, ma forse Ci sono settori in cui bisogna avere un approccio diverso. Le dinamiche di popolazione sono probabilmente una di quelle. per ovvie mimi. La Terra uno spazio finito, e prima o poi la crescita della popolazione globale dovrà arrestarsi. Le Nazioni emergenti si trovano al centro del rigonfiamento del grafico; e perciò hanno tanti giovani. E auspicabile per loro (e per tutti noi) che presto le loro dinamiche di popolazione si acquietino, oppure la foresta amazzonica sparirà per far posto a milioni di nuovi abitanti, e non si capisce dove possano stiparsi cinesi e indiani se continuano ad aumentare di numero con le attuali dinamiche. Cosa accadrebbe in Italia se la natalità ripartisse e tornasse ai livelli di 50 o 100 anni fa? Rimanendo costante l'aumento della vita media, ne risulterebbe un aumento della popolazione esponenziale e insostenibile. 0ltretutto le dinamiche sopra descritte sono modificate da11'anivo degli immigrati la cui natalità molto alta (2,23 figli per donna nel 20103). ammortizza e parzialmente compensa la crescita indigena. Perché diminuisce la natalità? I motivi sono molti, ma probabilmente uno dei più importanti è il nuovo ruolo che le donne si stanno ritagliando nella società. Non più (non solo) mogli e madri, ma soggetti autonomi economicamente, e quindi con meno disponibilità di tempo per fare le madri. Forse è questo il vero motivo per cui una certa cultura vede con tanto fastidio questo fenomeno. Siamo di fronte a cambiamenti profondi probabilmente irreversibili. Gli anziani sono molti e lo saranno sempre di più. Ogni volta che questo argomento viene fuori, è sempre con la connotazione sattilniente negativa. Visto però che non li vogliamo uccidere. i nostri vecchi, come facevano gli indiani di America, forse il fenomeno va guardato con spirito diverso. Ne va preso atto e, invece di stracciarsi le vesti, bisognerebbe pilotati l'apparato produttivo e sociale verso un nuovo assetto, che minimizzi i problemi che l'andamento demografico crea. Problemi che tra l’altro non sempre sono come si crede. Per esempio, bisogna sfatare la convinzione che i costi della Sanità aumentano perché aumenta la popolazione anziana. I costi sanitari sono associati alla malattia, e non all'età. Poi le malattie sono ovviamente più frequenti fra i vecchi, ma bisogna stare attenti alle semplificazioni. Per esempio, negli Usa, l'aumento annuale dei cotti sanitari ha notevolmente diminuito il suo ritmo: era del 13% nel 1970, dcl 16% nel 1980, del 3,8% nel 2010 (California health Care Foundation.m Health care costs101. California health care almanac, 2012 Edition, 2012 Oakland), ricalcando essenzialmente il tasso di inflazione. Quindi non è vero che l'aumento dei costi sia legato all'allungamento della vita media, che ha un ritmo abbastanza costante e non certo di quei livelli. Esistono poi innumerevoli studi che dimostrano come l'età media di inizio dell'invalidità è in continuo aumento da oltre un secolo (Foegcl RW. Explaimng long-tetro trends di hcalth and longevity. 2012. Camhridgc Univetzity° Pr:ss. Camhrkk c. MA, Usa; Nclrnchcn L. Changels in the pattern of chronic diseases amonc eldcrly Americans. 1870 20(i 2003, Working paper, Cemer far Pupulation Economics, Univcrsity od Chicago Pmss, Chicago; Costa D. Changing chronic discase rates and lon> -tcnn declini., in fùnctional Iinitat on amor2 old man. Dcrnography 2002. 39:119-137; Eumpean Commission, Dirooiorate Generai Health and C_onsunrers. Ilealthy Li- tè Ycar' . Bmxclles, http:f/cc.cu- ropa.cu/hcalth/indieators/hcal- thy lifycars/hly° cn.htmttfraprncnt I acccsscd un 10 dcccmbcr 2(1121. Aumentano gli alani di v it:t. nt t Luuncnlano anche •li ;cuti dt Vita Uul,t. Ci si ammala più tardi. In sostanza, dunque l'aumento dei costi sanitari non è dovuto se non in parte all'aumento dell’età media della popolazione. Molto più rilevante e il costo sempre maggiore della tecnologia. farmaci inclusi (Anis( C'. rising health care cosi, 2008. Blornbeg BusinessWeek. da intp://ww‘v.businessweek.comN? wies/2008-07- Ll/bchind-risine-ltealth- care-eo stsbusinessweek-hosinessne?? stock-market-and-financial-alb. ice. accesso del 31 dicembre 2012). In conclusione, siamo di fronte a un problema complesso ed epocale. Con esso bisogna confrontarsi laicamente e con una visione globale del fenomeno, tenendo conto che la crescita della popolazione non può essere indefinita, e che la proliferazione della specie umana e il principale fattore di squilibrio ecologico nel pianeta _____________________________________________________ Corriere della Sera 10 feb. 2013 GLI UOMINI DELL'ETÀ DELLA PIETRA SI PRENDEVANO CURA DEI DISABILI di ADRIANA BAZZI «Romito 8» era forte e robusto, con un fisico ideale per sopravvivere, dodicimila anni fa, quando gli uomini si procuravano il cibo cacciando gli animali e raccogliendo i frutti della terra. Era il Paleolitico. A vent'anni, però, subisce un trauma: probabilmente una caduta dall'alto che lo fa atterrare sui talloni e gli provoca uno schiacciamento delle vertebre, un torcicollo, una lesione del plesso brachiale e una paralisi delle braccia. Non può più andare in cerca di cibo, ma sopravvive: trova qualcuno che lo accudisce e gli procura persino un'occupazione. «Le ossa delle gambe raccontano che rimaneva a lungo accovacciato, mentre i suoi denti, l'unica cosa sana e forte che gli era rimasta, mostrano segni di usura fino alla radice — spiega Fabio Martini, archeologo all'Università di Firenze — e questo fa pensare che li abbia usati per un lavoro: per masticare materiale duro come legno tenero oppure canniccio che altri, si può ipotizzare, avrebbero utilizzato per costruire manufatti come cestini o stuoie. Quelle lesioni non trovano nessun'altra giustificazione». Il caso di Romito 8 è la dimostrazione che anche gli uomini preistorici si prendevano cura di malati e disabili ed è l'unico, finora noto, che dimostra come un individuo, incapace di provvedere a se stesso, possa rendersi utile alla comunità e ripaghi con il suo lavoro chi lo aiuta a sopravvivere. Romito 8 è uno dei nove individui ritrovati nella grotta del Romito, nel comune calabrese di Papasidero all'interno del Parco del Pollino. La scoperta risale al 1961, ma gli studi sui reperti continuano ancora oggi (le indagini sul Romito 8 verranno pubblicate proprio quest'anno su una rivista scientifica specializzata) e sono coordinati da Fabio Martini con la collaborazione di due antropologi, Pierfranco Fabbri dell'Università di Lecce e Francesco Mallegni dell'Università di Pisa, che hanno misurato, radiografato e sottoposto le ossa alle più moderne indagini scientifiche, tomografie computerizzate e analisi del Dna comprese. Le ossa possono raccontare molto sulla salute dei nostri antenati: possono indicare l'età e il sesso di una persona, le malattie di cui ha sofferto, o almeno di alcune, i lavori che ha svolto (perché lo stress muscolare lascia segni sullo scheletro), l'alimentazione che ha seguito. E anche qualcosa di più. La storia di «Romito 2» lo dimostra: questo individuo soffriva di una grave patologia congenita, una forma di nanismo chiamata displasia acromesomelica (il primo caso riconosciuto nella storia umana); era alto un metro e dieci e aveva gli arti molto corti; non era in grado di cacciare, ma nonostante questo è sopravvissuto fino a vent'anni, assistito dalla sua comunità. «Il Romito 2 è stato sepolto con una donna della stessa età in una posizione particolare — continua il dottor Fabio Martini — perché l'uomo appoggia la testa sulla spalla della donna. Questo è inusuale dal momento che, nelle sepolture doppie, i cadaveri sono semplicemente avvicinati. Se questa specie di abbraccio abbia un significato protettivo nei confronti di chi è disabile è difficile dire, ma certamente la suggestione è da prendere in considerazione». Oggi gli archeologi non si limitano, dunque, a ricostruire la storia clinica degli uomini primitivi, ma cercano di capire come i malati o i disabili erano accuditi dalla comunità e di risalire, attraverso queste osservazioni, anche ai modelli culturali della società: è la bioarcheologia della sanità (o delle cure sanitarie), come la definiscono Lorna Tilley e Marc Oxenham dell'Australian National University di Canberra in un recente articolo pubblicato sulla rivista «International Journal of Paleopathology». I due autori propongono una metodologia, in quattro fasi, per studiare gli scheletri di individui malati o disabili: la prima punta a formulare la diagnosi clinica, la seconda a descrivere il significato che la malattia o la disabilità assumono nel contesto culturale della società di appartenenza, la terza a individuare il tipo di assistenza che potevano richiedere. Per esempio, per una persona paralizzata è indispensabile un'assistenza di tipo infermieristico, mentre le condizioni del Romito 2 presupponevano soltanto tolleranza da parte della comunità e un aiuto generico. I l quarto stadio è quello dell'interpretazione: tentare, cioè, con gli elementi raccolti, di formulare ipotesi sulle culture preistoriche. I ricercatori hanno applicato questo metodo a «Man Bac Burial 9» o «M9», uno scheletro rinvenuto nella provincia di Ninh Binh, a un centinaio di chilometri da Hanoi nel Nord del Vietnam, in un cimitero del Neolitico. M9 era un uomo di 20-30 anni e il suo scheletro, ritrovato in posizione fetale, mostrava un'atrofia delle braccia e delle gambe, un'anchilosi di tutte le vertebre cervicali e delle prime tre vertebre toraciche, nonché una degenerazione dell'articolazione temporo-mandibolare. G li studiosi australiani, dopo un'attenta analisi delle ossa, hanno formulato la loro diagnosi: sindrome di Klippel Feil di tipo III, e hanno ipotizzato che la paralisi degli arti (nel migliore dei casi una paraplegia, nel peggiore una tetraplegia) fosse sopravvenuta quando era adolescente e che M9 fosse sopravvissuto in queste condizioni per altri dieci anni. I due studiosi sono così arrivati alla conclusione che gli individui della sua comunità, prevalentemente cacciatori e pescatori, capaci di allevare a malapena qualche maiale addomesticato e incapaci di usare il metallo, spendevano del tempo per prendersi cura di lui e soddisfacevano tutti i suoi bisogni da quelli più semplici, come il mangiare, il vestirsi, il muoversi, a quelli più complessi come il mantenimento dell'igiene personale o la somministrazione di vere e proprie cure. «La bioarcheologia della salute — ha scritto nel suo lavoro Tilley — è in grado di fornire informazioni sulla vita dei nostri antenati. Il caso del giovane vietnamita non solo dimostra che la società in cui viveva era tollerante e disponibile, ma che lui stesso aveva una certa stima di sé e anche una grande ___________________________________________________ La Stampa 04 Feb. ‘13 VACCINO, SPERANZA CONTRO IL TUMORE AL PANCREAS "Si blocca la crescita di questo tipo cli cancro" Test in laboratorio con una proteina MARCO ACCOSSATO TORINO Quattro anni di studi ininterrotti nei laboratori di immunologia dei tumori della Città della Salute di Torino hanno permesso ai ricercatori del Centro di medicina sperimentale (Cerms) dí sviluppare il primo vaccino in grado di bloccare la crescita del tumore del pancreas, prolungando di almeno il 30 per cento sopravvivenza e qualità di vita dei malati. La scoperta - pubblicata sulla rivista medica internazionale «Gastroenterology» - offre ai medici una nuova arma basata sulla vaccinazione a Dna. «Un risultato sorprendente - dichiarano gli stessi ricercatori, guidati dal professor Francesco Novelli e dalla dottoressa Paola Cappello -: al momento non esiste alcun trattamento sia radio sia chemioterapico in grado di portare anche solo un piccolo ma significativo aumento della sopravvivenza nei pazienti con carcinoma del pancreas». Neoplasia tra le più aggressive fra tutti i tumori solidi, il cancro del pancreas colpisce ogni anno 11 mila persone in Italia. La sopravvivenza a cinque anni di distanza dalla scoperta della malattia non supera il 5 per cento dei casi, anche perché nell'80 per cento dei pazienti la diagnosi viene fatta quando le metastasi sono già in circolo. La difesa individuata dai ricercatori del Cerms nei laboratori delle Molinette è una proteina, l'alfa-enolasi, enzima del metabolismo presente sulla membrana delle cellule che nel nostro organismo svolge diverse funzioni. Fra queste anche quella (negativa) di favorire in certe situazioni la crescita del carcinoma pancreatico: «Contrastare questo sviluppo era l'unica arma oggi a disposizione per rallentare la crescita del cancro - osserva Novelli -: il problema è che il nostro sistema immunitario non si accorge della presenza dell'enzima da contrastare finché questo non raggiunge determinati livelli di concentrazione». La sfida dei ricercatori torinesi è stata quella di renderlo visibile alle difese del corpo, per creare anticorpispia in grado di svelare addirittura la presenza precoce del cancro, e scatenare una risposta immunitaria che attivi un esercito di linfociti (i linfociti T) capaci di infilarsi nel tessuto tumorale, riconoscere e aggredire il cancro e attivare un'azione contraria al progredire della malattia. Il vaccino è un'iniezione intramuscolo. Lo studio sui topi ha permesso di verificare che l'azione contro la proteina alfa-enolasi che fa crescere il tumore è efficace anche se somministrata quando la malattia è conclamata, «il che dà una speranza non solo per una protezione preventiva nei soggetti con una predisposizione familiare, ma anche nei pazienti resistenti alla chemio o alla radioterapia». L'idea di utilizzare l'alfa-enolasi per scatenare una risposta immunitaria contro il tumore è nata da precedenti studi compiuti negli stessi laboratori del professor Novelli. Scoprire quanto dei risultati ottenuti sui topi genetica- mente modificati sarà trasferibile all'uomo è compito di un nuovo protocollo di ricerca. Tuttavia - sottolinea fin d'ora il professor Novelli - «il modello pre-clinico utilizzato nello studio ripercorre fedelmente la trasformazione genetica e funzionale del tumore del pancreas dell'uomo, e ciò significa che anche nei pazienti il vaccino dovrebbe dare i medesimi risultati ottenuti in laboratorio». ___________________________________________________ Roma 06 Feb. ‘13 UN VIRUS CHE UCCIDE I TUMORI BOLOGNA. Un nuovo studio dell'Università di Bologna, simulando metodi di cura più vicini alla pratica clinica, ha confermato l'efficacia della terapia basata su un virus che uccide selettivamente i tumori. La ricerca, pubblicata sulla rivista PLoS Pathogens, dimostra che un particolare virus herpes, selettivamente programmato per uccidere le cellule tumorali, non è efficace solo quando viene iniettato all'interno del tumore in condizioni di laboratorio, ma anche quando viene somministrato per via generale. Nel nuovo studio la terapia è stata diffusa per via sistemica, per somministrazione intraperitoneale, quindi in condizioni operative clinicamente più realistiche. Il risultato rappresenta un ulteriore passo verso lo sviluppo di nuove terapie contro le metastasi per la cura dei pazienti colpiti da tumori del seno e dell'ovaio. Due gruppi di ricerca dei Dipartimenti di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale e di Farmacia e Biotecnologie dell'Università di Bologna - ricorda un comunicato dell'Ateneo bolognese - lavorano da anni a questa terapia innovativa. Nel 2009, i ricercatori guidati da Gabriella Campadelli-Fiume, avevano ideato un virus derivato da quello dell'herpes, programmato per entrare selettivamente nelle cellule tumorali. Il virus modificato non aggredisce le cellule normali e non provoca quindi le classiche lesioni erpetiche alle labbra, ma è capace di riconoscere e distruggere i tumori del seno e dell'ovaio che presentano uno specifico marcatore (HER2). Una patologia di cui ogni anno in Italia si riscontrano 42mila nuovi casi, con oltre 10mila mortali. ___________________________________________________ La Repubblica 06 Feb. ‘13 CANI A CACCIA DI TUMORI Due pastori tedeschi addestrati ad individuare l 'impronta del cancro alla prostata. I primi risultati molto positivi. ecco cani segugi delle malattie Una diagnosi fatta con il naso. Grazie all'eccezionale fiuto dei cani, infatti, in grado di distinguere una sostanza tra milioni, si potrebbe arrivare ad individuare in un campione di urine, sangue o sudore, tumori di vario tipo, da quello della prostata, al colon retto, seno, vescica. Annusando, appunto. Fantascienza? Mica tanto. Tutto nasce nel lontano '89, quando Hywel Williams e Andres Fembroke descrivono su Lancet il caso di una donna britannica allertata dal suo cane che continuava ad annusare un neo sulla gamba. Diagnosi: melanoma. Altri casi vengono descritti in altri paesi, in piccoli studi. «Mi colpì molto l'articolo su Lancet - ricorda Gianluigi Taverna, responsabile della sezione patologia prostatica dell'Humanitas di Milano - e mi misi in contatto con Williams L'idea era affascinante». Dopo più di vent' anni l'idea ha preso corpo in uno studio sperimentale che Humanitas ha avviato in collaborazione con il ministero della Difesa. Durerà tre anni e seguirà criteri codificati, per tentare il passaggio dalla constatazione al rigore del metodo scientifico, replicabile ovunque e con gli stessi risultati. La parte più difficile riguarda l'addestramento dei cani. «ll motivo è semplice, non si sa esattamente quale odore si deve insegnare ad associare al tumore prostatico - precisa il tenente colonnello Lorenzo Tidu, responsabile della sezione medicina e diagnostica canina del centro militare veterinario di Grosseto - poiché non si tratta di un singolo odore ma di una marcatura di sostanze volatili, probabilmente acidi grassi. Zoe e Zora, i due pastori tedeschi che stanno lavorando al progetto, sono cani ben addestrati ad individuare stupefacenti o esplosivi ma in quel caso gli odori sono facilmente individuabili. Nel caso del tumore, invece, bisogna insegnare al cane ad identificare un singolo odore in un liquido biologico, tralasciando gli altri che pure ci sono. Il primo passo però l'abbiamo fatto: Zoe e Zora hanno già memorizzato questa marcatura mostrando di riconoscerla nel 100 per 100 dei casi, anche se hanno segnalato anche qualche campione proposto come sano che stiamo verificando». Il percorso poi si farà via via più difficile. «Successivamente i cani dovranno imparare a riconoscere il campione con il tumore alla prostata - continua Taverna - distinguendolo da altri con infezioni urinarie o altri tipi di tumore. È importante sottolineare che stiamo lavorando in modo molto rigoroso, a temperatura costante, in stanze lavabili a 100 gradi per eliminare qualunque residuo di odori, e in cieco, ovvero l'unico che sa qual è il campione malato è il veterinario, che non entra nella stanza in cui lavorano i cani. Abbiamo già esaminato circa 6-700 campioni, arriviamo a mille per trarre un primo bilancio». Chi invece utilizza già i cani empiricamente è l'associazione Medical detection dogs Italia che, a Pergine, in provincia di Trento, grazie al fiuto di due labrador, propone un' operazione di screening, sempre per il cancro alla prostata. «Hanno un' attendibilità del 90% - sottolinea il presidente Diego Pintarelli, medico - più di alcuni markers tumorali». Attendibili ed affidabili. Persino nell'identificare la tubercolosi dall' espirato. O nel prevenire le crisi di alcune malattie. «Stiamo per cominciare ad addestrare cani per prevenire crisi epilettiche odi ipo e iperglicemia - racconta Sabrina Artale, medico e istruttore cinofilo della onlus Aieccs - e i primi risultati sono molto buoni. Le crisi ipoglicemiche sono pericolose, in parti- colar modo se capitano di notte, ma il cane è in grado di riconoscerle prima del manifestarsi dei primi sintomi e allerta il padrone, svegliandolo se necessario o portandogli direttamente il farmaco. L'addestramento è basato su rinforzi positivi, cibo o giochi, e il cane viene premiato ogni volta che si allerta per un innalzamento della gli- cernia sopra i 150 o un abbassamento sotto i 60». ___________________________________________________ La Repubblica 06 Feb. ‘13 QUEL NASO ELETTRONICO MADE IN ITALY Il "padre" del dispositivo, più potente e affidabile di quello dei mammiferi, illustra le applicazioni in medicina che cattura l'immagine olfattiva" ARNALDO D'AMICO * 1 naso elettronico, esente da raffreddori e altri imprevisti biologici e quindi più affidabile di quello naturale, si basa su sensori chimici che emettono impulsi elettrici elaborati da un computer opportunamente programmato. Identifica odori semplici, portati anche da una sola molecola volatile, e complessi, prodotti da cocktail di centinaia di molecole volatili. Come il naso dei mammiferi, anche quello elettronico, elabora una "immagine olfattiva", il mix di impulsi proveniente dai recettori o dai sensori che poi rimane associato a ciò che è stato appena annusato. Per funzionare quindi, sia il naso naturale che quello artificiale, non devono individuare le caratteristiche chimiche della molecole volatili. Il primo prototipo nasce in Italia negli anni 80 ad opera di Krishna C. Persaud e George H. Dodd. Ma è presso il Dipartimento di Ingegneria Elettronica dell'università di Tor Vergata, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche che nel 1995 vede la luce il primo naso elettronico. La "narice" è una matrice di 8 sensori al quarzo, inseriti in oscillatori elettronici ricoperti, ciascuno, di metallo porfirine, molecole presenti nell'emoglobina. Quando le specie chimiche presenti nell'ambiente si legano in maniera reversibile alle porfirine, i quarzi si appesantiscono, variando la loro frequenza di oscillazione. E l'analisi di tali variazioni, generalmente tutte diverse tra loro, a determinare la cosiddetta "immagine olfattiva". Sviluppi futuri riguarderanno la miniaturizzazione del naso elettronico fmo ad un unico chip di silicio, peraltro già in uno stadio avanzato di progettazione. In campo medico sono numerosi gli esempi di sperimentazioni tuttora in corso, nelle quali il naso elettronico si è rivelato molto utile, affiancato a strumenti di diagnosi già affermati: a) analisi dell'espirato per lo studio e la diagnosi del tumore al polmone, b) analisi dell'odore della pelle, per l'individuazione di mela- nomi, c) analisi dell'odore delle urine per lo studio e la diagnosi del tumore alla prostata ed alla vescica, d) rilevazione del cancro alla mammella, ecc. Le grandi potenzialità del naso elettronico in medicina risiedono Nella possibilità di condurre esami indolori per patologie, come il tumore, in cui manca un marker da poter cercare. Le esperienze eseguite presso alcuni ospedali hanno portato allo sviluppo di un protocollo per l'analisi dell'espirato di facile utilizzo. L'espirato viene raccolto in sacchetti di materiale inerte e poi analizzato con il naso elettronico. Ovunque sia presente un odore o specie chimiche volatili anche non odorose, il naso elettronico può avere un ruolo determinante perla loro rivelazione e classificazione. Si spiega così l'interesse crescente per questo strumento anche in altri ambiti applicativi quali: agroalimentare, ambiente, spazio, trasporti, biologia, ecc. * Università di Tor Vergata, Dip. Ingegneria Elettronica __________________________________________________ Il Sole24Ore 3 feb. 2013 GRANDI VIE OLTRE IL VACCINO Dalla necessità contingente di ottenere l'immunità da alcune malattie infettive, la disciplina aprì gli orizzonti a nuove scoperte e pratiche Gilberto Corbellini Lo storico e filosofo delle scienze George Canguilhem ha dato la migliore definizione epistemologica della medicina: «Un insieme in evoluzione di scienze applicate». E ha identificato anche quando e come la medicina ha assunto questo statuto, smettendo di essere solo una tecnica: facendo nascere a fine Ottocento dal suo interno nuove scienze di base. Per esempio, l'immunologia. Infatti, da un problema empirico relativo a come ottenere un vaccino in grado di indurre l'immunità contro specifiche malattie infettive emersero nuove scoperte e questioni generali, che fino a lì nessuno sospettava, relative alla natura e alle funzioni dell'interazione tra anticorpi e antigeni. Il fenomeno dello sviluppo di nuove scienze di base dalla medicina si è poi amplificato. Anche cinquant'anni fa si è ripetuto. La pratica di trapiantare organi per curare malattie, che era già matura chirurgicamente da alcuni decenni, non riusciva a decollare a causa del rigetto. Nel 1963 furono effettuati, ma senza successo, il primo trapianto sia di fegato sia di polmone. Quell'anno ci fu anche una fondamentale innovazione. Al Brigham Hospital di Boston confermavano che si poteva controllare il rigetto con una terapia farmacologica immunosoppressiva a base di 6-mercaptopurina. Fino a quel momento sottoporsi a trapianto, a meno di non avere un gemello monozigote disposto a donare un organo doppio come un rene, significava farsi distruggere il sistema immunitario con radiazioni, e magari subire un trapianto di midollo del donatore nel tentativo di indurre una tolleranza immunologica verso il trapianto. Ora, il rischio che il midollo o l'organo reagissero contro l'ospite, immunologicamente depresso, uccidendolo era altissimo. L'uso della 6-mercaptopurina rivoluzionò la medicina dei trapianti, e vent'anni dopo il salto di qualità per l'immunofarmacologia si ripeteva con l'introduzione della ciclosporina. Le basi biologiche del rigetto rimanevano un enigma. Ma nel 1963, il genetista venezuelano Baruj Benacerraf scopriva, in collaborazione con Hugh O. McDevitt, che le risposte immunitarie contro alcuni antigeni sono geneticamente controllate. A seguito di complessi studi per capire come questi geni intervengono nella risposta immunitaria, nell'arco di un decennio si scopriva che codificano per molecole, dette antigeni di istocompatibilità, che sono la "carta d'identità" dell'individuo. Nel senso che definiscono operativamente il cosiddetto self immunitario. Anche se sono stati scoperti e caratterizzati studiando sperimentalmente il rigetto dei trapianti, i geni dell'istocompatibilità non si sono selezionati evolutivamente per impedire i trapianti di tessuti. Servono al sistema immunitario per apprendere la tolleranza verso il self molecolare nelle prime fasi dello sviluppo e per contestualizzare il riconoscimento dell'antigene estraneo (parassiti ma non solo) verso cui attivare la risposta immunitaria. Dal tipo di molecola di istocompatibilità che accompagna il riconoscimento di ciò che non è self (appreso o indotto), dipende la fisiologia specifica e sempre complessa della risposta che viene attivata. All'emergere dell'immunogenetica come ambito di ricerca fondamentale concorse il problema di usare empiricamente gli strumenti della genetica formale e l'analisi della compatibilità interindividuale per render comunque immunologicamente più accettabili i trapianti d'organo. Scoperti nel 1958 i primi antigeni di istocompatibilità nell'uomo, durante la prima metà degli anni Sessanta gli studi di genetica formale e un intenso lavoro di ricerca sperimentale basato sulla collaborazione di diversi gruppi internazionali alimentarono una crescita continua e ben coordinata delle conoscenze sul complesso principale di istocompatibilità (MHC, Major Histocompatibility Complex), termine introdotto nel vocabolario immunologico nel 1967, cioè nell'occasione del terzo workshop internazionale sull'istocompatibilità organizzato da Ruggero Ceppellini a Torino. Da quegli studi derivarono le tecniche per la tipizzazione immunogenetica del donatore e del ricevente, in modo da ridurre all'origine i fattori molecolari di diversità riconosciuti dal sistema immunitario come estranei, e quindi il rischio di rigetto. Tanto per consolarci sempre con la storia, visto che l'attualità della scienza italiana non è eccitante, ricordiamo che Ceppellini fu una figura chiave nella nascita dell'immunogenetica come branca specializzata dell'immunologia di base negli anni Sessanta. Il simposio organizzato a Torino segnò una svolta storica nell'interpretazione dei dati raccolti usando diverse tecniche per identificare gli antigeni di istocompatibilità e quindi arrivare a ipotizzare la loro organizzazione a livello cromosomico. Ceppellini fu il primo a capire che il sistema di geni che codifica per gli antigeni di istocompatibilità nell'uomo (chiamato HLA o Human Leucocyte Antigens) è una sorta di "supergene", cioè un gruppo di loci strettamente collegati, che si erano evoluti insieme e funzionano in modo concertato. Inventò anche il termine "aplotipo" per indicare la serie di geni raggruppati insieme su un singolo cromosoma (il sesto nell'uomo), che costituiscono appunto un'unità funzionale. Quando nel 1980 fu assegnato il Nobel per le ricerche sull'istocompatibilità quasi tutta la comunità degli immunologi pensò che Ceppellini avrebbe dovuto esserci. Nel corso degli anni Settanta la ricerca ha messo in luce il ruolo fondamentale delle molecole di istocompatibilità, che quando orchestrano lo spettro delle risposte immunitarie sono le più geneticamente diversificate che si conoscano. La loro conformazione arriva fino a influenzare l'eziologia di molte malattie (in particolare quelle con una componente autoimmune), nonché le scelte sessuali attraverso le preferenze odorifere delle donne. Le quali di regola preferirebbero accoppiarsi e quindi far figli con maschi che abbiamo un genetico profilo di istocompatibilità il più possibile diverso dal proprio. È banale capire perché. Insomma, dietro a un problema apparentemente molto pratico, come quello di far attecchire meglio un trapianto, c'è una storia e un universo biologico ricco di sfide concettuali con significati sia evolutivi sia fisiologici, che possono essere oggetto di stimolanti percorsi di apprendimento. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 3 feb. 2013 UN DECALOGO PER LA NUOVA LOTTA AL CANCRO La neoplasia costa 900 miliardi di dollari, pari all'1,5% del Pil globale. L'appello degli oncologi ai Governi per ridurre i costi e aiutare i malati Con le attuali misure già si potrebbe salvare più di un milione di persone all'anno Francesca Cerati Ogni anno il cancro sottrae all'economia mondiale circa 900 miliardi di dollari in perdita di produttività e costi sanitari, l'equivalente dell'1,5% del Pil globale. Così, già nel 2011, a un summit Onu i leader di tutto il mondo hanno concordato di voler ridurre del 25% la mortalità prematura per malattie non trasmissibili entro il 2025. Che, nel caso del cancro, significa salvare almeno 1,5 milioni di vite all'anno. Ma le attuali strategie non consentono nemmeno di avvicinarsi a questo obiettivo. «Servono nuove e incisive misure per promuovere la ricerca scientifica, modificare gli stili e gli ambienti di vita, riprogettare i sistemi sanitari e riformare le politiche sanitarie» ha precisato Douglas Hanahan, dell'Istituto svizzero per la ricerca sul cancro illustrando lo stato dell'arte della ricerca farmaceutica di questo settore, aggiungendo: «Se la domanda era "il mondo sta vincendo la guerra al cancro? A livello globale, la risposta è chiaramente no». A confermalo sono i casi in aumento della malattia e lo stallo nella ricerca. Le stime dell'Oms indicano infatti che il numero di nuovi casi diagnosticati ogni anno raddoppierà nei prossimi 25 anni e raggiungerà i 22 milioni nel 2030. Il paradosso è che chi si può curare si ammala di meno perché le campagne preventive (contro il fumo, per esempio) e la formazione (l'abitudine a sottoporsi regolarmente al pap test e alla mammografia) hanno permesso di ridurre i casi nel mondo occidentale, ma il restante 65% della popolazione non ha né i mezzi per curarsi, né è messa in condizioni di adottare stili di vita adeguati. Il caso del tumore al polmone nei paesi a basso reddito dove i fumatori sono moltissimi ne è una prova. Anche i più recenti farmaci mirati, progettati per attaccare la composizione genetica del tumore, non riescono a soddisfare le aspettative: i prezzi, esorbitanti, dei trattamenti stanno diventando insostenibili anche per i paesi "ricchi". Un esempio? Un anno di trattamento con vemurafenib da solo costa 91.000 dollari e anche se prendiamo tra le sei nuove molecole approvate nel 2011, la più economica (Zytiga per il cancro della prostata avanzato) costa all'anno 44mila dollari, con un allungamento della vita media da 5 a 16 mesi. Alexander Eggermont, direttore generale del Gustave Roussy Cancer Institute francese, ha infatti detto che i "modelli economici di medicina molecolare sono molto incerti". Domani, in occasione della giornata mondiale contro il cancro, i 100 esperti di oncologia (clinici, ricercatori, politici, giornalisti, rappresentanti dell'industria e delle associazioni dei pazienti) che hanno partecipato al World oncology forum – che si è tenuto a Lugano l'ottobre scorso per il trentennale della Scuola europea di oncologia (Eso) fondata da Umberto Veronesi – lancieranno un appello ai Governi affinché prendano misure urgenti per contrastare l'aumento dei casi di cancro a livello mondiale. Non solo, hanno anche individuato una strategia in 10 punti per fermare questa "epidemia globale". Che prevede, oltre alla riduzione dei decessi a livello globale un "pacchetto" di cura del cancro per i paesi poveri. L'obiettivo è di ottenere quello che è accaduto per la cura dell'Aids in Africa: una decina di anni fa, nessuno riteneva possibile avere farmaci antiretrovirali per curare i pazienti africani con Hiv. Oggi sono più di 8 milioni le persone nei paesi a basso reddito in trattamento. Bisogna agire per interrompere questa escalation. Già ma come? «Di certo, la lotta contro il cancro non potrà più essere solo medica e scientifica, ma anche sociale, culturale e politica – precisa Ugo Rock, presidente della Eso –. Anche in questo campo la ricetta è quella di eliminare spese irrazionali e inappropriate, per rendere più efficiente l'organizzazione dei servizi e più efficace l'uso delle risorse». Il tema va affrontato nel suo complesso – interviene Alberto Costa, direttore scientifico dell'Eso –. È stata una reale sorpresa calcolare che già adesso si potrebbe evitare più di un milione di morti all'anno, con un risparmio che oscilla tra 1 e 2 milioni di euro. Anche l'Italia non fa eccezione. Il nostro territorio è segnato da una profonda diseguaglianza nella diagnosi e nel trattamento come riporta un nuovo studio dell'Istituto nazionale dei tumori di Milano che evidenzia come al Nord il 45% dei tumori della mammella è diagnosticato a uno stadio precoce, mentre al Sud le percentuali scendono, arrivando al 26% di Napoli e Ragusa, dove sono frequenti i casi che presentano già metastasi al momento della diagnosi, pari rispettivamente a 9,6% e 8,1 per cento. Sebbene a questa diagnosi ritardata corrisponda una differenza di sopravvivenza a cinque anni relativamente contenuta (89% al Nord a fronte dell'85% al Sud), la scoperta di un tumore allo stato iniziale è un fattore di grande importanza per la paziente perché consente di ricorrere a trattamenti chirurgici meno invasivi e a terapie più semplici, garantendo una migliore qualità di vita e un minore costo sociale. © RIPRODUZIONE RISERVATA strategie globali World cancer day Il 4 Febbraio si celebra il World Cancer Day, la Giornata mondiale contro il cancro. Sostenuta dall'Uicc (Union for international cancer control ) l'iniziativa mira a sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni sul tema e a promuovere le modalità più congrue per sconfiggere la malattia. 19,2 Meno spesa I miliardi di euro spesi nei primi 9 mesi del 2012 per la spesa farmaceutica nazionale totale, 3/4 dei quali rimborsati dal Ssn. La spesa a carico dei cittadini, é stata pari a 5.766 milioni di euro, -0,9% rispetto al 2011. _____________________________________________________ Corriere della Sera 10 feb. 2013 RISCOSSA DEI CARNIVORI«È UNA SCELTA ETICA» di ANGELA FRENDA I I mondo di April Bloomfield è in un grande maiale rosa che lei appoggia (morto) sulle spalle da cuoca esperta. È la copertina del suo ultimo libro, e anche il titolo non lascia spazio a equivoci: A girl and her pig («Una ragazza e il suo maiale»). Un provocatorio (ma involontario) schiaffo culinario a vegetariani e vegani, sempre più numerosi. Allo stesso tempo, una potenziale bandiera per la riscossa degli onnivori. Bloomfield, chef 39enne di Birmingham che da piccola voleva diventare poliziotta, ha dedicato questo suo primo lavoro editoriale a una serie di ricette rigorosamente a base di carne. C'è la sezione vitello, quella manzo, quella maiale, quella volatili e quella scarti… Un racconto gastronomico, nel quale però traspare qualcosa di pericolosamente rivoluzionario: esce in un momento storico in cui mangiare carne e dichiarare di essere onnivori senza nascondersi non è una scelta politicamente corretta, ma un tentativo di suicidio davanti al tribunale dell'opinione pubblica occidentale. Nel sentire comune, infatti, pensare alla carne come cibo è diventato un atto di dubbia moralità, almeno per chi dovrebbe riflettere sulle sue azioni. Ma Bloomfield, che oggi dirige un suo ristorante nel Greenwich Village, The Spotted Pig, ed è pluriosannata dai colleghi (Mario Batali, Fergus Henderson, Jamie Olivier), rivendica la bontà del progetto con l'aiuto dei suoi ricordi: «Da bambina amavo le domeniche. Quelle mattine in cui nell'aria si diffondeva il profumo di bruciato perché mia nonna preparava in giardino il barbecue e metteva ad arrostire il maiale comprato dal macellaio di fiducia. Le verdure; il burro, tanto. Ci mangiavamo due giorni, due giorni di felicità. Cosa c'è di male?». Nel suo libro si trovano ricette come l'adobo di pollo alla filippina e le scaloppe di vitello con il chimichurri. O anche le interiora alle cipolle… «Mio nonno, anche quando partivamo per vacanze brevi, si portava dietro i rognoni in una borsa frigo. Ce li friggeva per colazione... Una delizia». Leggerla è come fare un'enorme indigestione di proteine animali (stile dieta Dukan), senza però sentirsi in colpa. Senza riflettere, tormentarsi, affrontare dilemmi etici. Esattamente la sensazione che una sempre più agguerrita falange di carnivori ricerca negli ultimi tempi. Ne è prova l'enorme successo ottenuto dal «concorso» lanciato sul «New York Times» la scorsa estate: Ariel Kaminer, titolare della rubrica «The Ethicist», ha chiamato a raccolta tutti gli onnivori ponendo loro la domanda delle domande: «Perché è etico mangiare carne?». Un modo, ha spiegato l'editorialista, per incoraggiarli a produrre teorie altrettanto forti di quelle che vegetariani e vegani diffondono da anni. Si potevano usare al massimo 600 parole. A scegliere i vincitori cinque giudici d'eccezione: Mark Bittman, Jonathan Safran Foer, Andrew Light, Michael Pollan e Peter Singer. Oltre 70 mila messaggi arrivati. I più originali? Eccone alcuni stralci: «Il leone mangia carne. Volete accusarlo di essere poco etico?». «Lo squalo divora pesci da una vita. E allora?». «La Bibbia dice che è ok». «Siamo in una nazione libera». Ma il vincitore è stato Jay Bost, 36 enne docente di agronomia e vegetariano pentito, che ha scritto: «Per me mangiare carne è etico quando fai tre cose. Primo: accetti che la morte produce la vita e che tutta la vita (inclusa la nostra) è solo energia solare in una forma temporaneamente stabile. Secondo: scegli vegetali, grano e carne prodotti eticamente. Terzo: ringrazi». Insomma, la vendetta degli onnivori è cominciata, però con giudizio. In questa strana guerra, dove il desiderio e il piacere combattono per affermare i propri diritti mentre l'etica, il principio di responsabilità, la cura per il mondo, provano tenacemente a negarglieli, gli schieramenti hanno un nome: i soldati del primo esercito si chiamano specisti, quelli del secondo antispecisti. Gli specisti sostengono la superiorità della specie umana; gli antispecisti, cioè i vegetariani e i vegani, la negano sfidando i rivali a fornire prove chiare e inequivocabili. Lo scrittore sudafricano J. M. Coetzee, a proposito delle teorie animaliste, ha detto testualmente: «Se hanno ragione loro, allora sotto i nostri occhi ogni giorno avviene un crimine di proporzioni stupefacenti». D'altra parte, provate a mangiare una bistecca leggendo Liberazione animale del filosofo australiano Peter Singer. Lo ha fatto il critico del «Nyt» Michael Pollan. Il risultato è il capitolo «Il problema etico di mangiare carne» inserito nel suo bestseller Il dilemma dell'onnivoro. Una riflessione sul perché un atto fino a pochi anni fa considerato banale sia sempre più visto come una barbarie. Ma la lettura del pamphlet di Singer, racconta Pollan, pone di fronte a una scelta netta: «Per decidere se sia giusto uccidere gli animali per mangiarli non dobbiamo chiederci: possono ragionare? Ma: possono soffrire? La risposta è sì, e dunque essere vegetariani è un obbligo». Pollan ci ragiona su a lungo, prova persino per qualche settimana a osservare una dieta senza carne, e approda a quella che è la nuova tesi degli onnivori, con presunta riscossa etica incorporata: «È nella sofferenza inflitta agli animali dall'allevamento industriale moderno la non moralità del mangiare carne. Se troveremo una terza via, che riconosca loro i diritti di soggetto capace di provare dolore e piacere, allora riusciremo a nutrirci con consapevolezza. E per farlo, basterebbe imporre con una legge il diritto di vedere anche la loro morte, rendendo i macelli trasparenti, controllabili dall'opinione pubblica». Gli onnivori, insomma, provano a uscire dall'angolo. A testa alta, senza arrossire: arrivano persino a metterlo in scena, il loro desiderio di carne. Sherie Rene Scott, attrice teatrale di successo, dopo 26 anni da convinta vegetariana, a 44 si è riconvertita alla scelta onnivora e ha deciso di raccontare la propria metamorfosi culinaria ed etica in uno spettacolo che sta sbancando i botteghini di Broadway: A piece of meat. Racconta: «È successo tutto all'improvviso. Una mattina ero a casa da sola. Qualcuno stava cucinando una bistecca nel cortile. Ho aperto la porta come in trance e ho seguito la scia. Mi sono ritrovata a bussare a casa dei miei vicini e chiedere di assaggiare un pezzo di carne. Il mio spettacolo parla di questo, del desiderio. Ma anche di quello che mi disse il mio dottore: "Il tuo corpo ha bisogno di ferro. O mangi carne o diventi anemica". Non è stato facile. Ho sofferto. E probabilmente, ora, non potrò più dormire con Paul McCartney». _____________________________________________ Corriere della Sera 10 feb. 2013 OSPEDALI PSICHIATRICI: MALATI D'ERGASTOLO Sai quando entri, non sai se (e quando) esci: l'inferno degli Ospedali psichiatrici giudiziaridi FULVIO BUFI I l mondo oltre le sbarre di un ospedale psichiatrico giudiziario è un mondo che ha perso il tempo. Anche lo spazio, certo, ma quello non esiste in alcun luogo di detenzione. Il tempo invece sì. In ogni cella di ogni carcere ci sono uomini o donne cui non resta molto altro che contare il tempo che li separa da quando passeranno dall'altra parte del cancello. Negli Opg non è mai stato così. Si entra per un minimo di sei mesi, un anno, due o cinque o dieci, ma il fine pena non è scritto. E certe volte non viene scritto mai. In Italia ce ne sono sei (Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere) e stanno per chiudere. O così dovrebbe essere. La legge è stata fatta, la data fissata. Entro il 31 marzo 2013 nessuna delle strutture dovrà più essere in funzione, e gli internati dovranno essere trasferiti in parte in speciali sezioni carcerarie e in parte in case di cura e custodia da venti posti al massimo e controllate dalle Asl. Il rischio di una proroga però incombe perché, come spesso succede, quello che sta scritto non corrisponde a quello che avviene nella realtà. E, infatti, le case di cura e custodia non sono ancora pronte, e nemmeno si è ancora capito bene come e da chi sarà gestita la custodia, perché la legge non annulla il concetto di carcere, ma si limita a presumere di umanizzarlo attraverso l'istituzione di strutture dai numeri molto più contenuti di quelli attuali. Furono il presidente della commissione d'inchiesta del Senato sull'efficacia e l'efficienza del Servizio sanitario nazionale, Ignazio Marino, e due componenti dello stesso organismo, Daniele Bosone e Michele Saccomanno, a firmare il testo poi approvato in Parlamento. Cominciarono a girare per gli Opg dopo le ispezioni e i successivi allarmi della Commissione europea per la prevenzione della tortura, e scoprirono lo scempio che i giornali già raccontavano da tempo. Ne venne fuori un video agghiacciante, il sequestro parziale di quasi tutte le strutture e una legge appunto che, al di là delle buone intenzioni, risolve la questione degli Opg soprattutto dal punto di vista edilizio. Che certo rappresenta almeno il cinquanta per cento del fallimento di questa esperienza cominciata in Italia formalmente a metà degli anni Settanta, ma in realtà molto prima. Perché la legge che apriva i manicomi criminali è del febbraio 1904, poi sono cambiati i nomi: prima manicomio giudiziario e poi — con italica ipocrisia e nel pieno della battaglia di Franco Basaglia che avrebbe portato all'istituzione della legge 180 e alla chiusura dei manicomi — ospedale psichiatrico giudiziario. Ma la sostanza fino a oggi non è mai cambiata: gli Opg sono posti dove vengono rinchiuse persone ritenute socialmente pericolose. I manicomi criminali avevano le celle, le sbarre, i letti di contenzione, le cinghie e tutto quell'orrore lì, e gli Opg hanno le celle, le sbarre, i letti di contenzione col buco al centro del materasso, perché ci si finisce legati e nudi, e quel buco serve per farla in un secchio messo sotto, e poi si resta così, immobilizzati e sporchi, umiliati anche dalla propria puzza. Qualche direttore li ha fatti eliminare, i letti di contenzione (a Napoli non li usano più), altri invece no. Qualche direttore ha scelto anche la custodia attenuata, che consiste nel tenere le celle aperte per gran parte della giornata, in modo che i reclusi possano camminare per i corridoi quando è finito il tempo dell'aria all'aperto e possano incontrarsi e stare insieme. Tentativi di umanizzare ciò che umanizzabile non è. Perché l'obbrobrio degli Opg è giuridico e si chiama ergastolo bianco. Per qualunque reato si entri lì dentro — che sia una strage o un'ubriachezza molesta — se ne esce soltanto quando una perizia psichiatrica stabilirà che non si è più socialmente pericolosi, e sempre che ci sia una struttura sanitaria pubblica cui far capo per continuare il percorso terapeutico. Altrimenti si resta dentro. Il magistrato di sorveglianza stabilisce una proroga che solitamente è di due anni e se ne riparlerà alla scadenza. Quando, con due anni in più passati in Opg, ci saranno ottime probabilità di aver accumulato frustrazioni e aggressività tali da essere ritenuti ancora socialmente pericolosi. E si può andare avanti così all'infinito. Ad Aversa c'era un recluso che era entrato a vent'anni e dopo altri venti stava ancora là. Si chiamava Luigi, un marcantonio che non faceva altro che chiedere sigarette e fumarne una dopo l'altra. Non aveva mica ammazzato nessuno, Luigi. Solo che quand'era ragazzino al suo paese gli amici lo sfottevano perché tutte le ragazze gli dicevano di no. E lui, che era già bello grosso e aveva le mani pesanti, reagiva a schiaffoni. Alla fine se lo tolsero di torno con una denuncia, e lui ormai non si ricordava più nemmeno qual era il suo paese e perché stesse all'Opg. La storia di Vito De Rosa è diventata invece un libro, Vito il recluso (Sensibili alle foglie, 2005) scritta da Francesco Maranta, ex consigliere regionale della Campania, di Rifondazione, in collaborazione con Dario Stefano Dell'Aquila, dell'associazione Antigone, uno degli operatori sociali più impegnati nel denunciare la barbarie degli Opg, su cui ha scritto una documentatissima inchiesta (Se non ti importa il colore degli occhi, edizioni Filema, 2009). Vito era stato arrestato nel 1951 perché aveva ucciso il padre a colpi di scure. Condannato all'ergastolo, un anno dopo è sottoposto a perizia psichiatrica e trasferito in Opg, o come si chiamava all'epoca. C'è rimasto per cinquant'anni, completamente dimenticato. E mai ne sarebbe uscito vivo se nel 2003 il presidente della Repubblica non gli avesse concesso la grazia. Arrestato a 24 anni, Vito De Rosa ha riottenuto la libertà a 76: nessuno in Italia ha passato tanto tempo privato della libertà. Ma pure i tre anni di reclusione di Antonio Provenzano sono emblematici. Lui non era uno abbandonato da tutto e tutti come tanti reclusi in Opg. Aveva una famiglia che gli stava accanto e che si sarebbe fatta carico di seguirlo una volta tornato a casa. E però nemmeno questo è bastato a fargli riottenere la libertà allo scadere dei sei mesi fissati dal giudice. Antonio fu denunciato perché girava armato di bastone (era stato aggredito e seviziato e da allora se lo portava appresso per difendersi nel caso gli fosse capitato ancora), però anziché essere lasciato libero, come chiunque venga denunciato per una cosa così, venne rinchiuso a Montelupo Fiorentino (e successivamente ad Aversa) perché in passato gli era stata diagnosticata una lieve forma di psicosi schizofrenica di tipo paranoide. Sono sei mesi duri, che però passano. Ma poi nelle pratiche burocratiche che dovrebbero rimandarlo a casa, qualcosa non funziona. Ci vuole una Asl che stili per lui un progetto terapeutico e quella di Ostia, dove Antonio abita insieme alla sorella Elisabetta, la tira per le lunghe. Tra un intoppo e l'altro passano altri due anni e mezzo ed Elisabetta deve accamparsi con una tenda sul tetto del palazzo della Asl per ottenere che la situazione si sblocchi. Ma quanti reclusi, invece, nemmeno le famiglie hanno avuto accanto. Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono il mondo di disperati che hanno storie disperate e famiglie disperate. Oppure impaurite. Come quella di uno finito dentro per aver dato ventiquattro coltellate alla madre, senza peraltro ucciderla. Quando lo psichiatra ha stabilito che poteva uscire e il giudice ha firmato l'ordine di scarcerazione, l'avvocato è corso dal direttore a pregarlo di tenerselo ancora perché a casa erano terrorizzati dal suo ritorno. Gli Opg sono pieni di storie come quella di Luigi, di Vito o di Antonio. O come quelle degli internati provvisori, gente che vive reclusa in una dimensione giuridica al di là di ogni immaginazione. Sono quelli che in Opg fanno una sorta di custodia cautelare, senza però scadenza dei termini. Li chiamano gli improcessabili, perché una perizia psichiatrica ha stabilito che non sono in grado di comprendere nemmeno la dinamica processuale, e quello è invece un diritto che spetta a qualsiasi imputato. Così il dibattimento non viene fissato finché la diagnosi non cambia, e non c'è limite di tempo. All'Opg di Napoli — che dall'antico convento di Sant'Eframo è stato trasferito qualche anno fa nella mai aperta sezione femminile del carcere di Secondigliano — ce ne sono due. Uno da dieci anni e un altro da quattro. E la loro storia di reclusi psichiatrici — fatta di diagnosi, di terapie e di un programma di recupero — non è nemmeno cominciata. Ecco che cosa sono gli Opg e che cosa continueranno a essere fino a quando esisterà il concetto di pericolosità sociale e la relativa applicazione di misure di sicurezza. Le storie dei grandi boss che truccavano le carte per essere trasferiti dal carcere all'ospedale psichiatrico giudiziario per stare meglio e poter uscire prima sono vere ma non indicano niente. Nel suo libro Materiali dispersi (Tullio Pironti, 2010) l'ex direttore di Aversa, lo psichiatra Adolfo Ferraro, racconta, tra vari episodi, quello relativo alla reclusione di Raffaele Cutolo, e altri nomi famosi della storia criminale italiana sono passati per gli Opg, come per esempio Marcello Colafigli, della banda della Magliana, quello che nella fiction televisiva di Romanzo criminale corrispondeva al personaggio di Bufalo. Poi ci sono le tragedie emerse, quelle che la cronaca ha molto raccontato. La tragedia di Antonia Bernardini, morta bruciata nel 1975 mentre è legata a un letto di contenzione nell'allora manicomio giudiziario di Pozzuoli. I suicidi ravvicinati, nel 1978, del direttore di Aversa, Domenico Ragozzino, e di quello di Napoli, Giacomo Rosapepe, entrambi coinvolti in inchieste sulla gestione dei manicomi. E ancora la morte di Giovanni Taras (1975) militante dei Nuclei armati proletari dilaniato dall'ordigno che stava mettendo sul tetto del manicomio di Aversa per attirare l'attenzione sulle condizioni inumane dei reclusi. E poi i suicidi degli internati: 44 in dieci anni, i più recenti a Barcellona Pozzo di Gotto, l'Opg che insieme ad Aversa sconvolse maggiormente prima la Commissione europea e poi quella del Senato. Suicidi che solo letture superficiali o di comodo possono attribuire al disagio psichico di chi ha scelto la morte. In realtà atti di disperazione di uomini che, per quanto psicopatici, hanno ben chiaro di essere finiti nel luogo destinato agli ultimi degli ultimi. E, per quanto magari ignoranti di questioni giudiziarie, hanno chiaro anche che da lì non sanno, e nessun avvocato o familiare o direttore o guardia potrà dir loro, se e quando verranno mai fuori. E se ora gli Opg chiuderanno davvero, cambieranno le strutture, e sicuramente saranno più umane, ma a chi gestirà le case di cura e custodia ogni internato frutterà circa 100 euro al giorno, e quindi il rischio che la cura e custodia diventino un business non si può escludere. E allora non si può escludere nemmeno che l'ergastolo bianco, magari un po' più bianco e meno puzzolente, continui ancora. E che per chi finisce in Opg continui a valere la logica del «fine pena forse». Ma forse anche no. ______________________________________________________ Sanità news 8 Feb. 2013 L’OMS RACCOMANDA MENO SALE E PIU’ POTASSIO L'Organizzazione mondiale della sanita' (Oms) ha emanato nuove linee guida che riducono la quantita' di sale giornaliera raccomandata nell'alimentazione ed introducono per la prima volta un limite per il potassio. Una persona con alti livelli di sodio e bassi livelli di potassio - spiega l'Oms - corre il rischio di avere la pressione alta con un aumetato pericolo di malattie cardiovascolari e ictus. ''Gli adulti dovrebbero consumare meno di 2.000 mg di sodio (5 grammi di sale) ed almeno 3.510 mg di potassio al giorno'', afferma l'Oms in una nota pubblicata oggi a Ginevra. Finora, l'Oms raccomandava il limite di 5 grammi di sale adesso e' meno di 5 grammi per adulto ha precisato all'Ansa il portavoce dell'Oms Gregory Hartl. L'Oms raccomanda inoltre che la dose per i bambini sia adattata al peso, all'altezza ed energia consumata, ha precisato. E' inoltre la prima volta - ha aggiunto - che l'Oms emana linee guida per il potassio. Attualmente, la maggior parte delle persone consumano troppo sodio e non abbastanza di potassio, afferma l'Oms. Il sodio si trova naturalmente in molti alimenti, dal latte (circa 50 mg di sodio per 100 g) alle uova (circa 80 mg/100 g). Ma si trova anche, in quantita' molto piu' elevate, in alimenti trasformati, come pane (circa 250 mg/100 g), salatini (circa 1.500 mg/100 g) o condimenti quali la salsa di soia (circa 7.000 mg/100 g). Il potassio e' invece presente in cibi quali fagioli e piselli (circa 1.300 mg/100g) o noci (circa 600 mg/100 g). Il processo di trasformazione riduce la quantita' di potassio in molti prodotti alimentari. ''La pressione arteriosa alta costutuisce un serio rischio di malattie cardiache e ictus, prima causa di morte e disabilita' nel mondo'', ha commentato Francesco Branca, Direttore del Dipartimento Oms Nutrizione per Salute e Sviluppo. ''Le linee guida - ha aggiunto citato nella nota - formulano anche raccomandazioni per i bambini sopra i due anni'', un aspetto '' fondamentale'' perche' i bambini con la pressione alta spesso diventano adulti con una pressione sanguigna elevata. ______________________________________________________ Sanità news 8 Feb. 2013 DAGLI USA UNA STRADA PER CONTRASTARE LA RESISTENZA AGLI ANTIBIOTICI E' possibile indebolire e rendere attaccabili da parte dei comuni antibiotici anche i batteri più resistenti. Lo ha dimostrato, finora solo in laboratorio, uno studio della Harvard University pubblicato da Nature Biology. I ricercatori si sono concentrati sulle 'specie reattive all'ossigeno' (Ros), delle molecole prodotte dal metabolismo che se presenti in grande quantita' possono uccidere la cellula del batterio. Il meccanismo di azione degli antibiotici, spiegano gli autori, e' proprio quello di aumentare la produzione dei Ros. Nello studio sono stati 'spenti' diversi geni e sono stati trovati quelli senza i quali la quantita' di queste sostanze aumenta, rendendole piu' attaccabili dagli antibiotici. "Ora cercheremo esattamente quale molecola puo' aumentare la produzione dei Ros - spiegano gli autori - e verificheremo se lo stesso approccio si puo' usare su altri batteri ___________________________________________________ Corriere della Sera 6 feb. 2013 A VENEZIA ESAMI ANCHE NEL WEEKEND È la Sanità a misura del Cittadino Una tac di sabato pomeriggio, dopo il lavoro. Una mammografia domenica mattina prima di andare in chiesa. Una risonanza magnetica urgente la sera alle 23, per non rinviarla alla mattina feriale migliore per conciliare esigenze di lavoro e turni di ospedale. Liste d'attesa addio. A Venezia, da martedì scorso, il colpo di spugna a prassi organizzative penalizzanti e a danno del cittadino, sano o malato che sia. A danno di chi, alla fine, è il vero «datore di lavoro» (pagando le tasse) del servizio sanitario. E che purtroppo spesso è solo a parole al centro dell'organizzazione. Soprattutto quando si tratta di esami, di qualunque tipo, tempi e modalità non sono certo «disegnati» per favorire chi ne deve usufruire per prevenzione o per urgenza. La Asl 12 di Venezia cambia le regole nei suoi due ospedali: il centrale Civile e il dell'Angelo di Mestre. Aperti fino alle 23 non solo per le urgenze, ma anche per esami come tac, risonanza magnetica, eco e radiografie. E aperti anche il sabato pomeriggio e la domenica mattina. Primi segnali di una sanità che, ora sì, mette al centro il cittadino e la società. E che, recuperando immagine e simpatia, in un colpo centra vari obiettivi: eliminazione degli sprechi, economicità di gestione, riduzione delle liste di attesa, attenzione al malato. Con risparmi anche indiretti: basti pensare alle assenze dal lavoro, ai problemi per organizzare l'accompagnamento di un anziano o di un disabile, ai giorni di scuola persi per giovani che devono sottoporsi a un esame. Senza contare che la sanità pubblica recupera così competitività anche rispetto alla privata, da sempre più disponibile ai fuori orario. Un altro passo, di carattere prettamente organizzativo, sarà quello di scansionare meglio i prelievi per gli esami del sangue nel pubblico: per esempio 10 persone alle 8, altre 10 alle 9 e così via. Oggi, spesso, si convocano tutti alle 8, a digiuno: e in attesa del proprio turno si può anche arrivare a mezzogiorno. Tra morsi della fame e rabbia. Cambiare si può... Mario Pappagallo ______________________________________________________ Corriere della Sera 8 feb. 2013 WATSON, COMPUTER IN CORSIA Dai quiz alla cura dei tumori Studia tutte le riviste mediche e suggerisce le cure DAL NOSTRO INVIATONEW YORK — «Vede la scheda di questa paziente colpito da tumore polmonare?» chiede Mark Kris, capo del dipartimento di Oncologia toracica dello Sloan-Kettering Cancer Center, l'ospedale di New York celebre per le sue terapie avanzatissime, «porto della speranza» dove approdano molti ammalati di cancro da tutto il mondo. «Noi inseriamo nel supercomputer, che ha assimilato milioni di pagine di manuali medici e ha nella sua memoria decine di migliaia di casi clinici risolti, i dati del malato: ciò che sappiamo di lui, della sua patologia, i risultati dei test clinici. La macchina — che ha potenzialità straordinarie grazie alla sua capacità di comprendere il cosiddetto "linguaggio naturale", le parole con le quali ci esprimiamo abitualmente — risponde con la diagnosi e diverse proposte di terapie, ancora approssimative. Indica anche le percentuali di successo che ha calcolato sulla base della sua esperienza. Man mano che andiamo avanti, che si manifestano nuovi sintomi e arrivano altri test e i primi dati sull'effetto delle cure, Watson aggiorna tutto in tempo reale e diventa più preciso. Le probabilità che la terapia suggerita sia quella giusta superano il 90%. La paziente mi chiama e mi dice che al mattino ha espettorato saliva mista a sangue. Inserisco il dato e il sistema mi offre un adeguamento della cura».Watson, il supercomputer dell'Ibm che due anni fa ha sbancato «Jeopardy», il telequiz più popolare d'America, è diventato adulto: il gigante americano dell'informatica, che ha concentrato su questa macchina il più grosso investimento della sua storia, ne ha sviluppato versioni per applicazioni industriali e per la finanza di Wall Street. Ma quella più importante e rivoluzionaria riguarda la medicina.Sempre più potente e veloce, ma anche sempre più piccolo, il «dottor Watson» che, finita la fase sperimentale, è pronto per essere venduto sul mercato (per ora quello ospedaliero americano, coi servizi offerti a distanza attraverso la «cloud», una nuvola digitale), ha ora le dimensioni di un frigorifero alto quasi due metri. Dall'autunno scorso Watson viene usato sperimentalmente in alcuni centri specializzati nella lotta al cancro: dallo Sloan-Kettering e il Columbia Medical Center di New York alla Cleveland Clinic. «Abbiamo cominciato a metà 2011» racconta il general manager Ibm per il «public sector», Dan Pelino, «e ci siamo imposti un basso profilo. Inutile illudere, abbiamo deciso di stare zitti finché non eravamo sicuri. Ma i risultati sono spettacolari e ora possiamo uscire allo scoperto: questa è roba che cambia il panorama della medicina. Non deve credere ai nostri comunicati stampa: chieda ai medici».E i medici concordano, anche perché Ibm ha avuto la preveggenza di associarsi ai centri oncologici più avanzati d'America e del mondo e alla WellPoint, la più grossa mutua privata degli Stati Uniti che ha 36 milioni di assicurati, un americano su nove. Ma davvero l'era della sanità digitale, tante volte annunciata e mai materializzatasi, sta arrivando? I medici, fin qui non troppo aperti al cambiamento, non temono di diventare schiavi del computer e magari, in futuro, dei semplici intermediari?«A oggi non ho visto niente di simile» risponde il direttore esecutivo della Cleveland Clinic, Chris Coburn. «Per i nostri medici Watson è un assistente che aiuta a non sbagliare. Inquadri il caso, ma nessuno può essere sempre aggiornato su tutto». Ci sono mutazioni genetiche rare rispetto alle quali qualcuno nel mondo ha scoperto che quel certo farmaco non è efficace. Il medico può non saperlo, ma nel database di Watson l'informazione c'è. «E poi» aggiunge Coburn, «Watson raccoglie e aggiorna la storia clinica, prepara le richieste di autorizzazione dei trattamenti da inviare alle assicurazioni. Tempo risparmiato che il medico può destinare al paziente. È essenziale in una struttura d'eccellenza come la nostra che riceve malati da tutti i Paesi».Ma chi garantirà l'infallibilità di Watson? Chi tutelerà la «privacy» del paziente? E quale medico, che ha pur sempre l'ultima parola, oserà prescrivere terapie diverse da quelle suggerite della macchina onnisciente? «Dubbi legittimi, si troveranno correttivi e garanzie, ma la strada è questa e va percorsa speditamente» tira dritto Lori Beer, vicepresidente di WellPoint. «La famiglia americana media guadagna 50 mila dollari l'anno con spese mediche per 18 mila, coperte solo per metà dalle assicurazioni. È insostenibile, dobbiamo trovare rimedi nella tecnologia. Negli Stati Uniti ogni anno abbiamo 1 milione e 600 mila nuovi casi di tumore. E il costo delle cure anticancro cresce a velocità tripla rispetto alle altre patologie. Oltre a medici e pazienti, Watson aiuta anche noi. Ci fa risparmiare, se evita di duplicare test clinici e trova la terapia giusta». ______________________________________________________ Corriere della Sera 8 feb. 2013 GLI OCCHIALI CHE AIUTANO I DALTONICI Scoperti per caso, fanno vedere il rosso e il verde. Ma attenuano il blu Una buona notizia per tutti coloro che devono combattere quotidianamente con i colori uscendone sconfitti. E non sono pochi. Per i daltonici il centro di ricerca americano «2Al Labs» ha costruito degli occhiali capaci di compensare la grave carenza. Il lavoro era partito allo scopo di correggere un'anomalia di origine genetica (deficienza rosso-verde) di cui soffre il dieci per cento degli adulti maschi più una percentuale inferiore di donne.Ma al risultato si è arrivati, come talvolta accade nella scienza, per caso e il protagonista è il noto neurobiologo evoluzionista Mark Changizi. Già nel 2006 egli sosteneva che gli umani avessero sviluppato la capacità di cogliere le variazioni di colore della pelle, come un arrossamento del volto causato da diverse ragioni, per acquisire la possibilità di scoprire emozioni e stati d'animo di amici e, ancora più utile, dei nemici. Partendo da queste indagini il laboratorio americano sviluppava delle lenti con le quali individuare il grado della diffusione sanguigna nella pelle. «Se schiacciamo qualsiasi punto del nostro corpo — ha spiegato Changizi al Times — provochiamo una differente concentrazione del sangue per cui abbiamo una zona centrale chiara ed una più arrossata intorno».Da queste osservazioni partiva la realizzazione delle lenti «Oxy-Iso» che in origine erano destinate ai medici per dare loro la facoltà di vedere meglio le vene prima di un prelievo di sangue o accorgersi di arrossamenti superficiali così lievi da non essere colti attraverso uno sguardo normale.Pensando ad altre applicazioni si andava in fretta ben oltre proponendone l'impiego alle forze di polizia per accorgersi se un soggetto catturato era più o meno nervoso nascondendo qualcosa. Al di là delle immediate prospettive, i ricercatori impegnati nella fabbricazione del nuovo strumento si rendevano soprattutto conto che se gli occhiali erano indossati dalle persone per le quali il rosso e il verde erano invisibili, queste riuscivano, per la prima volta, a scorgere tutta la gamma dei colori. I vari test effettuati per verificare se effettivamente il sistema funzionasse ha portato a concludere, come ha sottolineato il professor Daniel Bor dell'Università britannica del Sussex, che i pallini confusi di vari colori sottoposti negli esami della visione e nei quali è nascosto un numero, diventavano chiari rivelando la cifra. Di conseguenza le lenti Oxy-Iso sono ora commercializzate.Dai primi riscontri più generali è tuttavia emersa una limitazione. Se infatti il verde e il rosso diventano evidenti, la percezione del giallo e del blu si affievolisce. Ma non tutti gli scienziati esprimono lo stesso parere.«Per la visione i mammiferi dispongono di due recettori dei colori — spiega David Charles Burr, dell'Istituto di neuroscienze del Cnr di Pisa e docente al dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Firenze —. I primati e quindi i nostri antenati, si ritiene ne abbiamo sviluppato un terzo per distinguere il rosso dal verde e trovare la frutta matura di cui avevano bisogno. Immagino difficile la realizzazione di un mezzo ottico in grado di ripristinare completamente una anomalia genetica di questo tipo proprio perché significa la perdita di un elemento fondamentale come un recettore».Giovanni Capraragiovannic _______________________________________________________ L’Unione Sarda 5 feb. 13 QUEI CIBI GRASSI CHE INVECCHIANO IL NOSTRO CUORE Anna Leonardini, università di Bari VEDI LA FOTO L'eccesso di grassi nel cibo accelera l'invecchiamento del cuore, perché questi affaticano le cellule cardiache. Ciò accade a tutti coloro che esagerano, e per lungo tempo. Ma nei diabetici l'effetto è tale che le cellule muoiono tre- quattro volte di più rispetto ai soggetti sani, aprendo la strada alle malattie cardiovascolari che spesso sono causa di morte in questi pazienti. Lo conferma una ricerca di Anna Leonardini, ricercatrice dell'università di Bari, la prima a essere insignita nel 2009 della borsa di studio di 360 mila euro in 4 anni promossa dal progetto “La ricerca in Italia: un'idea per il futuro” della Fondazione Lilly. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Endocrinology. Secondo la giovane studiosa ricercatrice, un eccesso di acidi grassi dalla dieta causa più velocemente la morte delle cellule del cuore con un effetto particolarmente evidente nei diabetici e nei soggetti in sovrappeso o obesi: la prevenzione delle malattie cardiovascolari comincia perciò con una dieta a basso contenuto di grassi e carboidrati come quella mediterranea, in cui l'apporto di zuccheri e lipidi è equilibrato e ideale. «I diabetici hanno un alto livello di radicali liberi nel sangue dovuto all'aumento della glicemia; ciò aumenta il livello di stress ossidativo e così questi pazienti vanno incontro a un maggior rischio di malattie cardiovascolari, che cresce ulteriormente se il consumo di grassi è elevato - spiega la Leonardini. Il progetto ha permesso di capire i meccanismi che danneggiano le cellule cardiache e come proteggere queste cellule: studiando gli analoghi del GLP-1, classe di farmaci anti diabetici di ultima generazione, abbiamo verificato che sono in grado di proteggere le cellule cardiache dall'effetto dannoso dello stress ossidativo e quindi prevenire le malattie cardiovascolari. Si tratta della prima volta che viene studiato, e scoperto, l'effetto protettivo sulle cellule progenitrici cardiache da parte degli analoghi del GLP-1». Oltre all'aspetto scientifico, lo studio della giovane ricercatrice dimostra come ormai le donne stiano avanzando a larghi passi in medicina. Sotto i 35 anni il 63% dei medici è donna e per arrivare a un sostanziale pareggio con i colleghi uomini bisogna oltrepassare la soglia dei 50 anni. E anche nei laboratori sono sempre di più i camici rosa: dal 2010 al 2011 sono raddoppiate le donne nei primi 50 posti nella classifica dei ricercatori italiani e in ben 225 dei 371 brevetti prodotti dai cervelli italiani sono coinvolte donne. I numeri mostrano che quest'ambito professionale è ancora saldamente nelle mani degli uomini ma l'aumento della presenza femminile è un segnale importante, al quale anche la Fondazione Lilly contribuisce con la sua borsa di ricerca annuale che nasce con l'intento di impedire la fuga dei cervelli dall'Italia. La Fondazione ha calcolato che ogni anno l'Italia perde 3,15 miliardi di euro di ricchezza generata da brevetti sviluppati dai 50 migliori ricercatori italiani che lavorano all'estero. Un valore che proiettato a 20 anni arriva a toccare quota 7,4 miliardi di euro. (fe.me.) ______________________________________________________ L’Unione Sarda 3 feb. 13 TEST SUI FARMACI ANCHE SU DONNE Una importante ricerca del Dipartimento di Scienze biomediche. L'Aifa chiede nuovi dati La cavia è l'uomo, ma le femmine hanno il doppio delle reazioni avverse SASSARI Hanno peso diverso, variazioni ormonali e reagiscono in modo differente ai farmaci rispetto agli uomini, ma storicamente le donne sono state poco arruolate negli studi clinici sui farmaci e ciò vale anche per gli animali di sesso femminile negli studi preclinici. Con il risultato che nelle donne si ha il doppio di reazioni avverse ai farmaci rispetto agli uomini. Adesso però l'Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha chiesto alle aziende farmaceutiche di elaborare i dati disaggregati per genere ed età, in modo da evidenziare le differenze tra i sessi, nella presentazione della documentazione regolatoria. Dunque un cambio di prospettiva molto importante, anche secondo gli esperti. «Questa indicazione dell'Aifa è degna della massima attenzione. Durante lo sviluppo dei farmaci sono state individuate numerose differenze - commenta Flavia Franconi, del dipartimento di Scienze biomediche dell' università di Sassari che ha avviato la ricerca - ma sempre trascurate o insufficientemente considerate. Per quanto riguarda i farmaci, compresi quelli biologici, gli emoderivati, nonchè i generici, c'è stato uno scarso arruolamento delle donne, che generalmente si concentra prevalentemente negli studi di fase 3». I dati raccolti nell'uomo finora sono stati applicati alla donna, producendo così una minore disponibilità di terapie appropriate per lei. Ad esempio, per la maggior parte dei farmaci la dose raccomandata è ancora calcolata per un uomo adulto di 70 chilogrammi. «I parametri farmacocinetici - prosegue l'esperta - risentono delle variazioni ormonali che caratterizzano la vita della donna e l'invecchiamento comporta vari cambiamenti fisiologici che producono una diminuzione del profilo di tollerabilità nelle donne più marcata che negli uomini. Senza contare che i disturbi cognitivi possono aumentare il rischio di errori di assunzione da parte del paziente, maggiore nelle donne che assumono più terapie». Tutto ciò, conclude Franconi, ha portato negli anni «ad una maggiore incidenza e gravità di reazioni avverse da farmaci nel sesso femminile esposto circa 1,7 volte in più rispetto agli uomini. C'è un aumento (59% nel 2011) delle segnalazioni spontanee di reazioni avverse da farmaco nel sesso femminile in tutte le fasce di età e già dal secondo anno di vita». ______________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Gen. 13 I NEURONI SPARLANO DI TE Viaggio al centro del cervello con Giovanni Biggio VEDI LA FOTO «I l cervello, una macchina straordinaria, meravigliosa. Con la Risonanza magnetica oggi possiamo vedere ciò che un tempo era fantascienza: il cervello non statico agglomerato di cellule ma qualcosa che si modifica, cambia nel tempo. Un organo dinamico, che si trasforma nella sua morfologia in funzione di quanto avviene intorno a noi: ciò che mangiamo, ma anche le interazioni coi sentimenti, gli abusi, i piaceri. Perché le sue cellule sono antenne paraboliche che captano segnali provenienti da altre cellule». UNA CREATURA Il profeta del cervello, Giovanni Biggio, direttore del Dipartimento di Neuropsicofarmacologia all'università di Cagliari, ne parla come di una sua creatura, entità un tempo misteriosa e inaccessibile, che illustra con l'entusiasmo di un esploratore. Una sorta di macchina elettronica al centro del corpo umano, in cui neuroni, sinapsi e geni sembrano corrispondere ai chips di un computer. Spara immagini, qui c'è la Corteccia cerebrale, qui l'Ipocampo, ecco l'Amigdala, in un tripudio di puntini e striscette colorate, misteriose per tutti, non per lui, magistrale nel decodificarle per lo stupore di chi lo ascolta. IL VIAGGIO Usa un linguaggio diretto il professore, adatto a una platea di giovani (e meno giovani) che affollano la sala dei Sette vizi della Mem di Cagliari. Ambiente informale per un viaggio nel pianeta cervello. Una cosina che non pesa neppure un chilo e mezzo, eppure follemente complessa, coi suoi 120 miliardi di cellule (i neuroni) collegati in rete fra loro (sinapsi) «che comunicano con un linguaggio di tipo chimico. Parlano lanciandosi l'uno con l'altro molecole portatrici di messaggi ben precisi». Un miracolo della natura di dimensioni planetarie: «Il biologo premio Nobel Gerald Edelman ha calcolato che fra neuroni e sinapsi si arriva a un milione di miliardi. E ha detto: Se guardate il cielo, difficilmente riuscirete a contare un milione di miliardi di stelle ». BRAIN IMAGING Un universo plastico quello che sta dentro la testa. Perché le tecniche di Brain imaging (Risonanza magnetica, Pet) permettono di registrare, dal vivo le funzioni del cervello e di valutarne le variazioni quando è sottoposto a sollecitazioni: «È sensibile agli stimoli ambientali e agli stili di vita: ciò che mangiamo e beviamo, quanto dormiamo o vegliamo, i successi, gli insuccessi, i dispiaceri, l'assunzione di sostanze stupefacenti. Questi input influenzano il nostro patrimonio genetico: non la struttura, che non cambia, ma la funzione. Un gene può produrre una proteina importante per la memoria: se lavora bene non ci sono problemi, altrimenti tenderò a dimenticare». Un'eredità, i geni, che abbiamo ricevuto dai nostri antenati e trasmetteremo ai figli. EPIGENETICA C'è una disciplina, l'Epigenetica, che studia come il cervello reagisce agli stili di vita, ma anche alle sollecitazioni dell'ambiente: «Così la tecnica delle immagini ci consente di fare diagnosi precoci in chi ha alterazioni genetiche, o soffre di schizofrenia, delirio, depressione e di registrare le reazioni ai farmaci». Nella sua plasticità, il cervello si comporta come un muscolo: per questo va sempre motivato a funzionare: «Se si isola un anziano, tenderà a decadere, perché i neuroni si atrofizzano». Da qui la necessità di allenare il cervello. Le immagini ci rivelano che certe parti, come l'Ipocampo, (area dei ricordi) tendono a essere più sviluppate in categorie di lavoratori che la sottopongono a maggiori sollecitazioni. Un cervello stimolato diventa più voluminoso, i neuroni trofici. Per contro, se l'Ipocampo si ammala, come nell'Altzheimer, non ricordiamo più. Si tratta di danni irreversibili. NEUROGENESI Questo non significa che il cervello non si rigeneri. La proliferazione di cellule continua per tutta la vita: si chiama Neurogenesi: «Dipende molto dagli stili di vita: più siamo tristi e compressi, più rallenta». Il cervello produce ogni giorno da 10 a 15 mila neuroni: il 15% viene eliminato, il resto si sviluppa. Col tempo, si perdono quelle che devono garantire la memoria recente. Carente negli anziani, capaci però di ricordare un lontano passato. Lucio Salis