RASSEGNA 27/01/2013 PORTE CHIUSE ALLA RICERCA L'ITALIA SEGNA IL RECORD DI SPESA PER STUDENTE LA LAUREA? INUTILE PER LAVORARE UN FALLIMENTO IN 7 GIORNI QUELLA MIA LAUREA ONLINE IL DOTTORATO SI FA IN AZIENDA AOUSS: ACCORDO SUI BENEFIT PER I RICERCATORI CHE FANNO ASSISTENZA PER IL CALCOLO CON LA FAMIGLIA ADDIO AL LIMITE DEI 6.500 EURO UN'UTOPIA DIGITALE DIVENTA FILM OLIVETTI: PRECURSORI IN CERCA DI EREDI UN'IMPRONTA DIGITALE CONTRO I PARCHEGGI ABUSIVI INDOONA LANCIA LA SFIDA AI GRANDI SOCIAL NETWORK ========================================================= CLINICHE PRIVATE, 1500 DIPENDENTI IN AGITAZIONE SANITÀ, MANAGER NELLA BUFERA ATTENTI ALLA SINDRONE POST RICOVERO C'È ANCORA POCO DIALOGO TRA I DOTTORI CHE CI CURANO BIOTECNOLOGIE PER RIPARARE LE FRATTURE «DIFFICILI» LE ABITUDINI D'IGIENE CHE ALLONTANANO L'INFLUENZA LA MEDICINA DIFENSIVA NON SARÀ UNA SCUSA? LA CROCIATA CONTRO I VACCINI DATI GENETICI, TROPPO SEMPLICE VIOLARE LA PRIVACY CANNABIS E DEFICIT D'INTELLIGENZA, TUTTO DA DIMOSTRARE L’ALLARME DEL MINISTERO DELLA SALUTE: TROPPI I RICOVERI INAPPROPRIATI DEI BAMBINI ========================================================= ________________________________________________________ Corriere della Sera 27 gen. ’13 PORTE CHIUSE ALLA RICERCA di FEDERICO FUBINI La capacità di attirare intelligenze dipende da vari fattori: istruzione, occupazione, Pil e politiche giovanili. Gli ostacoli italiani all'arrivo dei «cervelli» e la nuova mappa dei flussi Q ualche tempo fa alcuni professori dell'Università di Siena si sono rivolti al ministero degli Esteri. Gli studiosi non chiedevano ai diplomatici di rappresentare i loro interessi in qualche Paese straniero o di aggregarsi a qualche missione all'estero. La loro richiesta era molto più semplice. Volevano, se possibile, non essere ostacolati troppo. Come varie in Italia, l'Università di Siena cerca di incoraggiare l'arrivo di studenti stranieri, ma sempre più spesso si scontra con un ostacolo che l'Italia si autoinfligge: per chi viene da un Paese dove il reddito medio è basso — quelli che di solito vengono chiamati «mercati emergenti» — ottenere un visto di studio in Italia è sempre più difficile. Se poi è una donna di un Paese a basso reddito che cerca di studiare o lanciare un progetto di ricerca all'Università di Siena, a Ca' Foscari a Venezia, alla Bocconi di Milano o all'Università della Magna Grecia, diventa quasi impossibile. Nell'area Schengen alcuni Paesi del Nord Europa hanno chiesto di filtrare molto i visti di studio sulle ragazze, nel timore che poi entrino nell'industria del sesso a pagamento. Dunque ogni anno moltissime donne che aspirano realmente a studiare in Italia vengono respinte già dall'ambasciata di Roma nel loro Paese. Una discriminazione doppia che danneggia in primo luogo il Paese che nega loro il visto. Queste dinamiche contribuiscono infatti alle distorsioni della visualizzazione dati in questa pagina. Un gran numero di ricercatori italiani finisce all'estero, mentre il Paese non riesce a far arrivare abbastanza cervelli dal resto del mondo (vengono presi in considerazione solo le comunità di ricercatori che superano il 10% degli immigrati del Paese). L'infografica, con gli esempi da vari Paesi diversi, mostra come la capacità di attrarre intelligenze straniere viaggia di pari passo con migliori tassi di crescita e di occupazione e con la creazione di opportunità per i più giovani. Un celebre detto della medicina ippocratica è: primo, non nuocere. L'Italia potrebbe applicarlo, magari, per non cercare di danneggiarsi da sola nella competizione internazionale per la nuova generazione di ragazzi — e ragazze — pieni di talento. @federicofubini _____________________________________________ Il Sole24Ore 22 gen. ’13 L'ITALIA SEGNA IL RECORD DI SPESA PER STUDENTE Confronto internazionale. Basso il livello di investimenti per gli atenei – Necessario intervenire sui meccanismi evitando l'assegnazione a pioggia e puntando sulle top universities LO SCARTO MEDIO Per la scuola primaria nella Penisola si spendono 8.671 dollari ad alunno contro i 7.153 dollari della media Ocse Claudio Tucci ROMA Per la scuola la spesa per studente in Italia è in media con quella dei principali Paesi avanzati. Mentre spendiamo poco per l'università, dove dal 2007 a oggi c'è stata una contrazione di investimenti (al Fondo di finanziamento ordinario) di ben un miliardo di euro. Una situazione, quella universitaria, su cui è urgente intervenire, ha sottolineato Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria. Per le baby pensioni spendiamo 9,4 miliardi di euro l'anno, mentre per gli atenei, nel 2013, ci si fermerà ad appena 6,6 miliardi (contro i 7,6 miliardi investiti nel 2007). Secondo i dati Ocse la spesa pubblica per l'istruzione terziaria in Italia è pari ad appena l'1%, contro una media Ue a 21 dell'1,3% (media Ocse dell'1,5%). E da noi, pure, la spesa annua per studente è di 9.553 dollari (nell'Ue a 21 è di 12.958 e di ben 13.717 dollari nell'Ocse). In media, quindi, spendiamo il 30% in meno. In Francia si spendono 14.079 dollari, in Germania 15.390. Di qui la necessità di investire di più. Anche l'attuale sistema di finanziamenti a pioggia alle università italiane è insufficiente, ha aggiunto Gentili, secondo cui sarebbe invece opportuno puntare su investimenti mirati: «Puntando di più per esempio sulle top ten universities, quelle cioè più competitive a livello mondiale e che sono in grado di far crescere la ricerca e attrarre studenti stranieri». Sul fronte scuola, invece, il problema non è tanto quello sulla quantità di risorse investite (non poche). Ma su come vengono spese. Sempre secondo gli ultimi dati Ocse emerge infatti, come, rispetto al Pil, l'Italia investa il 3,3%, contro il 3,6% dell'Ue a 21 e il 3,8% della media Ocse. Il problema sta invece nella spesa per studente che da noi è più alta. Alla scuola primaria, per esempio, è di 8.671 dollari, contro i 7.257 dollari dell'Ue a 21 e i 7.153 dollari della media Ocse. In pratica, spediamo 1.400 dollari in più. E la spesa per studente è più alta in Italia anche alla scuola media (9.616 dollari contro 8.498 della media Ocse); mentre è in linea intorno ai 9.2oo dollari alle superiori. Nonostante, complessivamente, nella scuola italiana si sia ridotto di circa 2 milioni il capitale umano. «Bisogna perciò puntare su una maggiore qualità del servizio – ha sottolineato il presidente di TreeLLLe, Attilio Oliva – valorizzando, davvero, la formazione dei docenti e il modello di reclutamento. In Italia la progressione di carriera dei docenti avviene solo per anzianità, senza nessuna valutazione del servizio. Ed è quindi impossibile premiare il merito». Dobbiamo invece investire di più in «R&S». Sempre in percentuale sul Pil, anno 2010, ha evidenziato l'Istat a dicembre, non ce la passiamo proprio bene. Siamo all'1,26% (contro una media Ue a 27 di 1,91%). La nostra performance è peggiore di Paesi come la Francia (2,26%), la Germania (2,82%), l'Inghilterra (1,77%). Solo Polonia, Turchia, Ungheria e Repubblica Ceca investono in «R&S» meno del nostro Paese. Certo, la crisi ha influito. Ma sono anni che le fotografie scattate da studi nazionali e internazionali ci indicano le strade da intraprendere. A partire dal vero e proprio allarme educativo. Circa due milioni di giovani tra i 15 e 24 anni non sono né a scuola né a lavoro. Siamo nel blocco dei peggiori, in compagnia di Grecia, Irlanda, Bulgaria, Romania e Spagna. Il tasso di abbandono scolastico è al 18,8%. Peggio di noi solo Malta, Portogallo e Spagna. E l'obiettivo di «Europa 2020» è ridurlo al 10%, e, se non c'è una rapida inversione di marcia, rischiamo di non raggiungerlo. Altra nota dolente, ma con più sfumature, è la partecipazione dei livelli più elevati di istruzione al mercato del lavoro. In genere, nei Paesi Ocse i più istruiti hanno anche migliori prospettive occupazionali. In Italia, tra il 2002 e il 2010, si assistito invece a un aumento (seppur lieve) del tasso di occupazione dei diplomati (da 72,3% a 72,6%), mentre il tasso di occupazione dei laureati è sceso sensibilmente: dall'82,2% al 78,3%. Ancora troppo bassi sono pure i livelli di istruzione della popolazione italiana. La quota di persone con qualifica o diploma di scuola secondaria superiore raggiunge il 34,5% mentre è dell'11,2% la quota di chi possiede un titolo di studio universitario (Istat, Annuario statistico 2012). © RIPRODUZIONE RISERVATA _____________________________________________ Il Sole24Ore 25 gen. ’13 L'indagine. La ricerca condotta su 11mila iscritti al portale Tesionline rivela scoramento tra i giovani in cerca di un'occupazione LA LAUREA? INUTILE PER LAVORARE Giacomo Bassi MILANO Sfiduciati, senza prospettive per il futuro, pronti a lasciare l'Italia se le occasioni di lavoro, almeno all'estero, ci fossero. È un quadro cupo quello che emerge da una ricerca condotta su oltre 11mila giovani dal portale web Tesionline e presentata a Milano in occasione della consegna del Premio Sanpellegrino Campus, dedicato alle migliori tesi di laurea sul tema dell'acqua. Un quadro dipinto da coloro i quali da qualche tempo o tra qualche anno si troveranno ad affrontare la ricerca del primo impiego. Una ricerca che sembra però senza molte speranze: l'analisi delle risposte date dai neolaureati o dagli iscritti negli atenei italiani non lascia spazio a dubbi. La percezione che hanno del mercato del lavoro è negativa: in pochi credono al valore della laurea inteso come titolo sufficiente a ottenere un'occupazione, per quanto instabile (36%); tanti valutano come insufficiente il livello di preparazione fornito dalle università (64%); una percentuale minima considera utili, ai fini dell'assunzione, gli stage in azienda; sempre meno sono quelli in grado di descrivere la propria vita, civile e professionale, nei prossimi anni. A causa, appunto, dello stato di profonda incertezza dell'economia nazionale e delle norme che regolano il mercato del lavoro, motivi che frenano l'accesso alle professioni. Secondo l'indagine (12 le domande somministrate agli universitari), il motivo di principale scoraggiamento dei giovani è la scarsa propensione delle aziende ad assumere (26%): tra le difficoltà principali che si frappongono a chi cerca un impiego viene inoltre segnalato il blocco del turnover (25%), l'eccessiva burocrazia (12%), la poca attitudine al rischio da parte degli imprenditori (10%) che quindi non investono sui giovani e la scarsa esperienza pratica maturata durante gli studi (16%). E sembra essere proprio l'esperienza quel valore aggiunto che viene ricercato dalle aziende visto che il 54% dei giovani intervistati considera la laurea insufficiente a trovare un lavoro. Nonostante queste difficoltà, però, solo il 22% dei laureati e il 26% degli studenti lascerebbe certamente l'Italia per l'estero. Quali sono infine le aspettative che questi giovani nutrono per il futuro? Per un laureato su quattro (26%) è la «piena realizzazione professionale» mentre un terzo di chi ancora studia sogna di entrare a «far parte di una grossa azienda o un gruppo internazionale». Tuttavia, secondo gli intervistati, ciò che manca affinché questi obiettivi possano essere raggiunti è un ponte che colleghi giovani e imprese (16%) e forme contrattuali che si trasformino effettivamente in assunzione (16%). © RIPRODUZIONE RISERVATA _____________________________________________ Corriere della Sera 26 gen. ’13 UN FALLIMENTO IN 7 GIORNI QUELLA MIA LAUREA ONLINE di VIVIANA MAZZA È il fenomeno del momento, con milioni di studenti Prof stellari, con un difetto: mai contatti neanche via email Mi ero iscritta con entusiasmo. Volevo sperimentare in prima persona questa rivoluzione (dal buffo acronimo MOOC) dei «massive open online courses», corsi di alta qualità aperti alle masse diventati popolarissimi dall'anno scorso e in crescita più rapida di Facebook, come ama ripetere il fondatore di Coursera, una delle tre principali piattaforme che li offrono (le altre sono edX e Udacity). Frequentare un corso universitario online forse non «suona» molto rivoluzionario. Ma immaginate centinaia di migliaia di studenti di tutto il mondo che seguono la stessa lezione, gratis e — aspetto non trascurabile — tenuta da docenti di atenei prestigiosi, come Harvard, MIT, Stanford, Princeton, Columbia (soprattutto americani; tra gli inglesi non si sono finora convinti né Oxford né Cambridge). E dunque ho aperto il browser, digitato Coursera.org (che è stato creato nel 2011 da due professori di Stanford) e ho cominciato a scorrere la lista dei corsi disponibili, dalla medicina all'informatica, dalla musica alla finanza, immaginando oltre due milioni di studenti (tanti si sono registrati finora) in giro come me sul sito. Alla fine ho scelto «Think Again: How to Reason and Argue» (Ripensaci: come ragionare e discutere). Anche per il mio professore, che si chiama Walter Sinnott-Armstrong e insegna Etica pratica alla Duke University, è il primo corso online, come ha chiarito durante la prima lezione, spuntando in una finestra tipo YouTube sul mio laptop. Ha parlato per otto minuti presentando il programma e promettendo che ci saremmo divertiti. Gli ho quasi creduto quando, alla seconda lezione, ha postato il link ad uno sketch dei comici inglesi Monty Python («La clinica delle discussioni») per spiegare la differenza tra discutere e litigare. Ho smesso di credergli quando ho scoperto di dover rispondere a una serie sterminata di quesiti a risposta multipla. Ma il vero difetto insormontabile è un altro. È che con i suoi capelli arruffati, gli occhiali tondi e la libreria alle spalle, Walter era tutto ciò che avrei potuto volere da un prof di filosofia, eccetto per l'aspetto più importante: la possibilità di chiacchierarci insieme. «Per favore NON inviate email ai docenti»: le regole sono chiare. Così, dopo aver guardato i nove video della prima settimana, ho cominciato a procrastinare. Non sono l'unica. Pare, infatti, che solo il 10 per cento degli iscritti completi questi corsi online. La mia classe ha persino creato un forum dove discutere le ragioni per mollare: molti si lamentano di non aver capito bene a cosa andavano incontro. Certo, essendo facile iscriversi (letteralmente con un click), non sei costretto a valutare seriamente se hai il tempo e la voglia di investire 7-8 ore di lavoro settimanali (per 2-3 mesi) per «tornare a scuola». La questione, però, è soprattutto: perché dovresti? Il punto è che i MOOC al momento non ti danno una laurea ma soltanto un attestato di completamento del corso. A dire la verità, in America (e non solo) qualche università sta cominciando a riconoscere alcune lezioni virtuali (a volte richiedendo integrazioni faccia a faccia, le chiamano flipped classes; e un esame «dal vivo»). Coursera, edX e Udacity sono state anche contattate da datori di lavoro potenzialmente interessati agli studenti migliori. Restano però diversi problemi da risolvere: come sostenere i costi in futuro (le aziende pagheranno in cambio dei nomi dei primi della classe? agli allievi toccherà versare una somma per i certificati finali?); come impedire plagio e imbrogli nei quiz; e va ancora convinto il grande pubblico che l'istruzione sul web possa essere rigorosa e di qualità come quella tradizionale. Nonostante tutto, nella mia classe, c'è gente di tutto il mondo: in un forum intitolato «da dove veniamo» ho incontrato tanti americani quanti africani e asiatici. Sospetto che alcuni si siano iscritti come me per vedere di che si tratta, visto che esperti della Rete come Clay Shirky hanno profetizzato che i MOOC cambieranno l'università come Napster ha fatto con la musica e Wikipedia con le enciclopedie. Alla fine, ho «incontrato» pure un'italiana: Alessia, 45 anni, un figlio, responsabile del marketing in una società finanziaria, anche lei con una dose di lauree e master «vecchia maniera». Ma non le è bastato. Questo è il terzo corso online che frequenta e si è già iscritta ad altri due (uno di algebra). Mentre io sono bloccata alla seconda di 12 settimane (e il professore avanza nella nona), lei ha seguito tutti i video con puntualità svizzera, ha fatto tutti i compiti (anche quelli facoltativi) e tutti i quiz. E mentre io guardavo Walter nella solitudine di un eterno primo giorno di scuola (con l'unico sollievo di poter restare in pigiama), lei creava su Facebook un gruppo per italiani intitolato «How to argue» per aiutarsi e incoraggiarsi a vicenda: un centinaio di studenti si sono aggregati, anche se solo quattro o cinque sono al passo come lei. Con due compagne, Margherita e Anna, s'è incontrata pure via Skype per mettere a punto un sillogismo (in video) da presentare come compito a casa (sì, era facoltativo). Alla mia domanda «perché?», non ha esitato a rispondere: «Perché mi piace studiare». E ha aggiunto: «Ma davvero hai intenzione di mollare?». Era solo naturale che tra i 180 mila compagni di classe in un corso di logica incontrassi la mia nemesi. Chissà, forse Alessia ha ragione. Walter non ha tempo per noi (vivrà già nel terrore che gli intasiamo la mail) ma quel che perdi nel rapporto col prof lo puoi guadagnare partecipando ad una comunità globale e intergenerazionale (dai 16 agli 80 anni, a giudicare dal forum «che età abbiamo»). Tra l'università «vera» e quella virtuale preferirò sempre la prima, ma conoscendo i costi proibitivi di un'istruzione prestigiosa e avendo scoperto che un'undicenne pachistana di nome Khadijah ha potuto studiare fisica su Udacity, penso che ampliare le opportunità con la tecnologia non guasti affatto. Sì lo so, a questo punto dovrei dirmi pronta a studiare algebra per puro piacere. Ma credo che invece andrò a guardare per intero i Monty Python. ________________________________________________________ Corriere della Sera 25 gen. ’13 IL DOTTORATO SI FA IN AZIENDA Bologna, Padova, i Politecnici di Milano e di Torino, la Federico II di Napoli. Decolla il dottorato in azienda, che se a livello legislativo ha mosso i primi passi con la legge Biagi del 2003 sull'alta formazione, ora con la riforma Gelmini portata avanti a livello di decreti attuativi dall'attuale ministro dell'Istruzione, dell'università e della ricerca (nonché ex rettore del Politecnico di Torino) Francesco Profumo stanno avendo nuovo impulso. Lo scopo è quello di favorire l'innovazione delle Pmi e l'occupazione dei giovani. Il punto di partenza è la considerazione di due dati di fatto: i giovani che entrano in un ciclo di dottorato sono circa 12 mila ogni anno, ma soltanto uno su quattro proseguirà nella carriera accademica. Le piccole e medie imprese italiane hanno la necessità di innovare per aumentare la loro competitività, ma spesso non hanno le risorse e le capacità interne per farlo. Perché non mettere loro a disposizione le competenze di quel 75% che non resterà in università? Il «dottorato industriale» piace anche a Confindustria che alla fine del 2011 ha siglato un'alleanza con la Conferenza dei rettori italiani, con l'obiettivo di rafforzare il numero di dottorati collegati con la domanda di ricerca e sviluppo delle imprese e di incentivarne il finanziamento. Che cosa sta succedendo negli atenei? La formula più utilizzata è quella del dottorato in apprendistato, destinato ai giovani al di sotto dei 30 anni, che hanno la possibilità di seguire un percorso di dottorato e contemporaneamente essere assunti a tempo determinato da un'impresa. «Ogni università fa caso a sé, perché l'apprendistato è di competenza delle Regioni — spiega il rettore del Politecnico di Torino Marco Gilli — . A Torino la legge regionale, che risale al 2007, è entrata nel vivo con il bando del 2011». Nel caso del Piemonte, la Regione seleziona le proposte di dottorato studiate assieme da università e azienda, poi decide quali progetti approvare. Il progetto di ricerca e di dottorato è interamente finanziato dall'azienda, che beneficia di sgravi contributivi. L'ateneo mette a disposizione le risorse formative. Quali sono i vantaggi? «L'azienda acquisisce persona in alta formazione, che fanno ricerca a livello di frontiera — spiega Gilli —. Il dottorando conosce sin dall'inizio la realtà aziendale e può capire come coniugare l'interesse accademico con quello industriale». Attualmente il Politecnico di Torino ha in corso tre dottorati in alto apprendistato, ma è atteso un nuovo bando, perché i risultati sono soddisfacenti. In Campania è, invece, la Regione che finanzia in toto i dottorati di ricerca aziendali. «L'accordo è stato definito nell'autunno del 2011 — spiega Giovanni Miano, delegato del Rettore per il dottorato di ricerca alla Federico II di Napoli —. A febbraio abbiamo accreditato le aziende e in estate è stata fatta la selezione degli studenti. Finora abbiamo assegnato i primi 78 posti con questa formula, metà a donne come prevedeva il bando. È il dottorando a scegliere l'azienda, che definisce il progetto di ricerca secondo i suoi piani di sviluppo e le sue necessità di innovazione». ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 gen. ’13 AOUSS: ACCORDO SUI BENEFIT PER I RICERCATORI CHE FANNO ASSISTENZA L’Aou si impegna a pagare gli arretrati dal 2011 ma il Tar condanna l’università a colmare altri 11 anni di indennità di Gabriella Grimaldi SASSARI Un accordo per il pagamento degli arretrati relativi all’indennità dovuta a ricercatori e professori che prestano assistenza ospedaliera è stato raggiunto da università di Sassari e Aou. La prima coinvolta perché quel personale è a tutti gli effetti dipendente dell’ateneo, la seconda perché le spetta per legge l’onere di integrare con l’indennità prevista dal decreto 517 del 1999 la retribuzione di coloro che oltre a svolgere attività di ricerca e di didattica per conto dell’università prestano assistenza in corsia. L’azienda si è impegnata a pagare l’indennità a partire dal 1° gennaio 2011. Il problema infatti è che quel decreto legislativo non è mai stato applicato e da 13 anni a oggi circa duecento tra ricercatori, professori e personale sanitario percepiscono uno stipendio inferiore a quello dei colleghi medici che lavorano nei vari reparti ospedalieri. La sperequazione ha generato fra le altre cose, un ricorso al Tar che si è concluso con una sentenza di condanna nei confronti dell’università, chiamata in causa perchè datore di lavoro degli interessati. In realtà a liquidare materialmente l’indennità (ma si tratta sempre di fondi che dovrebbe mettere a disposizione la Regione) deve essere l’Aou. «Il servizio sanitario regionale - ha detto il rettore Attilio Mastino che ha presieduto la riunione del 22 nella quale è stato raggiunto l’accordo con il direttore generale dell’Aou Alessandro Cattani – ha finora scaricato sull’università tutte le responsabilità rifiutandosi di dare attuazione a una norma di legge. È chiaro che intendiamo rivalerci sull’Aou e, per i periodi precedenti, sulla Asl e sulla Regione, per recuperare le ingenti somme dovute al personale». Si tratta infatti di pagare arretrati per complessivi 11 anni se si sottraggono il 2011 e il 2012 “promessi” dall’Aou. E se si considera che solo per questo periodo l’azienda ospedaliero universitaria dovrà sborsare circa quattro milioni di euro, si parla di parecchi soldi che sia l’università che l’Aou sperano vivamente la Regione si decida a sborsare. A trovare una soluzione al problema si sono impegnati comunque lo stesso assessore regionale alla Sanità Simona De Francisci e il direttore generale dell’assessorato Gianluca Calabrò. «Trovo che la riunione sia stata molto positiva – ha commentato il manager Cattani –. L’importante adesso è che arrivino i fondi regionali per colmare una differenza che la legge vigente aveva cancellato tanto tempo fa». _____________________________________________ Il Sole24Ore 24 gen. ’13 PER IL CALCOLO CON LA FAMIGLIA ADDIO AL LIMITE DEI 6.500 EURO L'ATTUAZIONE Sarà un nuovo decreto a definire la capacità di reddito dello studente che lo rende «autonomo» dal nucleo d'origine Gianni Trovati MILANO Addio al limite fisso dei 6.500 euro annui di reddito per gli studenti che vogliono sfruttare l'Indicatore della situazione economica equivalente della famiglia di appartenenza per ottenere sconti sulle tasse universitarie e borse di studio. Quello universitario è uno dei capitoli più ricchi nell'utilizzo dell'Isee: oltre ad articolare le tasse universitarie per fasce, la presentazione del l'Isee serve per un amplissimo ventaglio di «servizi e interventi non rivolti alla generalità degli studenti». Dietro a questa denominazione burocratica si celano le borse di studio, i prestiti d'onore, le residenze universitarie e i contributi per la mobilità internazionale, concessi da Regioni o enti per il diritto allo studio sulla base della disciplina fissata a livello nazionale. In questo caso, la riscrittura dell'Isee contenuta nel nuovo Dpcm si intreccia con la riforma del diritto allo studio, avviata dalla legge Gelmini ma non ancora arrivata al traguardo dell'attuazione piena. Le prima novità sono legate alla composizione del nucleo famigliare di riferimento per il calcolo dell'indicatore. Prima di tutto si applicano le regole generali, che attraggono il coniuge non separato ma residente altrove nella «residenza unica» individuata di Comune accordo dai due coniugi. Uno dei genitori, non separati, esce dal nucleo famigliare di riferimento se è coniugato o ha figli con un'altra persona, quando deve versare assegni di mantenimento all'altro coniuge o quando sia accertata ufficialmente la sua «estraneità» alla famiglia «in termini di rapporti affettivi ed economici» (sono le regole fissate dall'articolo 7, comma 1, per le prestazioni sociali a minorenni, richiamate però dall'articolo successivo per il diritto allo studio universitario). Con le regole attuali, lo studente è inserito nella famiglia d'origine per il calcolo dell'Isee anche se abita fuori casa da almeno due anni, purché non sia titolare di un reddito superiore a 6.500 euro all'anno. La riforma dell'Isee fa saltare questo tetto fisso, e incarica il decreto che dovrà scrivere le nuove regole sul diritto allo studio di definire la «capacità di reddito adeguata» per separare l'Isee dello studente da quello della famiglia d'origine. Ovviamente l'aggiornamento del limite dovrebbe indicare una cifra più alta, dal momento che il suo scopo sarà quello di calcolare il «benessere» di un soggetto che si ritiene autonomo dal punto di vista economico. In questo modo, si potrebbe ampliare la platea dei beneficiari delle prestazioni, purché ovviamente il sistema assicuri le risorse adeguate (superando il paradosso degli «idonei non beneficiari», cioè gli studenti di molte regioni che ottengono la certificazione ufficiale del diritto alla borsa di studio ma non l'assegno perché mancano i fondi). Degli altri indici legati all'Isee universitario la riforma non si occupa, perché già i meccanismi attuali prevedono il loro aggiornamento annuale per decreto sulla base dell'indice del costo della vita. È il caso, in particolare, dei limiti Isee e di quelli sulla situazione patrimoniale oltre i quali non c'è possibilità di ottenere le borse di studio o le altre «prestazioni non generali». Gli ultimi, relativi all'anno accademico 2012/2013, sono stati fissati per decreto nel maggio scorso, e chiudono la porta agli aiuti per gli studenti il cui nucleo famigliare presenta un Isee tra 15.093,53 e 20.124,71 euro e un indicatore della situazione patrimoniale fra 26.413,70 e 33.960,46 euro. Ogni Regione, poi, è chiamata a scegliere all'interno di queste due forbici il limite effettivo da applicare nel proprio territorio. twitter@giannitrovati gianni.trovati@ilsole24ore.com © RIPRODUZIONE RISERVATA L'APPLICAZIONE Le prestazioni L'Isee è molto utilizzato in ambito universitario. Serve ad articolare per fasce le tasse universitarie e a individuare la platea di beneficiari di borse di studio, prestiti d'onore, posti nelle residenze universitarie e contributi per la mobilità internazionale La famiglia di riferimento L'Isee sulla base del quale vengono effettuati i calcoli è quello della famiglia di appartenenza dello studente. Per non essere "separato" dal proprio nucleo famigliare, lo studente che abita fuori dalla casa d'origine da oltre due anni non può essere titolare con le regole attuali di un reddito superiore a 6.500 euro all'anno. La riforma contenuta nel nuovo Dpcm rivede questo limite: il nuovo tetto «adeguato» (considerato cioè in grado di garantire l'indipendenza economica dalla famiglia) sarà individuato con il decreto attuativo della riforma del diritto allo studio, previsto dalla legge Gelmini di fine 2010 (il ministero dell'Università ha tempo fino a marzo per la sua emanazione) Gli altri limiti A fissare i tetti dell'Isee e dell'indicatore della condizione patrimoniale oltre ai quali scatta l'esclusione dalle prestazioni agevolate sono le singole Regioni, all'interno di un range di valori indicati dalla disciplina nazionale. La riforma dell'Isee non si occupa di questi limiti perché sono già soggetti ad aggiornamento annuale. Nell'anno accademico 2012/2013, le soglie erano un Isee tra 15.093,53 e 20.124,71 euro e un indicatore della situazione patrimoniale fra 26.413,70 e 33.960,46 euro ________________________________________________________ Corriere della Sera 24 gen. ’13 UN'UTOPIA DIGITALE DIVENTA FILM Il sogno mancato della biblioteca di Google: tutti i libri per tuttidi SERENA DANNA Una mattina del 2002 Larry Page, cofondatore di Google, chiese alla giovane product manager Marissa Mayer (oggi amministratore delegato di Yahoo!) di aiutarlo in un'operazione piuttosto tecnica per un «big boss»: scannerizzare le pagine di un libro. Le ore trascorsero con Mayer che girava le pagine del testo e Page che le «registrava». Alla fine della giornata il ceo di Mountain View ebbe l'illuminazione che cercava da tempo: l'utopia di Google — rendere l'informazione «accessibile e fruibile universalmente» — passava da uno scanner. Se solo con l'aiuto di un'assistente era riuscito lui stesso a «digitalizzare» in poche ore un libro, perché non provare a farlo con tutti i libri del mondo? Parte da questa domanda Google and The World Brain, il documentario diretto dall'inglese Ben Lewis in concorso al Sundance Film Festival, che racconta il mastodontico progetto di digitalizzazione di biblioteche, centri culturali e librerie conosciuto come The Google Book Search. Il titolo è un omaggio ai racconti del 1937 del maestro inglese della fantascienza H. G. Wells. «Internet ha reso possibile il sogno che comincia nel III secolo a.C. con la biblioteca di Alessandria e arriva al "cervello del mondo" di Wells, quello capace di contenere tutta la conoscenza», racconta il regista collegato via Skype da Park City, dove il film è stato accolto con grande curiosità dagli esigenti critici del Sundance. Solo un colosso aziendale dotato della migliore tecnologia (e di tante risorse umane ed economiche) poteva trasformare la «Biblioteca di Utopia» del web, come l'ha definita il filosofo Peter Singer, in un progetto. «Il Novecento è stato il secolo dell'uomo sulla luna — afferma in video Brewster Kahle, fondatore dell'Internet Archive —, il nostro deve essere ricordato per l'universalizzazione della conoscenza». L'entusiasmo e l'ingenuità del guru Kahle si ritrovano nelle parole dei direttori delle più importanti biblioteche del mondo, come lo storico Robert Darnton di Harvard o Reginald Carr della Bodleian Library di Oxford, che, nel 2004, anno di partenza del Google Book Search, accolgono la proposta di digitalizzazione di Mountain View come un miracolo. Fa tenerezza la testimonianza di Padre Damià Roure, custode del tesoro letterario del monastero benedettino di Montserrat, uno dei partner del progetto di Google: quando una voce fuori campo gli chiede se non avesse paura che un giorno l'azienda avrebbe potuto rivendicare la proprietà del materiale digitalizzato, il religioso — silente per cinque lunghissimi secondi (enfatizzati dalla macchina da presa di Lewis) — risponde che non aveva pensato a un tale eventualità. «C'è un equivoco di fondo che riguarda il web — spiega Lewis —, l'idea che tutto quello che circola online debba essere gratis: come se l'economia della conoscenza potesse emanciparsi dal compromesso del denaro». Chi non crede alla buona fede di Google, anticipando una tendenza che caratterizzerà la politica francese verso l'industria hi- tech, è Jean-Noël Jeanneney, ex presidente della Bibliothèque nationale de France. L'autore di Google sfida l'Europa (editore Portaparole) è esilarante nel racconto della visita dei «due ragazzotti mal vestiti» sbarcati da Mountain View con l'offerta di digitalizzazione gratuita dei testi e un thermos in regalo. Jeanneney afferma di aver sentito subito «puzza di arroganza e di brutale commercio». A compensare la reazione dello storico francese ci sono le immagini di una conferenza tenuta nel 2006 da Mary Sue Coleman, presidente dell'Università del Michigan, che difende la partnership con Google definendo l'operazione «legale e di profondo valore etico». Purtroppo (per Page e il cofondatore Brin) gran parte del mondo editoriale e letterario non la pensa come lei. La vicenda è nota. Nel 2005 comincia l'odissea legale contro Google, accusata dalla Lega degli autori americani e dall'Associazione nazionale degli scrittori di aver digitalizzato sei milioni (su dieci) di libri protetti da copyright senza l'autorizzazione degli autori. Processo che terminerà con il rigetto da parte del giudice dell'accordo da 125 milioni di dollari proposto da Google e l'impegno di tutelare il copyright degli autori. «Possiamo considerarlo il primo grande processo della storia del web — commenta Lewis —. La decisione del giudice fu clamorosa: la giustizia americana, a discapito di una delle aziende più produttive del Paese, decise che il "cervello del mondo" non poteva avere proprietari». Il regista, che ha impiegato tre anni nella lavorazione del film, sottolinea come la vicenda Google Book Search sia rivelatrice dei danni del tecno-utopismo che ha accompagnato la nascita di Internet: «La difesa ideologica della libertà del web e l'idea di un cyberspazio "puro" ha permesso alla Silicon Valley di fare affari, nascondendo interessi economici dietro l'alibi della democrazia diretta e dell'universalizzazione della conoscenza». Nel film le voci dei tecno-utopisti, come il fondatore della rivista «Wired» Kevin Kelly e il fondatore delle Creative Commons Laurence Lessing, si uniscono a quelle dei delusi, su tutti il pioniere della realtà virtuale Jaron Lanier, e dei «nuovi padroni», come il direttore della comunicazione di Baidu, il motore di ricerca di Pechino che ha emulato Google e fatto bottino digitale di milioni di libri cinesi, sapendo di poter contare sulla complicità del governo. Google and The World Brain è il racconto dettagliato e critico di una battaglia. Nella consapevolezza che la guerra per il controllo del web è appena cominciata. @serena_danna ________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 gen. ’13 OLIVETTI: PRECURSORI IN CERCA DI EREDI Nel 1965 a Ivrea nasceva il primo pc. Grazie a un mix di condizioni favorevoli: un imprenditore illuminato e capacità di pensiero laterale. Anche oggi si può Nella galassia delle startup l'innovazione non manca, serve un «terreno di coltura» Sandro Mangiaterra C'era una volta l'Italia dell'alta tecnologia. E persino gli americani lì ad ammirarci, e perché no, a invidiarci. Correvano i primi anni Sessanta e dai laboratori della Olivetti di Ivrea nasceva la mitica Programma 101 (proprio così, al femminile, per rispetto alla vecchia, cara macchina per scrivere): in pratica il primo personal computer al mondo, l'inizio di una rivoluzione. C'era una volta? Sì, insomma, quel risultato, il massimo simbolo dell'ingegno italico, una pietra miliare nell'evoluzione dell'elettronica, è davvero irripetibile? Oppure in qualche centro di ricerca, in una università, dal proliferare delle startup e persino nei vecchi e sempre vitali distretti industriali, potrebbe spuntare qualcosa di tanto innovativo e anticipatore, in sostanza un prodotto di importanza paragonabile alla Programma 101? «Non credo che sia stato un miracolo. Quindi si può riprodurre – assicura Vittorio Marchis, docente di Storia delle scienze e della tecnica al Politecnico di Torino, nonché autore di un libro, «150 anni di invenzioni italiane», in cui si passano al setaccio decine e decine di brevetti di casa nostra –. Però occorrerebbe riprodurre anche il contesto. Le grandi idee, destinate al successo e a stravolgere il mercato, nascono sempre grazie a un insieme di fattori favorevoli». Quei fattori, alla Olivetti, a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, c'erano, eccome. Lo ricordano i protagonisti di allora, i superstiti del gruppo guidato da Pier Giorgio Perotto, in un documentario realizzato da History Channel, segnalatissimo sui social network. Per cominciare, un imprenditore illuminato, Adriano Olivetti, morto prima di vedere la nascita della sua creatura, che aveva creduto (e investito) nel passaggio dell'azienda all'elettronica, chiamando i migliori giovani ricercatori a lavorare in quello che riteneva il settore del futuro. Il risultato fu la Programma 101: una macchina da tavolo, trasportabile, programmabile, dotata di una stampante. Costo: 3.500 dollari, contro i 100mila del più economico dei calcolatori Ibm. «Un oggetto che poteva trovare posto sulla scrivania di chiunque, non a esclusivo uso e consumo di una ristretta cerchia di addetti ai lavori» sghignazza nel documentario Bruce Sterling, guru dell'hi-tech. Se ne vendettero 44mila esemplari nel mondo, la grande maggioranza nella tana del lupo, gli Stati Uniti. I giganti Usa, Hewlett- Packard in testa, arrivarono una decina di anni dopo. E allora? Se l'abbiamo fatto una volta, potremmo rifarlo. «Peccato che solo un'idea su mille si mostri utilizzabile, cioè si traduca in un prodotto – dice Marchis –. E di queste, non più di una su cento si rivela un'autentica innovazione. È il motivo per cui bisognerebbe aumentare, e di molto, gli investimenti in ricerca. Altrimenti le probabilità che si riproduca una Programma 101 si azzerano». Eppure qualcosa si muove. L'Italia che ci prova è fatta oggi da centinaia di startup. In fondo, nessuno ha stabilito che i Bill Gates o gli Steve Jobs debbano obbligatoriamente essere born in the Usa. Dentro le nostre startup in qualche caso si trova roba ottima, come dimostra Arduino, la piattaforma creata da Massimo Banzi. «Un altro mondo in grandissimo sviluppo – sostiene Maria Giovanna Sami, ordinario di Architetture dei calcolatori al Politecnico di Milano – riguarda i cosiddetti sistemi embedded, che ormai trovano le più svariate applicazioni, anche in Italia: dalla medicina all'agrifood, dal monitoraggio ambientale alla tracciatura delle materie prime da utilizzare nel manifatturiero. In ogni caso si tratta di sistemi che mixano altissime tecnologie, spesso comprese tra micro e nanotecnologie elettroniche». Ci sono poi realtà consolidate, che mantengono la leadership in alcuni specifici segmenti di mercato. «Si pensi alla StMicroelectronics e ai suoi microchip di ultima generazione. E meglio ancora alla sua sensoristica digitale – sostiene Alfonso Fuggetta, direttore del Cefriel, centro di ricerca sull'Ict cui partecipano università e maggiori imprese del settore –. Vale la pena di ricordare che dentro gli iPhone e gli iPad, così come nelle console Wii o in ogni navigatore satellitare, c'è tecnologia nata nel centro ricerche di Castelletto di Settimo Milanese. Puro made in Italy». Eccola la novità. O se si preferisce la trincea da difendere con le unghie e con i denti: forse non salterà fuori un prodotto, un oggetto fisico così dirompente come Programma 101, ma l'industria italiana ha imparato a cospargere di tecnologia i più svariati prodotti, dalle auto alle lavatrici, dai mobili all'abbigliamento. Una contaminazione che garantisce alto valore aggiunto. L'innovazione hi-tech tocca ormai tutti i settori, compresi quelli maturi, perché garantisce alto valore aggiunto. Le Pmi lo hanno capito alla perfezione: la competizione internazionale si gioca esattamente su questo terreno. «Un esempio? La Dainese di Vicenza, che scommette sull'airbag per i motociclisti – spiega Fuggetta –. Dentro ci sono sensori sensibilissimi, algoritmi per il calcolo delle forze di accelerazione e frenata, congegni elettronici capaci di gonfiare le protezioni in millesimi di secondo». Chissà, che cosa inventerebbero Perotto e i ragazzi di Ivrea, se avessero adesso 25 o 30 anni. Magari anziché su un computer lavorerebbero su un giubbotto. le regole del successo Così germoglia un'idea Perché possa nascere, e soprattutto svilupparsi, un'idea vincente, destinata a sfociare in un prodotto anticipatore, come la mitica Programma 101 della Olivetti, sono decisivi alcuni fattori di contesto. Eccoli. 1. La visione imprenditoriale, destinata a tradursi in scelte di investimento in un settore in forte sviluppo. L'innovazione va messa al centro delle strategie aziendali. 2. Lo scambio interdisciplinare e le contaminazioni di saperi, conoscenze, esperienze. I prodotti innovativi nascono sempre all'interno di un team affiatato, in un continuo stop and go. 3. La ricerca della commistione tra utile e bello. Il prodotto che nascerà dovrà rispondere a un bisogno reale, meglio anticiparlo. Ma, specie negli oggetti di consumo, dovrà anche piacere e creare empatia. 4. La disponibilità di capitale. Occorre pensare in grande: le società di venture capital diventano molto sensibili se l'idea dovesse avere una potenzialità di mercato, a livello mondiale, dai cento milioni di dollari in su. 5. Bisogna infine essere consapevoli che i risultati, anche economici, non si registreranno in sei mesi o in un anno, ma arriveranno nel lungo periodo. ________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 gen. ’13 UN'IMPRONTA DIGITALE CONTRO I PARCHEGGI ABUSIVI Il Park Tutor di Sirti vigila sui posti dei disabili e presto sorveglierà aree a pagamento Alessia Maccaferri Per ora denuncia in modo implacabile chi occupa abusivamente un posto dedicato ai disabili. Ma presto potrebbe diventare un alleato dei vigili urbani nel controllo dei parcheggi di qualsiasi tipo, facendo risparmiare alle magre casse comunali milioni di euro. Si chiama Park Tutor e la sua innovazione non è solo tecnologica, ma sta in una soluzione che si integra in maniera efficacia all'interno delle crescenti smart city. Messa a punto da Sirti, la soluzione è decisamente user friendly. Una volta che l'automobilista disabile raggiunge un parcheggio con le strisce gialle - in Italia sono circa 800mila - non deve fare altro che passare il dito sopra un telecomando. L'impronta digitale (utilizzata proprio per scongiurare il fenomeno dei falsi invalidi) arriva wireless a una centralina di controllo, protetta contro possibili attacchi di vandalismo, vicino all'area di sosta. L'informazione viene mandata a una piattaforma web che monitora costantemente tutti i parcheggi e rilascia le autorizzazioni. Ma cosa succede se il parcheggio viene occupato abusivamente? Un sensore interrato manda il segnale di occupazione, tramite la centralina, alla piattaforma web che a sua volta avverte un vigile urbano o un controllore della sosta, per una verifica e un'eventuale multa. Per ora Park Tutor è stato adottato in una decina di città (Alessandria, Cusano Milanino, Ficarazzi, Milano, Padova, Palermo, Palmi, Roma, Sesto San Giovanni, Torino), nelle quali Sirti ha firmato un contratto di revenue sharing con le amministrazioni locali. Da quest'anno in circa 60 città gestirà anche altre aree di sosta, a pagamento e non. Basterà mettere un chip a bordo dell'auto, mentre il pagamento potrà essere via cellulare (con il sistema Nfc) o il classico parcometro. Le amministrazioni comunali potrebbero risparmiare molto denaro: si stima che l'abusivismo in una città come Milano provochi un ammanco di decine di milioni di euro all'anno. L'applicazione può essere declinata ad altre aree come la complessa gestione dei mercati cittadini. Nel capoluogo lombardo ogni anno si perdono 10 milioni di euro, in questo settore. «La specificità della nostra innovazione coperta da brevetto nazionale e internazionale - spiega Pietro Urbano Mimmo, ingegnere responsabile del progetto Park Tutor assieme a Riccardo Montefusco - sta nel metodo di monitoraggio dello stato di occupazione dell'area di sosta abbinato all'individuazione della categoria del mezzo di trasporto attravverso il tag della carta elettronica». Sirti sta lavorando anche su un ulteriore sviluppo smart. Installando una centralina di secondo livello nell'area di sosta si potrà per esempio integrare la rete wifi locale offrendo connettività e monitorare in tempo reale le aree di sosta per indicare agli automobilisti il parcheggio libero più vicino, a vantaggio della mobilità e dell'ambiente . alessia.maccaferri@ilsole24ore.com © RIPRODUZIONE RISERVATA come funziona il park tutor Online il video che spiega la soluzione offerta da Sirti www.ilsole24ore.com/nova ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 23 gen. ’13 INDOONA LANCIA LA SFIDA AI GRANDI SOCIAL NETWORK Versione 2.2 per l’applicazione progettata a Cagliari Soru (Tiscali): tanti servizi accorpati in un’unica piattaforma di Michele Ciampi CAGLIARI Indoona, il primo social network progettato al 100 per cento a Cagliari si evolve con la versione 2.2, per proseguire nella sua sfida – insieme agli altri emergenti nel mondo digitale 2.0 – all'egemonia di Facebook. Da applicazione di voip e messaggistica sulla scia di Skype e Viber, Indoona diventa nella versione 2.2 un vero e proprio social network, arricchendosi della nuova funzionalità di live streaming, con la quale si potranno postare i video sulla propria bacheca. Questa nuova funzionalità è legata a una semplice applicazione, Indoonacam, scaricabile una tantum gratuitamente dall' App Store o dal Playstore per condividere in streaming i propri video in qualsiasi momento. Grazie a questa nuova caratteristica, sarà dunque possibile condividere i momenti più belli trascorsi con gli amici, i più emozionanti vissuti durante un viaggio o i più divertenti catturati per caso, in diretta video sul proprio profilo Indoona o – premendo semplicemente il tasto di condivisone delle impostazioni social – su quello degli altri social network come Twitter su cui compare un link con un post automatico che segnala, per esempio, il live streaming. «La parola chiave è aggregazione», spiega Renato Soru, amministratore delegato di Tiscali, e non a caso Indoona sta a significare “tutto insieme”. «Se la tendenza delle applicazioni di comunicazione era assegnarsi una funzione specifica, come ad esempio Whatsapp per i messaggi o Viber e Skype per le chiamate voip, Indoona punta invece ad accorpare tutti questi servizi in un' unica piattaforma – continua Soru –. Non a caso sullo scenario mondiale, anche altri stanno facendo lo stesso. Lo scenario è questo, ma proprio elementi come l'acquisizione di Instagram da parte di Facebook confermano la tendenza all'aggregazione. Indoona permette di condividere parole e contenuti multimediali, e sul versante telefonico può usufruire dell'infrastruttura tecnica di Tiscali e dell'interoperabilità comunicativa tra questa e servizi Voip nel mondo. In modo che da Indoona si possa acquistare traffico telefonico verso altri paesi, anche verso chi non utilizza il servizio. La cifra di Indoona è l'aggregazione di funzionalità social avanzate in un' unica app». Indoona è quindi una piattaforma molto interessante di condivisione di multimedialità mobile a cui si aggiungono funzionalità social mai viste in oggetti simili quali appunto l'integrazione di un servizio di trasmissione “live” di video e audio. «L'idea ci è venuta – prosegue Renato Soru – quando Casini ha twittato la foto di lui, Alfano e Bersani. Se avesse avuto Indoona al tempo, avrebbe potuto appoggiare lo smartphone sul tavolo e trasmettere in diretta video l'incontro dei tre». È un fatto che gli accessi al web in mobilità e quelli ai social in particolare, abbiano superato quelli da pc. Tiscali cavalca questo trend e si prepara a sbarcare nella Silicon Valley per un possibile spin off di Indoona Inc., con un modello di business pensato ad esempio per dotare le aziende di un sistema interno di conference call in hd e con l'inserimento della pubblicità, croce e delizia della moderna editoria. ========================================================= ________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 gen. ’13 CLINICHE PRIVATE, 1500 DIPENDENTI IN AGITAZIONE Chiedono aumenti contrattuali dal 2006 al 2010 e annunciano proteste VEDI LA FOTO Avevano già proclamato lo stato di agitazione, ora promettono battaglia a colpi di sit-in e proteste davanti all'assessorato regionale alla Sanità e all'Aiop (associazione italiana ospedalità privata). Sono i circa 1500 dipendenti delle 11 case di cura sarde (di cui 7 nel capoluogo) che ad oggi non hanno ancora ottenuto gli arretrati relativi al quadriennio 2006-2010, in seguito all'adeguamento dell'Aiop al Ccnl (contratto collettivo nazionale del lavoro): una cifra che si aggira intorno ai 103 euro al mese, poco più di 5 mila euro complessivi a testa. L'Aiop punta il dito contro il mancato adeguamento dei drg da parte della Regione, motivo per il quale non sarebbe in grado di saldare il debito di 5 milioni coi propri dipendenti; l'assessorato, dal canto suo, si sarebbe giustificato appellandosi allo “spending review”: «In mezzo, tuttavia, 1500 famiglie sarde aspettano da anni il riconoscimento di quanto dovuto». La presidente regionale Ugl Franca Orrù non ha più la pazienza di aspettare. Sul piede di guerra i dipendenti, a partire dal rappresentante Ugl delle cliniche Lai e Maria Ausiliatrice Andrea Mazzuzzi, coordinatore supplente in sala operatoria: «Per rispetto verso il servizio e i pazienti non abbiamo mai fatto una sola giornata di sciopero, ma ora basta: useremo le ore di assemblea per riunirci in sit-in e protestare». Dello stesso avviso il collega della clinica di Quartu, Luca Tedde: «Siamo stufi di promesse puntualmente disattese per l'assenza oggi di un politico e domani di un funzionario». Lo suggerisce un tecnico del reparto di Radiologia, lo conferma la presidente Ugl: «L'Aiop si faccia carico della vicenda, o dica chiaramente che non pagherà i suoi dipendenti: ma metta fine a questa vergognosa altalena». (m.s.) ________________________________________________________ L’Unione Sarda 25 gen. ’13 SANITÀ, MANAGER NELLA BUFERA Il direttore delle Politiche sociali non attua le direttive: interviene l'assessore Commissario ad acta per revocare il bando “Lav-Ora” VEDI LA FOTO L'assessore alla Sanità Simona De Francisci revoca il bando “Lav-Ora” per l'inclusione sociale (7,5 milioni per l'inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati), ma per farlo deve commissariare - ad acta - il direttore generale delle Politiche sociali, Roberto Angelo Abis: colpevole di non aver attuato le direttive dell'assessore, che aveva chiesto la sospensione del bando e poi appunto la revoca. Il decreto della neo vicepresidente della Regione dà il compito di annullare il bando all'altro manager, Gianluca Calabrò (l'assessorato è diviso in due direzioni generali, Sanità e Politiche sociali). Ma la vicenda svela il contrasto tra De Francisci e uno dei suoi più diretti collaboratori. Contrasto che potrebbe non fermarsi al commissariamento per un singolo atto. Secondo la ricostruzione che si ricava dal decreto, l'assessore aveva da tempo rilevato difformità tra i propri indirizzi politico-amministrativi sulla gestione delle risorse per l'inclusione sociale, e i contenuti dell'avviso pubblico “Lav-Ora”. Tra gli aspetti negativi, come rilevato anche dall'Unione Province, c'era il mancato coinvolgimento dei rappresentanti dei territori. Perciò De Francisci aveva invitato Abis prima a sospendere e poi a revocare il bando, che scade il mese prossimo. Poiché il dg - che ha il dovere di attuare gli indirizzi politici - non ha provveduto, non restava che la strada del commissario ad acta, come prevede la legge. «Il dovere di un amministratore pubblico - precisa De Francisci, in risposta a un'interrogazione di Tarcisio Agus (Pd) - è spendere bene e velocemente le risorse finanziarie, raggiungendo il maggior numero di fruitori». La decisione di rifare il bando nasce dalle «giustificate richieste di modifiche», nonché per «coinvolgere ancor di più le categorie disagiate». ________________________________________________________ L’Unione Sarda 22 gen. ’13 ATTENTI ALLA SINDRONE POST RICOVERO Conclusione della ricerca del dottor Harlan M.Krumholz dell'Università di Yale Colpisce un quinto dei dimessi VEDI LA FOTO Un ricovero in ospedale e poi le dimissioni: sembra che il peggio sia passato, ma è davvero così? Non del tutto, almeno per un quinto dei pazienti ricoverati, che secondo una ricerca americana pubblicata sul prestigioso New England Journal of Medicine soffrono di quella che viene chiamata sindrome post ricovero, un periodo transitorio di estrema vulnerabilità. Nell'arco di trenta giorni dalle dimissioni - secondo il dottor Harlan M.Krumholz dell'Università di Yale che ha svolto la ricerca - possono infatti presentarsi patologie acute che costringono a una nuova ospedalizzazione e che nella maggior parte dei casi nulla hanno a che vedere con la malattia precedente: tra queste insufficienza cardiaca, problemi gastrointestinali, infiammazione dei polmoni, disordini metabolici e problemi psicologici. Tra i motivi principali di queste ricadute, spesso gravi, vi è lo stress vissuto in ospedale, che ha un forte impatto sul corpo e sulla psiche, che si avverte soprattutto una volta tornati a casa. Quando si è ricoverati ad esempio, spiega lo studioso di Yale facendo riferimento anche a quanto stabilito in ricerche precedenti, si dorme molto poco e ciò può influenzare negativamente il metabolismo, il funzionamento del sistema immunitario e la coagulazione del sangue mettendo a rischio il cuore. Non solo: nel periodo di degenza si tende anche a mangiare poco, ingerendo mediamente il 50% di quanto richiederebbe il fabbisogno energetico normale. E in alcuni pazienti, come quelli in ventilazione meccanica, tutto è spesso ulteriormente complicato dall'impossibilità di una nutrizione per bocca. Tutto ciò porta ripercussioni anche a livello cardiocircolatorio e respiratorio, oltre che problemi gastrointestinali e senso di debolezza. Inoltre, i farmaci somministrati e soprattutto l'immobilismo obbligato possono causare una sorta di destabilizzazione che mette a rischio l'equilibrio e le capacità di coordinamento, aumentando il rischio di incidenti e cadute una volta dimessi. ________________________________________________________ Corriere della Sera 27 gen. ’13 C'È ANCORA POCO DIALOGO TRA I DOTTORI CHE CI CURANO Medici di famiglia e ospedalieri che si parlano ancora poco, anche se hanno in cura lo stesso paziente. Malati cronici soddisfatti dell'assistenza ricevuta, ma costretti spesso a uno stillicidio di appuntamenti e a un peregrinare da una struttura all'altra, perché visite ed esami vengono prenotati in giorni e luoghi diversi. Ad analizzare sia la qualità delle cure percepita dagli assistiti sia il livello di integrazione tra i diversi medici è una recente indagine che ha coinvolto 14 Asl e ospedali rappresentativi del territorio nazionale. L'indagine è stata realizzata dalla Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso) in collaborazione con il Cergas-Centro di ricerche sulla gestione dell'assistenza sanitaria sociale dell'Università Bocconi di Milano. Un tema attuale, quello scandagliato, dopo il via libera alla riforma della medicina territoriale che mira a favorire l'aggregazione sia tra medici di medicina generale sia tra questi e i servizi ospedalieri, proprio per assicurare ai pazienti la cosiddetta continuità assistenziale. Lo studio si è focalizzato su tre malattie croniche che richiedono l'intervento congiunto di medici di famiglia e specialisti: diabete con danno a un organo, tumori in fase avanzata seguiti a domicilio e insufficienza respiratoria grave legata a broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco). «Con il costante aumento di malati cronici, soprattutto anziani, occorre organizzare al meglio la loro presa in carico» afferma Valerio Fabio Alberti, presidente di Fiaso. Ebbene, dall'indagine emerge una carenza di dialogo tra medici ospedalieri e di famiglia (vedi dati a sinistra). Gli specialisti parlano più spesso tra loro di pazienti comuni, soprattutto quando lavorano nella stessa struttura. E lo stesso avviene tra medici di famiglia laddove si sono organizzati in studi associati. «Manca, però, quel "ponte" che li mette in comunicazione coi colleghi ospedalieri — sottolinea Francesco Longo, professore di Management pubblico e sanitario all'Università Bocconi e coordinatore della ricerca —. Sono ancora poco utilizzati sistemi informativi comuni che permetterebbero ai medici di scambiarsi dati clinici del paziente». Secondo l'indagine, infatti, solo il 2% dei dottori intervistati utilizza l'email per comunicare con i colleghi; la maggioranza preferisce tuttora consultare le cartelle cliniche o le lettere portate direttamente dall'assistito al momento della visita. Maria Giovanna Faiella ______________________________________________ Corriere della Sera 27 gen. ’13 BIOTECNOLOGIE PER RIPARARE LE FRATTURE «DIFFICILI» L'obiettivo è evitare i disagi di ripetuti interventi S e dopo una frattura l'osso non si rinsalda come dovrebbe, oggi potrebbe esserci un'alternativa alla serie di interventi chirurgici che si renderebbero necessari per rimediare. I progressi nelle biotecnologie, nei biomateriali e nell'ingegneria dei tessuti offrono sempre più la possibilità di soluzioni personalizzate, integrando tra loro tecniche diverse. L'obiettivo è quello di promuovere la guarigione dell'osso mediante la combinazione di sistemi di stabilizzazione meccanica, cellule, fattori di crescita e materiali di sostegno, seguendo una strategia progressiva in relazione all'entità del danno. I risultati finora ottenuti con questo approccio sono incoraggianti, secondo quanto emerso a Milano in occasione del primo Congresso Estrot (European Society Tissue Regeneration in Orthopaedics Trauma). «La maggior parte delle fratture guarisce senza inconvenienti, tuttavia in diversi casi l'osso non si consolida (pseudoartrosi, si veda box a lato) e addirittura si può determinare una perdita ossea critica — spiega il professor Giorgio Maria Calori, Presidente di Estrot e primario della Divisione di chirurgia ortopedica riparativa dell'Istituto ortopedico Gaetano Pini di Milano —. In queste circostanze trovano indicazione le più moderne biotecnologie. Cellule multipotenti, supporti di sostegno o di riempimento delle cavità con materiali sintetici o biologici (i cosiddetti scaffold), fattori di crescita: sono questi i principali mezzi di cui possiamo disporre. E, oggi, anche grazie all'aiuto di un nuovo criterio di classificazione, che abbiamo definito Non Union Scoring System, siamo in grado, basandoci sul punteggio di gravità della lesione, di scegliere quando e come usarli per un trattamento davvero su misura, utilizzando una monoterapia, oppure una terapia associata (politerapia)». Per migliorare l'efficacia di questa strategia, è stato inoltre implementato il concetto di camera biologica, un ambiente protetto, sterile e vitale, utile per ottimizzare e verificare i meccanismi di guarigione. «La camera biologica — puntualizza Calori — viene realizzata mediante due interventi chirurgici quando è presente un'infezione. In pratica, si ripulisce la zona dai tessuti malati e si posiziona uno spaziatore di cemento, mescolato ad antibiotici, che produce, per reazione da corpo estraneo, una sorta di pseudomembrana vitale atta a ripristinare la continuità vitale dei monconi ossei. Dopo 2-3 mesi, "sterilizzata" l'area, si rimuove il cemento, avendo ottenuto così la camera biologica. Attualmente presso la nostra divisione è in avanzata fase di studio anche una innovativa membrana artificiale che utilizza criteri biochimici e nanotecnologici. Questo nuovo ausilio è stato pensato per trattare la lesione in un tempo solo e quindi semplificare le cose». I risultati finora ottenuti con le nuove biotecnologie fanno ben sperare: le percentuali di guarigione superano in molti casi quelle di interventi tradizionali, talvolta più invasivi e complessi. «Grazie a una conoscenza sempre più approfondita dei meccanismi biologici implicati nella guarigione delle lesioni muscolo-scheletriche, le nuove tecniche riparative e rigenerative hanno aperto una concreta prospettiva di cura purché siano utilizzate in casi selezionati da esperti competenti, per la salvaguardia dei pazienti e il corretto utilizzo delle risorse disponibili — puntualizza il professor Bruno Marelli, direttore del Dipartimento di ortotraumatologia generale del Gaetano Pini —. Nonostante i progressi, occorre però fare ancora molto a livello normativo, etico, giuridico, oltre che medico-scientifico e chirurgico». «Questo è lo spirito giusto per promuovere un confronto tra gli esperti del settore, collegando in rete le Università europee» sottolinea infine il professor Giuseppe Mineo, direttore della Clinica ortopedica dell'Università di Milano. Antonella Sparvoli _________________________________________________ Corriere della Sera 20 gen. ’13 LE ABITUDINI D'IGIENE CHE ALLONTANANO L'INFLUENZA di ANTONELLA SPARVOLI P er superare indenne la stagione dell'influenza un buon metodo è lavarsi spesso e bene le mani. Questo accorgimento, all'apparenza banale, è una delle azioni più efficaci per ridurre il rischio di infezioni respiratorie, gastrointestinali e cutanee. «Le mani sono un ricettacolo di germi, dei quali solo circa il 20% è rappresentato da microrganismi che risiedono normalmente sulla cute senza creare danni — spiega Fabrizio Pregliasco, del Dipartimento di scienze biomediche per la salute dell'Università di Milano —. A questi però possono aggiungersi virus e batteri che circolano nell'aria o con cui veniamo in contatto toccando le più diverse superfici. E può bastare poco per trasferire questi microbi dalle mani alla bocca, e quindi per ammalarsi. Tuttavia lavando bene le mani, soprattutto in alcune circostanze, si limitano i rischi». Come vanno lavate le mani? «Acqua, normale sapone, accurato sfregamento, abbondante risciacquo e attenta asciugatura: questi sono i principali passaggi di quello che viene definito il lavaggio sociale, quello che ognuno di noi compie ogni giorno. Il tutto dovrebbe durare almeno 40-60 secondi, mentre in genere non vi si dedicano più di 10-20 secondi. L'obiettivo non è sterilizzare le mani, ma allontanare il più possibile la flora batterica transitoria. Per fare ciò è molto importante sfregare bene le mani col sapone e poi, dopo il risciacquo, asciugarle bene, meglio con una salvietta monouso, specie se si è fuori casa. Quest'ultimo passaggio è importante perché l'umidità può favorire la moltiplicazione dei microrganismi, sminuendo così l'efficacia della pulizia. Altrettanto importante è chiudere il rubinetto e aprire la porta usando un fazzoletto di carta». Meglio il sapone o i prodotti disinfettanti? «I saponi con disinfettanti o antisettici hanno senso solo in alcune circostanze, per esempio in ospedale. Le mani sporche degli operatori sanitari sono le prime responsabili della diffusione di infezioni ospedaliere. Uno dei momenti più delicati in ospedale è la preparazione a un intervento chirurgico: in questi casi il medico deve lavarsi in modo più meticoloso. Questo tipo di lavaggio, detto chirurgico, dura di più, prevede l'uso di antisettici e di uno spazzolino o di una spugnetta monouso per rimuovere meglio lo sporco. Infine, quando si è fuori casa e non c'è un bagno si può ricorrere a piccoli dispenser da usare a secco contenenti soluzioni disinfettanti a base alcolica». Quando è particolarmente importante lavarsi le mani? «I momenti "critici" sono: dopo la preparazione dei cibi, dopo aver toccato un animale, dopo essersi soffiati il naso, aver tossito o starnutito. E ancora, prima di mangiare, di cucinare, di medicare ferite o di indossare lenti a contatto». Non è sbagliato, però, lavarsi troppo le mani? «Lavarsi le mani non deve diventare una mania: troppi lavaggi possono diventare nocivi perché si rischia di eliminare anche i germi buoni, favorire irritazioni e facilitare fenomeni di sensibilizzazione allergica». ________________________________________________________ Corriere della Sera 27 gen. ’13 LA MEDICINA DIFENSIVA NON SARÀ UNA SCUSA? Tra i tanti sprechi di cui si parla, quelli che per tutti in campagna elettorale sono rigorosamente da eliminare, è stato quantificato quello dovuto all'eccesso di prescrizioni mediche, in parole povere esami e medicine inutili. Nella relazione conclusiva di legislatura della Commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori medici tale spreco è stato valutato in circa 10 miliardi di euro, lo 0,75% del Pil, il 10,5% della spesa sanitaria, due volte e mezzo l'Imu sulla prima casa (ormai unità di misura della spesa pubblica). In dettaglio si afferma che potrebbero essere evitate le spese per il 4,6% dei ricoveri, l'1,9% dei farmaci, l'1,7% delle visite, l'1,3% degli esami strumentali e di laboratorio. Questi dati nella relazione sono riportati alla voce «medicina difensiva». Ora, non c'è dubbio che il timore di azioni legali da parte dei pazienti spinga molti medici a un eccesso di prudenza. Ma il fenomeno delle iperprescrizioni esiste da molto tempo prima che fosse coniato il termine «medicina difensiva». Allora era attribuito a comportamenti quali la compiacenza verso il paziente, che vuole a tutti i costi una medicina, o verso colleghi o strutture «amiche», a cui mandare i presunti malati. C'erano una volta anche casi di pura illegalità, esisteva il reato di comparaggio. Adesso si parla solo di medicina difensiva. Ma forse, in molti casi, è difensiva in senso più ampio. Più che una difesa, talvolta può essere una scusa ________________________________________________________ Corriere della Sera 27 gen. ’13 LA CROCIATA CONTRO I VACCINI di ANDREA GRIGNOLIO Medicine affidabili vengono accusate senza prove di provocare l'autismo e il cancro da gruppi di ecologisti che si sentono all'avanguardia ma vivono nell'età della pietra D a alcuni anni in Italia una strisciante ideologia naturista sta coagulando una serie di false credenze e sentimenti antiscientifici potenzialmente pericolosi per la salute pubblica, nonché per la cultura e l'economia. Con frequenza sempre maggiore appaiono su quotidiani e web messaggi che alimentano paure insensate sulla vaccinazione, dalle false notizie sulla commercializzazione di lotti difettosi alle inchieste su vaccini e cancro. Nel novembre scorso il direttore dell'Agenzia del farmaco, Luca Pani, e il virologo Gianni Rezza hanno lanciato l'allarme per la disinformazione contro le vaccinazioni, ricordando che il rapporto costi-benefici per i vaccini resta il più favorevole fra tutti i farmaci disponibili. Nonostante siano tra le scoperte biomediche più importanti, e abbiano salvato milioni di bambini soprattutto tra le fasce meno abbienti, i vaccini sono al centro di una campagna di «controinformazione» senza precedenti, persino da parte di personalità e movimenti progressisti. Nella discussione seguita alla sentenza del tribunale di Rimini dello scorso marzo, che accettava la relazione tra vaccino trivalente e autismo, si è distinta la trasmissione di Daria Bignardi, Le invasioni barbariche, che ha dato spazio alla storia dell'imprenditore Franco Antonello, raccontata nel libro Se ti abbraccio non aver paura (Marcos y Marcos). Contro i vaccini si è pronunciato anche Beppe Grillo in una serie di interventi disponibili su YouTube. Nella storia della medicina le resistenze contro i vaccini sono ben note e possono suggerire qualche riflessione. Il primo a capirlo fu Edward Jenner, il medico inglese che alla fine del Settecento scoprì che era più sicuro immunizzare gli esseri umani contro il vaiolo usando come fonte infettiva non un altro consimile ammalato, com'era consuetudine, ma inoculando estratti di pustole vaccine infette. Ottenuto l'avallo della profilassi dalle istituzioni britanniche, fu nondimeno oggetto di un'aggressiva propaganda antivaccinale che utilizzò caricature di uomini- bove per far da grancassa ai timori popolari sulla promiscuità tra specie animale e umana e sulla conseguente degenerazione di quest'ultima. Tralasciando altri casi intermedi, le paure contro il vaccino tornarono sulla stampa nel 1998, quando un gastroenterologo britannico, Andrew Wakefield, pubblicò sulla rivista «Lancet» un articolo in cui stabiliva una relazione causale tra vaccinazione trivalente, disturbi del tratto intestinale e autismo. Come venne provato da esperimenti successivi non vi era alcuna relazione tra vaccino e autismo; due inchieste giornalistiche chiarirono poi che si era trattato di una frode pianificata: Wakefield operò in conflitto d'interesse economico, omise dati che negavano la compresenza dei disturbi intestinali, sottopose pazienti ritardati a inutili trattamenti invasivi contro gli standard etici, e nel 2010 venne quindi radiato dall'ordine dei medici inglesi. In Italia invece i siti web che sostengono la relazione autismo-vaccini con prove pseudoscientifiche sono moltissimi, si va dai più specializzati, come condav.it e autismovaccini.com, a quelli più generici come procaduceo.org, mednat.org, disinformazione.it, che attaccano i vaccini come emblema dell'aggressività della medicina classica e di Big Pharma, sino a quelli che — come scienzaverde.it — scomodano teorie del complotto sfruttando personaggi noti come Romina Power, che in una lettera all'ex ministro Ferruccio Fazio ha scritto, citando come fonte una giornalista austriaca, che «sia il vaccino che la stessa epidemia A/H1N1 sarebbero armi biologiche deliberatamente utilizzate per la riduzione della popolazione mondiale». L'«esperto» generalmente chiamato in causa in questi casi è il medico Massimo Montinari, che per guarire alcuni casi di autismo ha escogitato un protocollo che associa diete prive di glutine e caseina a un trattamento omotossicologico, ma non sembra avere alle spalle pubblicazioni scientifiche accreditate, a parte il libro del 2002 Autismo. Nuove terapie per migliorare e guarire edito dalla Macro Edizioni (che raccoglie nel catalogo volumi sulle profezie Maya e sui segreti del Nuovo Ordine Mondiale). Recentemente si è sollevato un polverone mediatico contro la società farmaceutica Novartis, accusata di aver distribuito mezzo milione di dosi difettose di vaccino antinfluenzale, senza che in realtà una sola di queste fosse stata commercializzata. L'inevitabile effetto domino si è abbattuto sia sulle milioni di dosi funzionanti già pronte sul territorio nazionale e internazionale, sia sulla drastica diminuzione delle vaccinazioni stagionali, con punte del 60% nel Sud Italia. Per non parlare del danno di immagine. Pur essendo di nazionalità svizzera, la Novartis è un'eccellenza italiana, perché ha a Siena il cuore operativo e la mente, Rino Rappuoli, vaccinologo tra i più autorevoli al mondo. L'azienda ha da poco messo a punto l'avanzato vaccino per il meningococco B, il ceppo responsabile principale della morte da meningite in Europa, frequentissima tra i bambini al primo anno di vita. Ora, nuovamente, ha iniziato da qualche mese a circolare — prima sul web e poi su carta stampata — una nuova bufala contro i vaccini, questa volta ritenuti responsabili, se inoculati in dosi e in età inappropriate, di provocare il cancro. A parte l'aspetto culturale, quella contro i vaccini è una battaglia rischiosissima sul piano biologico, perché mette a repentaglio la salute di tutta la popolazione. La ragione è semplice. Da milioni di anni le grandi pandemie cambiano il corso della storia, dalla «peste di Atene» all'influenza spagnola, e sono dovute all'evoluzione biologica di infezioni microrganismiche passate dagli animali all'uomo, un po' come pegno della domesticazione che abbiamo loro imposto. I nostri progenitori cacciatori-raccoglitori hanno avuto la meglio sulle altre popolazioni perché per primi hanno avuto pasti regolari e tempo libero a disposizione, in precedenza occupato da lunghe e pericolose battute di caccia, proprio grazie all'addomesticamento di piante e animali. Il contatto quotidiano con queste specie ha però avuto un costo: contrarre molte malattie, grazie a piccole e inevitabili mutazioni che hanno permesso a batteri e virus di diventare dannosi anche per l'uomo. Tornando a oggi, le persone senza copertura vaccinale minacciano anche chi ce l'ha, poiché rappresentano una comoda «porta» di ingresso per i microbi che, una volta passati su un individuo del gruppo, possono più facilmente mutare e infettare l'intera popolazione, un fenomeno chiamato «immunità di branco». Se la percentuale della popolazione coperta dal vaccino rimane alta, il muro diventa difficile da valicare, ecco perché malattie che in passato causavano gravi pandemie sono oggi sotto controllo. Cosa c'entrano i gruppi antivaccinali con gli antenati cacciatori-raccoglitori? C'entrano, perché entrambi vivono mentalmente all'età della pietra. La stessa verso cui tende quella parte di pubblicistica ideologizzata la cui politica culturale antiscientista è tesa a vellicare la pancia dei suoi lettori tipo: luddisti, iperecologisti e naturisti per cui «tutto ciò che è naturale è buono, tutto ciò che è prodotto artificialmente dall'uomo o dall'industria è cattivo». Si pensi al crescente numero di madri che portano i propri bambini a scuola o all'asilo (perlopiù privati) evitando le vaccinazioni obbligatorie. La dimensione del fenomeno sociale sta raggiungendo dimensioni pericolose, se si considera che nell'ultimo decennio hanno sospeso le sanzioni amministrative contro i genitori recalcitranti diverse regioni (Lombardia, Piemonte, Toscana, Sardegna), con il triste primato di Emilia-Romagna e Veneto, dove le vaccinazioni non sono più obbligatorie, rispettivamente, dal 1999 e dal 2007, e dove infatti i centri di monitoraggio, documentati dal portale Epicentro, «notano un calo della copertura», con zone come il riminese in cui «un movimento antivaccinale molto attivo, mostra una percentuale di obiettori elevata, pari al 4,8%». Le associazioni pediatriche denunciano inascoltate il fenomeno e l'Organizzazione mondiale della sanità non fa che ripetere che la presenza di ceppi infettivi resistenti agli antibiotici è in costante aumento. Una volta acquisite, le conquiste biologiche, come quelle sociali, vanno strenuamente difese, lo ricorda una piaga come la difterite, che si è riaffacciata quando è diminuita la diffusione vaccinale dopo il collasso dell'Urss. Purtroppo pare che né divieti né argomenti valgano contro questi crescenti gruppi antivaccinali: una élite Bobo (bourgeois-bohémien) che si forma sui siti di «controinformazione», che si muove tra vegetarianesimo e medicina alternativa, e che immagina una Natura buona. Per un paradosso della storia, questi movimenti e la stampa che li accudisce ricordano la scena finale de Il fascino discreto della borghesia del regista Luis Buñuel: ridenti e festanti camminano incessantemente in una direzione che fingono di conoscere. Paghi di sé stessi, non si accorgono che camminano nel nulla. ________________________________________________________ Le Scienze 22 gen. ’13 DATI GENETICI, TROPPO SEMPLICE VIOLARE LA PRIVACY © Andrew Brookes/Corbis Bastano un computer e un collegamento a Internet per dare un’identità ai profili genetici anonimi usati a scopi di ricerca: lo dimostra un test di vulnerabilità condotto da un gruppo di ricercatori statunitensi. Grazie a specifici marcatori del cromosoma Y, e ai database genealogici presenti sul Web è infatti possibile trovare il probabile cognome dei soggetti maschi, e le altre informazioni si possono ricavare dai dati anagrafici pubblici. Quanto è sicura la privacy dei dati genetici usati a scopo di ricerca in tutto il mondo? È difficile dare una risposta valida in generale, ma un articolo pubblicato su “Science” lancia l’allarme sulle possibili violazioni dell’anonimato: un gruppo di ricercatori del Whitehead Institute è riuscito a identificare circa 50 soggetti coinvolti in studi genomici servendosi solo di un computer, di un collegamento Internet e di informazioni pubbliche. Gli studiosi si sono concentrati sui microsatelliti del cromosoma Y, o Y- STR (acronimo per short tandem repeats on the Y chromosome). Si tratta di sequenze ripetute di lunghezza molto limitata che compaiono nella parte di DNA non codificante e che vengono utilizzate negli studi come marcatori per identificare i loci genetici. Il cromosoma Y è presente solo nel genoma dei maschi e viene trasmesso di padre in figlio; il suo profilo è quindi associabile in modo quasi biunivoco al cognome della famiglia in cui viene trasmesso (i limiti di questa associazione sono introdotti quando non c’è legame genetico tra padre e figlio o per effetto di mutazioni o ancora quando il figlio sceglie di portare il cognome della madre). Sfruttando questa correlazione, denominata in termini tecnici co- segregazione del cognome rispetto all’aplotipo cromosomico, molte società private offrono la possibilità di riunire parenti patrilineari sulla base di una semplice analisi degli Y-STR. Attualmente sul Web sono disponibili ben otto progetti di database con associazioni cognome-Y-STR. ________________________________________________________ Le Scienze 22 gen. ’13 CANNABIS E DEFICIT D'INTELLIGENZA, TUTTO DA DIMOSTRARE © Neal Preston/CORBIS Contestata l'ipotesi che il consumo di cannabis provochi problemi neurofisiologici a lungo termine tali da produrre un deficit delle capacità cognitive. Una nuova analisi che tiene conto anche dei fattori di svantaggio socioeconomico mette in discussione la conclusione di una ricerca pubblicata lo scorso anno sulla base di uno studio su più di 1000 soggetti seguiti per quasi quattro decenni, in cui si evidenziava una correlazione tra il consumo massiccio dello stupefacente durante l'adolescenza e un declino del quoziente intellettivo in età adulta di Folco Claudi o Gli effetti del consumo di cannabis sul cervello sono un tema che genera spesso in ambito scientifico discussioni anche accese: sembrano ormai inoppugnabili i risultati che documentano un effetto a breve termine (48 ore) sulla memoria e su altre funzioni cognitive, dovuto al fatto che il tetraidrocannabinolo (THC), il principio attivo resposabile degli effetti della sostanza, non viene smaltito immediatamente dall'organismo. Ci sono poi altri studi a lungo termine che hanno evidenziato problemi con la vista, altri ancora con la schizofrenia, ma per ora non c'è nulla di definitivo. Inoltre, molte volte c'è il sospetto che le conclusioni scientifiche non siano del tutto scevre dal giudizio sulle droghe leggere che divide l'opinione pubblica dagli anni sessanta. Lo stesso vale per le ricerche che riguardano l’intelligenza di un qualunque gruppo di soggetti, a causa della quantità dei fattori e delle implicazioni di cui occorre tenere conto. Il concetto in sé è già estremamente sfuggente, e le definizioni sulla base di test (tipicamente quella di Quoziente intellettivo, o QI) in passato sono state aspramente criticate perché espressione della mentalità, dell'istruzione e delle opportunità di espressione individuale delle classe dominante delle società occidentali, in particolare dei bianchi statunitensi. Oltre a ciò, non è certo facile riuscire a isolare i fattori decisivi in grado di determinarla, nell'oceano di elementi genetici e ambientali che influenzano noi tutti. © Ocean/CorbisEra quindi quasi inevitabile che lo studio di Madeline Meier e colleghipubblicato alcuni mesi fa, che combina i temi di consumo di cannabis e intelligenza, fosse messo in discussione. A farlo, con un articolo appena pubblicato su PNAS, è Ole Røgeberg, economista del lavoro del Ragnar Frisch Centre for Economic Research di Oslo, secondo il quale la conclusione raggiunta dal gruppo di Meier, vale a dire che esista una correlazione tra l’uso massiccio della droga nell'adolescenza e una diminuzione del quoziente intellettivo nell’età adulta, deriva da un approccio metodologico scorretto. Il gruppo di Meier aveva lavorato sui raccolti dal Dunedin Longitudinal Study, nel corso del quale più di mille abitanti della Nuova Zelanda nati nel 1972 e nel 1973 sono stati seguiti dalla nascita ai giorni nostri, rispondendo periodicamente a questionari su comportamenti e stili di vita e sottoponendosi a test per valutare diversi parametri neuropsicologici. Concentrandosi in particolare sul consumo di cannabis nell'adolescenza e sull’andamento del quoziente intellettivo (QI) negli anni, Meier e colleghi avevano ottenuto una correlazione statisticamente significativa: nei soggetti che riferivano un consumo massiccio della droga da adolescenti si osservava un declino significativo del QI al trentottesimo anno di età. I ricercatori ne avevano quindi concluso che lo sviluppo neurobiologico fosse influenzato in modo negativo e permanente dalla cannabis. Gli effetti neurobiologici a lungo termine, in particolare quelli che influenzano il QI, del consumo di canabis in età giovanile sono ancora materia di dibattito. (© Neal Preston/CORBIS)Le obiezioni di Røgeberg, supportate da una sua diversa analisi dei dati, sono quelle classiche della statistica applicata alle scienze biomediche e alla psicologia. In primo luogo, come avvertono tutti i manuali sull’argomento, la correlazione tra due fattori A e B non implica di per sé una relazione di causa ed effetto, ma solo che essi ricorrono insieme. Se la correlazione risulta statisticamente significativa, ci sono tre possibili ragioni: un’alta probabilità che A sia causa di B, che B sia causa di A, oppure che entrambi si presentino contemporaneamente in dipendenza di un terzo fattore non considerato o escluso in modo metodologicamente scorretto dall’analisi. Tornando alla connessione tra cannabis e QI, come si può affermare che sia la droga a determinare una diminuzione dell’intelligenza e non che, viceversa, un deficit cognitivo predisponga a consumare stupefacenti? In secondo luogo, nello studio di Meier sono stati esclusi tutti i fattori che potrebbero confondere i risultati? © Nick Adams/CorbisDa economista, Røgeberg punta sullo stato socieconomico, la cui influenza sul quoziente intellettivo è stata dimostrata da numerosi studi. “Chi sono gli adolescenti che arrivano precocemente al consumo di cannabis?” si è chiesto il ricercatore norvegese. Il gruppo di Meier non avevano approfondito il tema ma le numerose pubblicazioni sulla coorte di Dunedin permettono di rispondere: si tratta tendenzialmente di soggetti con scarsa capacità di autocontrollo, con precedenti problemi di condotta e altri fattori di rischio collegati allo status socioeconomico. Non è un caso infatti che nel gruppo dei forti consumatori abituali di cannabis la comunità Maori, una fascia penalizzata della popolazione soprattutto nelle comunità inurbate, sia sovrarappresentata. Per dare concretezza alle sue critiche, Røgeberg ha condotto una simulazione statistica che ha tenuto conto dei fattori socioeconomici. Risultato: la correlazione individuata da Meier e colleghi si è riprodotta, ma l’effetto causale del consumo di cannabis sulla neurofisiologia si è fortemente ridimensionato. Al punto tale, scrive Røgeberg, che l’effetto netto complessivo probabilmente è nullo. Differenti approcci, differenti risultati, dunque. E non è detto che la parola di Røgeberg sia quella corretta e definitiva sull’argomento. Solo ulteriori analisi dei dati della coorte di Dunedin potranno dire se si avvicina più alla verità la prima o la seconda intrpretazione. La strada da seguire è in qualche modo tracciata: occorre distinguere se e in che misura il declino nel QI sia da attribuire a un effetto neurotossico della cannabis e in che misura invece c'entri lo svantaggio socioeconomico dei soggetti. I profili dei detabase genetici sono pubblici per motivi di ricerca: le possibili violazioni della privacy devono stimolare l'implementazione di misure di sicurezza migliori (© Andrew Brookes/Corbis)Già in passato, i database genealogici genetici hanno dimostrato la loro capacità di violare l’anonimato di singoli soggetti: inserendo il proprio genotipo Y- STR, è sufficiente che nel database sia presente quello di un parente per via paterna per arrivare a un cognome probabile. Incrociando questo dato con altri, come la data o il luogo di nascita del padre biologico, è stato possibile in molti casi risalire alla sua identità. Erlich e colleghi hanno verificato se questo procedimento di “inferenza dei cognomi” con i database genealogici online potesse minare la sicurezza della privacy anche dei database genetici anonimi ma pubblici usati dalla comunità scientifica, per esempio il materiale genetico raccolto presso il Center for the Study of Human Polymorphisms (CEPH) nell’ambito del 1000 Genomes Project. I ricercatori hanno considerato i profili Y-STR dei 50 cittadini statunitensi che hanno partecipato al CEPH, li hanno inseriti in database genealogici e ne hanno ricavato il cognome. Una volta ottenuto questo, hanno cercato altre informazioni attraverso i motori di ricerca su Internet e altre fonti d’informazione, quali i database anagrafici e genetici degli Stati Uniti, come il National Institute of General Medical Sciences (NIGMS) Human Genetic Cell Repository del Coriell Institute, nel New Jersey. Alla fine, tutti e 50 i soggetti sono stati identificati. Secondo le conclusioni degli autori, lo studio dimostra che l’inserimento in un database dei dati genetici di un singolo soggetto può rivelare profondi legami genealogici con altri cittadini e portare così all’identificazione da parte di terzi senza il consenso dell’interessato. “Il nostro obiettivo era chiarire l’attuale stato di vulnerabilità informatica dei dati genetici”, spiega Melissa Gymrek, che ha partecipato allo studio. “Il risultato consente a tutti di essere più consapevoli quando vengono coinvolti nella raccolta di informazioni così sensibili; inoltre è auspicabile che chi conserva questi dati implementi misure di sicurezza migliori”. ________________________________________________________ Sanità News 27 gen. ’13 L’ALLARME DEL MINISTERO DELLA SALUTE: TROPPI I RICOVERI INAPPROPRIATI DEI BAMBINI I bimbi e gli adolescenti italiani vengo ricoverati in ospedale più spesso dei loro coetanei di altri paesi del mondo e consumano molti farmaci, spesso in maniera inappropriata. È quanto emerge dal Quaderno del ministero della Salute dedicato alla promozione e tutela del bambino e dell’adolescente. L’Italia ha un tasso di ospedalizzazione pediatrica superiore a quello di altri Paesi del mondo: nella fascia di età compresa tra gli 0 e i 14 anni è del 75 per 1000, mentre ad esempio nel Regno Unito e in Spagna si attesta al 50-60 e negli Usa e inferiore al 40. Tra le cause principali di ricovero in ospedale fino a un anno le complicanze che possono intervenire dopo il parto e da 1 a 17 anni le malattie dell’apparato respiratorio (15,6%), i traumi e gli avvelenamenti (9,8%) , seguite dai disturbi dell’apparato digerente. Per ridurre l’ospedalizzazione, ha spiegato il ministro della Salute Renato Balduzzi, «è irrinunciabile una continuità assistenziale 24 ore su 24 7 giorni su 7». Secondo Balduzzi, inoltre, «è fondamentale che i pediatri che operino in gruppo nel contesto di una struttura multispecialistica e multiprofessionale integrata». C’è poi la questione del consumo dei farmaci, che tra i più piccoli e gli adolescenti «in Italia è elevato, con esempi di uso non sempre corretto e appropriato», secondo quanto si legge nel Quaderno della Salute. «In questo campo - spiegano gli esperti che hanno concorso alla realizzazione del volume - si può pensare a specifici progetti, come la realizzazione di un prontuario nazionale a uso pediatrico, studi epidemiologici ad hoc, coinvolgimenti attivi e partecipati degli operatori sanitari e strumenti formativi e informativi rivolti invece alla popolazione generale».