RASSEGNA STAMPA 04/11/2012 DIPARTIMENTI: NEL CIRCO VIZIOSO DELLA MEDIOCRITÀ TROPPO SPAZIO ALLE PUBBLICAZIONI RICERCA IMPOSSIBILE SENZA VALUTAZIONE VANNO PROTETTE LE VALUTAZIONI SUI RICERCATORI ATENEO CHE VAI, COSTO CHE TROVI IN RIPRESA GLI STUDI ALL'ESTERO DA SUD A NORD EMIGRA PER STUDIARE 1 GIOVANE SU 5 UN GIOVANE SU TRE VUOLE LASCIARE L'ITALIA ORA CI SI LAUREA PIÙ PRESTO QUESTA RIFORMA STA DANDO BUONI FRUTTI LE UNIVERSITÀ TORNANO AD ASSUMERE PISA:RETTORE TAGLIA LE SPESE MA SI RADDOPPIA LO STIPENDIO QUELLA PARENTOPOLI DEI BARONI BOLOGNESI COME COINVOLGERE I NOSTRI STUDENTI LE TASSE DI GOOGLE«SPARITE» FRA IRLANDA, OLANDA E BERMUDA IL DOLORE DEI NUMERI PRIMI CNR, REALIZZATA UNA MAGLIETTA CHE STUDIA IL SUDORE È NORMALE AMARE UN GATTO COME FOSSE UN ESSERE UMANO ? UNA CARTA ELETTRONICA EVOLUTA PER I DISPLAY DI DOMANI I CERVELLI FUGGONO IN SVIZZERA LE PAROLE PREVISTE DALLA CRUSCA LA CATTURA INTELLIGENTE DEL VENTO IL DISACCORDO CHE ACCRESCE LA CONOSCENZA IL PESO DELLA FISICA NELL'ECONOMIA REALE LA PASSWORD NON BASTA PIÙ, ARRIVA IL TOKEN CONCORSI: IL PROF NON È RAIN MAN ITALIANI PIU’ RISPETTO PER LA SCIENZA EVOLUZIONI DELLA TEOLOGIA ========================================================= IL TICKET? SI PAGA ALLE POSTE BARRACCIU CHIEDE LE DIMISSIONI DEL DIRETTORE AOB GARAU SOS BROTZU, DUECENTO INTERINALI A RISCHIO GARAU: GLI INTERINALI UNA NECESSITÀ IN AOB BARRACCIU: NUOVA PARENTOPOLI ALLA ASL DI NUORO SORO: PARENTOPOLI? BARRACCIU VADA DAL GIUDICE CASSAZIONE: VA CONDANNATO PRIMARIO CHE ATTUA 'GESTIONE BARONALE' COPERTA CORTA DELL'ASSISTENZA USA GLI EQUIVOCI DELLA TAVOLA A CHILOMETRI ZERO RADIOFARMACI DEL FUTURO CHI COMANDA AL SAN RAFFAELE? LA RIVOLTA SAN RAFFAELE FINISCE SUL TAVOLO DEL GOVERNO INFLUENZA ADDIO "ARRIVA IL VACCINO CHE DURA UNA VITA" L'«ASTENSIONISMO»NELLE VACCINAZIONI L'INVASIONE DEGLI E-DOTTORI È PARTITO IL PROGETTO GENOMA ITALIA: RISCALDAMENTO GLOBALE, OLTRE LE TEMPESTE ARRIVANO LE MALATTIE LA TBC FA ANCORA PAURA IL COLESTEROLO ALTO PUO' ESSERE CAUSATO DALLA RESISTINA CORTE COSTITUZIONALE BOCCIA PUGLIA SU STRUTTURE SANITARIE PRIVATE DNA A CHI APPARTIENE TECNICHE RIVOLUZIONARIE CONTRO LACRIME E SUDORE DAL WEB INFORMAZIONI ERRATE SUI TUMORI ALLA PROSTATA SETTECENTO MILIONI DI ANNI FA NASCEVA LA VISTA COME DIMENTICARE ATTIVAMENTE I RICORDI CI SERVONO A IMMAGINARE IL NOSTRO DOMANI DECIDERE LIBERAMENTE CHE COSA RICORDARE E COSA DIMENTICARE QUEI BUCHI NEL PASSATO CAUSA DI DISAGIO PROFONDO ========================================================= _______________________________________________________________ Sapere 31/10/2012 DIPARTIMENTI: NEL CIRCO VIZIOSO DELLA MEDIOCRITÀ Enrico Bonatti Nei nostri atenei si è passati dalla antica dominanza di pochi "baroni" a una democrazia gestita da una pletora di "baronetti". Un sistema che premia le qualità politiche più di quelle scientifiche Enrico Bonatti Parlare di centri di eccellenza nella ricerca scientifica può suonare "snobistico" ed elitario. Resta però il fatto che in ogni disciplina, (certamente nelle Scienze della Terra con cui ho più dimestichezza) c'è consenso tra gli addetti ai lavori sul fatto che esistono in giro per il mondo posti dove ricerca e insegnamento vengono fatti ad alto livello, e dove mediamente si produce scienza di alta qualità. Per capirci, chiamo questi posti "Centri di Eccellenza"; gli altri, per esclusione, "Centri di Mediocrità" (senza offesa per nessuno: ottima ricerca può occasionalmente venir fuori anche da questi ultimi, nonostante l'ambiente non la favorisca). Quanto segue non si basa su analisi quantitative, ma su impressioni di uno che ha frequentato per oltre trent'anni istituzioni di ricerca e dipartimenti universitari sia dell'uno che dell'altro tipo. Si nota nei nostri dipartimenti o centri di ricerca non tanto che il discorso scientifico sia di livello o qualità. inferiore (spesso non lo è), quanto che il discorso scientifico è in molti casi marginale: si discute molto, ma poco di scienza. Nei centri di eccellenza il discorso scientifico tende invece ad essere al centro dell'interesse e dell'attenzione, il che rende il lavoro in questi posti intellettualmente stimolante, specie per i più giovani che stanno imparando "il mestiere". Salta anche all'occhio l'alto quoziente di litigiosità endemica, di lamentosità e di insoddisfazione che si trova in molti dipartimenti universitari e istituti di ricerca italiani. In contrasto, i centri di eccellenza, nonostante siano ambienti dove la competitività (scientifica) è alta, sono anche luoghi dove in generale c'è meno litigiosità, più cooperazione, e soprattutto dove la gente sembra essere più "contenta". Come si spiega tutto cíò? Non credo che le ragioni principali di questo contrasto siano le differenze di trattamento economico. Può invece aiutarci la distinzione tra i concetti di community e di society, così come definiti non da scienziati o sociologi, ma dal grande poeta e saggista anglo-americano Wystan Hugh Auden (1). Per community Auden intende un gruppo di persone che si associano sulla base di una passione comune. Esempio: quattro musicisti che suonano insieme in un quartetto di archi per amore della musica. Per society Auden intende, invece, un gruppo che lavora insieme per esercitare urta certa "funzione" (da cui il termine "funzionario"). Esempio, un quartetto d'archi dove però il violoncellista non ha una speciale passione per la musica, ma esercita una funzione che gli permette dì sbarcare il lunario. A me sembra che i centri di eccellenza scientifica si avvicinano al concetto di community, i centri di mediocrità a quello di society. Uno dei fattori che portano alla distinzione di cui sopra penso sia la maniera in cui vengono selezionate le nuove leve: sulla base di una valutazione seria del talento e della passione per la ricerca nei centri di eccellenza; sulla base di fattori vari, tra cui alcuni casuali, (anzianità di "precariato", provenienza locale o esterna del candidato, favoritismi e nepotismi vari, ecc., e, in casi fortunati, quasi come un "optional", anche il talento e la passione) nei centri di mediocrità. Uno dei risultati dei diversi criteri di assunzione è che nei centri di mediocrità il potenziale e la motivazione delle persone è molto variabile; ricercatori di talento e fortemente motivati convivono con ricercatori con poca attitudine e interesse per la ricerca. Questa mancanza di un plateau di interesse e cli passione comune, e quindi di regole condivise, ha varie conseguenze: (a) maggiori contrasti interni; (b) competizione interna basata non (o non solo) sulla qualità scientifica ma su altri criteri; (c) relativo isolamento dei ricercatori più bravi; (d) competizione esterna (con altri centri di mediocrità) basata anch'essa su criteri più "politici" che scientifici; (e) organizzazione gerarchica, con forte potere dei direttori o presidenti, scelti spesso per meriti politici/manageriali più che scientifici. Nei nostri dipartimenti universitari invece si è passati dalla antica dominanza di pochi "baroni" autoritari a una "superdemocrazia" gestita da una pletora di "baronetti" (dico "superdemocrazia" perché non conosco luoghi della Terra dove si voti tanto e tanto spesso come nelle nostre università), Ma la superdemocrazia non garantisce la virtuosità, e nei dipartimenti dove gli scienziati migliori sono una minoranza, la politica del dipartimento sarà dominata dalla maggioranza degli altri (2). Nonostante questa superdemocrazia, il rapporto scienziati giovani/scienziati anziani nella mia esperienza tende ad essere molto più egalitario nelle migliori istituzioni americane di quanto non sia da noi. Nei nostri dipartimenti universitari i giovani (qui definiti come non- possessori di cattedra) tendono di necessità ad essere subservienti nei confronti degli anziani (=cattedratici) per la semplice ragione che in un sistema dove il merito scientifico conta poco è importante rimanere nelle buone grazie di chi determinerà gli avanzamenti di carriera. Inoltre, se essere uno yes man è un punto di favore nell'ammissione di nuove leve, per semplice selezione naturale questi individui diverranno prevalenti nei dipartimenti. Gli altri, cioè le persone indipendenti (tra cui in generale si annoverano i migliori scienziati), costituiranno una mutazione genetica in minoranza e a rischio di estinzione. Le cause e le conseguenze di questo "culto della mediocrità" sono state discusse in molte sedi; vedi per esempio (3). Si entra così in un circolo vizioso da cui è difficile uscire senza un intervento esterno. Un centro di ricerca o dipartimento universitario dove prevale la mediocrità tenderà a perpetuare se stesso. I sacrosanti metodi democratici che regolano la Vita dei dipartimenti universitari porteranno a posizioni direttive persone elette dalla maggioranza "mediocre"; le nuove leve saranno scelte soprattutto tra yes men che non disturbino gli equilibri interni, tesi a mantenere la mediocrità; valutazioni serie delle ricerche e dei ricercatori saranno ostacolate dalla maggioranza. Ho l'esempio di un grosso dipartimento di Scienze della Terra italiano dove un tentativo di valutazione interna, preso in mano dalla maggioranza, si è gonfiato in infinite discussioni, assemblee, commissioni, rapporti e documenti, il tutto durato anni e poi finito nel nulla, come era chiaro dovesse finire nelle intenzioni della maggioranza sin dall'inizio. Quei pochi che inizialmente proponevano un sistema di valutazione chiara e semplice sul modello di quanto si fa nel resto del mondo venivano paradossalmente tacciati di essere "fuori dal mondo". È istruttivo leggere quel che scriveva Max Weber quasi un secolo fa (1917) in un saggio su La Scienza come .Professione (4), riferito in particolare alle università tedesche dell'epoca. «La democrazia sta bene, ma al suo posto. L'insegnamento scientifico, che dobbiamo esercitare nelle università tedesche in conformità alla loro tradizione, è però una faccenda di aristocrazia dello spirito... Quando dei giovani studiosi vengono a chiedere consiglio... la responsabilità che ci si assume... è quasi insopportabile... bisogna domandare loro in coscienza; "crede lei di poter tollerare di vedersi passare avanti, di anno in anno, una mediocrità dietro l'altra, senza amareggiarsi e corrompersi interiormente?" A ciò si riceve ovviamente ogni volta la medesima risposta: "naturalmente, io vivo soltanto per la mia vocazione"; però almeno io ho saputo solamente di pochissimi che abbiano sopportato questa situazione senza subire danni interiori,..». Forse e per "non subire danni interiori" che molti tra i nostri giovani migliori vanno a far ricerca all'estero, e che pochissimi giovani stranieri vengono a far ricerca in Italia. La mancanza di una passione comune e di regole condivise in molti dei nostri centri di ricerca rende difficile una loro conduzione condivisa e tranquilla, da cui l'emergenza spesso di direttori o presidenti "padri-padroni" che sappiano, anche; usando metodi autoritari., tenere insieme gli Istituti ed evitare situazioni tipo "prova d'orchestra" felliniana (10). In contrasto, nei centri di eccellenza i direttori hanno in generale una funzione di rappresentanza ed un potere relativo. Il potere sostanziale è diffuso tra gli scienziati più prestigiosi che; determinano priorità scientifiche, direzioni di sviluppo, nuove assunzioni, ecc. Mi sembra insomma che nei centri di eccellenza si tenda a favorire la prevalenza degli scienziati sui politici/burocrati; l'opposto è vero per i nostri centri di ricerca, incluso il CNR. La mancanza poi di un sistema di distribuzione dei fondi basato su una valutazione scientifica dei progetti su scala nazionale (fatta da un ente pubblico indipendente e super partes sul modello della National Science Foundation americana), e la competizione per fondi e posti per la ricerca basata su criteri prevalentemente politici, spesso al di fuori di regole di fate pay, dà ancora più potere ai direttori/presidenti "politici", i quali non hanno alcun interesse a che si crei un serio sistema nazionale di valutazione superpartes delle ricerche, che porterebbe ad una distribuzione dei fondi e dei posti basata sul merito scientifico, e quindi fuori dal loro controllo. Si instaura così il circolo vizioso entro cui ha girato, mi sembra, una buona fetta del sistema di ricerca italiano, e che ha reso difficile la creazione di centri di eccellenza nel nostro paese. In questo contesto, esprimo anta la naia ammirazione per quei ricercatori italiani (e non sono pochi) che, nonostante l'ambiente non la favorisca, riescono a "tare scienza" di alta qualità. Parlare di "centri di eccellenza", "ricerca di élite" e simili non era anni fa in Italia "politicamente corretto". Non lo era nemmeno in Germania. Ma in Germania c'è stato un forte tentativo di selezionare e incentivare i migliori dipartimenti universitari e centri di ricerca, per creare appunto centri di eccellenza (5, 6). Una prima selezione, fatta qualche anno fa da un comitato che includeva premi Nobel, ha portato alla scelta di tre università (una a Karlsruhe e due a Monaco) che hanno ricevuto di conseguenza fondi ingenti (circa 100 milioni di curo per cinque anni) per potenziare le proprie strutture e attirare i migliori ricercatori e gli studenti più promettenti. I primi risultati di questa politica si sono già visti (7). Per non parlare della Cina, dove un dibattito durato tre anni, cui hanno contribuito centinaia di scienziati (tra cui anche alcuni invitati da fuori) suddivisi in 20 aree tematiche, oltre alle più alte cariche del governo cinese (incluso il premier Wen jiabao), ha portato a un progetto di sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica cinese per i prossimi 15 anni, con l'obiettivo di portarla a livelli di assoluta preminenza (8). Il contrasto con il quadro illustrato in quegli anni per esempio da Mario Pirani (9) o da Salvatore Settis (10), del proliferare in Italia di nuove università di infimo livello con cattedre assegnate per meriti politici, non potrebbe essere più deprimente. È una prassi consolidata nei centri di eccellenza in giro per il mondo organizzare periodicamente (ogni 6-7 anni) visite di Comitati "ad hoc" di esperti e aspetti dell'attività, dalla didattica zinne ecc., e forniscano opinioni per potenziare, rami secchi da tagliare …all'esterno sono presi molto sul serio… stimolo per cambiamenti, riorganizzazioni… proposito, vorrei poter descrivere lo sdegno sul volto della quasi totalità dei maggior dipartimenti di Scienze che un un istituto del CNR, quando passa un'idea del genere. Forse però per quanto riguarda …cambiando. Non però al punto di vista … esempio in Cina. La Natural Science (NSFC), cioè l'agenzia governativa della ricerca di base cinese, è soggetta a una valutazione approfondita internazionale, esterno e indipendente …caso è difficile organizzare una National Science Foundation italiana in ragione che una National Science esiste. L'assenza finora in Italia di un'agenzia che …zioni e finanzi la ricerca è sintomatico.. in piedi l'ANVUR, un'Agenzia Università e della Ricerca, che però… piuttosto cervellotici. Come cervellotiche sono le gole imposte a chi vuol presentare .. nazionale (PRIN). Per esempio, n progetto debba esser presentato ..coalizioni di diversi gruppi di ricerca richiede uno, dieci o cento… natura della ricerca, e non può… Velo immaginate un Enrico Fermi con un progetto PRIN un finanziamento per gli esperimenti … sia costretto al telefono per aggregare delle Università di Poggibonsi e perché i burocrati del MIUR non prendono le semplici regole della National americana? La. NSF riceve a scadenze fisse semestrali proposte di ricerca nelle varie discipline; le regole per scrivere le pro- poste sono poche, semplici e chiare; ogni proposta è valutata da almeno cinque referees in- dipendenti; successivamente per ogni disciplina un panel cli una dozzina di esperti, ogni volta diversi, viene invitato ogni sei mesi per una settimana nel- la sede della NSF a Washington, per assistere la NSF nella scelta finale delle ricerche da finanziare. Nulla è perfetto, ma la lunga esperienza di uno che ha presentato alla NSF nel corso degli anni (con alterna fortuna) numerose proposte di ricerca, che ha partecipato al "referaggio" di innumerevoli pro- , poste altrui, e che ha fatto parte dei panel, mi fa dire che l'NSF fa ogni sforzo per sostenere le ricerche migliori. Del resto, è generalmente riconosciuto che la NSF ha contribuito in maniera fondamentale a mantenere il livello elevato della ricerca di base USA. Non per nulla, il modello NSF è stato adottato da molti paesi europei e asiatici per sostenere la ricerca di base. RICERCA DI BASE/RICERCA APPLIICA Comincio con un aneddoto. 17 novembre 2004: l'allora presidente del CNR Fabio Pistella invia a Venezia (sede principale dell'Istituto di Scienze Marine e dell'Istituto per la Dinamica dei Processi Ambientali) l'ingegner G.B., ex dirigente dell'ENEA, portato da Pistella a dirigere l'Ufficio Programmazione Strategica del CNR. Scopo della visita: illustrare le linee del "nuovo" CNR ai direttori ed ai comitati d'istituto dei due istituti veneziani. L'ingegnere G.B. ci dice che nel nuovo CNR la ricerca deve essere fatta non più per "acquisire conoscenze" ma per risolvere i problemi concreti del paese insieme alle imprese e alle aziende. Alla domanda se nel CNR è ancora importante pubblicare lavori scientifici, l'inviato del presidente ci risponde di no. Ci dice di prendere esempio da lui stesso, che ha avuto una brillante carriera senza aver mai pubblicato una riga. Ma, qualcuno obbietta, nel resto del mondo i risultati della ricerca scientifica si comunicano attraverso pubblicazioni; i ricercatori sono valutati principalmente sulla base delle pubblicazioni; i finanziamenti europei sono assegnati sulla base delle pubblicazioni; i premi Nobel sono scelti grazie alle pubblicazioni... non importa. Il nuovo CNR farà essenzialmente ricerca applicata e di servizio alle imprese. L'altra ricerca, quella che porta alle pubblicazioni, la lasciamo ad altri. Questo episodio, per nulla isolato, illustra quale fosse l'atmosfera nel CNR di qualche anno fa. Atmosfera che non sorprende se consideriamo il background scientifico sia dell'allora presidente del CNR (11) che del vice presidente Roberto Demattei, lo stesso che nel 2009 ha organizzato al CNR un convegno contro l'evoluzionismo degno degli ultra fondamentalisti "teocon" del Midwest americano (14, 15). Gli sforzi della dirigenza CNR di quegli anni sembra abbiano avuto un certo successo, se è vero che le pubblicazioni CNR sono diminuite negli anni 2005-2006 (16). Si dice oggi che non vi è differenza tra ricerca di base e ricerca applicata e "di servizio". Non sono di questa opinione. Pur riconoscendo tutte le interconnessioni, intrecci e zone grigie tra i due estremi, pur riconoscendo che vi sono ricerche "miste" con una componente "di base" e una applicativa, rimangono però alcune differenze fondamentali. La ricerca applicata è in generale determinata dalle esigenze del committente, sia esso un ente pubblico o un gruppo privato. Nel caso il committente sia un ente pubblico (Regione, enti locali, ecc.) il fine è in generale di utilità pubblica e i risultati sono in generale aperti e pubblicabili. Rimane però una ricerca diretta prevalentemente dall'esterno. Nel caso di un gruppo privato il fine spesso è il profitto del committente: il committente può richiedere che i risultati delle ricerche non siano pubblicati e rimangano "segreti": i risultati non possono allora essere verificati da altri ricercatori, come avviene nella ricerca libera. Si può arrivare a commistioni tra ricerca e potere economico che !possono portare perfino alla privatizzazione e brevetti di geni presenti nelle cellule di ciascuno di noi, come discusso per esempio da Jensen e Murray nella rivista Science (17), da Stix in Scientific American (18) oppure da Luzzatto (19). Vedi anche, per esempio, come le compagnie petrolifere, in particolare la Exxon-Mobil, abbiano stanziato somme enormi e assoldato schiere di "scienziati" per contrastare l'idea di un riscaldamento globale influenzato dalle attività umane (20). La ricerca libera o di base deriva invece da idee del ricercatore e ha come fine l'estendere delle nostre conoscenze della natura, senza che vi sia il fine di una applicazione immediata. I risultati sono resi pubblici (pubblicati) e soggetti alla verifica della comunità scientifica. Tutti ne possono usufruire. C'è chi sostiene che la ricerca libera è un lusso (e uno spreco) e non vede perché la società dovrebbe finanziare i liberi "giochi" di un ricercatore. Ma i "giochi" di un buon ricercatore in realtà non sono mai del tutto liberi, ma sono condizionati da diversi fattori, esempio la valutazione dei risultati da parte della comunità scientifica. Inoltre, il buon ricercatore è di solito uno abile nel problem finding più ancora che nel problem solving è cioè uno che sa identificare e affrontare i problemi importanti nella sua disciplina, trascurando quelli di secondaria importanza. E da qui che poi vengono anche molte delle applicazioni utili all'uomo, spesso non previste all'inizio del lavoro. E ovvio anche che da un certo tipo di ricerca applicata, che sarebbe più appropriato chiamare ricerca "finalizzata", (esempio, ricerca contro il cancro, oppure ricerca spaziale; oppure ricerca stai rischi naturali) si possono ottenere importanti conoscenze base". Non per nulla negli USA la ricerca applicata certo esiste ed è molto forte, ma poggia su una solida piattaforma di ricerca di base, che nessuno si sogna di intaccare, tanto che Obama si era impegnato all'atto della sua elezione a raddoppiare in pochi anni i fondi per la National Science Foundation, cioè per la ricerca di base. Nonostante fa crisi economica abbia ridimensionato per il momento questi propositi, il supporto per la NSF, oggi di circa 7 miliardi di dollari all'anno_ aumentato dal 5% nel 2013 (21). Che vi sia una differenza sostanziale tra ricerca di base e ricerca applicata non lo dico solo io: si tratta dell'opinione prevalente nel mondo della scienza da secoli. Platone nel settimo libro di Repubblica descrive uno scambio tra Socrate e Glaucone: i due si chiedono quali siano le discipline più importanti per la crescita intellettuale dei giovani, e convengono che le prime due siano la matematica e la geometria. Poi Socrate chiede: «E come terza disciplina per i nostri giovani possiamo considerare l'astronomia, non credi? "Sì" rispose Glaucone, "perché conoscere meglio stagioni, mesi, anni giova non soltanto ad agricoltori e marinai, ma anche a generali". "Sei divertente "disse Socrate", sembra che tu tema di essere accusato dai più di prescrivere (ai giovani) discipline inutili...». Due altre citazioni: Leonardo: «Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza. Quelli che s'innamoran di pratica senza scienza son come nocchier ch'entra in naviglio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada». Citazione scherzosa del grande fisico (premio Nobel) Richard Feynman (la lascio nell'originale inglese): «Science is a lot like sex.: sometime something useful comes out of it, but that is not the reason why we do it...». Se invece volete un trattamento più "serioso" di questo tema, leggete articoli di un altro premio Nobel, Robert Laughlin (22), di J..R. Brown (23), e di Carlo Alberto Recli (24). La storia della scienza, come dice Feynman, dimostra che buona parte delle applicazioni utili all'uomo sono derivate direttamente, e in maniera non prevista, dalla ricerca libera o di base. Ne segue che penalizzare la ricerca di base è per un paese un atto di masochismo, se non di idiozia, come riconosciuto in tutti i Paesi avanzati, e come ho discusso altrove (25, 26). Ma a partire dalla presidenza. Pistella, questo è quanto è avvenuto nel CNR. A leggere le dichiarazioni del ministro Profumo, le cose non sembra cambieranno granché! Riassumendo: la ricerca applicata o di servizio, se fatta bene, è importante ed utile; tuttavia in un ente che fa o dovrebbe fare ricerca scientifica come il CNR deve procedere insieme ed in parallelo con la ricerca di base: eliminare la ricerca di base sarebbe come tagliare le radici ad un albero e aspettarci che continui a produrre frutti. Ma il CNR da tempo incoraggia i ricercatori a diventare "ricercatori- imprenditori"; a lanciarsi cioè in ricerche miste con o al servizio di aziende private, spingendo iniziative dalle sigle "americaneggianti", tipo spin off - business incubators, ecc...(27) trasformando i progetti di ricerca in "commesse" che forniscano prodotti per consumo immediato, e spingendo verso la privatizzazione della ricerca. Anche nell'università c'è la tendenza a porsi al servizio del mercato (28). Vorrei chiedere al ministro, al presidente del CNR, e a chi altro ha autorità su queste cose: per favore, lasciate un po' di spazio a scienza che esplori il nostro mondo, senza l'assillo di doverne immediatamente cavare dollari o euro! _______________________________________________________________ ItaliaOggi 29/10/2012 TROPPO SPAZIO ALLE PUBBLICAZIONI Publish or perish», pubblica o muori. E stato sostanzialmente questo il motto che ha accompagnato per tanti anni la maggior parte dei ricercatori universitari. Pubblicare e ancora pubblicare senza sosta, perché solo così si poteva sperare di avere accesso ai finanziamenti, dimenticando però che una buona attività di ricerca avrebbe potuto trasformarsi in una spin-off, in un brevetto o magari in un'applicazione tecnologica. Se a questo si aggiunge la frammentazione delle risorse, tempi lunghissimi per distribuirle e poca attenzione a sostenere quella ricerca guidata dalla curiosità dei ricercatori, spesso impropriamente chiamata «ricerca di base» (dimenticando che è il primo gradino per scoperte rivoluzionarie) il risultato è devastante. E spiega anche il perché la ricerca, specie quella pubblica cresciuta nei laboratori universitari, quasi mai riesce a produrre lavoro. E a parlare sono i dati. Alcuni numeri. Nelle classifiche internazionali sul numero dei ricercatori su 1.000 occupati, l'Italia occupa la 34 esima posizione su 35 paesì con la metà dei ricercatori di paesi come la Corea, la Slovenia, l'Estonia, per non parlare di quelli del Nord Europa. Lo stesso vale per gli investimenti: secondo l'Innovation Union Competiveness Report del 2011 dell'Unione europea, l'incremento dei finanziamenti in Italia infatti è stato più che modesto passando dall'1,05% del prodotto interno lordo nel periodo 2000-2009, all'1,26% del 2010. Numeri lontani dall'incidenza sul pil che pesa per più del 2% in Francia o in Germania per esempio. E non solo, perché il numero di ricercatori è nettamente inferiore rispetto agli altri Paesi Ocse (2,8 ricercatori ogni 1.000 abitanti in Italia, contro i 5,4 dell'Unione europea allargata), così come la quantità dei brevetti: sono poco píù di 4 mila le domande di brevetti internazionali depositate nel 2010, in crescita sì dell'0,5% rispetto al 2009, ma la metà, per esempio, di paesi come la Francia. Ma c'è un dato positivo: il sistema di ricerca italiano è caratterizzato da un'alta produttività, seppur individuale: i ricercatori pubblicano, in media, più articoli dei colleghi di altri paesi. E la qualità dei loro articoli, misurata attraverso appositi indicatori, è comunque superiore alla media (anche se inferiore in generale a quella dei paesi più avanzati). Dunque si fa di necessità virtù. Tuttavia è un sistema piccolo, rispetto a quello di altri paesi europei che, a causa delle scarse risorse, è organizzato in una struttura dove pochi gruppi di assoluta eccellenza si chiudono in maniera robusta. Una struttura che non fa sistema e non crea occupazione. I fondi. Ma come viene finanziata la ricerca pubblica, la cosiddetta ricerca di base? Con i Prin, cioè i Programmi di ricerca di interesse nazionale e i Firb, il Fondo integrativo ricerca di base che rappresentano i due fondi a sostegno della ricerca di base. Con molti nodi da sciogliere. I Prin dovrebbero finanziare, su base annuale (peccato che l'ultimo bando relativo al biennio 2009/10 sia ancora da distribuire), specifici progetti di ricerca accademici, co-finanziati dalle università in una percentuale variabile. Il Firb, invece, è destinato ad attività che mirano all'ampliamento delle conoscenze scientifiche e tecniche non connesse a immediati obiettivi industriali. Ma con molti però. Intanto secondo buona parte della comunità accademica il sistema di valutazione dei progetti e di conseguenza della distribuzione dei fondi è inadeguato, così come lo è la valutazione ex- post dei progetti. La relazione scientifica conclusiva, dicono in molti, è stato spesso solo un resoconto delle attività del gruppo di ricerca: pubblicazioni dei suoi membri, partecipazione ai convegni o organizzazione dei workshop. Ma nulla del merito delle attività svolte. L'importante era che le carte fossero in regola. Nel corso degli anni sono stati così assegnati centinaia e centinaia di milioni di euro a sostegno della ricerca di base. Non tutto da buttare giacchè i Prin hanno consentito il finanziamento di assegni di ricerca a giovani meritevoli e lo svolgimento di missioni all'estero altrimenti impossibili. Tuttavia, nel complesso, l'impressione era di essere molto lontani da un'allocazione efficiente delle risorse. Ecco perché per il futuro si cambia: le risorse saranno concentrate su pochi progetti attraverso una selezione di merito e poi saranno puntualmente valutati i risultati. __________________________________________________ Corriere della Sera 3 Nov. 12 RICERCA IMPOSSIBILE SENZA VALUTAZIONE di ALBERTO MANTOVANI Caro direttore, la vita non esaminata criticamente non vale la pena di essere vissuta. Come già diceva Platone, la valutazione costituisce il sale della vita. E della ricerca scientifica in particolare. Le metodologie di valutazione sono diverse nei Paesi più avanzati. In Germania, ad esempio, i migliori atenei vengono selezionati e finanziati da valutazioni periodiche. E in Inghilterra la competizione fra le varie università per attrarre i migliori cervelli, innescata da un meccanismo periodico di valutazione, ha sortito negli ultimi 10 anni effetti estremamente positivi, come è emerso da un'analisi effettuata di recente dalla Lega europea delle università di ricerca (Leru, che raccoglie 21 tra i più prestigiosi atenei europei, fra cui per l'Italia l'Università degli Studi di Milano). Ne è un riflesso il netto miglioramento della competitività inglese nell'attrarre giovani vincitori di progetti Ideas dello European research council, che premia l'innovatività dei giovani ricercatori. Mentre non può non preoccupare il peggioramento della performance italiana sullo stesso banco di prova: il nostro Paese precipita al quarto posto, dopo essere stato primo a pari merito con la Germania. La valutazione e la logica di premialità ad essa legata sono l'unica speranza per mantenere vivo e sano il sistema universitario e di ricerca del nostro Paese. Perché le risorse, ancor di più in un momento in cui scarseggiano, devono essere date a chi fa meglio, in una logica di meritocrazia. L'agenzia Anvur — di cui l'Italia si è dotata con un percorso bipartisan — per la valutazione delle istituzioni di ricerca e delle università ha formulato alcuni criteri per il primo livello di selezione (idoneità) dei docenti universitari, secondo una logica di miglioramento continuo suggerita anche dal Comitato di esperti per le politiche di ricerca (Cepr): i nuovi docenti devono essere al di sopra della mediana (cioè oltre la metà) di quelli già presenti, così da alzarne progressivamente il livello, e i valutatori devono essere autorevoli. Come strumenti di valutazione sono stati proposti, ove applicabili, indicatori già largamente utilizzati a livello internazionale per le discipline scientifiche e per i settori delle scienze sociali: i criteri bibliometrici (impact factor e H index). La scelta di tali parametri è stata oggetto di un dibattito molto vivace negli ultimi mesi. In particolare, è stata aspramente criticata la scarsa autorevolezza delle riviste selezionate in alcuni settori al di fuori delle discipline scientifiche. Si tratta di critiche più che giustificate e condivisibili, e ci si augura che vengano introdotti rapidamente dei correttivi. Sarebbe però deleterio se queste polemiche fermassero la valutazione dei docenti universitari e degli atenei, indispensabile per attivare un sano meccanismo di premialità. La valutazione è per sua stessa natura imperfetta e perfettibile, e i criteri su cui si basa, in particolare quelli bibliometrici, non la sostituiscono ma sono strumenti di misura della qualità. In generale, sono convinto che ci si dovrebbe confrontare con le migliori esperienze internazionali, e su quanto nel nostro Paese viene già effettuato, ad esempio, da charities come Airc. Imparando da esse. Critichiamo pure, dunque, gli aspetti specifici dell'abilitazione e della valutazione dei docenti e degli atenei, ma non dimentichiamo che è meglio una valutazione imperfetta piuttosto che la sua assenza. Un sistema migliorabile di valutazione è comunque una base di partenza. Fare marcia indietro, ora, e aspettare di mettere a punto un meccanismo ideale, rischierebbe solo di affossare la meritocrazia. Direttore scientifico Istituto clinico Humanitas - Irccs _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 nov. ’12 VANNO PROTETTE LE VALUTAZIONI SUI RICERCATORI di Antonello Soro in corso un dibattito nel mondo accademico e in quello politico intorno alla possibilità di divulgare, da parte dell'Anvur (l'Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca), le valutazioni sull'attività di professori e ricercatori effettuate nell'ambito della Vqr (valutazione della qualità di ricerca). Quello del controllo diffuso sulla spesa pubblica e della trasparenza dell'azione amministrativa è un tema di grande rilevanza e interroga quanti hanno responsabilità pubbliche. Per converso nessuno, che abbia cultura dei diritti, dovrebbe sottovalutare la difficoltà del bilanciamento tra questi interessi e la tutela della riservatezza. Nell'esercizio di questo compito non si può derogare al rispetto anche formale delle leggi: la storia insegna che il ricorso a questo genere di deroghe viene di norma rivendicato dai detentori del potere per ridurre gli spazi di libertà. È con questa consapevolezza, unita alla necessità di dover pervenire a un corretto rapporto tra verifica sul funzionamento delle Pa e diritti degli interessati, che l'Autorità garante per la privacy si è sempre mossa. Nel caso specifico, l'Autorità ha espresso il suo avviso mettendo in luce alcuni aspetti fondamentali per affrontare in maniera non approssimativa la questione. Ha osservato in via preliminare che la legittimità della divulgazione in rete, da parte di un soggetto pubblico, di dati personali - quali sono appunto le valutazioni dell'attività di ricerca dei ricercatori - è subordinata dal Codice in materia di protezione dei dati personali a una previsione legislativa o regolamentare e alla funzionalità di tale forma di pubblicità rispetto alle finalità perseguite dall'amministrazione stessa (articolo 19, comma 3). Ora, in relazione alle valutazioni espresse da un soggetto pubblico (quale è appunto l'Anvur) sui prodotti della ricerca dei singoli docenti, è proprio tale previsione legislativa o regolamentare espressa a mancare. Né può estendersi analogicamente a questo caso - come ritiene ad esempio il professor Ichino - il principio dell'accessibilità totale dei dati relativi ai servizi resi dalla Pa sancito dall'articolo 4 della legge 15/2oo9, che non si applica al personale in regime di diritto pubblico, di cui fanno parte anche i professori universitari. L'estensione del principio di accessibilità totale a tale categoria violerebbe la ratio della norma. Inoltre, l'attività dell'Anvur concerne la qualità delle strutture universitarie e di ricerca destinatarie di finanziamenti pubblici, ai fini di una migliore allocazione dei finanziamenti stessi. Essendo l'attività dell'Anvur volta a valutare le strutture, non i singoli ricercatori, un'eventuale divulgazione dei dati personali di questi ultimi sarebbe evidentemente priva di quel nesso di funzionalità tra trattamento dei dati e finalità dell'ente. E probabilmente, non sarebbe neppure lo strumento più appropriato per fornire un'approfondita rappresentazione della produzione scientifica (e del merito) dei ricercatori, limitandosi a sole tre pubblicazioni. Diversa funzionalità potrebbe avere, invece, l'Anagrafe nazionale nominativa dei professori associati e dei ricercatori, di cui si attende la piena attuazione e, auspicabilmente, il completamento con ulteriori strumenti che ne sviluppino le potenzialità. Presidente dell'Autorità Garante per la protezione dei dati personali _______________________________________________________________ ItaliaOggi 31/10/2012 ATENEO CHE VAI, COSTO CHE TROVI Estremamente differenziati per fascia di reddito e ~geografica i costi di accesso all'istruzione universitaria Dopo il terremoto all'Aquila si pagano 155 euro. A Bologna 3.400 DI CHRISTIAN D'ANTONIO Solo l'Università dell'Aquila concede a tutti il diritto allo studio gratuito, applicando solo la tassa regionale e l'imposta di bollo di 155 euro. Per il resto iscriversi ai corsi di laurea in Italia può costare le cifre più diverse a seconda di dove si va a studiare. Questo è dovuto al complesso sistema di tassazione universitaria, che quest'anno registra le novità del Decreto 68 del 2012 sul Diritto allo Studio e della Spending review che ha aumentato le tasse a carico dei fuori corso. Adiconsum, l'associazione in difesa dei consumatori ha fatto un'indagine per l'anno accademico 2012-2013 sull'iscrizione alle otto università pubbliche campionate in altrettante città capoluogo di regione. La novità principale è che sulle iscrizioni grava la nuova' tassa regionale di 140 euro che gli atenei hanno potuto graduare in tre fasce di reddito (120, 140 e 160 euro). Dopo il decreto sui fuori corso alcuni atenei già prevedono aumenti, tanto che il range di costo per universitario è molto ampio: da 155 a 1.417 euro è quello che spende lo studente in condizioni di assoluta indigenza (Isee uguale a zero) a seconda che si iscriva in qualsiasi facoltà a L'Aquila (dove a seguito del sisma si è scelto che tutti paghino solo la tassa regionale e il bollo) o a una facoltà con contributo per laboratori all'Università di Firenze. Ai livelli massimi, quelli pagati dagli studenti di reddito molto elevato e nelle facoltà con contributi più onerosi, il range è ancora più elevato, e arriva ai 3.400 euro di Bologna. L'importo della tassa minima di iscrizione è calcolato in base al valore per l'anno 2011/2012, aumentato dell'1,5% in relazione al tasso di inflazione programmato. Per l'anno 2012/2013 è 192,57 turo, senza considerare il bollo di 14,62 che alcuni atenei raddoppiano. Il contributo complessivo annuo degli studenti è fissato dal singolo ateneo entro il tetto del 20% dei trasferimenti statali ottenuti per l'anno precedente. Visto che il tetto è spesso sforato, molti si rivolgono al Tar. Il cambiamento del 2012 riguarda la non estensione di questo tetto agli studenti iscritti oltre la durata normale del corso di studi. In altre parole chi non è in regola con gli esami da quest'anno pagherà in più il 25% della contribuzione prevista per gli studenti in corso se il suo indice Isee è sotto i 90 mila euro; 50% in più se l'Isee è tra 90 mila e 150 mila euro; il 100% in più se l'Isee supera 150 mila euro. Metà di questi nuovi introiti finanzierà le borse di studio, l'altra metà altri interventi di sostegno allo studio, incluse mense e alloggi. Le borse. Secondo i dati dell'Osservatorio per l'Università della Regione Piemonte, nell'anno 2010/2011 solo sei regioni italiane hanno erogato borse al 100% degli aventi diritto, mentre in alcune la domanda insoddisfatta raggiunge il 45%. Inoltre gli importi delle borse e il, valore dei servizi di vitto e/o alloggio differiscono molto. Del resto gli studenti iscritti regolari che risultano idonei a una borsa di studio, sia pure ridotta, in media sono pochi (il 15,8%). La maglia nera spetta alla Lombardia, con un modesto 8,9%, mentre il primato è del Trentino-Alto Adige (37,2%). E veniamo alla giungla delle tariffe. L'unico metodo per compararle è il riferimento Isee, che in maggioranza risulta di 10 mila o 20 mila euro. All'Università di Milano (che fissa la separazione tra prima e seconda fascia a l 1 mila euro e divide i corsi in A, B e C) il minimo che si può spendere per iscriversi, tra tasse, bollo, contributi di facoltà e spese in caso di assoluta indigenza è 691 euro nei corsi del Gruppo A, che diventano 768 per il Gruppo B e 795 per il Gruppo C. Chi dichiara un Isee sopra i 20mila euro spende in media il 30% in più. Il massimo carico di tasse, con Isee in ultima fascia e nei corsi di studio con contributo più elevato, è di 3.788 euro, ben 2,100 più di quello che spende il medesimo studente nel più caro fra i corsi di Studio all'Università Federico H di Napoli (1.658 euro). Per i meno abbienti le cose vanno meglio all'Alma Mater Studio- rum di Bologna: solo 157 euro con Isee fino a 19.152 euro (in esenzione totale, con pagamento della sola Tassa Regionale e del bollo), a prescindere dal corso di studio scelto. Moderato il pagamento anche di chi dichiara 20 mila euro (da 877 a 2.160 euro) e non c' è differenziazione per i fuori corso. A Firenze la prima fascia va da zero a 17.500 euro e per chi la dichiara l'iscrizione è di 367 euro, che possono diventare 1.417 se si sceglie un corso di studio che prevede un contributo per i laboratori, non incluso nel meccanismo di riduzione. Ma per le iscrizioni part time solo sui contributi c' è la riduzione del 25%, quindi per i redditi bassi il part-time non ha senso. A Roma ci sono 34 fasce Isee. I meno abbienti pagano intorno ai 370 euro, i più agiati sui 2.200. Molto graduale l'incremento in base al reddito: chi dichiara 10mila euro paga in media 650 euro, chi 20mila sui 750. Napoli è fra gli atenei meno cari: il massimo che si può pagare è 1.604 euro per le facoltà umanistiche e 1.658 euro per quelle scientifiche. Ma è scarsa la riduzione delle tasse per gli indigenti, che non pagano meno di 492 euro (559 per le facoltà scientifiche) Anche a Reggio Calabria abbondano le fasce (41!) e la tassa minima è 550 euro. Cagliari ha invece adottato un modello di rateizzazione con 4 scadenze e una maggiorazione graduale per i fuori corso: chi lo è da un anno paga il 5% in più, dal terzo anno in poi la penalizzazione è del 30%. _______________________________________________________________ ItaliaOggi 31/10/2012 IN RIPRESA GLI STUDI ALL'ESTERO Sorpresa, hanno ripreso quota gli studi all'estero nel quadro dei programmi Erasmus, dopo una prima contrazione negli anni successivi all'avvio della riforma, come le altre esperienze di studio all'estero. Fra i laureati pre-riforma del 2004,1'8,4% aveva studiato all'estero utilizzando Erasmus e altri programmi Ue. Nel 2011 la stessa opportunità ha riguardato il 5,3% dei laureati di primo livello: 22 neodottori su cento nel gruppo linguistico, 7,2 su cento nel gruppo politico-sociale, ma pochissimi (fra 1,2 e 1,7 per cento) fra i laureati dei gruppi chimico-farmaceutico, giuridico e medico- professioni sanitarie. Più complessivamente le esperienze di studio all'estero (comprendendovi oltre a Erasmus altri programmi riconosciuti dal corso di studi e le attività condotte su iniziativa personale) coinvolgono oggi il 10,2% dei laureati di primo livello. Nel frattempo, aumentano gli studenti universitari provenienti da percorsi tecnico-professionali: Fra i laureati, infatti, resta bassa la quota di quanti hanno almeno un genitore laureato (24%) e parallelamente cresce l'incidenza dei giovani di estrazione operaia (26To). Complessivamente i lavoratori-studenti sono 1'8,4% fra i laureati triennali; la loro presenza riguarda una quota rilevante dei neodottori dei gruppi giuridico e insegnamento (24 e 20%, rispettivamente). Si conferma assidua la frequenza alle lezioni, soprattutto nelle discipline tecnico-scientifiche: tra 1'83 e il 94% dei laureati del gruppo chimico- farmaceutico, dei neoingegneri, dei neoarchitetti e di quelli nelle professioni sanitarie. Piero Piecioli __________________________________________________ L’Unione Sarda 3 nov. 12 DA SUD A NORD EMIGRA PER STUDIARE 1 GIOVANE SU 5 Ogni anno il Sud Italia perde i suoi giovani migliori che scappano verso il Centro-nord. A certificarlo è un lavoro dell'Ufficio studi dell'Istituto per ricerche e attività educative (I.p.e.) sui flussi migratori degli studenti universitari in Italia basata su dati del ministero dell'Istruzione.Il dato più rilevante dello studio «Migrazioni intellettuali e Mezzogiorno d'Italia» di Serena Affuso e Gaetano Vecchione, è che uno studente su cinque scappa dal Mezzogiorno, in media 24.000 giovani che ogni anno, dopo il diploma, decidono di iscriversi in un ateneo del Centro-Nord. E non solo. Sempre dalla ricerca emerge che i migliori laureati, circa 18 mila all'anno secondo i dati Svimez, trovano lavoro e si trasferiscono al Centro-nord.Si salvi chi può quindi da un Mezzogiorno avaro di opportunità e, a questo punto, anche povero di prospettive.Più in generale, è scarsa la capacità degli atenei meridionali di attrarre studenti da fuori regione: Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna, nell'anno accademico 2010-2011, hanno attirato meno del 10% di immatricolati. __________________________________________________ Corriere della Sera 29 Ott. 12 UN GIOVANE SU TRE VUOLE LASCIARE L'ITALIA Giovannini (Istat): 4 milioni desiderano lavorare all'estero. Già 2 milioni lo hanno fatto DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA — «Un giovane su tre vorrebbe emigrare». La frase pronunciata ieri dal presidente dell'Istat Enrico Giovannini è forse la conclusione più logica, prima ancora che la più amara, della due giorni di «Seminars» organizzati nell'isola di San Clemente a Venezia da Aspen Italia. Giovannini riferisce i risultati del gruppo di discussione su «mobilità, occupabilità, reticolarità». E quella frazione, un terzo, rappresenta la sintesi di una serie di studi condotti negli ultimi anni dai diversi istituti di ricerca (Eurispes tra gli altri), partendo proprio dai dati Istat. I giovani dai 18 ai 35 anni sono 12 milioni e 800 mila: stiamo dunque parlando di oltre 4 milioni di italiani che stanno pensando seriamente di lasciare il Paese. Per altro, secondo le ultime cifre disponibili, due milioni lo hanno già fatto nel 2010. Una fuga di massa trasversale, un'idea che comincia a maturare fin dai primi anni dell'università. Il vicepresidente della Confindustria, Ivanhoe Lo Bello, si è presentato al seminario Aspen con una cartellina piena di numeri. Ha cominciato citando un'indagine di Demopolis (commissionata dall'Istituto addestramento lavoratori della Cisl). Bene: il 61% del campione intervistato (3.500 giovani tra i 18 e i 34 anni) ritiene che, terminati gli studi, occuperà una posizione inferiore a quella dei genitori e il 78% è convinto che per trovare un buon lavoro servano le conoscenze giuste. Evidentemente è in questo retroterra pervaso da scoraggiato pessimismo che nascono i progetti dei neoemigranti. Lo Bello richiama il confronto sui ricercatori. Secondo l'Istat in Italia lavorano circa 106 mila «addetti alla ricerca» nel settore privato, cui vanno aggiunti 74 mila nel pubblico, di cui 20 mila universitari. «Ma 20 mila ricercatori si sono perfezionati all'estero e lì sono rimasti. Un insieme enorme di persone che contribuisce alla prosperità degli altri Paesi, in particolare degli Stati Uniti. Risorse umane che non torneranno indietro». In compenso l'Italia non attira talenti stranieri. Nelle nostre università solo il 2% di iscritti viene d'oltreconfine «e quasi nessuno di loro dai grandi Paesi», nota ancora Lo Bello. Alla fine della catena c'è, come sempre, il Sud, perché alla corsa verso l'estero si associa la ripresa della classica ondata verso il Centro-Nord. Solo due esempi: il 70% degli studenti universitari della Luiss a Roma è meridionale come pure il 30% del Campus economico di Trento. Giuseppe Sarcina «QUI SI VINCE PER IL MERITO DA NOI NO» Simona Brambati, milanese di 35 anni, studi all'ateneo San Raffaele Vita e Salute, ieri si stava godendo con la sua famiglia una giornata «tiepida» e luminosa a Montréal dove vive, insegna presso l'università cittadina e dove è anche ricercatrice presso il Centre de recherche Iugm finanziato dal Fonds de Recherche du Québec-Santé. E in Italia? «Se ho una certezza è che tornando in Italia dovrei cambiare lavoro e non riuscirei più a fare ricerca». Pessimismo esagerato? «Un po' questa mia convinzione — analizza Simona — dipende da ciò che ho vissuto personalmente prima di andarmene dall'Italia dove anche i miei professori mi dicevano di andarmene. Un po' è ciò che mi continuano a confermare quei pochi amici, perché sono ormai pochi, che sono rimasti: difficile che le porte ti vengano aperte se non hai un supporto che ti sceglie per "enne" criteri non sempre chiarissimi». Simona, in pochissime parole, è uno di quei cervelli in fuga di cui tanto si dibatte. E, forse, a sentire la sua storia, dovremmo chiamarli «cervelli cacciati via» più che in fuga. Un fenomeno che a questo punto, secondo l'allarme lanciato ieri dall'Istat, potrebbe venire amplificato dalla crisi. Simona, mentre macinava risultati scientifici tra gli Stati Uniti e il Canada, in realtà ha ricevuto un'offerta per tornare. «Mi avevano prospettato un assegno di ricerca. In Italia ti offrono sempre delle cose a cortissimo termine dicendoti che è un modo per "rientrare nel giro". Ma proprio questo è sintomatico: devi rientrare per farti conoscere come se il curriculum e i risultati ottenuti non servissero». È la malattia del «capitalismo di relazione» in salsa italiana, declinato in diverse forme e a diversi livelli. «Quello che ho vissuto negli Usa e in Canada è che io "signor nessuno" inviavo il mio "cv" e se c'erano possibilità partecipavo e se ero abbastanza brava superavo i concorsi». Per inciso il curriculum di Simona fa spavento: dopo la laurea in Psicologia, c'è il dottorato sempre al San Raffaele. L'ultimo anno lo completa a San Francisco, all'University of California. Poi c'è un altro anno e mezzo di post dottorato sempre nella stessa università. E altri 3 anni di post dottorato a Montréal. Oggi studia i problemi di linguaggio legati alle varie forme di demenza senile analizzando, con la risonanza magnetica, i danni anatomici legati ai diversi casi. Ovvio, riconosce Simona da brava psicologa, che tutti vorrebbero lavorare con persone che conoscono. Umano. Ma dai noi questo aspetto è estremizzato fino a far contare solo la conoscenza. «Spesso negli Usa il capo dipartimento sceglie senza nemmeno fare un concorso. Ma se mette un cretino in una posizione ci perde la faccia (concetto da noi non ancora elaborato collettivamente, ndr). In Italia c'è il concorso ma spesso è finto e hanno già scelto». Come professoressa Simona prende 77 mila dollari canadesi l'anno. «Non ha molto senso convertirli. Qui con questa cifra si vive bene. Peraltro anche da studentessa del post dottorato in Canada avevo ottime condizioni per il congedo di maternità: 6 mesi al 100%». Un altro allarme da aggiungere a quello di Giovannini: chi parte, o è cacciato, è difficile che torni. Facciamo due conti. M. Sid. _______________________________________________________________ ItaliaOggi 31/10/2012 ORA CI SI LAUREA PIÙ PRESTO Si abbassa l'età alla laurea, storico punto dolente dell'università italiana, nonostante l'aumento di quanti lavorano stabilmente durante gli studi: considerando solo chi si iscrive nell'età canonica, r età media passa dai 27 anni dei laureati 2004 ai 25 dì quelli del 2011: 24 anni, per i laureati di primo livello; 25 per gli specialistici; 26 per gli specialistici a ciclo unico. Fra gli oltre 121 mila laureati triennali del 2011 l'età di laurea è poco meno di 26 anni per contrarsi a .24 al netto dell'immatricolazione ritardata. Sotto questo profilo è determinante il ruolo dell'attività lavorativa (a tempo pieno), svolta mentre si studia. Non a caso i più giovani a concludere gli studi risultano i laureati dei percorsi in cui l'esperienza lavorativa è meno presente, come la geo-biologia e le scienze linguistiche (entrambi a 24,6 anni), o economico-statistico e ingegneristico (entrambi a 24,7 anni), mentre l'età più elevata si riscontra fra i laureati delle discipline didattiche (28 anni) e giuridiche (30). Consistente anche la presenza di laureati entrati all'università più tardi del solito. In 6 casi su 100 il ritardo di immatricolazione risulta superiore a 10 anni. I laureati specialistici biennali si laureano mediamente a 28 anni. Anche nel caso di questi ultimi l'età di fine studi risulta fortemente condizionata dalla presenza rilevante di laureati che hanno fatto il proprio ingresso all'università in età superiore a quella tradizionale. (riproduzione riservata) Piero Piccioli _______________________________________________________________ ItaliaOggi 31/10/2012 QUESTA RIFORMA STA DANDO BUONI FRUTTI La maggior parte di chi conclude il ciclo triennale prosegue gli studi; spesso con esperienze all'estero Aumentano i giovani che concludono gli studi nei tempi previsti PIERO PICCIOLI Più che i laureati, in Italia negli I ultimi anni sono aumentati i titoli di studio: da 172 mila nel 2001 alle 289 mila nel 2010: un aumento del 68%, in larga parte dovuto alla duplicazione dei titoli di studio, cioè alla laurea di primo segue quella specialistica. Diverso — come precisa AlmaLaurea a nel suo XIV Profilo dei laureati in Italia — è il livello di universitarizzazione, ovvero i cicli di studio conclusi, è aumentato solo del 19%. Il numero di laureati, cioè, non è aumentato in modo tale da colmare il gap che ci divide dal resto d'Europa: oggi circa il 20% della popolazione italiana fra 30 e 34 anni possiede una laurea contro un obiettivo europeo del 40% per il 2020, traguardo evidentemente non raggiungibile. Anche nella classe di età 25-34 anni l'Italia è al 20% di laureati contro la media Ocse del 37%. Ma malgrado la situazione di svantaggio, in Italia «si registra una battuta d'arresto rispetto al processo di universitarizzazione», fa notare il rapporto, e «si riscontra una minore attrazione dei giovani verso lo studio universitario». I diciannovenni che si iscrivono all'università sono solo il 29% dei coetanei, confermando il ridotto interesse per gli studi universitari di questa fascia di popolazione. Negli ultimi otto anni le immatricolazioni si sono ridotte del 15% per effetto combinato del calo demografico (dal 1984 al 2009 la popolazione diciannovenne si è contratta di quasi 370 mila unità), della riduzione degli immatricolati in età più adulta e del deterioramento della condizione lavorativa dei laureati. A questi fattori va aggiunta la crescente difficoltà di tante famiglie a sostenere i costi dell'istruzione universitaria. In ogni caso, il quadro che emerge è abbastanza confortante. Rispetto all'università pre-riforma è aumentata la quota di giovani che terminano gli studi nei tempi previsti, durante i quali si sono avvalsi di stage e tirocini, così come di opportunità di studio all'estero. La riforma, dunque, non è stata un fallimento. Anzi, su diversi fronti ha consentito di migliorare sensibilmente la performance del sistema. Chi arriva alla laurea di primo livello viene da classi sociali meno favorite, tende a studiare sotto casa, forse anche per effetto della moltiplicazione dei corsi universitari, e raggiunge il traguardo a 24 anni Aumenta il numero di chi lavora durante gli studi. Poche le esperienze all'estero, ma si moltiplicano per tre gli stage. E dopo la laurea? La maggior parte dei laureati del triennio intende proseguire la formazione, e chi vuole farlo con la laurea specialistica è il 61%. Tra questi ultimi si riscontra una maggiore selezione sociale: sono giovani avvantaggiati socialmente, più disponibili alla mobilità, e vantano più esperienze all'estero nel curriculum. Ma non tutte le lauree sono uguali; alcune hanno una marcia in più. E le laureate ottengono risultati migliori rispetto ai colleghi uomini e sono anche più numerose (nel 2011, la percentuale di laureate tra i 30 e 34 anni è superiore a quella della popolazione maschile di quasi il 9%: il 24,2 contro il 15,5%). Anche in quelle facoltà fino a poco tempo fa considerate tipicamente maschili, le donne rappresentano il 64% dei laureati specialistici a ciclo unico (Medicina e chirurgia, Odontoiatria, Medicina veterinaria, Farmacia, Architettura e Giurisprudenza). Brillanti le loro performance: arrivano alla laurea più giovani (meno di 27 anni rispetto ai 27,2 degli uomini tra tutti i laureati 2011; 26 anni nelle lauree di primo livello contro i 26 anni dei colleghi maschi). E sono più regolari negli studi. Si laurea in corso il 40,6% delle laureate 2011 contro il 36,4% degli uomini; differenze che si riscontrato in tutti i tipi di laurea a vantaggio delle donne (in particolare, in corso è il 48,2% delle laureate nei percorsi specialistici contro il 45,7% dei laureati). Eppure in Italia la presenza femminile stenta ancora a essere riconosciuta sul mercato del lavoro, ove le disparità di genere sono ancora elevate. (riproduzione riservata) _______________________________________________________________ Italia Oggi 3/11/2012 LE UNIVERSITÀ TORNANO AD ASSUMERE Il Miur ha firmato l'apposito dm. L'ateneo di Bologna è quello che avrà i margini più ampi Dal ministero arrivano i nuovi criteri dopo la Spending review Pagina a cura DI BENEDETTA PACELLI ..... Eco L'università di Bologna che potrà fare il pieno di assunzioni per fanno in rso. A stabilirlo è l'atteso decreto ministeriale (n.297/12), firmato dal ministro dell'istruzione lo scorso 22 ottobre ,che stabilisce i «Criteri e contingente assunzionale delle università statali per l'anno 2012», emanato in applicazione della Legge di riforma universitaria (1. 240/2010) e delle diverse norme che si sono succedute nell'ultimo anno in materia di assunzioni di personale universitario. Il decreto, infatti, definisce ateneo per ateneo, sulla base disposizioni legislative fissate dal dlgs 29 marzo 2012, n. 49 e della cosiddetta spending review, i punti organico (cioè l'equivalente del costo medio annuale di un professore ordinario) che possono essere utilizzati per Fanno corrente. Un punto organico corrisponde a 120.151 euro ed è il costo medio nazionale di un professore di prima fascia. Dunque secondo i calcoli e i rapporti tra le spese complessive di personale a carico di ateneo e le entrate generali (Fondo del finanziamento ordinario e tasse studentesche) è l'Alma Mater di Bologna ad avere, per l'anno, in corso la maggior disponibilità di assunzioni, anche perché è tra i pochi atenei statali ad avere una percentuale relativa all'indebitamento (affitti passivi, mutui) pari allo 0,00%. Ogni ateneo statale, infatti, secondo quanto stabilisce il decreto è autorizzato ad utilizzare i punti organico nella misura in cui si determini una differenza positiva tra la rispettiva attribuzione effettuata dal decreto e la somma dei punti organico eventualmente già utilizzati nell'anno in corso nel rispetto dei diversi regimi assunzionali vigenti. Segue l'università patavina e la Sapienza di Roma cui il Miur riconosce rispettivamente il 35,56 e il 30,38 punti organico .Ad avere le mani pressoché legate, invece, sono l'università stranieri di Siena, e Sannio di Benevento ma anche l'università di Foggia che nel rapporto tra entrate e spese per il personale, pari a 89,16%, rappresenta uno dei rapporti peggiori registrati dalle università italiane, soprattutto rispetto al limite massimo dell'80% fissato dal dlgs 49/2012. È lo stesso provvedimento ad aver stabilito che per il triennio 2012-2014 gli atenei statali possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato e di ricercatori a tempo determinato nel limite di un contingente corrispondente a una spesa pari al 20% di quella relativa al corrispondente personale complessivamente cessato dal servizio nell'anno precedente. Nel 2015 tale limite è fissato al 50% mentre dal 2016 le assunzioni potranno coprire il 100% della spesa del personale cessato. In aggiunta a questa disponibilità poi a ogni ateneo è consentito di procedere con l'assunzione di personale a tempo indeterminato e di ricercatori a tempo determinato, utilizzando le disponibilità relative alle Programmazioni degli anni 2010 e 2011 coerentemente con i limiti assunzionali delle corrispondenti programmazioni. _______________________________________________________________ Il Giornale 2/11/2012 PISA: IL RETTORE TAGLIA LE SPESE MA SI RADDOPPIA LO STIPENDIO Gli studenti: vergogna. Ma lui si difende: ho più lavoro di prima Pisa C'è aria di crisi, tempi duri un po' ovunque e in tutti i settori, così, la parola d'ordine è tagliare. Anche l'università di Pisa è costretta a tirare la cinghia. La nuova organizzazione dell'ateneo toscano, nel clima della spending review, ha consentito un risparmio de120 per cento delle spese. Sarà forse anche per questo motivo che il consiglio d'amministrazione ha deciso di raddoppiare le indennità di carica di rettore, prorettore e dei capi delle unità dipartimentali. Secondo quanto hanno denunciato sindacati e associazioni studentesche, invece che i 50mila euro lordi annui percepiti fino ad oggi, il magnifico rettore pisano Massimo Maria Augello riceverà tra i 90 e i 95mila euro (da sommare naturalmente allo stipendio da docente ordinario).I1prorettore passa da 20 a38mila euro (circa), i dirigenti delle unità dipartimentali da cinquemila a 9.500 euro. Il gettone di presenza al cda passa da 200 a 500 euro. La delibera è passata nonostante il voto contrario dell'organizzazione studentesca Sinistra Per e le critiche dei sindacati. «L'aumento che per noi è motivo di forte criticità in particolare per le cariche monocratiche - afferma Sinistra Per -. Comprendiamo l'aumento di impegno e della responsabilità individuale, ma continuiamo a ritenere inopportuno, in un momento di crisi e di tagli all'Università e a tutte le amministrazioni pubbliche, aumentare le singole retribuzioni, soprattutto se pensiamo che i principali beneficiari saranno docenti ordinari che percepiscono già, in moltissimi casi, oltre 100 mila euro all'anno». E naturalmente scoppia la polemica. «È uno schiaffo a chi in questi mesi è costretto a tirare la cinghia e ha difficoltà a mandare i propri figli all'università», ha detto Virgilio Falco, portavoce nazionale di Studi Centro, l'organizzazione studentesca dell'Udc. Attraverso l'ufficio stampa, l'università pisana fa sapere che l'aumento delle indennità è il frutto di una manovra più complessa. L'ateneo è stato riorganizzato secondo la riforma Gelmini. Le 11 facoltà e i 48 dipartimenti sono scomparsi, lasciando il posto a 20 unità dipartimentali. Un'operazione che ha consentito di risparmiare fino al 20% del bilancio. «Di contro - spiega l'ufficio stampa - il carico di lavoro direttore, prorettore e direttori è aumentato». _______________________________________________________________ Il Giornale 3/11/2012 QUELLA PARENTOPOLI DEI BARONI BOLOGNESI «Sin dal 1992 le carriere universitarie del dipartimento di Sociologia alla facoltà di Scienze politiche dell'Università di Bologna apparivano viziate da favoritismi e rapporti di parentela». Sono le prime righe di un esposto, firmato da due ex ricercatori dell'Università di Bologna e rilanciato dal Pdl, che hanno appena fatto aprire alla procura di Bologna una rumorosa inchiesta. L'ipotesi di reato è abuso d'ufficio contro ignoti in un dipartimento dove lavorerebbero «tre coniugi e tre figli di docenti», si legge nella denuncia condivisa dal deputato pidiellino Fabio Garagnani, che sulla questione ha interpellato i ministri Francesco Profumo e Filippo Patroni Griffi. Giovanni Pieretti, direttore del dipartimento di Sociologia, ribatte che «non abbiamo nulla da nascondere» e aspetta che i pm «verifichino le accuse». LDon _______________________________________________________________ Repubblica 1/11/2012 COME COINVOLGERE I NOSTRI STUDENTI A proposito dell'articolo di Lodoli su "La line dell'umanesimo" Addio cultura umanista" è il titolo di un bell'articolo sulla scuola che Marco Lodoli ha pubblicato ieri su queste pagine. Basti un passaggio: «Professori di lettere, storia, filosofia, arte finiscono a parlare nel vuoto, come radioline lasciate accese in un angolo». Lodoli afferma che, per la stragrande maggioranza dei ragazzi, il patrimonio culturale del nostro paese non significa più niente. Saltati i ponti, le rive si allontanano sempre di più. Verissimo, ma la mia esperienza con studenti universitari del primo anno di lettere e lingue, in un ateneo della provincia laziale, risulta differente. Ammetto che l'età non è la stessa, e che già la loro scelta indica un interesse per il mondo umanistico. L'incontro con le matricole, però, ricorda molto quello con gli iscritti agli istituti tecnici o ai licei. Fino a vent'anni fa, ad esempio, per spiegare il racconto dello scrittore francese Maupassant Palla di sego (1880), citavo il film di John Ford Ombre rosse (1939). Oggi nessuno conosce più quel western. Ho provato a chiarire la tragedia della Shoah, col film di Tarantino Inglourious Basterds (2009). Ma in classe nessuno lo aveva mai sentito nominare, così come nessuno aveva udito la parola "paltò" (cioè paletot), che avevo pronunciato per spiegare un particolare fonetico. Insomma, è innegabile che, nella nostra epoca, docenti e discenti appartengano a linguaggi e culture quasi estranei fra loro. A sancire tale terribile divario, ricordo il giorno in cui, menzionando Pasteur, allusi alla cicatrice causatami dal vaccino. In un silenzio sbigottito, scoprii di essere l'unico, fra cinquanta persone, a portare quel marchio. Non lo sapevo, ma da tempo il farmaco viene assunto per bocca... Altro che tatuaggi, piercing e branding: la mia diversità generazionale appariva medicalmente iscritta sul mio corpo, "à la Foucault", sotto forma di stigma. Eppure non sono del tutto d'accordo con Lodoli. A mio parere, infatti, tra professori e allievi esistono ancora dei punti di contatto. Ma per trovarne ho abbandonato i riferimenti al cinema, preferendo i giornali e la tv. Studiando il teatro francese del Seicento, ad esempio, ho menzionato i libertini amici di Molière, quei precursori dell'Illuminismo che vennero perseguitati dalla Chiesa e dai Protestanti in quanto epicurei, materialistici, atei. Ebbene, per esaminare l'intolleranza, i roghi, le torture, Vanini e Gassendi, su su fino a Voltaire e Diderot, ho voluto parlare di Rushdie — autore, va da sé, ignorato dai presenti. Raccontando della fatwa, ho notato la somiglianza fra la teocrazia sciita degli ayatollah iraniani e quella cattolica dei papi romani, ricordando che la Santa Sede, lungi dal rinunciare al suo bimillenario potere temporale, vi fu costretto a cannonate, dai nostri bersaglieri, a Porta Pia (peraltro, nella Città del Vaticano, la pena di morte, praticata fino al 1870, fu abolita nel 2001). Ciò per dire che il libero pensiero non è una concessione generosamente elargitaci, bensì una conquista ottenuta col sangue dei martiri laici, martiri che nell'Islam furono sconfitti malgrado lo straordinario impulso profuso sin dal X secolo. Certo, non ho risparmiato tinte forti, con le proteste dell'ambasciatore francese per la puzza di carne bruciata che, da Campo de' Fiori, impestava Palazzo Farnese. Almeno, però, la mia lezione potrà impedire che si verifichi dì nuovo la scenetta riportatami da un amico. Passando sotto il monumento di Giordano Bruno, lo sciagurato ha sentito uno studente che, al cellulare, pregava la sua ragazza di raggiungerlo, «qui in mezzo, sotto la statua della Madonna». __________________________________________________ Corriere della Sera 3 Nov. 12 LE TASSE DI GOOGLE«SPARITE» FRA IRLANDA, OLANDA E BERMUDA Gli editori (e i governi) scalpitano contro Google. Soprattutto in Francia, in Germania e in Italia, dove la questione di far pagare al motore di ricerca il «prelievo» delle notizie che poi pubblica sui suoi siti si sta facendo strada. Nel frattempo il gruppo di Mountain View tratta fiscalmente i suoi profitti con abilità: su 12,5 miliardi di euro di ricavi imputati alla sua sede in Irlanda solo una ventina di milioni vanno in tasse. La ricostruzione è dell'Irish Times, che ha mostrato come Google abbia concesso in licenza il suo software a una controllata locale, Google Ireland Holdings, che ha la sua base fiscale a Bermuda. A sua volta la filiale di Dublino ha concesso la licenza sulla medesima tecnologia a una società olandese che l'avrebbe poi a sua volta rigirata a Google Ireland Ltd, dove finiscono tutti i profitti generati dal gruppo fuori dagli Stati Uniti. Ma questi soldi tornano sotto forma di royalties alla controllata olandese che li trasferisce — di nuovo tramite Google Ireland Holdings — nelle Bermuda dove non sono previste tasse sulle aziende. E, secondo la legislazione irlandese, sui profitti trasferiti a un altro paese Ue non si pagano tasse. Alla fine di questo giro su entrate stimate in 12,5 miliardi, Google avrebbe denunciato utili pre- tasse per 24 milioni. __________________________________________________ Corriere della Sera 3 Nov. 12 IL DOLORE DEI NUMERI PRIMI L'idea di affrontare un compito matematico attiva nel cervello le aree della sofferenza Affrontare un compito di matematica? Un vero dolore. La prova del lancinante disagio è uscita dalle indagini compiute con la risonanza magnetica da Sian Beilock all'Università di Chicago. Sian è una psicologa molto nota, specialista nei problemi causati tanto nei ragazzi quanto negli adulti dall'apprendimento della scienza dei numeri, oltre che autrice di libri best-seller sull'argomento. Nel settembre scorso con il suo gruppo di ricercatori aveva certificato come nei giovanissimi l'ansia generata da un compito di matematica impedisse anche ai più dotati di raggiungere buoni voti. Ma ora, approfondendo e cercando di capire se la stessa ansia nascondesse altri guai, ha constatato che le cose sembrano andare ancor peggio e lo racconta sul giornale scientifico interattivo PlosOne mostrando le immagini di un cervello con le due aree accesse del dolore. «Dover affrontare un esercizio in classe, magari anche prima del previsto, provoca come reazione l'attivazione delle zone collegate al dolore fisico», spiega precisando che tutti i volontari sottoposti al test non erano persone per natura ansiose, ma lo diventavano soltanto nella circostanza. «Per fortuna — aggiunge Ian Lyon, un collaboratore di Sian — la negativa conseguenza tende ad attenuarsi e a scomparire durante l'esecuzione del lavoro, suggerendo che più grave ancora è il pensiero di dover affrontare i numeri». Insomma cifre, operazioni e problemi in alcuni sembrano far paura indipendentemente dal loro contenuto, come se il cervello vedesse il tutto come un mondo alieno, estraneo. Per fortuna non è sempre così. Pitagora diceva addirittura che «tutte le cose sono numeri». Il test di Sian proponeva semplicissime equazioni. Ad esempio: (12 x 4)- 19 = 29, e anche parole con sillabe in disordine da ricomporre secondo un preciso significato. Ma quando gli occhi avevano davanti i numeri la risposta del cervello sembrava inequivocabile e uno specifico punto interno degli emisferi cerebrali poco sopra l'orecchio (noto come «insula posteriore») lanciava il suo segnale di dolore. Anzi in certi casi ciò accadeva prima ancora di dover affrontare la prova, solo al pensiero che fosse imminente. Sian Beilock conduce i suoi studi da anni con il supporto della National Science Foundation e del Dipartimento dell'Educazione scandagliando i comportamenti ansiosi di soggetti nelle varie età. Due elementi sono emersi netti dal suo lavoro. Il primo è che l'«ansia da matematica»può iniziare sin dai primi anni della scuola e per questo è opportuno rilevarla in fretta «per evitare — dice la scienziata — che abbia ripercussioni nell'intera vita». Il secondo elemento capace di complicare la situazione è che l'ansietà nei piccoli viene spesso trasmessa dagli stessi insegnanti. «Non credo che si possa generalizzare — commenta Alberto Oliverio, neuropsicologo dell'Università La Sapienza di Roma — perché a coloro che invece la matematica piace il compito diventa una sfida positiva da affrontare. Talvolta, credo che l'effetto generato dai problemi nasconda un'ansia che magari ha altre e diverse radici». «Più importante — aggiunge Oliverio — è il riferimento agli insegnanti. Se questa scienza, apparentemente complicata perché si tratta di un linguaggio da acquisire, viene trasmessa bene, non solo diventa più facile ma anche motivo di soddisfazione per la conquista raggiunta. Se, al contrario, il docente è in difficoltà inevitabilmente genera distacco, ansietà e tutto diventa difficile». In conclusione, la ricerca americana ritiene opportuno trattare questa reazione negativa del cervello davanti ai numeri come una qualsiasi fobia. E piuttosto che dare montagne di compiti a casa per imparare a superare le difficoltà, si suggerisce che gli studenti ricevano un aiuto più attivo e diretto da parte della scuola, mirato a rendere l'argomento meno ostico. La stessa psicologa Sian Beilock suggerisce ai ragazzi un semplice esercizio per abbattere le paure: «Scrivete della vostra ansietà — dice — prima di affrontare un compito, vi aiuterà a liberarvi e ad eliminare quelle preoccupazioni che impediscono di ottenere un risultato soddisfacente». Giovanni Caprara @giovannicaprara _______________________________________________________________ La Stampa 29/10/2012 CNR, REALIZZATA UNA MAGLIETTA CHE STUDIA IL SUDORE Potrebbe ad esempio monitorare la disidratazione negli atleti Nasce dallo studio di un gruppo di ricercatori dell'Istituto dei materiali per l'elettronica e il magnetismo del Consiglio nazionale delle ricerche (Imem-Cnr) di Parma, un applicativo in grado di monitorare la concentrazione salina nel sudore umano: una fibra che, inserita nel tessuto di una maglietta, potrebbe per esempio essere utilizzata per monitorare la disidratazione degli atleti. La ricerca è stata pubblicata su Journal of Material Chemistry e Chemistry World Magazine. Il dispositivo lavora come un transistor, il cui voltaggio viene regolato dalle specie ioniche (sali e altre sostanze) nel liquido, facendo variare la corrente nella fibra conduttiva, spiega Nicola Coppedè dell'Imem-Cnr. Gli aspetti particolarmente interessanti sono due: «Dal punto di vista della sua alta sensibilità, il sensore è in grado di rilevare il contenuto di sale in acqua anche alle concentrazioni riscontrabili nel sudore umano (30-80 Millimolare). Inoltre il dispositivo elettrochimico, basato su una fibra di cotone conduttiva, mantiene le medesime caratteristiche funzionali, di flessibilità e resistenza anche se integrato in altri tipi di tessuto». Due caratteristiche che possono trovare interessanti applicazioni in ambito sportivo e medicale. «Ce ne sono almeno altre due: il basso costo del dispositivo e la sua capacità, a differenza di altri sensori elettrochimici, di compiere rilevazioni direttamente in ambienti liquidi come il sudore, senza far uso di gel ionici - precisa il ricercatore - Ne abbiamo già testato l'efficacia confrontando le rilevazioni nel sudore degli atleti dopo 10' e dopo 40' di corsa. Considerando che la capacità di monitorare la concentrazione salina nel sudore umano è cruciale per determinare le condizioni atletiche e di salute in gara, poiché la disidratazione è strettamente legata alla qualità delle prestazioni sportive, l'utilità del sensore è intuitiva», spiega il ricercatore. Ma la medicina dello sport non è il solo ambito d'applicazione per l'invenzione dell'Imem-Cnr. «Valutare la disidratazione attraverso un dispositivo integrato su tessuto indossabile può risultare importante nella sicurezza sul lavoro, in particolare per quanto riguarda i lavori usuranti che richiedono un monitoraggio a lungo termine - conclude Coppedè - Inoltre, si prevede che possa essere impiegato con successo nel monitoraggio dei pazienti non coscienti: i nostri studi, non a caso, sono ora orientati a comparare in tempo reale i dati rilevati dal dispositivo nel sudore con parametri fisiologici quali il battito cardiaco e la respirazione». __________________________________________________ Corriere della Sera 3 Nov. 12 È NORMALE AMARE UN GATTO COME FOSSE UN ESSERE UMANO ? di PAOLA D'AMICO Allo scettico William Jordan, biologo ed entomologo californiano, ci sono voluti dieci anni e un libro (Un gatto di nome Darwin, ed. Orme) per rispondere a questo quesito. Il ricercatore, che ben può rappresentare l'universo degli scettici, di coloro che cioè osservano con sufficienza e distacco gli animali, s'imbatte per caso in un grosso, vecchio e malato gatto rosso che abilmente s'insinua nella sua vita di single e gli fa perdere la testa. Inutile ogni tentativo di razionalizzare emozioni e sentimenti provati per quel micio. Jordan studia se stesso e il felino con l'occhio acuto e un po' cinico dello scienziato. Arriva a sostenere che la «comunione con un gatto ha bisogno di tempo per maturare ma è irreversibile». E che «chi la raggiunge ne è cambiato per sempre, non può ritornare sui suoi passi, perché la mente, l'anima e persino il terzo occhio sono prodotti della sostanza materiale del cervello e quella sostanza è stata modificata». Coloro che abbiamo amato continuano a vivere nelle molecole della nostra memoria, finché noi esistiamo vivono anch'essi in quanto parte del nostro cervello. Ai neuroni, insomma, non importa se hai amato un uomo o un gatto. Il meccanismo, conclude lo scienziato, è lo stesso. «L'amore per le altre creature potrebbe teoricamente rivoluzionare la natura della civiltà». Emanuela Prato Previde, psicobiologa dell'Università Statale di Milano, aggiunge che «il meccanismo con cui noi formiamo i legami d'amore, l'empatia, funziona secondo delle regole che possono trascendere la specie. Si pensi all'oca di Conrad Lorenz. Il legarsi è scritto non solo nei nostri neuroni ma anche in quelli delle altre specie. È un meccanismo, come quello del prendersi cura, che va al di là della nostra cultura e della visione del mondo». __________________________________________________ Le Scienze 30 Ott.12 UNA CARTA ELETTRONICA EVOLUTA PER I DISPLAY DI DOMANI I display a LCD sono brillanti, ma consumano molto e si vedono male sotto il sole. Gli eBook si leggono anche in spiaggia, ma riflettono solo il 20 per cento della radiazione e sono troppo lenti per visualizzare video. Un nuovo approccio promette di superare questi inconvenienti e di coniugare il meglio delle due tecnologie in una carta elettronica con inchiostro a colori Se siete entusiasti della qualità del display del vostro tablet o contentissimi di poter leggere il vostro eBook anche sulla spiaggia in pieno sole aspettate di vedere che cosa riserva il prossimo futuro. Una nuova tecnologia ideata da Hagedon e colleghi della School of Electronic and Computer Systems dell’Università di Cincinnati promette infatti di coniugare il meglio delle due tecnologie di visualizzazione, rendendo gli inconvenienti solo un lontano ricordo. In tutti i prodotti di elettronica di consumo i display sono un elemento fondamentale, poiché sono l'interfaccia con la vista dell’utente. In questo campo, negli ultimi anni sono stati compiuti importanti progressi, ma se si guarda tuttavia all’evoluzione complessiva dei dispositivi elettronici, ci si accorge che proprio i display elettronici rappresentano un limite fondamentale. Immagini dal futuro: presto la carta elettronica potrebbe diventare del tutto simile nell'aspetto alla stampa tradizionale (Foto Noel Gauthier). Per esempio, i display LCD a trasmissione e gli OLED a emissione sono sottili ma per funzionare richiedono una notevole quantità di energia, il che rende spesso le batterie l'unica componente pesante di un dispositivo mobile. Inolltre, è facile constatare che gli stessi display che presentano colori brillanti quando si è al chiuso, tendono a essere inutilizzabili in piena luce, a meno di non aumentare al massimo la luminosità, ponendo però un problema di autonomia. Inoltre, LCD e OLED devono raggiungere inevitabilmente un compromesso tra portabilità e dimensioni dello schermo. Tutti questi inconvenienti non si presentano con la "carta elettronica" o con l'"inchiostro elettronico" (e-Paper o e-Ink), espressamente progettati per imitare l’aspetto dell’inchiostro su un foglio di giornale o sulla pagina di un libro. In questo caso, si usa la luce solare riflessa sullo schermo, invece di una retroilluminazione dei pixel, come nel caso degli LCD e degli OLED. Visualizzare un video su un foglio di carta elettronica flessibile potrebbe presto diventare una realtà (Foto Noel Gauthier)La carta elettronica tuttavia ha due inconvenienti fondamentali che le impediscono di diventare una tecnologia di utilizzo universale. Il primo è che nel caso dei display a colori non è possibile superare un’efficienza del 20 per cento nella radiazione riflessa (e neppure nel caso del bianco e nero si riesce a raggiungere la qualità di una pagina stampata). Inoltre, l’aggiornamento dell'immagine non è abbastanza veloce per la visualizzazione di video. Per superare queste difficoltà, occorrerebbe un approccio completamente nuovo al problema, ed è proprio in questa direzione che va la proposta di Hagedon e colleghi, che riferiscono su "Nature Communications" di aver applicato un innovativo approccio che ridisegna completamente l'e-paper, denominato "film a immagine elettrofluidica". Si tratta in sostanza di una pellicola porosa attraverso la quale è possibile trasportare con campi elettrici un inchiostro o un fluido oleoso colorato. Dai prototipi realizzati in laboratorio è risultato che i pixel hanno un’area riflettente maggiore del 90 per cento, oltre a un tempo di switching di soli 15 millisecondi per una risoluzione di 150 pixel per pollice. Proprio questi due dati paiono estremamente incoraggianti rispetto alla possibilità di superare i limiti delle attuali tecnologie della carta elettronica. __________________________________________________ Corriere della Sera 4 Nov. 12 I CERVELLI FUGGONO IN SVIZZERA Le nuove rotte dei ricercatori: Russia, Corea del Sud e Brasiledi ADRIANA BAZZI L'Italia non è un Paese di cervelli in fuga. Se si considerano numeri e percentuali, gli italiani che emigrano nei laboratori di ricerca scientifica, sparsi per il mondo, non si comportano diversamente dai colleghi europei. Tutto fisiologico. Ancor più degli italiani cercano opportunità all'estero i tedeschi e i belgi, un po' meno gli svedesi e i francesi, anche se a casa loro le risorse non mancano. L'Italia, però, soffre di un grave problema che la rende anomala rispetto ad altre nazioni europee: non è sexy per gli stranieri. Non richiama, cioè, cervelli dall'estero ed è penultima nella classifica dell'attrazione: dietro di lei c'è solo l'India. Non si parla di «brain drain», esodo di cervelli, ma nemmeno di un «brain gain», attrazione di cervelli, che compensi le perdite e il saldo diventa negativo. Così la situazione italiana risulta estremamente critica in un sistema di ricerca mondiale che si sta sviluppando nel nome dell'interscambio e della globalizzazione. Se fino a qualche anno fa le superpotenze scientifiche si chiamavano Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania e Francia, adesso al tavolo della scienza siedono anche Cina, Corea del Sud, Brasile, India e Singapore. Persino realtà minori, che stanno nascendo un po' dappertutto (anche in Africa dove, per esempio, ha preso il via un progetto di mappatura del Dna delle popolazioni autoctone), si fanno strada grazie a network di collaborazioni: è la «brain circulation», la circolazione dei cervelli. Due studi hanno fotografato la nuova mappa della ricerca mondiale e alcuni dati sono appena stati pubblicati da «Nature». Uno è stato condotto proprio dalla rivista scientifica che ha coinvolto i suoi lettori, l'altra fa parte del progetto GlobSci, partito due anni fa e coordinato da tre ricercatori, Chiara Franzoni del Politecnico di Milano, Giuseppe Scellato del Politecnico di Torino e Paula Stephan della Georgia State University ad Atlanta. I risultati definitivi saranno pubblicati sulla rivista «Nature Biotechnology» nel dicembre prossimo. L'Italia, dunque, si trova a metà nella classifica dei Paesi esportatori di scienza, classifica che vede al primo posto l'India e agli ultimi due Stati Uniti e Giappone (nel progetto GlobSci sono stati presi in considerazione quattro campi di ricerca: biologia, chimica, scienze ambientali e della Terra e scienza dei materiali). «I ricercatori emigrano — commenta Chiara Franzoni — dove vedono migliori prospettive di carriera, ambienti di ricerca più stimolanti e possibilità di accedere a finanziamenti. Non a caso i Paesi con la più grande diaspora di scienziati, come l'India, sono quelli con le infrastrutture peggiori. Ma c'è una nuova tendenza da segnalare: se in passato i Paesi che attiravano di più erano soprattutto quelli extraeuropei, negli ultimi anni si sta registrando una maggiore mobilità all'interno dell'Europa». Pochi, però, scelgono l'Italia come meta di ricerca: preferiscono la Svizzera — il Paese che ha in proporzione il maggior numero di ricercatori stranieri, il 57 per cento —, il Canada, gli Stati Uniti e persino la Spagna e il Brasile. «La spiegazione? — continua Franzoni — Salari bassi, un mercato del lavoro che non segue le regole europee, scarsa attenzione al merito, problemi di lingua». E troppa burocrazia, aggiungono gli interpellati da «Nature». Una situazione che penalizza anche gli italiani, quando rientrano, dopo un periodo trascorso all'estero. Di solito, infatti, gli emigranti di ritorno (sono i due terzi del totale) raggiungono maggiori performance, intese come qualità delle pubblicazioni scientifiche, quando si confrontano con i nativi che non si sono mai mossi: i nostri ricercatori, invece, fanno un passo indietro e non riescono a sfruttare al meglio le esperienze maturate. Il fenomeno del rientro degli scienziati nella nazione di origine è, comunque, in crescita e le rotte più battute sono quelle verso i «Bric» (Brasile, Russia, ma soprattutto India e Cina). In passato, per esempio, almeno sette cinesi su dieci, emigrati negli Stati Uniti, tendevano a rimanere lì, mentre negli ultimi anni il numero si sta riducendo, nonostante il principale contingente di ricercatori stranieri, nei laboratori americani, sia di origine cinese. La Cina, nonostante sia ritenuta una potenza emergente nel campo delle biologia e della fisica, grazie ai massicci investimenti voluti dal governo negli ultimi anni, non riesce ancora ad attrarre stranieri. Entro il 2020 potrebbe essere il Paese con il più grande impatto sulla ricerca mondiale, ma pochi (solo l'8 per cento dei 2.300 ricercatori intervistati da «Nature») sono disposti a trasferirsi, soprattutto per ragioni politiche (ritengono il regime troppo autoritario) e culturali. Qualcuno, come Louise Ackers dell'Università di Liverpool, pensa d'altra parte che l'idea dell'emigrazione permanente sia ormai obsoleta e ipotizza, per il futuro, una figura di ricercatore «di passaggio». Secondo la studiosa, un laureato, specializzando o già specializzato, potrebbe trascorrere brevi periodi all'estero, giusto il tempo per stabilire reti di collaborazione e poi tornarsene a casa: oggi Internet permette di vivere in un Paese, ma di lavorare in due o tre. Non tutti sono d'accordo, ma un dato è certo: oggi la ricerca si fa in gruppo e nel 2011 almeno quarantaquattro lavori, pubblicati su riviste di fisica, erano firmati da più di tremila autori. abazzi@corriere.it __________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Nov. 12 LE PAROLE PREVISTE DALLA CRUSCA Fin dalla sua nascita, il celebre dizionario non era prescrittivo, ma aveva sulla lingua vedute più ampie di quanto si pensi Carlo Ossola Il Vocabolario per antonomasia ha 400 anni. Ma non li dimostra. Venne in uggia ai romantici e il Foscolo lanciò i suoi strali «a' reverendi grammatici e ai cruscanti accaniti»; ma non lo meritavano gli accademici i quali, anzi, nell'avviso «A' lettori», osservavano: «Non è stata nostra intenzione di fare scelta di vocaboli disperse, ma di raccorre e dichiarare universalmente, le voci e maniere di questa lingua: però non abbiamo sfuggito di metterci le parole o modi bassi e plebei, giudicandogli noi necessari alla perfezione di essa, per comodità di chiunque volesse usargli nelle scritture, che gli comportano. Di queste tali maniere abbiam proccurato d'elegger quelle di miglior lega, proprie e significanti, e per distinguerle, abbiamo detto molte volte, voce bassa, modo basso, ec. Come nella voce accoccare e nella voce putta». Insomma «quell'atto che fa la bertuccia», essendo universale, merita di essere attestato. È un principio di metodo che giova, ancor oggi, sottolineare: i nostri vocabolari divengono sempre più descrittivi, permeabili, ricettacoli dell'effimero, corrono dietro al neologismo anziché all'universale: il vocabolario si vuol caudatario del nuovo, anziché gubernator di tutto ciò che può esser condiviso per divenire «lingua comune», cioè «bene comune», «patrimonio» di una nazione. Alla voce «Nuovo» gli Accademici annotavano con garbata sapienza un bell'esempio del Boccaccio: «Calandrino cominciò a guardar la Niccolosa, e a fare i più nuovi atti del mondo» (Decameron, IX, 5). Ben sappiamo come finirono «cotali ciance» e non sarà un caso che la maggioranza delle attestazioni che il Vocabolario della Crusca fornisce per "nuovo" vengano appunto dai detti e gesta di Calandrino. E sarebbe ottima lezione, per converso, osservare quanto gli Accademici dicono di universale, e soprattutto di «Università»: «Il comune, tutto 'l popolo d'una città». Quanto strada s'è smarrita! E quanto, anche, si sono ristretti gli usi, nel loro più urgente impendere; si prenda soltanto «Evacuare», che oggi non è troppo polisemico; e neppure per i nostri Accademici, che tuttavia ad altra mira tendevan lo sguardo: «Evacuare. Votare, cavare, far vacuo. Moralia San Gregorio: Le profezie saranno evacuate, e le lingue cesseranno, e la scienza fia distrutta cioè scancellate per adempimento». Mirabile chiosa! Il cimento insomma era sempre per «tendere il senso» all'orizzonte più ampio del "predicabile", anche nella filologia. Gli Accademici avevano procurato nel 1595 un'edizione accurata, collazionata su un notevole nucleo di codici, della Divina Commedia; Domenico De Martino ne fornisce ora una presentazione intelligente e ricca di futuro (preziosissime le chiose a margine degli Accademici stessi). L'edizione è un teste esemplare per misurare il mutarsi della «visione concettuale» dalle categorie medievali a quelle moderne: basti un solo esempio, nel canto XXX del Paradiso: l'edizione propone, al verso 27: «la mente mia da sé medesma scema» (ed è correttissimo nella teoria d'amore medievale: il «rimembrar del dolce riso» aliena la mens da se medesima, ed è atto tutto mentale); mentre l'uomo del Rinascimento, ormai ragionando dentro la «nascita del soggetto» (sono i tempi di Montaigne), corregge: «la mente mia da me medesmo scema», che è incongruo rispetto alla filosofia d'amore, ma aderente al tempo del lettore; e tale il verso è rimasto sino ad oggi, all'edizione Petrocchi. Ma il fascino del Vocabolario è anche nella sua tradizione, negli esiti di chi provò a sanarne le lacune, ad aggiornarne le definizioni. Su tutti va citato il Manzoni, il quale si cimentò in un Saggio di un vocabolario italiano secondo l'uso di Firenze, preparato insieme a Gino Capponi e databile al 1856. Il Saggio si arrestò dopo 98 lemmi ad «Abbenché»; e nella sobrietà delle definizioni, appena un poco il Manzoni fa indugio su una voce, su una scena su cui si erano chiusi I Promessi Sposi, ai quali quell'«Abballottare» sarebbe stato, per i «bambocci» di Agnese, gesto compiuto ma parola troppo espressivamente affettuosa: «Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a cui dare dei baci chiamandolo "cattivaccio"» (Fermo e Lucia, IV, IX); «Ne vennero poi col tempo non so quant'altri, dell'uno e del l'altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l'uno dopo l'altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de' bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo» (I Promessi Sposi, capitolo XXXVIII). Così appunto tornerà a mente il romanzo, e tanti gesti mancati, quando il Manzoni avrà a definire: «Abballottare. Maneggiare un po' alla strapazzata, volgere in qua e in là. Si abballottano i bambini quando si palleggiano amorosamente, ruzzando con essi». Fu un leggero trasalimento della memoria, nell'anno in cui moriva a Siena di tisi la figlia Matilde, insalutata. © RIPRODUZIONE RISERVATA Archivia __________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Nov. 12 LA CATTURA INTELLIGENTE DEL VENTO A cento chilometri dalla costa inglese, dall'isola di Dogger Bank parte la rivoluzione dell'eolico offshore. Che alimenterà il mercato europeo Per una capacità complessiva di 9 gigawatt in corsa i big: Vestas, Siemens e Alstom di Elena Comelli Per ora è una vasta distesa di acqua grigio-blu a cento chilometri dalla costa inglese, poco salata e molto pescosa, nota per essere stata l'epicentro, nel 1931, del più grave terremoto che abbia mai colpito il Regno Unito. Fino all'ultima glaciazione del Pleistocene, il Dogger Bank era un'isola grande quasi come la Sardegna e c'è chi la identifica con il regno della mitica Atlantide. Se fosse vero, però, i suoi abitanti non sarebbero estinti, perché l'isola non è sprofondata di molto: a seconda delle zone, qui l'acqua è alta 10-15, massimo 30 metri. Perfetta per un campo eolico offshore. Questo è il futuro del Dogger Bank: una distesa di mega-turbine da 6 o 7 megawatt, alte più o meno 180 metri, con un'apertura alare di 150. Il mare di pale sarà il più grande del mondo e alla fine avrà una capacità complessiva di 9 gigawatt, come dire tutta la potenza eolica installata in Italia e ancora un bel po' di più. La gara d'appalto è stata vinta da un consorzio guidato dalla tedesca Rwe e i lavori cominceranno l'anno prossimo, ma le turbine non sono ancora state ordinate. Tutti i grandi dell'eolico si stanno preparando alla corsa: Siemens, la grande vincitrice delle ultime gare offshore, ha appena avviato a Østerild, in Danimarca, i test per la sua turbina da 6 megawatt e sempre qui dovrebbero partire fra qualche mese i test per il nuovo "bestione" di Vestas, che avrà una potenza di 8 megawatt, mentre Alstom ha già iniziato qualche mese fa sulla costa atlantica i test per la sua nuova nata Haliade, a oggi la più grande del mondo. Questi prototipi rappresentano il futuro dell'eolico, a giudicare dalla rapidità con cui cresce l'offshore, ultimo arrivato sul mercato del vento e già in corsa per raggiungere la competitività con i combustibili fossili, a colpi di economie di scala. Dogger Bank è solo un pezzo della grande rivoluzione eolica offshore, che cambierà radicalmente il panorama della generazione e della trasmissione elettrica nell'Europa di domani, con tutte le ricadute tecnologiche ed economiche del caso. Un mercato che nel 2009 aveva poco più di 2 gigawatt installati, oggi ne ha 5 e prevede di arrivare a 40 gigawatt nel 2020 e 150 nel 2030. Qual è il segreto? L'innovazione incrementale e il ritmo serrato del progresso. «La dimensione sempre più ampia delle turbine e l'intelligenza crescente dei sistemi di telegestione stanno comprimendo rapidamente i costi di produzione dell'eolico offshore, che può approfittare di venti più forti e più costanti rispetto all'eolico onshore», spiega Morten Albaek, vice presidente di Vestas, leader mondiale dell'eolico con 46mila turbine installate in 69 Paesi. È proprio questo il senso di una mega-turbina da 8 megawatt: considerando più o meno pari i costi d'installazione e di allacciamento, una macchina più grande produce più energia dalla stessa quantità di vento. Le pale della V164, lunghe 80 metri, sono in via di realizzazione nello stabilimento Vestas sull'Isola di Wight nel corso di questo trimestre, mentre il generatore sarà pronto per i test a inizio 2013. Nel centro di collaudo centrale di Vestas a Aarhus, il più grande del mondo, è stata costruita un'ala apposta per testare la macchina, sottoponendola a dure prove in modo da essere sicuri della sua resa in mezzo al mare. Da qui, nell'avvenieristico centro diagnostico, i tecnici di Vestas seguono tutte le turbine installate in giro per il mondo: grazie ai milioni di dati raccolti in 35 anni d'impegno al servizio del vento e a una modellistica specifica, basta un lieve riscaldamento dell'olio lubrificante negli ingranaggi di una turbina per far accendere una lucina rossa e far scattare un intervento anche a migliaia di chilometri di distanza. «Pochi giorni fa abbiamo scoperto un'anomalia in una turbina in mezzo al canale della Manica, che alla lunga avrebbe causato un guasto grave», spiega Matthew Whitby, portavoce di Vestas. «Ma per prevenirlo è bastato sostituire un bullone e così abbiamo evitato il fermo turbina», precisa. In questo modo si riduce al minimo la perdita di ore di vento e si comprimono sempre di più i costi di produzione, aumentando il rendimento complessivo degli impianti eolici. Restano i consueti problemi di tutte le fonti rinnovabili: l'intermittenza, la difficoltà di immagazzinare l'energia prodotta, la distanza dai centri di consumo, che comporta lunghe e costose linee di trasmissione. Continua a pag.44Ma con le economie di scala e le turbine intelligenti diventa sempre più attraente il vantaggio offerto da una fonte gratuita e pulita come il vento. Non a caso, per Bloomberg New Energy Finance l'eolico onshore ha già raggiunto la piena competitività con i combustibili fossili nelle posizioni più favorevoli, in particolare in Italia, Portogallo, Regno Unito, Canada, Brasile e Argentina. Per l'eolico offshore, che comporta costi d'installazione e di allacciamento più alti, ci vorrà ancora un po' di tempo. Stefan Linder, analista di Bloomberg, prevede la parità al 2016. Nel quartier generale di Vestas, proteso verso il mare nel Nord della Danimarca, gli occhi brillano quando si parla di Dogger Bank: è là che questi pionieri del vento vedono il futuro. Dei mega-progetti eolici nel Mare del Nord, quelli inglesi sono i più ambiziosi. Londra ha pianificato e sta mettendo all'asta nove zone dove realizzare 32 gigawatt di potenza eolica offshore. I primi fuochi della rivoluzione già si vedono: London Array, alla foce del Tamigi, a oggi il più grande campo eolico offshore del mondo, ha immesso in rete il primo kilowattora lunedì scorso: le 175 turbine Siemens da 3,6 megawatt produrranno una quantità di energia sufficiente a soddisfare il fabbisogno di mezzo milione di famiglie. Un bel salto rispetto agli albori dell'eolico, quando Vestas lavorava in segreto alle sue prime turbine, negli anni 70, per timore di coprirsi di ridicolo con una tecnologia inefficiente. Karl Erik Joergensen, il fabbro danese che ha dato un impulso fondamentale allo sviluppo delle moderne turbine, realizzando con l'aiuto di Vestas il primo prototipo del rotore a tre pale non crederebbe ai suoi occhi. Henrik Stiesdal, il ragazzo che allora lo aiutava, oggi è il Chief Technology Officer di Siemens Wind Power. E con le sue turbine è diventato una delle forze propulsive nella rivoluzione offshore del Mare del Nord. Elena Comelli elenacomelli.nova100.ilsole24ore.com © RIPRODUZIONE RISERVATA Archivia __________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Nov. 12 IL DISACCORDO CHE ACCRESCE LA CONOSCENZA information overload Nel suo ultimo libro, Weinberger spiega com'è cambiato il sapere. Consapevole che la persona più intelligente che c'è in una stanza è la stanza stessa di Luca De Biase I media e le conoscenze formano un intreccio nel quale ci si perde o ci si trova. La struttura mutante dei primi influenza le seconde. E viceversa. Si può soffocare per mancanza di accesso all'informazione come per eccesso di dati. Mail, social network, web, giornali, televisione, radio, cartelloni stradali, telefonate, sms, assediano di messaggi le vite quotidiane degli occidentali e inducono a lamentare l'information overload, il sovraccarico informativo, motivo di disattenzione o addirittura ignoranza. Ma d'altra parte i critici più socialmente avvertiti non cessano di combattere le varie forme contemporanee di esclusione, dal digital divide all'analfabetismo funzionale. «La conoscenza non è più quella di una volta» sorride David Weinberger, filosofo della rete, nel suo ultimo libro, "La stanza intelligente. La conoscenza come proprietà della rete", appena tradotto da Codice Edizioni. In che cosa è cambiata la conoscenza? «Era un insieme di contenuti; ora è la stessa rete». Weinberger risponde gentile alle domande via mail, mentre il suo viaggio di ritorno a Boston dall'Italia, dove era stato per il Festival della Scienza di Genova, è dirottato a Londra per l'uragano Sandy. «La conoscenza era un insieme di "affermazioni" che ritenevamo vere, scegliendole tra tutte le affermazioni in competizione. Era un sistema che funzionava in modo da rispondere alle domande. Era immensamente efficiente. Queste proprietà della conoscenza erano anche le proprietà del mezzo che consentiva l'accesso: carta, libri, biblioteche. I vecchi media limitavano la dimensione della conoscenza. Il che era ragionevole perché fin dall'origine il nostro scopo era comprendere un vastissimo universo con i nostri piccolissimi cervelli». E la stessa gerarchia del sapere, dai dati alle informazioni, dalle interpretazioni alla saggezza, era un percorso nel quale agivano in parallelo le autorità garanti della correttezza delle conoscenze e i mezzi di registrazione e comunicazione. «Ma oggi il nuovo medium della conoscenza è internet. E la conoscenza sta assorbendo le proprietà della rete. Ora la conoscenza può crescere senza limiti di dimensioni – perché non dobbiamo fare posto a una nuova informazione togliendone una precedente, come avveniva sugli scaffali delle biblioteche – e tutte le conoscenze possono essere linkate tra loro. Il che significa che non solo si pubblica ogni dato e qualunque idea, ma ciascun elemento è collegato a molti altri, in reti di discussioni e commenti. Sicché la conoscenza non è più un percorso lineare di domande e risposte, ma diventa una complessa galassia di link che inducono nella tentazione di cliccare in ogni direzione per non fermarsi mai». Esempi? «Quando è nato, il knowledge management era un sistema per filtrare e comunicare le informazioni aziendali di maggior valore ed eliminare il rumore. Il successo del web ha trasformato il knowledge managment in un sistema di servizi che connettono le persone in reti nelle quali le discussioni sono vivaci e le conoscenze acquisite sono messe costantemente in discussione». Ma che cosa succede alle autorità che un tempo incarnavano la conoscenza o almeno la distinzione tra la conoscenza attendibile e il resto? «Il ruolo degli esperti sta cambiando a sua volta. Un tempo ci si rivolgeva alle autorità accreditate per ottenere risposte. Ora si va sul web per trovare esperti più o meno accreditati che sono impegnati in accese discussioni tra loro. Nella migliore delle ipotesi queste discussioni producono diversi punti di vista che si illuminano a vicenda e che allargano la qualità delle risposte. Nella peggiore delle ipotesi quelle discussioni diventano battaglie selvagge tra opinioni incompatibili. O peggio ancora si trasformano in cori di voci perfettamente omogenee nei quali tutti sono d'accordo». Cioè? «Sarebbe bello un mondo in cui tutti sono in armonia. Ma si scopre che il disaccordo accresce la conoscenza». Bene. Ma come funziona la generazione della conoscenza nelle organizzazioni non gerarchiche ma basate sulla struttura della rete? «L'esempio è Wikipedia. Oppure il sistema operativo Linux. Le organizzazioni basate sulla rete hanno dimostrato di poter arrivare a risultati che le strutture gerarchiche non potevano realizzare». Ma che cosa vuol dire che la stanza è intelligente? «Gli esperti sono persone di grande valore. Ma gli individui possono avere solo conoscenze limitate. Per consentire alla conoscenza di crescere abbiamo bisogno di esperti che conversano attraverso una delle molteplici forme di interazione che il web rende possibili. Una rete di conoscenze genera una conoscenza più grande della conoscenza di ciascuna persona connessa. La persona più intelligente che c'è in una stanza è la stanza stessa». Ma se la rete consente la pubblicazione di qualunque cosa, se i filtri vengono applicati dopo la pubblicazione – e non più prima – qual è la strategia emergente per scegliere la conoscenza di qualità? «Abbiamo bisogno dei filtri tradizionali applicati da curatori professionali. E abbiamo bisogno anche di filtri che usano algoritmi e reti sociali per trovare quello che giudicheremo utile e interessante. Abbiamo bisogno di nuove università che funzionino non solo in base alla presenza fisica in un campus ma anche attraverso la rete. Abbiamo bisogno di generare conoscenza con nuove istituzioni inclusive e non più soltanto esclusive». chi è Tecnologo, speaker e commentatore, David Weinberger è forse meglio conosciuto come co-autore del Cluetrain Manifesto (inizialmente un sito web, e solo dopo un libro, descritto come "un manuale per l'internet marketing"). Il lavoro intellettuale di Weinberger è focalizzato su come internet sta cambiando le relazioni umane, la comunicazione e la società. online Weinberger presenta il suo ultimo libro, "Too big to know", appena tradotto in italiano. __________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Nov. 12 IL PESO DELLA FISICA NELL'ECONOMIA REALE L'analisi mette in evidenza che il settore è più importante di quello delle costruzioni. E in Italia? Leopoldo Benacchio Contribuisce all'economia del suo Paese con 90 miliardi di euro, ben 270 considerando l'indotto, impiega più di un milione di persone direttamente con un valore aggiunto di quasi il doppio per ogni unità di personale al lavoro, se però contiamo anche qui l'indotto il numero sale a 3,9 milioni. Infine è più importante del settore costruzioni e questo da solo già direbbe tutto. È il peso e il valore prodotto dalla Fisica nel Regno Unito, dati sinceramente sorprendenti e di grande interesse, ricavati con metodologia irreprensibile e ben descritta da un'autorevole "agenzia di valutazione": la Deloitte, il più grande consulente manageriale indipendente al mondo. Committente è l'Iop, Istitute of Physics del Regno Unito, che raggruppa tutti i ricercatori di quella disciplina, che già tre millenni fa Aristotele considerava la più importante fra le scienze. Iop, facendosi mettere sotto esame, ha compiuto un passo certamente coraggioso, anche un po' rischioso ma molto intelligente in questo momento di tagli notevolissimi e soprattutto ha evitato il pericolo mortale dell'autoreferenzialità. Tutti siamo onesti quando ci giudichiamo bravi ma meglio farcelo dire da altri e meglio ancora se questi altri sono analisti di mestiere, a ognuno il suo. Il rapporto consegnato da Deloitte, "L'importanza della Fisica per l'economia del Regno Unito", recentemente reso pubblico, permette oggi ai fisici di Oltre Manica di far capire quanto valgono e al tempo stesso anche di avere il peso che meritano nelle future scelte governative, che si temono piuttosto drastiche. Analizzati tutti i settori dell'economia UK in cui «la Fisica, in termini di tecnologia o expertise, è una presenza critica per l'esistenza di quel settore», quindi dalla scienza di base all'utilizzo di tecnologie basate su questa. I campi sono i più disparati e vanno dall'estrazione del petrolio e gas alla manifattura di motocicli e auto, punto dolente in UK, alle tecnologie di telecomunicazioni, campo invece in netta ascesa. Il modello matematico statistico utilizzato comprende gli acquisti B2B, il monte salari e previdenza, e il consumo di beni e servizi. E l'Italia come se la passa? Decisamente positivo sull'iniziativa Fabrizio Ferroni, presidente dell'Infn il maggior ente di ricerca di questo campo. «La realtà italiana è diversa da quella inglese, siamo distribuiti su più enti di ricerca e università. Certamente un'indagine simile nel nostro Paese richiederebbe la collaborazione di molti soggetti come Ministeri, Confindustria e Istat» ci dice, e fa capire che il momento è giunto anche da noi e Infn si sta impegnando per ottenere un'analisi simile. La nostra Fisica ha dato al Paese più di quello che ha ricevuto, ad esempio nel caso della costruzione di Lhc a Ginevra dove le nostre ottime industrie manifatturiere hanno avuto commesse per il doppio di quanto l'Italia ha versato all'organismo europeo del settore, il Cern, ma un'analisi seria e indipendente anche per l'Italia potrebbe portare dati certi e anche qualche sorpresa. Finanziare la ricerca è fondamentale oggi, lo dicono tutti, ma gli inglesi ora sanno quanto e come. Il perché, a questo punto, viene da solo. __________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Nov. 12 LA PASSWORD NON BASTA PIÙ, ARRIVA IL TOKEN Per proteggere i dati personali si fanno strada i servizi a doppia autenticazione: viene richiesto un codice che arriva all'utente sul cellulare Alessandro Longo Il regno della password è in crisi. Così da più parti arrivano soluzioni alternative, più sicure. Ai tempi del cloud computing, le password sembrano infatti insufficienti a proteggere il tesoro dei nostri dati personali, affidati a fornitori di servizi su internet. È emblematica la storia sfortunata del giornalista americano esperto di tecnologia Matt Honan. Un hacker, raccogliendo informazioni pubbliche presenti online su Honan, è arrivato a conoscere la password dell'account Apple Id, facendo finta di averla dimenticata, e così ha potuto cancellare a distanza tutti i dati iPhone di Honan. Non contento, è poi entrato nella sua casella Gmail. Se il problema delle password non sarà risolto, casi come quello di Honan saranno sempre più frequenti nei prossimi mesi, considerata la diffusione dei servizi cloud. «Il futuro della sicurezza è trovare modi efficaci per liberarci delle password», riassume, a Nòva24, Stefano Zanero, ricercatore esperto del tema al Politecnico di Milano. «A oggi ci sono tre fattori per l'autenticazione, cioè per dimostrare a un servizio che l'account a cui vogliamo accedere appartiene a noi –. Sono i segreti, gli oggetti o i dati biometrici», continua Zanero. I segreti sono le password, appunto, e le combinazioni di domande-risposte. Gli oggetti sono i token, per esempio quegli apparecchi e-banking genera pin, associati al nostro conto corrente. I dati biometrici più usati sono ora le impronte digitali e l'iride; ma perlopiù sono utilizzati per accedere a un computer, non a un servizio online. «È improbabile un futuro in cui la biometria serva per autenticarsi su internet: per la difficoltà di registrarsi, il costo degli apparati, la loro incompatibilità e scarsa mobilità. Visto che le password stanno mostrando quanto sono vulnerabili, non ci restano che i token», aggiunge. Il token che abbiamo tutti è il cellulare. Stanno facendo strada quindi i servizi a "doppia autenticazione". Richiedono di inserire non solo la password ma anche un codice che arriva via sms – al numero indicato durante la registrazione - ogni volta che l'utente accede con un nuovo dispositivo. Bisogna quindi avere in mano il cellulare con quel numero per poter leggere il codice. Questo sistema è ora adottato da Google, Paypal e Yahoo! (tra gli altri), ma è facoltativo (gli utenti devono attivarlo, come alternativa alla semplice password). È destinato però a diffondersi: Microsoft ha comprato a ottobre Phonefactor, azienda specializzata in sistemi a doppia autenticazione, e afferma che li integrerà nelle proprie tecnologie. Ci sono anche servizi indipendenti che cercano di diffondere questi sistemi. Account Chooser (della OpenID Foundation) consente di accedere a servizi di terze parti tramite un unico account (di Google, per esempio) su cui abbiamo attivato la doppia autenticazione. OneID si offre invece come strumento per legare specifici servizi a specifici terminali (abilitando solo questi ultimi all'accesso). Una cosa è certa: adesso serve l'impegno degli utenti, che attivino dove possibile la doppia autenticazione, per mandare in pensione le password semplici. E rendere così il web un po' più a prova di ladri. COME TUTELARSI DAI FURTI 1. Usa password originali Inventa password complicate, cambiale spesso e usane diverse per i vari servizi. Così riduci il rischio che te le rubino. E che con una sola password sottratta possano poi accedere a tanti altri account. 2. Usa l'autenticazione a due fattori Google è uno dei servizi che permette un'autenticazione doppia, con password e con token. Si riceve un sms da Google con un codice per autorizzare un terminale ad accedere a Gmail (e agli account collegati). 3. Attento ai trojan Difendi le password dai trojan con cui i pirati ce le possono spiare. Aggiorna tutte le componenti del sistema, l'antivirus. Prudenza quando navighi, su ciò che clicchi e scarichi dal web. Un trojan può nascondersi in molte cose. 4. Fai una copia di backup Ricorda che se ci rubano le credenziali di un servizio cloud, ci possono cancellare tutti i dati contenuti. Facciamo dunque un backup delle foto, dei file e documenti importanti affidati al cloud computing. 5. Oneid.com e Accountchooser.net Ci sono nuovi servizi, come Oneid e Accountchooser, che ci permettono di associare, a un account, specifici terminali in nostro possesso e così limitare la possibilità di accessi indesiderati __________________________________________________ Corriere della Sera 4 Nov. 12 CONCORSI: IL PROF NON È RAIN MAN Tutto pronto per il concorso della scuola. Perplessità sui quizdi LORENZO SALVIA «Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena». La frase è celebre, anche un po' usurata. Modernissima quando la scrisse Michel de Montaigne verso la fine del Cinquecento, epoca in cui essere eruditi era ancora un valore assoluto. Addirittura scontata ai giorni nostri, quando una memoria formidabile può essere sostituita (non sempre, per carità) da Google, che ci segue ovunque insieme al telefonino che abbiamo in tasca. Più che accumulare nozioni quello che conta è saper ragionare, saper apprendere. Difficile non essere d'accordo. E con il passare degli anni, anche al di là delle intenzioni del suo autore, quella frase è diventata uno slogan, un manifesto, in molti casi un vero e proprio programma scolastico. Il saper ragionare prima del sapere punto e basta, un patrimonio comune filtrato poi dagli insegnamenti di don Milani, di Gianni Rodari e anche da una serie di degenerazioni che hanno portato i nostri ragazzi a non saper più se davanti alla a si mette la lettera acca. Eppure. Quello che vale per gli studenti vale anche per i loro insegnanti? Dopo quasi quindici anni di paralisi, avremo finalmente un concorso per selezionare maestri e professori. Una scelta coraggiosa, quella del ministro dell'Istruzione Francesco Profumo, che ha dovuto vincere le resistenze di chi voleva continuare ad assumere solo dalle liste dei precari. Il concorsone porterà in cattedra i giovani, anche se è vero fino a un certo punto perché con le regole scelte per il bando sarà difficile avere vincitori al di sotto dei 35 anni. Bene, comunque. Ma come prima cosa gli aspiranti insegnanti saranno tentati di fare proprio quello che Montaigne considerava un orrore. Riempirsi la testa, più che tenerla sgombra e allenarla per ragionare bene. Il primo gradino del concorsone sarà quello dei test preselettivi. Poi ci saranno le prove scritte, gli orali e anche la lezione simulata. Chi non supera la preselezione, però, sarà subito fuori. I test non riguarderanno le materie di insegnamento ma misureranno le capacità logico-deduttive. Verso la fine di novembre il ministero pubblicherà un elenco di 3.500 domande «multiple choice», con più risposte a disposizione e la casella giusta da barrare. Da quel listone saranno sorteggiati 50 quesiti per ogni candidato, operazione da fare lo stesso giorno della prova, in programma verso la metà di dicembre. Una procedura non nuova, versione tecnologica di quella usata nell'ultimo concorso per i presidi, due anni fa. Ma con un buco disegnato dalle due possibilità che i candidati avranno in quei venti giorni: potranno esercitarsi sul listone del ministero, e quindi allenare una testa ben fatta; oppure mandare a memoria il maggior numero possibile di domande, e quindi avere una testa ben piena. Rain man non avrebbe dubbi: lui sapeva ripetere a memoria un libro dopo averlo letto una sola volta, il listone ministeriale sarebbe un giochino. E bisogna ricordare che quella portata al cinema da Dustin Hoffman era una storia vera. Ma per tutti gli altri che cosa succederà? E, soprattutto, che tipo di insegnanti seleziona una prova del genere? Prima di dare una risposta sono necessarie due avvertenze. Nel migliore dei mondi possibili sarebbe bello dedicare una giornata intera a ogni candidato. Ma sono i numeri a dire che non si può: per 11.542 posti vengono stimate 200 mila domande, le iscrizioni scadono il 7 novembre. Anche al ministero i test preselettivi sono considerati un male necessario. Seconda avvertenza, dedicata agli aspiranti Rain man. Il giorno della prova ogni candidato avrà davanti lo stesso schema: 7 domande di informatica, 7 di lingua straniera, 18 di comprensione del testo e 18 di logica. Cinquanta quesiti in cinquanta minuti. Ma rispetto al listone delle «multiple choice» pubblicato a novembre, l'ordine delle risposte potrebbe cambiare. Per ogni quesito la risposta A diventerà ad esempio B, la D diventerà C e così via. Più che riempirsi la testa, dunque, conviene allenarla. Anche con i tanti libri e quiz online già disponibili da settimane con un discreto grado di approssimazione all'esame reale. Resta l'interrogativo di fondo, però. «Individuare la parola da scartare: raso, tapelo, alida, ofragano». La risposta giusta è tapelo, gli altri sono tutti anagrammi di nomi di fiori. Davvero non c'è altro modo per trovare gli insegnanti più bravi? «Visto il numero dei candidati — dice Benedetto Vertecchi, professore di Pedagogia all'Università di Roma Tre — la prima scrematura non può essere fatta che con i test. Ma dipende da che tipo di test». Il professore usa da vent'anni questo strumento nei suoi corsi e indica un possibile modello alternativo, i quiz progressivi: «Si parte da una domanda banale, si continua con una meno banale e così via aumentando il grado di difficoltà. In ogni caso, prima di essere usati, i test vanno provati sul campo. Altrimenti si rischiano gravi distorsioni». Un esempio? «Anni fa, in un quesito per ragazzini, usai la parola pesca: chi veniva da una città di mare pensò alla pesca con la canna e le reti, chi veniva da altre zone pensò invece al frutto. Sembra stupido ma non lo è». Sì ai test, ma non fatti così, anche da Giorgio Israel, professore del dipartimento di Matematica alla Sapienza di Roma, che sul tema si è più volte pronunciato: «I quesiti sulla comprensione del testo trasformano le persone in imbecilli. Non siamo all'esame per la patente dove serve un comportamento standard. In ogni brano ci sono almeno dieci sfumature diverse, è assurdo ridurle a quattro caselle da barrare». Non solo: «Spesso le persone più capaci in una prova del genere risultano le peggiori. Chi esita davanti alle ambiguità ha più sfumature di giudizio e può essere un insegnante migliore». Niente quiz, dunque? «Sì, ma fatti sulle regole base delle materie fondamentali. Oggi abbiamo laureati che non sanno fare una divisione o se mettere l'accento sulla e. È questa l'emergenza della nostra scuola». Chi invece boccia i test alla radice è Giuseppe Bertagna, professore di Pedagogia all'Università di Bergamo: «Sono diseducativi, introducono il concetto di lotteria in un mondo dove dovrebbe valere la competenza». D'accordo, ma con quei numeri non è una scelta ineluttabile? «Di ineluttabile c'è solo il futuro, questa è solo una decimazione pensata per risolvere un problema di ordine pubblico». Secondo lui, la soluzione ci sarebbe: «Gli insegnanti dovrebbero essere selezionati non con un unico concorso nazionale, ma da gruppi di scuole. Così divisi, i candidati sarebbero meno numerosi e ci sarebbe tutto il tempo di valutarli in modo serio, senza lotterie». Un sistema adottato in altri Paesi, che potrebbe funzionare bene nelle situazioni sane, forse meno bene in altri casi. E che scardinerebbe i due colossi nazionali, burocrazia ministeriale e sindacato, che oggi regolano la partita. Nemmeno il governo dei professori ha osato tanto. lsalvia@corriere.it __________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Nov. 12 ITALIANI PIU’ RISPETTO PER LA SCIENZA Ha ragione «Nature»: «In Italia la percezione è che la scienza non conti nulla». Così recita il duro editoriale di questa settimana. La comunità scientifica internazionale, vi si legge, è «scioccata» da tre recenti sentenze giudiziarie ai danni di scienziati, rei soltanto di non aver voluto assecondare le aspettative e i luoghi comuni che l'opinione pubblica nutre nei confronti della scienza. Non solo la sentenza dell'Aquila (cui ho dedicato la precedente Filosofia minima), ma anche quella del 12 ottobre in cui la Cassazione stabilisce un nesso tra tumore al cervello e uso del cellulare, e il caso della Green Hill di Brescia, vittima di un assalto animalista. «Si suppone che i giudici italiani – scrive "Nature" – come accade in tutte le democrazie, prendano decisioni basate solo sulla legge. Ma è difficile evitare l'influenza proveniente dagli umori della pubblica opinione, e in Italia la pubblica opinione manca completamente di comprensione, se non di rispetto, per la scienza». «Nature» dimentica peraltro le sentenze dei giudici che hanno imposto pseudoterapie con cosiddette staminali, ignorando i pareri di AIFA e scienziati e di cui su queste pagine abbiamo sollevato una discussione di metodo. L'Italia, si sa, storicamente non ha mai brillato per rispetto nei confronti della scienza. Ma, in pieno XXI secolo, i tempi sarebbero maturi per una rivoluzione culturale in questo senso. Sì, perché la diffusione di una percezione positiva della scienza è un fatto squisitamente culturale. Se non se ne capiscono i meccanismi di fondo diventa anche difficile, quando è il caso, indirizzare delle critiche corrette. E tutto finisce nelle mani dei giudici o dei politici, altre categorie a loro volta assai lontane, in Italia, dalla cultura scientifica. L'articolo di «Nature» è assai duro anche con il ministro Profumo, che ha rimesso in discussione – attraverso la legge di stabilità del Governo Monti – l'equilibrio che la Riforma della Ricerca del 2009 aveva creato. I dodici enti per la ricerca esistenti in Italia, sottolinea «Nature», sono oggi retti da presidenti tecnici e non politici, e stanno lavorando alla stesura dei nuovi statuti che dovrebbero garantire in futuro un sistema più meritocratico. Profumo li vorrebbe smantellare tutti per riunirli in un unico ente, attuando «Murky manoeuvres» (oscure manovre) – questo è il titolo dell'editoriale – senza nemmeno essersi consultato con la comunità scientifica: una proposta definita «dilettantesca» che denoterebbe da parte del ministro un atteggiamento simile a quello dell'italiano medio, il quale ritiene che la scienza, come la cultura, in fondo non conti molto e che su di essa si possa tranquillamente risparmiare. Su questo punto però è difficile dar ragione a «Nature» fino in fondo. Perché? Perché l'Italia è un paese ancora più strampalato di come la rivista lo descrive e non è mai così facile distribuire le ragioni e i torti. Ovvero perché anche gli scienziati italiani che hanno ispirato l'editoriale di «Nature» hanno delle precise responsabilità per il fatto che la percezione della scienza è così distorta in Italia e che gli enti di ricerca solo eccezionalmente sono stati governati, dagli stessi scienziati, sulla base del merito. __________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Nov. 12 EVOLUZIONI DELLA TEOLOGIA Il nuovo saggio di Fiorenzo Facchini affronta i dati del confronto scientifico e le questioni che riguardano il conflitto e le intersezioni con le dinamiche religiose Gianfranco Ravasi Sarà pur vero che «gli dèi amano l'oscuro», come affermava il sapiente sacro delle Upanishad, un po' come accadrà anche all'oracolo di Delfi che non asseverava e non negava, ma solo ammiccava. Tuttavia, lo stesso saggio indiano continuava: «infatti gli dèi detestano l'ovvio». Ho fatto questa premessa perché non pochi scienziati come molti filosofi e teologi amano spesso l'autoreferenzialità esoterica e oracolare dal vago sapore minatorio nei confronti del lettore ingenuo e rispettoso. Ebbene, ho invece davanti a me un libro in cui scienza, filosofia e teologia s'incrociano, eppure il dettato sembra elaborato tenendo fisso quel principio che Wittgenstein aveva formulato nel Tractatus logico- philosophicus: «Tutti quello che si può dire, si può dire chiaramente» (principio non proprio confermato in quelle pagine...). Fiorenzo Facchini è una figura storica nel campo dell'antropologia, materia che ha insegnato all'università di Bologna per una trentina d'anni seguendo tutti i canoni propri del linguaggio e dell'analisi scientifica più rigorosa. Ma in parallelo non si è mai sottratto, superando il disdegno di alcuni accademici, all'impegno della divulgazione e l'ha fatto con una chiarezza che ben meriterebbe l'elogio di quello straordinario maestro della comunicazione pubblica che fu il quattrocentesco Bernardino da Siena il quale, nelle sue Prediche volgari, ammoniva che «colui che parla chiaro, ha chiaro l'animo suo». E non a caso cito questo santo geniale: Facchini è, infatti, anche un ecclesiastico esemplare, erede della tradizione che risale al canonico Copernico, al gesuita Clavius, agli abati Mendel e Spallanzani e così via elencando, figure non certo marginali nella storia della scienza, del tutto serene anche nella professione del loro Credo. Il professore e monsignore bolognese da sempre s'inoltra lungo un percorso sassoso e spinoso, quello dell'evoluzione che spesso è brandita da non pochi apostoli dello scientismo come un vessillo destinato a mettere in rotta le armate dei credenti. Si è, così, accumulata una pila di volumi che, a partire dagli anni 80, Facchini ha dedicato al tema, coniugando sempre la fedeltà al protocollo della ricerca scientifica con le istanze di un altro statuto epistemologico, quello della teologia. L'ultimo testo da lui pubblicato è particolarmente suggestivo perché sceglie un tracciato a incrocio. Fuor di metafora, al pur necessario riconoscimento dei non overlapping magisteria (Stephen Gould), cioè alla "non sovrapponibilità" apologetica del magistero scientifico a quello teologico-filosofico a causa del loro differente metodo procedurale (dedicato al fenomeno il primo, al fondamento il secondo), Facchini ha voluto proporre ai suddetti magisteri di tentare un passo di avvicinamento nel dialogo. Questo accostamento è operato attorno a cinque nodi piuttosto roventi che agli occhi di molti sarebbero semplicemente bipolari e antiteticamente reattivi. L'elencazione già rivela la delicatezza degli incroci che, lo ripetiamo, non vogliono elidere surrettiziamente la non-sovrapponibilità e le specifiche autonomie di statuto. Il primato spetta naturalmente al binomio creazione ed evoluzione: si noti anche la scelta lessicale che mette correttamente in parallelo una categoria teologica e una scientifica, a differenza di altre due impostazioni, quelle del creazionismo e dell'evoluzionismo, che propongono una mistura di metodi e di componenti desiderando fonderli ma alla fine confondendoli in reciproci sconfinamenti. Scrive Facchini: «Molti equivoci sono venuti dalla pretesa di contestare la creazione sulla base della teoria dell'evoluzione mettendo il racconto biblico sullo stesso piano della scienza, ma sono venuti anche dall'opposizione all'evoluzione motivata da una lettura errata della S. Scrittura» la quale, pur adottando categorie descrittive legate alla scienza del tempo, propone un messaggio essenzialmente religioso. Con un gioco di parole, il secondo snodo affrontato potrebbe essere definito come la complessità della complessità confrontata con l'evoluzione. Basta solo evocare questo dato: «il Dna presente in una cellula umana è costituito da circa tre miliardi di nucleotidi e può immagazzinare una quantità di informazione paragonabile a quella contenuta in una biblioteca di un migliaio di volumi». E se vogliamo lasciar perdere il cervello umano giunto all'attuale livello di cerebralizzazione, rivolgendoci molto fenomenicamente al nostro piede, scopriamo che è un capolavoro di ingegneria (come aveva già intuito Leonardo), fatto com'è di 22 ossa, 100 legamenti e 12 muscoli. La traiettoria che conduce a questi sistemi complessi secondo Darwin comprende un gradualismo evolutivo che è, però, contestato dalla contemporanea biologia evolutiva e dello sviluppo (evo-devo) e Facchini si inoltra nella ramificazione che questa complessità sembra rivelare. Qui fa capolino una domanda spontanea che è, però, di indole filosofico- teologica e riguarda sia il punto di partenza, cioè la causa, sia la direzione. Ecco, allora, il terzo confronto ove si incrociano le concezioni legate alla casualità (il nome più popolare che viene in mente è Monod) e quelle basate sulla causalità e quindi sulla finalità. Siamo «uomini per caso», come dice il titolo del saggio di Biondi e Rickards (Editori Riuniti 2001), oppure si deve ammettere una direzionalità che nell'ortodossia darwiniana era affidata alla selezione naturale? È evidente che, senza mai ignorare lo specifico protocollo scientifico di queste analisi, sulla questione si posizionano anche la filosofia (causa efficiente e causa finale) e la teologia (il progetto trascendente divino). In questo processo affiora prepotentemente una categoria, quella della "specie" che Facchini pone come quarto soggetto del suo confronto. Lasciando tra parentesi le ardue verifiche introdotte dalla biologia molecolare, ma anche le considerazioni sulla dimensione culturale della "speciazione", è facile intuire quale sia lo scottante quesito finale: una sola o più specie nel corso dell'evoluzione umana? Ritorna, così, la vecchia antitesi tra monogenismo e poligenismo con le ricadute sull'antropologia teologica (il peccato originale, ad esempio), anche se ora, con una corretta ermeneutica dei testi biblici, la tensione si è di molto allentata. Eccoci, così, all'ultima scena che è di sua natura conclusiva. Essa affronta l'identità dell'essere umano: «ammettere che anche noi abbiamo una storia che ci ha preceduti non come uomini, ma come membri di un raggruppamento animale» suscita in molti imbarazzo. La questione qui affrontata oscilla tra due poli entrambi rilevanti, la continuità biologica e la discontinuità. Quest'ultima è solo di adattamento all'ambiente, cioè "ecologica", o è anche culturale e ontologica? Evidente è anche qui l'interazione tra scienza e teologia o filosofia, soprattutto quando queste ultime introducono la dimensione "spirituale" della creatura umana. Abbiamo solo elencato cinque questioni che l'evoluzione solleva, provocando la riflessione teologica. Facchini in queste pagine, alle quali ribadiamo la qualifica della retorica quintilianea della perspicuitas, rivela maggiormente il suo côté di scienziato, mentre quello teologico è più semplificato e talora forse debole. Ma proprio questo rende prezioso il suo testo come appello agli esegeti e ai teologi perché riprendano il dialogo con una conoscenza dell'altro orizzonte, e gli scienziati tengano conto della molteplicità necessaria degli approcci gnoseologici, superando ogni esclusivismo autoreferenziale. Fiorenzo Facchini, Evoluzione. Cinque questioni nel dibattito attuale, Jaca Book, Milano, pagg. 142, € 14,00 ========================================================= __________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Ott. 12 IL TICKET? SI PAGA ALLE POSTE Il servizio per i pazienti al via in 251 sportelli sparsi in tutta la Sardegna Cappellacci: ora la politica smetta di pensare solo alle poltrone nelle Asl VEDI LA FOTO I più contenti saranno quelli che, al primo dolorino, smanettano su Google per dare al sintomo un nome e una diagnosi. La web-sanità è un futuro più vicino: prenotazioni online, cartella sanitaria elettronica a disposizione e così via. Ma per ora ci si deve accontentare di pagare il ticket alle Poste. Lo si può fare dal primo settembre: l'avvio è stato gestito dalla Regione a fari spenti, per vedere l'effetto che fa. Ora, dopo due mesi sperimentali, arriva l'annuncio ufficiale di Ugo Cappellacci e dell'assessore alla sanità Simona De Francisci, insieme ai vertici di Poste italiane. «Un modo per occuparci di cose di sostanza, dei reali interessi dei cittadini», dice il governatore con una frecciata al Consiglio regionale, dove si è incagliata la riforma delle Asl: «La politica, e i gruppi consiliari, capiscano che non è più tempo di interessarsi di posizionamenti e poltroncine». LA NOVITÀ I ticket per il pronto soccorso e per le prestazioni specialistiche ambulatoriali (solo della sanità pubblica) si potranno pagare anche in 251 dei 514 uffici sardi di Poste italiane. Sono distribuiti in tutto il territorio, quasi uno per Comune. Con una concentrazione maggiore nei centri principali: a Cagliari saranno otto (piazza del Carmine, via Simeto, via Logudoro, viale Trieste, via D'Acquisto a Pirri, via Biasi, via Liguria, viale Poetto). Due a Quartu e Oristano, tre ad Alghero e Sassari (dettagli sul sito www.poste.it o al numero verde 803.160). Basterà comunicare il codice fiscale e il numero di prenotazione, e pagare una commissione di 1,30 euro. «Così decongestioniamo gli uffici ticket - spiega l'assessore De Francisci - e miglioriamo il rapporto coi cittadini». Chi magari deve fare un esame a Cagliari e abita lontano, pagherà nei giorni precedenti senza fare file in quello della visita. «Presto partiremo con altre novità», prosegue l'assessore: «Il fascicolo elettronico online, il centro unico di prenotazione sul web, la possibilità di scegliere dal computer di casa il medico di base o il pediatra». MEDICI IN RETE Sarà possibile grazie al Sisar (il sistema informatico della sanità regionale) e al Medir (medici in rete), come spiega la dirigente dell'assessorato Federica Loi: «Si userà la tessera sanitaria col microchip. Già oggi si può accedere al fascicolo elettronico, ma finché non si chiude l'accordo con i medici di base registra solo i farmaci acquistati». Perciò De Francisci si appella ai camici bianchi: «Vogliamo dialogare con loro. Ma sia chiaro, non si torna indietro». La rete consentirebbe tra l'altro, per alcune patologie, di trovare già in farmacia il farmaco prescritto online, senza passare in ambulatorio. «Niente file anche per prenotare gli esami, col Cup web», sottolinea Mauro Cubeddu di Sardegna.it. Anche i servizi postali andranno oltre il ticket: «L'ente costruirà un portale internet, postesalute.it, per gestire le cartelle cliniche digitali; e presto si pagherà il ticket anche online», spiegano Enrico Menegazzo e Luigi Raffo, responsabili nazionale e regionale dell'area Pubblica amministrazione delle Poste. LA GIUNTA «Il prossimo passo sarà ridurre le liste d'attesa», riprende De Francisci, «teniamo il fiato sul collo delle Asl ma ancora non siamo soddisfatti». Sullo sfondo c'è il nuovo piano sanitario, mentre in Consiglio ristagna la riforma delle Asl, che doveva portare alla macroarea unica per gli acquisti: «Non c'è accordo politico, perciò ci siamo impegnati sul riordino della rete ospedaliera, la parte più concreta, con la legge appena approvata». «Ci interessa la qualità dei servizi al cittadino», le fa eco Cappellacci, «il resto sono questioni politiche. Vorrei meno attenzione agli orticelli, e che ci si occupasse di sanità più che di potere sanitario. Non è più tempo di badare a poltroncine». Giuseppe Meloni __________________________________________________ L’Unione Sarda 1 nov. 12 BARRACCIU CHIEDE LE DIMISSIONI DEL DIRETTORE AOB GARAU Il Brotzu assume ancora lavoratori interinali. E Francesca Barracciu, consigliere regionale del Pd, attacca per l'ennesima volta il direttore generale, Antonio Garau, chiedendone le dimissioni. «Questa volta il Consiglio regionale non potrà graziare Garau», attacca la vice segretaria regionale del Partito democratico. «Lascia sconcertati la presunzione di impunibilità che accompagna l'operato del direttore generale del Brotzu e l'abuso che esercita costantemente nel ricorso al lavoro interinale». Secondo l'esponente del centrosinistra «nonostante il Consiglio regionale all'unanimità abbia approvato il 17 ottobre una norma che stabilisce il tetto di spesa per il ricorso al lavoro interinale nella misura del 2% del costo del personale nelle aziende sanitarie, e nonostante al Brotzu quella misura sia stata abbondantemente superata fino a triplicarla, Garau, mettendo in caldo le centinaia di assunzioni discrezionali, nel totale disprezzo del Consiglio Regionale e delle leggi approvate si è affrettato ad adottare una delibera con la quale proroga gli ingiustificati contratti interinali per altri due mesi aggiungendo agli oltre 5 milioni di euro già spesi altri 834 mila euro». Un fatto grave, secondo Barracciu, che evidenzia «un'arroganza così marcata da lasciare facilmente supporre la copertura di colui che lo ha nominato, nonostante la dubbia adeguatezza dei titoli, ovvero del presidente Cappellacci. E la supposizione diventa certezza - sottolinea l'esponente democratica - alla constatazione che la legge regionale sulla sanità che contiene la norma sugli interinali approvata il 17 ottobre, nonostante più volte sia stata definita urgente dalla Giunta, attende ancora di essere promulgata da Cappellacci e pubblicata sul Buras». Il consigliere regionale dell'opposizione pone poi una domanda: «Per quale motivo il presidente della Regione non ha ancora promulgato la legge sulla sanità nonostante sia stata approvata il 17 ottobre, inviata dal Consiglio alla presidenza il 22 e il primo Buras utile fosse il 25 dello stesso mese? Sono convinta che ci sia una stretta connessione tra questi strani ritardi e la delibera di proroga degli interinali di Garau, datata 26 ottobre». Per questo è pronta una mozione «per chiedere al presidente della Regione l'immediata rimozione di Garau dalla direzione del Brotzu». __________________________________________________ La Nuova Sardegna 2 Nov. 12 SOS BROTZU, DUECENTO INTERINALI A RISCHIO di Bettina Camedda wCAGLIARI Lavoratori interinali a rischio con la legge regionale sul riordino della sanità in Sardegna. All’ospedale Brotzu, che lamenta già una carenza di personale di 200 unità, sono 214 gli interinali che rischiano di perdere il lavoro. Una preoccupazione condivisa dai sindacati e dal direttore generale Antonio Garau che, martedì scorso ha convocato una riunione per discutere sui possibili effetti negativi della legge. «La situazione è allarmante. Con questa legge che limita il numero di interinali, oltre 200 persone perderanno il lavoro. Per il momento i loro contratti sono stati rinnovati per due mesi - sottolinea il direttore generale - ho chiesto all’assessorato di darmi almeno tre mesi di tempo per organizzarci. Certo è che se dovessimo licenziare tutti gli interinali, domani l’ospedale Brotzu sarebbe costretto a chiudere perché non saremmo nelle condizioni di garantire assistenza. L’ospedale ha un numero di interinali superiore rispetto alla media di tutte le aziende sanitarie». Per la FpCgil dell’azienda si tratterebbe dell’ennesimo taglio, questa volta ad opera della Regione. «È sconcertante: da anni denunciamo la grave carenza di personale sanitario e non - scrive Ottavio Schirru, Cgil Brotzu - e da anni denunciamo l’utilizzo di personale interinale impropriamente per sopperire alle carenze stabili di organico. Ci chiediamo che fine abbia fatto l’impegno formale dell’assessore regionale per l’assunzione di 40 operatori socio sanitari (oss), attingendo alla graduatoria esistente. Spesso il personale sanitario è costretto a doppi o addirittura tripli turni per coprire le emergenze quotidiane dei reparti, soprattutto in quelli di medicina 1 e 2, dove le condizioni restano le più gravi». Nello stesso tempo, però, il sindacato rigetta «l’ipotesi del direttore generale di trasformare le figure del personale tecnico in personale oss. È strano che la dirigenza si sia accorta solo oggi che a causa della carenza di personale potrebbero essere a rischio anche le attività delle sale operatorie e del centro trapianti». Il sindacato teme si tratti di un escamotage «per l’esternalizzazione dei servizi». E non condivide la scelta da parte del direttore di aver assunto in questi anni solo personale di tipo interinale. «L’acquisizione di personale interinale non solo è economicamente svantaggiosa ma essendo per definizione temporaneo - spiega la FpCgil - non consente una programmazione sul lungo periodo delle attività». Dura la replica del direttore generale: «In attesa di rivedere la pianta organica e di rifare i concorsi il personale interinale è l’unico strumento legittimo che abbiamo per assumere personale. Vorremmo dare inoltre la possibilità a tanti infermieri sardi che lavorano fuori di rientrare. __________________________________________________ L’Unione Sarda 3 nov. 12 GARAU: GLI INTERINALI UNA NECESSITÀ L'esponente del Pd aveva chiesto le dimissioni del direttore generale del Brotzu Garau a Barracciu: ci interessa solo la qualità dell'assistenza Prosegue la polemica sull'utilizzo dei lavoratori interinali al Brotzu tra il consigliere regionale del Pd, Francesca Barracciu, e il direttore generale dell'ospedale, Antonio Garau. Il rappresentante della struttura sanitaria replica alle critiche dell'esponente del centrosinistra, che aveva chiesto le sue dimissioni. «L'onorevole Barracciu, oltre a chiedere le mie dimissioni, scrive di essere sconcertata per la proroga degli interinali», scrive Garau. «Il suo sconcerto non è stato sicuramente pari a quello registrato il 22 ottobre nell'incontro tra la direzione aziendale e tutti i primari dell'ospedale Brotzu, nessuno escluso, nel quale si è discusso dell'immediato licenziamento di tutto il personale interinale presente in azienda». Licenziamenti che si erano resi necessari a seguito dell'approvazione della legge regionale di riordino del servizio sanitario, nel quale è stata prevista una riduzione rilevantissima dei costi dei personale sanitario. «Nel corso dell'incontro - spiega Garau - i primari hanno tutti dichiarato che il mancato rinnovo del contratto al personale interinale avrebbe portato alla paralisi totale delle attività ospedaliere, e che in detta situazione si sarebbero potute garantire solo le urgenze e le emergenze». Garau, che precisa di aver già dato lo scorso marzo tutti i chiarimenti alla commissione Sanità della Regione sull'argomento, ricorda che in quell'occasione già aveva chiesto un'attenzione particolare per la rivisitazione del problema del personale dell'ospedale. «Voglio confermare all'onorevole Barracciu e a tutti i consiglieri regionali, che l'unico interesse che ha mosso e muove le azioni della direzione generale del Brotzu sono e rimangono esclusivamente quelle di garantire ai cittadini il livello di assistenza migliore possibile, nello spirito della missione che è stata attribuita al più importante ospedale della Sardegna». __________________________________________________ L’Unione Sarda 1 nov. 12 BARRACCIU: NUOVA PARENTOPOLI NELLA SANITÀ La Asl riabilita il concorso per assistenti amministrativi bocciato dal Tar BUFERA SU SETTE ASSUNZIONI L'assunzione di sette assistenti amministrativi alla Asl diventa nuovo caso politico. Nell'occhio del ciclone ancora una volta il concorso bandito nel 2008, espletato tra il 2009 e il 2010, bocciato dal Tar e dal Consiglio di Stato. Ora la Asl recupera quella graduatoria e delibera l'assunzione dei sette. «È notorio che siano tutte persone legate da vincoli di parentela con politici nuoresi e dirigenti della Asl 3», denuncia Francesca Barracciu. Contro la parentopoli il consigliere regionale del Pd presenta una nuova interrogazione all'assessore regionale alla Sanità Simona De Francisci. IL CASO Francesca Barracciu punta l'indice sulla difformità di trattamento riservata dalla Asl al concorso per assistenti amministrativi e per venti operatori sociosanitari: l'uno ripescato a tutti i costi, l'altro annullato dalla stessa Azienda nonostante su entrambi pesassero contestazioni analoghe legate alla commissione esaminatrice. I due concorsi vengono regolarmente espletati: per ognuno c'è una graduatoria. Quello per assistenti amministrativi è oggetto di due ricorsi al Tar, portati avanti da persone diverse, idonee, ma non al vertice della graduatoria. La contestazione riguarda la nomina e la composizione della commissione esaminatrice. Il Tar dà ragione ai ricorrenti e annulla il concorso per assistenti amministrativi. LA ASL Intanto, i sette posti vengono occupati da lavoratori interinali: il loro incarico finisce prima della sentenza del Tar. A quel punto la Asl assume a tempo determinato dalla graduatoria contestata. Dopo la decisione del Tar, i sette vengono licenziati e allora sono alcuni di loro a fare ricorso rivolgendosi al Consiglio di Stato. Due i ricorsi: uno finisce con la conferma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale di annullamento del concorso, l'altro si arena prima della sentenza perché il ricorrente rinuncia. LA DELIBERA Ora il direttore generale della Asl, Antonio Maria Soru, firma una delibera per l'assunzione dei sette ammessi in graduatoria, sostenuta da un parere legale che si fonda sulla rinuncia dei ricorrenti vincitori al Tar e al Consiglio di Stato. «Il fatto che i promotori dei ricorsi abbiano rinunciato agli effetti delle sentenze non significa - nota Francesca Barracciu - che i gravi vizi acclarati dalla giustizia amministrativa siano spariti. Cosa c'è dietro tutto questo affetto gestionale per gli amministrativi e al contrario tanto rigore contro gli Oss?». GLI OSS Il concorso per assistenti sociosanitari viene annullato in autotutela da Soru. In attesa del Tar, la Asl attinge da una vecchia graduatoria. Poi arriva la sentenza che dà ragione alla Asl riconoscendo un vizio nella nomina e nella composizione della commissione. Gli Oss, vincitori del concorso, si rivolgono a quel punto al Consiglio di Stato che deve ancora pronunciarsi. «È inammissibile - accusa la Barracciu - rimettere in piedi atti illegittimi, ma se il direttore generale ritiene di dover fare carta straccia della legge allora deve rimettere in piedi anche la graduatoria degli Oss, al pari degli amministrativi». ( m. o. ) __________________________________________________ L’Unione Sarda 2 nov. 12 SORO: PARENTOPOLI? BARRACCIU VADA DAL GIUDICE Dopo le accuse del consigliere regionale del Pd, Francesca Barracciu, che firma un'interrogazione su sette assunzioni alla Asl denunciando la parentopoli nella sanità nuorese, arriva la replica del direttore generale Antonio Maria Soru. «Trattandosi di concorso bandito ed espletato nella passata gestione - sottolinea - nulla posso dire sulle ipotizzate situazioni di parentela dei vincitori del concorso. Al riguardo invito l'onorevole Barracciu a denunciare alla magistratura eventuali illeciti a sua conoscenza e ad indicare nomi e cognomi». ASSUNZIONI Soru insiste a richiamare il fatto che il concorso per sette assistenti amministrativi è atto della precedente gestione commissariale quando al vertice della Asl nuorese c'era Antonio Onorato Succu. Rispetto a quella gestione - precisa Soru - «l'attuale dirigenza aziendale era estranea». Spiega: «Gli atti del concorso sono stati impugnati al Tar da due ricorrenti, ragione per la quale non si era proceduto, allora, all'annullamento in via di autotutela. I ricorrenti hanno rinunciato all'impugnazione degli atti davanti al Consiglio di Stato, che ha “fatto rivivere” gli effetti del concorso e, secondo circostanziato parere legale, non era giuridicamente percorribile l'annullamento d'ufficio, essendo decorso oramai un anno e mezzo dall'approvazione della graduatoria». L'Azienda - conclude Soru - «ha proceduto a porre in essere ogni atto dovuto, anche a evitare ulteriori contenziosi che avrebbero esposto la Asl a richieste di risarcimento dei danni per la mancata assunzione dei vincitori del concorso». LA DELIBERA Al centro del nuovo caso c'è la delibera adottata il 30 ottobre scorso che assume a tempo indeterminato i sette assistenti amministrativi vincitori del concorso al centro di ricorsi già prima dell'arrivo di Soru alla Asl. Contestate la nomina e la composizione della commissione esaminatrice. Il concorso è annullato dal Tar, approda al Consiglio di Stato su iniziativa di ricorrenti che poi rinunciano. Per procedere all'assunzione Soru si affida ora al parere di un legale che fa parte integrante della delibera. «Il lungo tempo trascorso e l'esito finale del travagliato iter processuale - si legge - ha sicuramente rafforzato l'aspettativa dei vincitori del concorso». ____________________________________________________ Studio Cataldi 20/10/2012 CASSAZIONE: VA CONDANNATO PER ABUSO D'UFFICIO PRIMARIO CHE ATTUA 'GESTIONE BARONALE' DELLA CLINICA Fonte: Cassazione: va condannato per abuso d’ufficio primario che attua 'gestione baronale' della clinica (StudioCataldi.it) La Corte di Cassazione, con sentenza n. 41215 del 22 ottobre 2012, ha rigettato il ricorso proposto dal primario di una nota clinica avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello lo condannava per avere, nell'esercizio delle sue funzioni, arrecato un danno ingiusto compiendo atti e comportamenti di emarginazione nei confronti di un medico dello stesso reparto impedendogli di prestare l'attività chirurgica e spossessando un dirigente dell'Unità operativa, suo primo aiuto e vicario, delle funzioni e competenze a lui spettanti. Come spiega la Corte "Il primario di un ospedale è tenuto quale pubblico dipendente a prestare la sua opera in conformità delle leggi ed in modo da considerare sempre l'interesse della pubblica amministrazione, in particolare ispirandosi nei rapporti con i colleghi (...) al principio di una assidua e solerte collaborazione. Sussiste, pertanto il reato di abuso di ufficio con violazione di legge, secondo la nuova formulazione dell'articolo 323 C.P., allorché il medesimo ponga in essere comportamenti di vessazione ed emarginazione dei medici del reparto che non assecondano le proprie scelte". Nel caso in esame - si legge nella sentenza - le scelte del primario erano finalizzate ad una gestione autoritaria e 'baronale' della clinica spinta fino al punto di arrivare alla punizione di due qualificatissimi professionisti che venivano emarginati per indurli ad abbandonare la clinica. La Suprema Corte sottolinea come i giudici di merito abbiano proceduto ad una accurata e approfondita disamina di tutti gli elementi acquisiti, dando conto dei criteri di giudizio e esponendo fatti e valutazioni con motivazione completa e coerente, giuridicamente corretta ed indenne da contraddizioni e vizi logici. "In particolare lucida e coerente risulta la giustificazione sull'accertamento dei reali motivi ritorsivi personali e professionali che indussero l'imputato ad azioni e atti emarginanti e vessatori nei confronti delle due parti offese, con gravi e negativi effetti sulla loro vita professionale e personale." Per la configurabilità dell'elemento soggettivo dell'abuso d'ufficio - proseguono i giudici di legittimità - è richiesto il dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e nel caso in esame "le sentenze di merito hanno dato conto dell'intenzionalità del dolo, sottolineando la precisa volontà dell'imputato di colpire nell'attività più importante e qualificante del chirurgo, sospendendone la crescita professionale e procurandogli danno professionale (mancato esercizio della chirurgia, mancata esperienza, mancati contatti e relazioni connessi all'attività chirurgica), alla reputazione e alla vita di relazione (...), alla sfera psicologica, per l'effetto di umiliazione e svalutazione in lui determinato.". Confermata dalla Suprema Corte anche la responsabilità dell'Azienda ospedaliera in considerazione dell'indiscutibile potere di vigilanza che all'azienda spettava sul suo dipendente, vigilanza che "non risulta essere stata esercitata con efficienza ed efficacia così da impedire la condotta illegittima dell'imputato e, comunque, rimediare con immediatezza agli effetti determinati da tale condotta". Fonte: Cassazione: va condannato per abuso d’ufficio primario che attua 'gestione baronale' della clinica (StudioCataldi.it) _______________________________________________________________ Avvenirei 31/10/2012 LA COPERTA CORTA DELL'ASSISTENZA USA DA ROMA GRAZIELLA MELINA Nel 2010 negli Stati Uniti ben 29 milioni di adulti, pur essendo titolari di polizze private, non sono riusciti a ottenere una copertura adeguata. E questo a causa dei massicci incrementi dei copagamenti imposti dalle compagnie assicurative. Non solo, sempre nel 2010, i non assicurati e i sottoassicurati che si sono recati nei reparti di pronto soccorso dei grandi ospedali sono costati 43 miliardi di dollari, sborsati in parte dall'erario e in parte dalle polizze. Dati non del tutto rassicuranti, ma che danno un'idea della fragilità del sistema sanitario americano, senz' altro all'avanguardia nella ricerca medica, ma del tutto insoddisfacente dal punto di vista assistenziale, come rileva nel suo libro Giorgio Freddi, emerito dell'Università di Bologna «L anomalia americana. Perché è tanto difficile, se non impossibile, riformare la sanità statunitense» (edito da Vita e Pensiero). E come ha ribadito ieri sera alla Cattolica di Roma in occasione dell'Open Evening dell'Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari (Altems), alla presenza del ministro per i Beni e le Attività Culturali Lorenzo Ornaghi, direttore dell'Alta scuola di economia e relazioni internazionali (Aseri). «Oggi nelle democrazie ricche - ha spiegato Freddi - il 15 per cento della popolazione è fuori da ogni tipo di copertura. Un altro 15 per cento è sotto assicurato» e così o «si vede negare le cure o ad un certo punto le deve interrompere». Secondo il Centers for Medicare and Medicare and Medicaid Services, ha continuato Freddi, «nel 2009 e nel 2010 si sono osservati i più bassi incrementi della spesa sanitaria negli ultimi 51 anni, rispettivamente il 3,8 per cento e 3,9 per cento». Tuttavia «la percentuale del Pil inghiottita dalla sanità ha raggiunto il suo massimo storico del 17,9 per cento, 4 volte e passa la spesa del Pentagono». «Il problema del sistema sanitario americano - ha poi sottolineato Americo Cicchetti, ordinario di organizzazione aziendale della Cattolica e direttore dell'Altems - sta nel fatto che è basato sul mercato, la sanità è considerata un qualsiasi bene di consumo». L'assistenza sanitaria in sostanza dipende dalla polizza assicurativa. «La fascia intermedia non assicurata non ha sufficienti servizi in relazione ai bisogni». Quasi un paradosso se si pensa che «la quota di spesa in America per la ricerca sanitaria pubblica - ha continuato Cicchetti- è uguale a quella privata: circa 100miliardi di dollari. Nel nostro sistema si tratta di una quota minima». Presentato alla Cattolica il volume di Freddi sulla difficoltà di riformare il sistema «Il I 5% resta escluso da qualsiasi copertura» _______________________________________________________________ TST 31/10/2012 GLI EQUIVOCI DELLA TAVOLA A CHILOMETRI ZERO RomirroDum CNR - NAPOLI All'ora dei pasti la nostra coscienza sussulta, facendoci perdere l'appetito. Si susseguono documenti e convegni che analizzano ogni nostro comportamento alimentare da talmente tanti punti di vista da lasciarci poca speranza di sederci a tavola senza sentirci dei vermi insensibili aí temi ecologici, sanitari o di sviluppo economico. Se ci mettiamo alla ricerca di un cibo sano, ambientalmente sostenibile, legato alle tradizioni e culture locali, sufficiente per tutti, solidale e adeguatamente remunerato, finiremo per paralizzarci di fronte a una qualunque pietanza, o decideremo di ignorare tutti i consigli. Da anni si parla di «chilometro zero» come se questa fosse la quadratura del cerchio. In realtà, fatte salve poche produzioni tipiche che vanno tutelate, il chilometro zero è una visione autarchica, che mira a costruire dei mercati chiusi, in cui le aziende non fanno innovazione e i consumatori sono messi sotto tutela. Un esempio clamoroso di questa miscela di ipocrisia e paternalismo - spiegherò il 3 novembre al Festival della Scienza di Genova - è che quasi tutto il latte, formaggi, carni, salumi e prosciutti che mangiamo da 16 anni deriva da vacche e maiali nutriti con quantitativi di soia Ogm che vanno ben oltre il 50% della razione giornaliera di soia. Parliamo anche dei più prestigiosi marchi Doc ed Igp che, costretti nella camicia di forza dei loro disciplinari di produzione, non riescono più a migliorare il prodotto e a incrementare le esportazioni e guardano con terrore al restringersi del mercato interno, come un ippopotamo guarda all'ultima pozza fangosa. Essendo inoltre coscienti di tacere al loro consumatore affezionato il fatto che le ultime sette generazioni di vacche hanno visto quasi solo mangimi Ogm. L'etichetta che indichi se il prodotto è derivato da mangime Ogm non è dovuta e il settore agroalimentare gioca alla congiura del silenzio. Così i nostri prodotti più tipici usano soia e ora anche mais Ogm cresciuti in Sud America e noi, acquistandoli, sosteniamo la loro filiera produttiva a danno dei nostri agricoltori, che non possono coltivare le stesse piante che fanno la base dei nostri mangimi. Vi sembra una filiera ecosostenibile quella guidata da disciplinari che consentono l'uso di mangimi proteici distanti sette fusi orari per mescolarli a foraggi (ossia paglia) di una specifica area geografica italiana? Siamo sicuri che solo quei foraggi fanno grande quel formaggio, ovvero che non dipende dalla cultura e dalle tecnologie di trasformazione? Stiamo parlando di aree della Pianura Padana che, quest'anno come nel 2003, hanno visto una lunga estate torrida. Le coltivazioni che non sono state irrigate hanno dato rese pessime e qualità così scarsa che nei prossimi mesi sentiremo parlare delle conseguenze della cattiva qualità dei nostri mangimi. Ma anche irrigare non è sempre la panacea di tutti i mali. Un articolo su «Nature Geoscience» ipotizza che un terremoto in Spagna nel 2011 sia stato causato dall'eccessivo drenaggio di acqua dalla falda. Oggi, quindi, entra con prepotenza nello scenario della filiera ecosostenibile un parametro a cui le aziende faticano a conformarsi: il «water footprint». Parliamo dell'impronta idrica di ogni coltivazione e di ogni alimento. Questa impronta dipende dalla storia di quell'alimento: ha usato irrigazione o acqua piovana? E' stato prodotto nel luogo adatto o le tradizioni dei padri ci costringono a fare lo stesso, come se in 50 anni nulla fosse cambiato nel nostro Paese, nelle nostre campagne, nei mercati e tra i consumatori? E stato calcolato che un agnello allevato in Nuova Zelanda ed importato in Europa ha un «carbon footprint», ossia emissioni di anidride carbonica, quattro volte inferiori a quello di un agnello allevato in Europa continentale con mangimi americani e stalle riscaldate. Il termine «ecologico» è ormai abusato, e la desinenza «logico» è troppo granitica. Un dibattito che miri ad atteggiamenti eco-ragionevoli potrebbe consentirci di ritrovare la serenità di apprezzare i profumi della tavola. _______________________________________________________________ Sapere 31/10/2012 RADIOFARMACI DEL FUTURO Cristina Bolzati, Alessandro Dolmclla e Luciana Maresca Le nuove tecniche di imaging molecolare permettono di utilizzare la radiazione come agente terapeutico modulabile nelle quattro dimensioni. Nasce l'era della teragnostica I Radiofarmaci sono preparazioni medicinali che, come indica chiaramente il loro nome, contengono isotopi radioattivi di alcuni elementi (radionuclidi) e sono utilizzate in medicina nucleare a scopo sia diagnostico sia terapeutico. L'uso nella diagnostica rimanda a tecniche di acquisizioni di immagini (imaging), specie in ambito cardiologico ed oncologico, i cui acronimi, SPECT e PET, sono entrati da tempo nell'uso comune. Sebbene l'indagine PET permetta di ottenere immagini di maggiore dettaglio, essa è anche più costosa; ecco perché l’imaging SPECT rappresenta ancora circa l'85% del mercato della radiodiagnostica. Si tenga presente che ogni anno nel mondo vengono eseguite tra i 20 e i 30 milioni di scintigrafie, cifra che si presume in crescita negli anni a venire, quando si potranno avviare programmi di assistenza sanitaria nei paesi in via di sviluppo (per esempio, in Africa). .A un costo per esame di circa 20 euro, questo significa che, a oggi, il mercato dell' imaging SPECT vale tra 0,4 e 0,6 GigaEuro/anno. Oltre a essere sempre più diffuse sul territorio, le tecniche SPECT e PET risultano oggi ulteriormente potenziate dal loro possibile abbinamento con indagini tomografiche basate su raggi X (SPECT/CT e PET/CT). L'impiego di radiofarmaci permette di ottenere un'accurata descrizione delle funzioni fisiologiche degli organi, o tessuti, in cui essi si concentrano, fornendo così un metodo non invasivo per identificare una patologia e/o monitorare l'efficacia di un trattamento terapeutico. Dal punto di vista diagnostico, l'esame della funzione fisiologica degli organi e tessuti avviene mediante l'interpretazione delle immagini ottenute, pertanto si parla di diagnostica per immagini. L'utilità delle tecniche SPECT (Tomografia computerizzata ad emissione di fotone singolo) e PET (Tomografia ad emissione di positroni) sta nella possibilità di eseguire una diagnosi precoce di diverse patologie e, ancor pii') nella capacità di evidenziare un danno funzionale anche prima che sia riconoscibile un'alterazione morfologica/anatomica rilevabile con altre tecniche d'immagine basate su raggi X o ultrasuoni. L'acquisizione di immagini in funzione del tempo consente di poter acquisire, come nel caso di analisi a carico (lei reni, diagrammi di flusso che permettono di individuare anomalie e di stabilire, in maniera assolutamente certa, se queste si verificano (e in che misura) a carico di uno solo o di entrambi gli organi. La progettazione e lo sviluppo di radiofarmaci costituiscono un settore di ricerca altamente interdisciplinare, che richiede competenze in ambito chimico, radiochimico, fisico, biologico e medico. Un ruolo da sempre molto importante nello sviluppo dei radiofarmaci è svolto dalla chimica inorganica, in quanto molti dei radioisotopi utilizzati sono metalli. .I radiofarmaci sono costituiti principalmente da composti organici e inorganici di struttura chimica ben definita, ma anche da macromolecole quali proteine, anticorpi monoclonali, o frammenti di questi ultimi. La preparazione di un radiofarmaco avviene attraverso un processo di sintesi, detto marcatura, che porta all'inserimento dell'isotopo radioattivo prescelto nella molecola avente le proprietà biologiche desiderate. In funzione del meccanismo di localizzazione in vivo, i radiofarmaci possono essere suddivisi in due classi principali: radinfarmaci di perfusione, la cui distribuzione biologica è strettamente legata al flusso ematico e il cui accumulo è strettamente correlato alle caratteristiche fisiche e chimiche della molecola nel suo insieme; radiofarmaci target specifici, la cui distribuzione dipende da meccanismi specifici, quali: interazioni biochimiche, interazioni immunologiche e legami con recettori. Questi radiofarmaci inizialmente si distribuiscono secondo il flusso ematico, ma la loro esatta localizzazione nell'organismo è determinata dalla partecipazione ad un preciso processo biologico, come un'azione enzimatica, un'interazione antigene-anticorpo, oppure da specifici legami con diversi sistemi recettoriali. Per giungere a risultati utili e validi la biodistribuzione di un radiofarmaco nell'organismo deve risultare altamente selettiva, in modo che questo possa concentrarsi rapidamente nell'organo, nel tessuto o nelle cellule bersagli(); Nelle applicazioni diagnostiche, i radiofarmaci somministrati ai pazienti devono produrre radiazione gamma (i) che, essendo molto penetrante, fuoriesce dall'organismo e quindi viene captata chi Lilla gamma-camera (o rilevatore a scintillazione) che trasforma la radiazione emessa in emissione luminosa. La radiazione emergente dall'organismo viene restituita sotto forma di immagini, ricostruite al calcolatore, di sezioni consecutive (tomografia planare o tridimensionale), distinguibili in SPECT (Tomografia Computerizzata a Emissione di Fotone Singolo) e PET (Tomografia a Emissione di Positroni). La tecnica SPECT impiega radionuclidi emettitori di radiazione gamma (y), la PET invece ricorre ad isotopi che emettono radiazione Beta (il nucleo instabile — radioattivo — emette un positrone). I positroni reagiscono rapidamente con elettroni, dando luogo ad un processo di annichilazione con conseguente emissione di radiazione di frequenza e direzione caratteristica. In entrambi i casi (SPECT e PET), la concentrazione con cui vengono utilizzati i radiofarmaci è molto bassa, tra 10**-6 e 10**-8, valori ai quali le sostanze somministrate non hanno effetti né farmacologici, ne radiotossici. Per le applicazioni terapeutiche, i radiofarmaci vengono marcati con isotopi emittenti radiazione Beta (il nucleo instabile emette un elettrone) che, essendo molto meno penetrante della radiazione Gamma, dissipa l'energia ad essa associata nei distretti in cui il radiofarmaco si è concentrato. I radiofarmaci usati in terapia devono mostrare una rapida clearance dal sangue e dagli altri tessuti, in modo da minimizzare il danno a quelli sani. in tal modo si può veicolare una dose di radiazione ionizzante in specifici siti patologici, per lo più tumorali, danneggiando, ed eventualmente eliminando, le cellule neoplastiche lasciando pressoché indenni quelle sane. La somministrazione sistemica di radiofarmaci, progettati per la localizzazione selettiva nel sito tumorale offre l'importante opportunità di trattate sedi metastatiche secondarie sconosciute. Ostacolo principale a un'ampia diffusione di tale pratica terapeutica, utilizzata da più cli quaranta anni per il trattamento patologie tiroidee mediante radioiodio, e la difficoltà di produrre molecole, opportunamente radiomarcate, a elevata selettività per i vari tessuti bersaglio. STATO DELL’ARTE Attualmente, la medicina nucleare utilizza, in più dell' 80% delle applicazioni diagnostiche SPECT radiofarmaci che contengono l'isotopo metastabile del tecnezio-99. Le ragioni del successo di tale radioisotopo si riassumono nelle seguenti proprietà: 1) emissione di radiazione monocromatica di energia abbastanza bassa, tale da non recare danni biologici collaterali, ma con alta resa di captazione esterna, ottimale per la rivelazione con gamma-camere o scanner rettilineo; 2) assenza di emissioni corpuscolari (alfa e Beta-), il che consente di somministrare al paziente dosi piuttosto elevate pur mantenendo basso il livello di radiazione assorbita; 3) tempo di dimezzamento di 6,02 ore, sufficiente per sintetizzare il radiofarmaco, controllarne la purezza, iniettarlo nel paziente e condurre l'indagine, minimizzando l'esposizione del paziente e dell'ambiente alla radiazione 4) facilità di approvvigionamento e costi relativamente bassi del pertecnetato di sodio Na[**99mTcO4], materiale di partenza per la preparazione cli tutti i radiofarmaci basati su 99mTc, ottenuto dal generatore (1) 99Mo/99mTc, ampiamente usato nella i clinica; 5)presenza (per l'elemento Tc) di numerosi stati di ossidazione, da -1 a +7, che garantiscono grande versatilità chimica e quindi ampia possibilità di sintesi di potenziali agenti di imaging. La prima applicazione clinica del tecnezio come radiofarmaco fu condotta alla metà degli anni Sessanta all'Università di Chicago, dove Paul Flarper utilizzò il Na[Tc04], eluito dal generatore di 99Mo-99mTc sviluppato nei laboratori di Brookhaven, ottenendo immagini di fegato, cervello e tiroide 111. Successivi sviluppi di questo nuovo ma fiorente ramo della medicina e della sintesi inorganica portarono alla messa a punto di radiofarmaci come 99''Tc-DTPA (DTPA = acido dietilenTriammina- penta-acetico) per immagini renali 121, 99mTc-MD1) (MDP = metilendifosfonato) per immagini scheletriche [31, 99"rfc-HID.A (HID.A = acido imminodiacetico) per immagini epatobiliari [41, tuttora utilizzati per scopi clinici in medicina nucleare. Lo sviluppo dei radiofarmaci del tecnezio ha conosciuto il suo apice negli anni Novanta, con l'immissione in commercio di agenti utilizzati nella valutazione diagnostica funzionale di organi quali cuore, cervello e reni, La chimica di coordinazione del tecnezio ha rivestito un ruolo cruciale in tutti questi sviluppi. Per questi composti, infatti, biodistribuzione e accumulo dipendono unicamente dalle caratteristiche chimico-fisiche (lipofilia, carica e dimensione) del complesso. Solitamente, i radiofarmaci del tecnezio sono prodotti a partire dai cosiddetti cold trito kit inattivi; questi ultimi sono polveri liofilizzate, preparate in condizioni asettiche, che possono essere ricostituite con una soluzione di Nar1Tc0„1, in modo da formare complessi iniettabili di `"'""Tc. Attualmente, le procedure diagnostiche medico-nucleari SPECT vedono tre grandi campi di applicazione: cardiologia nucleare, imaging, funzionale e oncologia (arpe!. specifica. L'indagine SPECT riveste un ruolo cruciale in cardiologia tanto che circa la metà delle oltre 70.000 procedure di immaging che vengono effettuate ogni giorno nel mondo sono condotte usando gli agenti di perfusione cardiaca. Myoview" e Cardiolite". La sintesi di nuovi radiofarmaci basati su '1)"'Tc costituisce tuttora un attivo campo dí studio. In particolare, l'attività di ricerca è finalizzata sia all'ottimizzazione degli agenti di perfusione, che alla progettazione e allo sviluppo di agenti target specifici destinati all' imaging oncologico, settore che deve ancora conoscere il suo pieno sviluppo. La tecnica PET utilizza nuclei emettitori di positroni (emissione [3'), la cui sintesi richiede la disponibilità di acceleratori di particelle, quali ad esempio un ciclotrone, ubicati nei pressi del 1.0° mogia fo. Per questo motivo, la PET risulta una tecnica più complessa e costosa di quella SPECT e questo spiega la sua più lenta e ridotta diffusione. L'uso clinico attuale vede l'impiego di isotopi di atomi leggeri. Si possono produrre isotopi con emissione f3* di atomi presenti in abbondanza in ogni organismo vivente, quali carbonio, azoto e ossigeno. In linea di principio, sarebbe possibile preparare numerose molecole racliomarcate con questi emettitori di positroni; in realtà, ciò non è possibile, perchè i tempi di emivita degli isotopi emettitori dei nuclei appena citati sono molto brevi (20' per "C, 10' per 13.N e solo 2' per 150). In pratica, soltanto con "C e possibile attuare dei processi di sintesi che giungano a molecole marcate. Con la tecnica PET assumono valenza di farmaco sostanze di per se tossiche, quali monossido di carbonio C 'CO o C50) o ammoniaca C3NITU), che, preparate direttamente nel ciclotrone, possono essere somministrate senza danno ai pazienti, dato che le concentrazioni necessarie per ottenere una immagine PET risultano essere sub-tossiche per l'organismo umano. Quanto all'uso dei radionuclieli sopra citati, 13N11 è usato come agente di perfusione, soprattutto in cardiologia, per la misurazione del flusso sanguigno miocardico, ed anche per studi sul metabolismo, come pure per studi di perfusione dei rumori in oncologia. "CO e/o C'50 sono invece usati nelle neuroscienze, per la misura del flusso ematico cerebrale regionale (rCBF), o per indagare l'anatomia funzionale del cervello) in campi come le neuroscienze cognitive, la linguistica, l'attenzione selettiva o per mi- stirare l'effetto di droghe. Composti contenenti 1'C naturalmente possono essere usati per valutare l'espressione di determinati recettori, sia a livello cerebrale sia in determinati tipi cli tumori. Largamente usato nelle analisi PET è l'isotopo (3* emettitore del fluoro, "T, che, avendo un tempo di emivita di quasi due ore, permette la produzione di molecole marcate anche a distanza dal centro di analisi, il quale non deve quindi essere necessariamente dotato di un acceleratore di particelle. ll fluoro, anche se presente negli organismi umani, non è largamente diffuso come carbonio, ossigeno e azoto, ma reazioni chimiche che portino alla sostituzione di mi gruppo ossidrilico, OH, con un fluoro, E, sono di agevole e rapida esecuzione. in questo modo uno zucchero quale il glucosio, C6TI1106, può diventare fluorodesossiglucosio C,T.71-11105 (FDG,). La molecola modificata entra nell'organismo, percorrendo la via del glucosio, segnalando tutte le patologie collegate ad un suo assorbimento anomalo rispetto alla condizione fisiologica. Vale la pena di ricordare che la richiesta cli glucosio è motto elevata dove siano presenti metastasi, sia ossee che linfonodali. Questo fa sì che le lesioni risultino rilevabili, anche quando la loro dimensione le renderebbe invisibili ad altre tecniche diagnostiche. Indagini ancora più accurate possono essere condotte abbinando a un'indagine PET una TAC (Monografia Assiale Computerizzata ai raggi X). La successiva diagnosi si avvale della lettura simultanea delle due immagini ottenute che vengono sovrapposte; si parla, in questo caso, di PET/CT. L'immagine PET è in grado di rilevare un eventuale danno, che la TAC non sarebbe in grado di rappresentare, ma non riuscirebbe a collocarlo spazialmente con la precisione che la tomografia ai raggi X è in grado di dare. Naturalmente lo stesso vantaggio si può ricavare anche nella diagnostica di tipo SPECT e si parlerà oli S P ECT/ CT. PROSPETTIVE Nel trattamento radioterapico di pazienti oncologici (2), la diagnostica per immagini è stata utilizzata per definire il sito a cui la radiazione deve essere consegnata. L'introduzione di tecniche di imaging molecolare multimodale (SPECT/CT, PET/CT) ha creato nuove opportunità per svelare la complessa biologia dei tumori. In anni recenti, Bentzen [5] ha proposto il termine theragnostic (in italiano, teragnostica o teranostica che indica la fusione di due discipline, la terapia e la diagnostica, per descrivere l'uso dei dati di imaging funzionale e molecolare e rappresentare la distribuzione delle dosi di radiazione in quattro dimensioni (le tre dimensioni spaziali più il tempo). Più in dettaglio, questo metodo si riferisce all'uso eli informazioni derivanti da immagini mediche per stabilire come trattare i singoli pazienti dal punto di vista terapeutico. Questo tema di ricerca è senza dubbio una sfida che potrebbe rivoluzionare i processi di pianificazione ed esecuzione della radioterapia. Per sfruttare appieno il potenziale curativo offerto dalla moderna radioterapia di alta precisione sono necessarie immagini di alta qualità diagnostica che consentano l'identificazione dei volumi bersaglio. La radiazione diventa, quindi, un agente terapeutico che può essere modulato nelle quattro dimensioni dello spazio e del tempo e la dose può essere determinata con elevata precisione per produrre localmente un effetto specifico nella misura desiderata. Se da un lato la diagnostica costituisce l'orizzonte futuro di convergenza della diagnostica per immagini e della radioterapia oncologica, lo stesso termine potrà essere utilizzato in contesti più ampi. Poiché i radionuclidi offrono il vantaggio di emettere radiazioni (li utilità radiobiologica c' raggio d'azione diversi, in un futuro prossimo sarà possibile scegliere un radionuclide (o una coppia di radionuclidi) che, per le sue specifiche proprietà nucleari, può essere impiegato nello stesso paziente sia per imaging molecolare che per la terapia inaugurando l'era della medicina personalizzata. idealmente, questa applicazione richiede l'uso, quando possibile, (li uno stesso radionuclide teragnostico, o, in alternativa, (li una coppia di radionuclidi che siano isotopi dello stesso elemento o costituiti da elementi diversi tua con proprietà chimiche molto simili. Sebbene da un punto di vista teorico il quadro sia chiaro, più difficile è al momento presente offrire esempi concreti di applicazione. Allo stato attuale, ,si può dire che la coppia più promettente dello stesso elemento è quella degli isotopi di rame, mentre quella costituita da elementi con proprietà chimiche molto simili è la coppia 99"'111c/1"8Re (4.). Questa:AMI:la, alla luce dei recenti studi sul trattamento palliativo del dolore osseo mediante somministrazione di loro composti con difosfonati (quali HEDY' 1-i(lrossietano- 1,1-difostbnato e 1-1MDP idrossimetilendifosfonato) nei pazienti metastatici, potrebbe essere la prima associazione cli radionuclidi a trovare applicazione clinica 161 • BIBLIOGRARA [11 HARPER P.V., I.AEnRop K., GOTTSCHALK A., Ruchociclice PharmaceidicaLs- (Washington, DC, 15.5, Atomi(' Energy Commissioni, 1964, 335. [21 ECKELMAN W., RICHARDS P., j Nuc/..11ed., 1970, 11, 761. 131 SUBRAMANIAN G., McAFEE J.G., BLAIR R.J., O'MAM, R.E., GREENE M.W., LEBOWIrz E.,/..\91c/. Med., 1971, 12, 558; SUBRAMANIAN G., MCAFEE, J.G., Radiologi), 1971, 99, 192.; SUBRAMANIAN G., MCAFEE J.G., BELI, E.G., BLAIR O'MARA R.E., RALSTON P.H., Rcidfoiogr, 1972, 102, 701; SUBRAMANIAN G., MCAFEE J.G., BLAIR METHER A., CONNOR T.J., And. Med., 1972, 13, 947; SUBRAMANIAN G., MCAFEE J.G., BLAIR R. J., ROSENSTREICH M., Calco M., DUXIIURY C.E., T. Nuci. Med., 1975, 16, 1137, SUBRAMANIAN G., MCAFEE J.G., BuuR R.J., KALLFELZ A., THomns F.D., J. ,Vuol. Med., 1975, 16, 744: ARNOLD R.W., SUBRAMANIAN G., MCAFEE J.G., BLAIR R.J., THOMAS, F. D., J. Nucl. Med., 1975, 16, 357. 141 LORERG M.D., COOPER M., HARVEY R., CALLERY P., FAITH W., J. Nucl. Med., 1976, 17, 6.35. 151 BENTZEN S.M., Lance/ Onc)ol-21', 2005, 6, 112. [61 SRIVRASTAVA S.C., 1///la and Other ClAan- iStly and 3 Editori: M \zzi U., EcKra.mAN W.C., VoiKEitr W.A., 2010. XXV-XLIV. Cristina Balzati è ricercatore presso l'Istituto di Chimica Inorganica e delle Superfici del CNR. Alessandro Dolmella è professore associato presso il Dipartimento di Scienze del farmaco dell'Università di Padova. Luciana Maresca è professore a contratto presso l'Università di Bari. _______________________________________________________________ Il Giornale 2/11/2012 CHI COMANDA AL SAN RAFFAELE? PROF IN GUERRA CON LE «SIGILLE» UN'ISTITUZIONE NELLA BUFERA La vecchia guardia non molla Il cda dell'Università nomina presidente Raffaella Voltolini e consigliere Gianna Zoppei, fedelissime di Don Verzè, Ma docenti e medici le bocciano di Stefano Zurlo Il blitz è scattato il 24 ottobre. I fedelissimi di don Verzè hanno blindato, come un castello medioevale, l'Università Vita-Salute. Nei corridoi del San Raffaele, ammaccato dopo la tempesta, qualcuno, giocando con le suggestioni della storia, paragona 1' operazione a quella vagheggiata da Mussolini nell'aprile '45, quando il Duce si era messo in testa di continuare la guerra nella ridotta della Valtellina. Solo che questa volta la trincea è stata scavata e occupata per davvero. Dopo la morte di don Verzè e il drammatico suicidio del suo braccio destro Mario Cal, dopo il passaggio dell' ospedale nell' orbita di Giuseppe Rotelli e del suo gruppo e il varo di un piano di risanamento lacrime e sangue, con il via a 244 licenziamenti, ora la guerra si sposta all'interno dell'ateneo che formalmente è rimasto nelle mani delle persone più vicine al sacerdote veronese, insomma i Sigilli. E i Sigilli, attraverso l'Associazione Monte Tabor, si sono asserragliati nell'università, bloccando ogni forma di mediazione con la nuova proprietà, che pure ha il possesso dei muri, e anzi marcando le distanze da qualunque tentativo di svecchiare un ambiente segnato da gravi scandali e ruberie. Per carità. Il San Raffaele era e resta, al di là di ogni errore, un gioiello frutto della mente visionaria di don Verzè, ma gli eventi che si sono succeduti avrebbero dovuto consigliare un cambio della guardia. Le tangenti. Gli ammanchi e gli sprechi. La bancarotta con quasi un miliardo e mezzo di debiti. Il sangue di Cal sotto la cupola del Ciborio che svetta sulla tangenziale. I professori delle tre facoltà - filosofia, psicologia e soprattutto medicina, il cuore dell'istituzione - si erano espressi per un passaggio morbido delle consegne e invece i124 ottobre il cda si è riunito in corsa e senza tanti pro- cl ami ha cambiato p elle. Ora il presidente è Raffaella Voltolini, da una vita insieme a don Verzè, e con lei nel cda è entrata Gianna Zoppei, presidente della Monte Tabor, pure vicina al sacerdote. Per usare un'espressione alla moda, anche se banale, Voltolini e Zoppei facevano parte del «cerchio magico» che ha circondato il prete sin dall'inizio della sua avventura. Il nuovo rettore è Antonio Scala, per un quarto di secolo professore di Chimica alla Statale di Milano; Scala ha accettato l'incarico pur sapendo che la sua nomina avrebbe provocato malcontento fra i colleghi che vogliono traghettare l'università verso il futuro. Invece, Raffaella Voltolini nel suo discorso di insediamento ha sottolineato che il suo incarico di presidente, pur definito «onerosissimo», era stato «preconizzato, anzi voluto e chiesto da don Luigi invia testamentaria». Insomma, il marchio di fabbrica, a dispetto di tutto quello che è successo, resta sempre lo stesso. E invece il Senato accademico, che nel consiglio appena rifatto è in posizione di minoranza con due soli membri su sette - il preside di medicina Massimo Clementi e quello di psicologia Michele di Francesco - è sempre più preoccupato perché ritiene che la nuova leadership non sia assolutamente all'altezza del compito e mostra di non voler assolutamente collaborare con Rotelli che pure si era speso in queste settimane per cercare un contatto con i Sigilli. Il timore, palpabile, è che i vertici appena insediati non riescano a mantenere il profilo di autorevolezza e spessore scientifico che sta alla base dell'istituzione. La Voltolini, nella sua prolusione, dopo essersi messa al riparo del testamento, ha accennato con toni apocalittici al rischio di «imbastardimento». Un concetto cui i docenti si preparano a rispondere con un documento che circola nei corridoi di via Olgettina. Per il corpo insegnante è impensabile che un tempio del sapere, spazio della libertà e della creatività, possa esser guidato, anzi commissariato per via testamentaria. Disperdendo il patrimonio di ricerca e umanità costruito in tanti anni.Il preside di medicina e i presidenti dei corsi di laurea, sette-otto persone, hanno deciso di rimettere le loro cariche nelle mani del ministro Profumo e molti professori avrebbero già firmato il testo che boccia in toto la linea Zoppei-Voltolini. Anzi, per essere chiari fino in fondo, sfiducia direttamente le due Sigille, ritenute corresponsabili del disastro di cui si sta occupando la Procura di Milano. E fra i banchi e le cattedre si leggono frammenti di verbali poco edificanti. Fra gli altri, quelli di Stefania Galli, segretaria di Cal: «Del contante lo sapevano Valsecchi, Danilo Donati, la Voltolini e la Zoppei». Anche se, va detto, non risulta che le due donne siano al momento indagate. Per correre ai ripari, questa estate gli insegnanti avevano tenuto le loro primarie e avevano espresso una terna di nomi per la carica di rettore: Alberto Zangrillo, primario di anestesia e rianimazione, noto per essere il medico che segue Berlusconi; Claudio Rugarli, ordinario di medicina interna; Luigi Pozza, diabetologo di fama internazionale. Ma i tre nomi, pur prestigiosi, sono stati appallottolati e buttati nel cestino: «Sono state considerate - afferma un comunicato - le preferenze espresse dal Corpo accademico, giudicate tuttavia non sufficientemente rappresentative di una convergenza forte sulle candidature stesse». Lo scontro si annuncia duro e pure i medici specializzandi prendono posizione contro lo strapotere dei Sigilli in ateneo. «È con sincera preoccupazione e rammarico che apprendiamo, per vie non ufficiali, la frattura che si è determinata fra corpo docente e amministrazione universitaria che espone tutti gli specializzandi e tutti gli studenti alla più desolante incertezza. Riteniamo che le recenti decisioni mettano a rischio _______________________________________________________________ Il Giornale 3/11/2012 LA RIVOLTA DEL SAN RAFFAELE FINISCE SUL TAVOLO DEL GOVERNO UN'ISTITUZIONE NELLA BUFERA Lo scontro di potere La nuova proprietà ha cercato un contatto con i vertici dell'università ma senza successo. E ora aspetta la mediazione del ministro Profumo Due documenti drammati ci. Due visioni opposte del sapere. Due mondi che si scoprono incompatibili. È scontro, scontro aperto dentro l'università Vita-Salute dove la vecchia guardia, quella dei fedelissimi di don Verzè, non vuole cedere il passo ai professori che vorrebbero voltare pagina. Raffaella Voltolini, appena nominata presidente del cda dell'ateneo, scrive parole infuocate facendosi scudo del testamento di don Verzè, la Giunta di presidenza di Medicina, il cuore dell'istituzione, le risponde punto per punto rispedendo il messaggio al mittente. Fra i Sigilli, che hanno accompagnato il sacerdote veronese per una vita, e il corpo docente, particolarmente quello di Medicina che è un po' la vetrina del San Raffaele c'è una distanza ormai incolmabile. Sullo sfondo, naturalmente, le peripezie e i disastri di un ospedale che è diventato nel tempo un vero e proprio marchio di eccellenza della sanità italiana e ora rischia di essere travolto da debiti, scandali, ruberie. Oggi il complesso è nelle mani di Giuseppe Rotelli e del suo gruppo e proprio nei giorni scorsi, per venire fuori dagli scogli dei debiti arrivati alla vertiginosa cifra di 1,5 miliardi di euro, Rotelli ha dato il via a un piano di tagli che passa anche attraverso 244 dolorosissimi licenziamenti. Ma la vecchia classe dirigente, quella che ha condiviso con don Verzè le glorie della fama internazionale e ha poi assistito al declino, quasi un tonfo, di quel modello, fra arresti e suicidi, non ha ammainato le vele. Invece di congedarsi, come capita nel bene o nel male quando una stagione finisce, combatte fra le cattedre e i banchi di quella che solo apparentemente è una provincia dell'impero. Il 24 ottobre Raffaella Voltolini è diventata presidente del cda, sconfessando tutte le istanze di rinnovamento avanzate da docenti e studenti. E nel suo discorso di insediamento rivendica la continuità con l'esperienza precedente. «Oggi - afferma Voltolini - vengo chiamata ad assumere un incarico che, benché preconizzato, anzi, voluto e chiesto da don Luigi in via testamentaria, non è certo uno di quelli che può far sentire in qualche modo degno o meritevole. È un compito onerosissimo». Concetti, come si vede, espliciti. Al di là dei toni c'è la volontà di andare avanti. Comunque. Quasi di fermare il tempo. Una scelta che la Giunta di presidenza di Medicina respinge all'unanimità: «Il fatto che la carica di vertice di un'istituzione accademica che propugna valori e contenuti di libertà decisionale e metodologie meritocratiche venga trasferita per via testamentaria, quasi in linea ereditaria, è inaccettabile, soprattutto in un'istituzione che iscriva altri valori nel Dna dell'insegnamento da proporre ai suoi studenti». Alla monarchia più o meno costituzionale dei Sigilli, che hanno incoronato Raffaella Voltolini come presidente e Antonio Scala, per un quarto di secolo docente di chimica alla Statale, come rettore, il corpo insegnante replica inneggiando alla repubblica costruita sulla libertà e sul talento. Senza però perdere di vista quel che è successo. I professori sanno benissimo che il nuovo padrone dell'ospedale semisommerso dalle perdite è Giuseppe Rotelli che non è un cavaliere bianco, ma un imprenditore entrato in un campo delicatissimo. Nessuno vuole osannarlo, ma nemmeno demonizzarlo. E però la Voltolini parla apertamente del rischio che la nave naufraghi, imbastardendosi. Per la Giunta «questo atteggiamento non è più accettabile da parte della comunità accademica». Non basta. «È del tutto chiaro – si legge nel documento che circola in università - come l'attuale leadership del nostro ateneo sia stata incapace di condurre in porto la trattativa per una imprescindibile piena collaborazione con la realtà ospedaliera in cui noi tutti operiamo». Insomma, la bocciatura è definitiva, come si comprende dalle ultime righe del testo. «Questa leadership dovrebbe lasciare ad altri il compito di traghettare questo ateneo nel futuro, liberandolo dalle scorie del passato che, se da una parte ha creato il San Raffaele, con l'eccellenza che la nostra istituzione rappresenta, dall'altra rischia di impedirne il rilancio». Come si vede, la rottura è insanabile Il cda, il vecchio che si fa nuovo, resiste come una testuggine. Il corpo docente cerca una via d'uscita a una situazione che non piace a nessuno. Il preside di medicina, Massimo Clementi, e i presidenti dei corsi di laurea hanno stabilito di andare avanti con l'insegnamento, per non creare problemi agli studenti già disorientati dia troppi temporali, ma hanno anche deciso di rimettere il loro mandato nelle mani di Francesco Profumo. Si aspetta solo l'incontro con il ministro per formalizzare il passo indietro. Anche i medici specializzandi sono sul piede di guerra e hanno messo sulla carta le loro inquietudini: «Pur non essendo di nostra competenza la scelta delle figure istituzionali, riteniamo che le recenti decisioni mettano a rischio il percorso formativo dell'Università Vita- Salute San Raffaele». Rotelli, fra le altre cose primo azionista, sia pure fuori patto, del Corriere della sera, ha cercato un contatto con i vertici dell'ateneo, ma, a quanto pare, senza risultato. Si aspetta Profumo. E il suo tentativo di mediazione. (2. fine) Il fallimento Il 23 marzo del 2011 viene dichiarata la crisi finanziaria del San Raffaele. 11 30 giugno i debiti certificati ammontano a un miliardo e mezzo di euro Il suicidio Il 18 luglio del 2011 Mario Cal, îl braccio destro di don Luigi Verzè, si uccide nel suo ufficio. Il fondatore del San Raffaele morirà il 31 dicembre ll salvataggio II 10 gennaio del 2012 il San Raffaele viene acquistato per 450 milioni da GiuseppeRotelli, fondatore del gruppo ospedaliero San Donato _______________________________________________________________ Repubblica 1/11/2012 INFLUENZA ADDIO "ARRIVA IL VACCINO CHE DURA UNA VITA" CARL ZIMMER L’influenza comincia a farsi sentire. Quest'anno medici e farmacisti hanno un nuovo stock di vaccini da offrire ai pazienti. Di solito questi forniscono una protezione a tempo contro il virus. Se i vaccini per le altre malattie durano anni o perfino decenni, contro l'influenza bisognerà vaccinarsi di nuovo il prossimo autunno. «È l'unico vaccino che aggiorniamo di anno in anno», dice Gary J. Nabel, direttore del Centro ricerche sui vaccini americano (Vrc) National Institute of Allergy and Infectious Diseases. È sempre stato così da quando, negli anni Cinquanta, venne creato il vaccino antinfluenzale. Tuttavia, diversi studi fanno sperare nella creazione di vaccini di lunga durata. «L'obiettivo è far fare due vaccinazioni da giovani e alcuni richiami nel corso della vita», dice Nabel e aggiunge che verrà raggiunto in pochi anni. Questo vaccino aiuterebbe a combattere le epidemie influenzali stagionali, che ogni armo uccidono circa 500.000 persone. In un articolo pubblicato sulla rivista Influenza and Other Respiratory Viruses, Sarah Gilbert, dell'Università di Oxford, sostiene che i suoi benefici potrebbero essere maggiori. A intervalli regolari, si diffonde nel mondo un tipo di influenza radicalmente nuovo. Si stima che la pandemia del 1918 abbia ucciso 50 milioni di persone. Oggi gli scienziati non sono in grado di mettere spunto un vaccino per una nuova pandemia se non dopo che si sia diffusa. Un vaccino universale potrebbe combatterla subito. «Una vaccinazione universale con vaccini universali metterebbe fine alla minaccia di un disastro globale causato da una pandemia» scrive Gilbert. I vaccini migliorano la protezione offerta dal sistema immunitario. Nella battaglia contro l'influenza la maggior parte del lavoro è svolta da due tipi di cellule immunitarie. I linfociti B producono anticorpi che possono agganciare i virus in circolazione impedendo dì entrare nelle cellule. Se invece questi entrano, il corpo ricorre a un'altra difesa. Le cellule infette raccolgono alcune proteine del virus e le attaccano sulla propria superficie. Delle cellule immunitarie, note come linfociti T, ci passano sopra e se i loro recettori agganciano le proteine del virus, riconoscono che la cellula è infetta; a quel punto, i linfociti T liberano delle molecole che uccidono la cellula. Oggi i vaccini antinfluenzali proteggono le persone dal virus consentendogli di creare in anticipo gli anticorpi. Il vaccino contiene frammenti di una proteina che si trova sulla superficie del virus, detta emoagglutinina. I linfociti B che incontrano i frammenti del vaccino imparano come creare gli anticorpi e, quando le persone vaccinate si infettano, li scatenano rapidamente contro il virus. Ma il vaccino tradizionale protegge solo contro virus influenzali con una emoagglutinin a corrispondente. La sfida è sfuggire a questo ciclo con un vaccino che può agire contro ogni tipo di influenza: un antidoto universale in grado di attaccare una parte del virus che muta poco di anno in anno. Gilbert e i colleghi di Oxford stanno cercando di realizzare un vaccino basato sui linfociti T: hanno scoperto che, quando questi imparano a riconoscere le proteine di un virus, possono attaccarne molti altri tipi. Anche altri ricercatori stanno elaborando su questo tipo di farmaci. La prima intuizione che esistano questi anticorpi risale al 1993.Alcuniricercatori giapponesi infettarono dei topi con il virus influenzale H1N1 e scoprirono che questi animali erano protetti anche rispetto all'influenza H2N2. Dopo oltre 15 anni lan Wilson e i colleghi dello Scripps Research Institute hanno cominciato a isolare anticorpi che offrono questa protezione ampia per dimostrare il loro funzionamento. Hanno capito che aggrediscono parti diverse del virus influenzale rispetto a quelli prodotti oggi. I vaccini attuali stimolano i linfociti B a creare anticorpi che riattaccano sulla superficie della proteina emoagglutinina. Recentemente è stato scoperto un nuovo anticorpo che si inserisce invece in un solco sulla superficie dell'emoagglutinina e riesce a fissarsi a un'ampia gamma di virus influenzali. Altre ricerche invece hanno isolato un anticorpo in grado di bloccare l'influenza A e B. Ora la sfida è capire come fare perché il corpo li produca. «Questo è un problema strutturale dell'immunologia», dice Nabel. (Traduzione di Luis E. Moriones - Copyright New York Times -La Repubblica) __________________________________________________ Corriere della Sera 4 Nov. 12 L'«ASTENSIONISMO»NELLE VACCINAZIONI N on c'è solo l'antipolitica. L'astensionismo sta coinvolgendo anche il mondo delle vaccinazioni, almeno quelle contro l'influenza. Così come gli scandali nazionali e regionali creano un clima di sfiducia nella politica, anche le cattive notizie relative a blocchi e ritiri di partite di vaccini antiinfluenzali, perché risultate contaminate ai controlli, stanno incrementando le schiere degli scettici della salute. È quanto emerge da un'indagine, realizzata dall'Ispo di Renato Mannheimer, che verrà presentata il 9 novembre. La ricerca è stata commissionata da Tell Me, progetto finanziato dalla Commissione europea, che ha l'obbiettivo di "insegnare a comunicare" durante le epidemie influenzali. I risultati ci dicono che il 5% degli italiani ha deciso di non immunizzarsi dopo le prime notizie di vaccini "avariati", e che il 14% ha espresso dubbi sull'opportunità. Se aggiungiamo un 18% di persone che già era contrario alla vaccinazione e l'ampia quota di chi si dichiara disinteressato al problema (diciamo così, le "schede bianche"), scopriamo che l'astensionismo supera la metà della popolazione. Come alle elezioni siciliane. La causa della diffidenza crescente viene indicata nel "fallimento comunicativo", al modo allarmistico o poco trasparente con cui sarebbero state date le notizie sui problemi dei vaccini. Sarà anche vero. Ma questo "fallimento comunicativo" non vorremmo che assomigliasse molto al "fango mediatico" di cui parlano di solito i politici indagati. __________________________________________________ Corriere della Sera 4 Nov. 12 L'INVASIONE DEGLI E-DOTTORI di ADRIANA BAZZI D ue anni fa Tony Steel, un medico di famiglia inglese, ha creato un sito web (www.doctorfox.co.uk, per inciso, fox vuol dire volpe) dove visita virtualmente i pazienti e prescrive farmaci con ricette elettroniche. Certo, non per tutte le malattie, ma quando si tratta, per esempio, di affrontare un'allergia ai pollini o risolvere un problema di impotenza o suggerire una profilassi antimalarica per viaggiatori. I dottori online si stanno moltiplicando e offrono (a pagamento) pacchetti completi di consulti e prescrizioni. E sollevano una serie di problemi, come il British Medical Journal ha giustamente sottolineato, che devono essere presi in considerazione nell'ipotesi che questa tendenza si diffonda (in Gran Bretagna il sito del DrFox conta 2.500 visitatori al giorno). Secondo gli e-doctor, le opportunità offerte da Internet fanno risparmiare tempo ai pazienti (e ai medici che, in un'ora, possono rispondere a un centinaio di persone), facilitano il dialogo su questioni imbarazzanti (per esempio, problemi legati alla sfera sessuale) e sembrano essere apprezzate dai fruitori (i commenti, nei vari siti, sono spesso positivi). Si può essere d'accordo su alcuni punti, ma ci si deve anche chiedere dove sta andando a finire il rapporto medico-paziente (un faccia a faccia, fondamentale per l'esito della cura) e l'«umanizzazione» della medicina (il paziente vuole anche un contatto fisico con il curante). Non solo: esiste anche un problema di certificazione di questi siti. Chi applica il marchio di qualità? In Gran Bretagna esistono enti certificatori, ma che cosa succede in altre situazioni? E c'è infine una questione di equità: se l'accesso è a pagamento, chi non ha possibilità economiche rischia di essere discriminato e di non poter usufruire di questi servizi. Tante domande, dunque, in attesa di risposte. Ignorare quello che Internet può offrire, oggi, in campo medico non si può, occorre aprire un dibattito e mettere sui due piatti della bilancia i vantaggi e i limiti della salute online. E poi vedere da quale parte pende. abazzi@corriere.it _______________________________________________________________ Panorama 1/11/2012 È PARTITO IL PROGETTO GENOMA ITALIA: Che cosa avrà portato di nuovo alle nostre conoscenze il Progetto genoma Italia, a 50 anni da oggi? È saggio non essere mai troppo precisi quando si parla del futuro, perché è facile essere poi smentiti (anche se solo chi oggi è giovane ha buone probabilità di essere vivo fra 50 anni, e difficilmente se ne ricorderà). La domanda però è sensata, perché il lavoro presente contribuisce a costruire il futuro; la ricerca scientifica aiuta il progresso, ma i suoi obiettivi richiedono spesso tempi lunghi per essere conseguiti. Uno sguardo agli antefatti: un Progetto genoma umano su scala mondiale è iniziato nel 1990 e si è concluso nel 2003, dopo avere sequenziato, per la prima volta, un intero filamento di dna umano, raccolto però da pochissimi individui. Il dna varia da persona a persona: cambiamenti minuscoli, ma ve ne sono milioni. Le differenze tra individui raramente superano piccoli valori percentuali di frequenza relativa, ma sono assai importanti, perché determinano le piccole diversità che fanno di ciascuno di noi un organismo unico e particolare. Alcune variazioni sono visibili a tutti, come quelle nel colore di occhi e capelli e nella corporatura, mentre moltissime riguardano la struttura chimica e il funzionamento del nostro corpo e si osservano meglio nel dna. È così diventato operativo il Progetto della diversità genomica umana, nato per mettere a disposizione un campione di sangue di individui di oltre 50 popolazioni del pianeta, per l'analisi dei rispettivi dna. Negli ultimi dieci anni, lo sviluppo delle tecnologie di sequenziamento ha reso possibile l'analisi dei genomi in modo sempre più completo, veloce, preciso ed economicamente accessibile. È nato quindi anche il Progetto genoma Italia, che si propone di scandagliare il dna degli abitanti della penisola raccogliendo dati sia con il campionamento diretto sia da altre ricerche pubblicate. Cosa ci ripromettiamo dallo studio dei genomi di un paese? I benefici fondamentali sono di tipo medico. La conoscenza del nostro organismo, nella sua struttura (l'anatomia), nel funzionamento delle sue parti (la fisiologia) e nelle malattie che lo colpiscono (la patologia) è ciò che rende possibile alla scienza medica spiegare cause e sintomi della malattia e organizzarne diagnosi, cura e prevenzione. La speranza di una terapia si basa su tali conoscenze e sull'efficacia delle cure specifiche. Naturalmente, vale sempre la pena di lavorare anche e. soprattutto sulla prevenzione, che può evitare l'insorgenza della malattia e il ricorso alla terapia, o almeno facilitare quest'ultima. Lo studio di una popolazione umana, con l'obiettivo di conoscerne à in dettaglio le caratteristiche genetiche, fornirebbe un validissimo appoggio a questa medicina preventiva, e quindi anche alla terapia. C'è un'altra ragione, di grande interesse intellettuale e sociale, ossia il contributo che potremmo ricavarne per conoscere la storia del nostro Paese. Qualsiasi paese è eterogeneo sul piano genetico e per capirne la storia bisogna partire dall'origine del suo popolamento. Qui scienze naturali e umanistiche si incontrano e devono darsi la mano per ricostruire la doppia storia delle popolazioni che hanno formato un Paese come il nostro, quella della loro biologia e quella della loro cultura. Da questo punto di vista l'Italia è un laboratorio di studio ideale, perché la nostra storia è fra le più varie e meglio conosciute, con oltre 2.500 anni di testimonianze scritte e una ricchezza di fonti archeologiche che si spinge fin nella notte dei tempi. Tutta l'Europa ha una storia documentata quasi altrettanto antica, ma ciò che è così speciale nella nostra è la varietà di popolazioni che hanno abitato la penisola, lasciando tracce genetiche e culturali. A questo si aggiunge la documentazione raccolta per gli ultimi 500 anni nei registri delle parrocchie, dove sono indicati nascite, matrimoni e morti, che permettono di ricostruire genealogie di ogni vivente per una ventina di generazioni. La combinazione di informazioni di natura genetica e medica e di dati di natura storico-demografica su vasta scala è di estremo interesse. Ora facciamo un balzo avanti di 50 anni. Immaginiamo che sia stato possibile superare le difficoltà tecniche, economiche e organizzative di una buona analisi genetica di un'intera popolazione. Supponiamo che l'Italia abbia investito seriamente nella ricerca scientifica. È diventato così possibile esaminare il genoma di un campione scelto accuratamente di tutti gli abitanti. Questo lavoro ci avrà permesso di spingere lo sguardo in profondità nel nostro passato. Arriveremo a riconoscere l'intreccio da cui si è formato il Paese, quali genti sono venute ad abitarlo e quando. Potremo ricostruire, in qualche misura, come i loro numeri sono variati nel tempo e come ciascun gruppo ha contribuito con la sua lingua e la sua cultura. Conosceremo la distribuzione odierna delle più frequenti malattie genetiche e l'incidenza di ciascuna in diverse province, quindi il grado di rischio in diverse aree. Questo ci permetterà, per esempio, un accurato screening prenatale, e avrà generato conoscenze fondamentali per orientare l'attività dei servizi di prevenzione, che potranno affiancare l'assistenza medica su scala nazionale. Con uno sforzo non grave, l'Italia potrebbe quindi diventare un modello per altri paesi, per il modo in cui vorremmo ricostruire la nostra storia e geografia biologica e culturale e insieme arricchire in misura notevole la nostra salute __________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 nov. 12 RISCALDAMENTO GLOBALE, OLTRE LE TEMPESTE ARRIVANO LE MALATTIE Oltre che in quelle, incomparabilmente più potenti, dei circoli politici, finanziari e scientifici dei paesi ricchi e industrializzati. La terra si sta facendo sempre più calda in conseguenza delle emissioni di anidride carbonio che tendono a crescere a ritmi sempre più sostenuti. Non è lo scatenarsi delle cieche forze della natura, trasformatasi da “madre generosa” in “spietata matrigna”, per riprendere una celebre frase di Plinio il Vecchio, la causa di disastri naturali come questo. Lo scioglimento dei ghiacci nell'Artico, l'aumento del livello dei mari, l'elevarsi delle temperature degli oceani - fenomeni collegati al riscaldamento globale - stanno facendo crescere le probabilità di eventi meteorologici estremi. Di fronte ai quali - ed è questa l'altra lezione da non dimenticare - è emerso il grado di vulnerabilità delle nostre società: argini, dighe e altre infrastrutture, costruite per far fronte ai rischi climatici estremi del ventesimo secolo, non sono più adeguate a quelli che ci annunciano gli anni a venire. La bellissima, immaginifica metafora, usata dal climatologo americano Wallace Broccker, appare la più appropriata a definire la situazione in cui siamo: «Il clima della terra è come una bestia arrabbiata che abbiamo stuzzicato con un bastone appuntito per un po' di tempo». Né quella “bestia arrabbiata” produce solo catastrofi meteorologiche, data l'influenza prodotta su fattori determinanti della salute umana, come acqua, aria e cibo. Ce lo ricorda l'Atlante mondiale delle malattie "sensibili al clima", lanciato, questi giorni, dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM). Numeri, mappe, tabelle, grafici mostrano l'inquietante evidenza dei collegamenti tra il cambiamento climatico e le malattie, in particolare quelle che affliggono i paesi più poveri e meno 'colpevoli': la malaria - un killer che uccide un milione di persone l'anno (la maggior parte bambini di età inferiore ai cinque anni) - si sta diffondendo in zone e aree climatiche un tempo immuni, anche a causa degli effetti del surriscaldamento globale. E, ancora: aumentano i casi di meningite, che esplode dopo le tempeste di sabbia. Per non parlare della diarrea e del colera. La malattia virale acuta, conosciuta col nome di dengue, aiutata dalle piogge torrenziali, potrebbe minacciare - dicono i ricercatori - due miliardi di persone in più al mondo entro il 2080. Le malattie trasmesse da vettori - si sa - sono considerate le più sensibili ai mutamenti climatici e ambientali. Da tempo è allarme rosso sulla diffusione delle infezioni trasmesse da artropodi vettori. Avanza la zanzara tigre, che in pochi anni, dopo essersi spostata dalla nicchia ecologica d'origine, l'Asia, e aver raggiunto gli Stati Uniti, è arrivata in Europa e in Italia, e anche qui da noi, in Sardegna. La "Febbre del Nilo" - che rientra tra le cosiddette "malattie emergenti" - cioè quelle comparse alla ribalta negli ultimi decenni - sta sostituendo antichi flagelli scomparsi e sta creando seri problemi di sanità pubblica. Insomma, ci stiamo pericolosamente avvicinando al punto di non ritorno, secondo gli esperti dei cambiamenti climatici. Che avvertono: per evitare il baratro occorrerebbe ridurre - entro il 2050 - la metà le emissioni di gas serra. Sandy, Frankenstorm è già storia e ci racconta che cosa potrebbe riservarci il futuro e con quali effetti su persone, società e culture. __________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Ott. 12 LA TBC FA ANCORA PAURA Anche in Europa non è del tutto debellata Massima attenzione alla tubercolosi. L'appello degli specialisti è allarmante. La malattia continua a rappresentare, a livello mondiale, una grave minaccia per la salute pubblica. Nonostante sia curabile, nell'ultimo anno sono stati registrati oltre 1,5 milioni di decessi, quasi 5000 al giorno; il 98% di questi era concentrato nei Paesi in via di sviluppo. I nuovi casi sono stati oltre 8 milioni, localizzati per l'80% in poco più di 20 Paesi ad alta endemia. L'Organizzazione Mondiale della sanità (OMS) ha stimato che circa un terzo della popolazione mondiale, due miliardi di persone, sia stata infettata e che di queste il 10% sia destinata ad ammalarsi. Sempre l'OMS ha lanciato di recente un allarme tubercolosi nei paesi dell'Est Europa, dove l'infezione è endemica, con dati di prevalenza e di incidenza molto alti (75% del totale europeo). Si calcola, ad esempio, che dei 70mila casi europei di tubercolosi multiresistente (che non risponde alla terapia di prima scelta ed anche ai principali farmaci di seconda linea) il 95% si registra nei paesi dell'Europa dell'Est. Questa forma di tubercolosi, definita tubercolosi a “resistenza estesa” si sviluppa in genere in pazienti trattati in modo inadeguato e si può trasmettere ad altre persone. È una malattia molto difficile da curare, con alti tassi di mortalità. Senza un miglioramento delle pratiche cliniche e lo sviluppo di nuovi strumenti diagnostici nonché di nuovi farmaci, l'eliminazione della tbc in Europa rimane una meta irraggiungibile. Le nuove forme di tubercolosi non sono più sensibili ai farmaci attualmente a disposizione, e non ne sono stati prodotti di nuovi. __________________________________________________ Sanità News 30 Ott. 12 IL COLESTEROLO ALTO PUO' ESSERE CAUSATO DALLA RESISTINA Un team di scienziati canadesi della McMaster University di Hamilton ha scoperto una possibile causa del colesterolo alto. Gli studiosi hanno rilevato che la resistina, un ormone secreto dal tessuto adiposo già associato a obesità e diabete 2, causa alti livelli di colesterolo 'cattivo', quello delle lipoproteine a bassa densità, aumentando il rischio di patologie cardiache. La ricerca presentata al Canadian Cardiovascular Congress dimostra che la resistina aumenta la produzione delle lipoproteine a bassa densita' nelle cellule del fegato umano. La resistina, inoltre, degrada i recettori delle lipoproteine a bassa densita' nel fegato. Come conseguenza, il fegato diventa meno capace di eliminare il colesterolo 'cattivo' dall'organismo. La resistina, infatti, accelera l'accumulo di colesterolo nelle arterie, amplificando il pericolo di insorgenza di malattie al cuore. La ricerca coordinata da Shirya Rashid dimostra anche che la resistina impatta negativamente sugli effetti benefici delle statine, il farmaco principale in commercio per la riduzione del colesterolo utilizzato nella prevenzione e nel trattamento dei disturbi cardiovascolari. __________________________________________________ Sanità News 30 Ott. 12 LA CORTE COSTITUZIONALE BOCCIA LA PUGLIA SULLE STRUTTURE SANITARIE PRIVATE La norma pugliese che impone alle Asl regionali di stipulare accordi contrattuali con presidi privati per l'erogazione di prestazioni di riabilitazione domiciliare anche per i pazienti disabili con le sole strutture ubicate nel territorio pugliese è incostituzionale. Lo ha stabilito una sentenza della Consulta (236/2012) sollecitata dal Tar pugliese. In particolare la pronuncia ha bocciato l'articolo 19, commi 3 e 4 della legge regionale n.26 del 2006 come sostituito dall'articolo 8 della legge regionale n.4 del 2010. In particolare la norma stabilisce un ordine di priorità creando una corsia preferenziale con le strutture private territoriali afferenti alla Asl e in subordine «qualora il fabbisogno non possa essere soddisfatto attraverso gli accordi contrattuali con i soggetti insistenti nel territorio della ASL di riferimento, i direttori generali stipulano accordi contrattuali con strutture insistenti in altri ambiti territoriali regionali, in ragione dell'abbattimento delle liste di attesa» (art. 19, commi 3 e 4, della legge regionale n. 26 del 2006, come sostituito dall'art. 8 della legge regionale n. 4 del 2010). "Il richiamo ad 'altri ambiti territoriali regionali', una novità rispetto alle precedenti disposizioni che, fino ad ora, si riferivano invece ad 'altri ambiti territoriali', senza ulteriori specificazioni – sottolinea la Consulta - circoscrive la possibilità di concludere accordi contrattuali con i soli operatori situati nel territorio regionale. Questa delimitazione su base territoriale, specifico oggetto di censura nell'attuale giudizio, è costituzionalmente illegittima". La Corte ha anche rilevato come la norma contestata riguardi "le sole prestazioni di riabilitazione da erogarsi a domicilio". Per questa ragione, secondo i giudici "gli effetti restrittivi della normativa impugnata ricadono principalmente sui soggetti più deboli, perchè colpiscono prevalentemente i disabili gravi, che necessitano di ricevere prestazioni a domicilio, a differenza dei pazienti che mantengono una capacità di mobilità e sono in grado di raggiungere le strutture riabilitative che prediligono, per ottenere prestazioni in ambulatorio: questi ultimi, a differenza dei primi, conservano intatta la facoltà di avvalersi di centri di cura esterni al territorio regionale". __________________________________________________ L’Unità 4 Nov. 12 DNA A CHI APPARTIENE LUCA LANDÒ «ESISTE UN SOLO BENE», DICEVA SOCRATE RIFEREN- DOSI ALLA CONOSCENZA. Per fortuna del grande filosofo non c'erano uffici brevetti da quelle par- ti, altrimenti la celebre frase sarebbe stata inter- pretata diversa molli c. Conioliii\ ito a trasfor- mare in azioni o ad di lodr,;;11 o le nuove idee e i nuovi saperi. L proprio quello che ha fatto la Myriad Genetics, un'azienda americana,;-1-,ecia- lizzata nell'inventare (o brevettare) Mi] a «ami test genetici e da qualche giorno protagonista di un acceso dibattito all'interno della comunità scientifica. La vicenda è questa. Nel corso degli anni la Myriad Genetics ha raccolto e conservato i dati ottenuti analizzando il Dna di milioni di donne con LI 11 test di sua proprietà. I rni il rati sono stati' POI inseriti in un archivio elettronico formando il più giiiide database al mondo sull:i 1.edisposi- zione genetica al tumore del seno e delle ovaie: una conoscenza preziosa che secondo gli oncolo- gi e i biologi molecolari potrebbe aprire nuove porte alla prevenzione di questa grave patolo- gia. Potrebbe. Perché i vertici dell'azienda han- no fatto sapere di non avere alcuna intenzione di rendere pubblico l'ardano elettroniIl mo- tivo è semplice, dicono: ,o'nza il test da loro M- ventato e brevettato, quelle informazioni non sa- rebbero mai esistite, tantomeno raccolte e cata- logate. La posizione della Myriad Genetics ha scate- nato la rivolta del mondo scientifico riaprendo un annoso e delicai :irgomenro: la conoscenza dei dati genetici è un bene pubblico o una ric- chezza privata? E a chi appartengono quei dati? Al legittimo proprietario del Dna da cui sono stati Prelevati 0 a chi ha inventato e brevettato la tecnica per raccoglierli? Un tema spinoso, co, me si vede. Anche perché il futuro della medici- na è sempre più legato alla traduzione dei mes- saggi scritti all'interno del nostro codice geneti- co, aprendo nuove porte nel campo della preven- zione e della terapia ma anche nuove opportuni- tà alle aziende di bioingegneria e biotecnologia. 11 guaio è che nel vivace mondo della bioecono- mia la libertà d'impresa finisce per mettere a dura prova sia i diritti dell'individuo che il bene collettivo. E il caso della Myriad Genetics, bril- lante azienda di Salt Lake City. nello Utah. che nel 11i:q-gettò nello sconforto la comunità scien- tifica ;_inn linciando di aver brevettato 11 11 gene (Brca) la CU i presenza nel Dna di una donna indi- cava un maggior rischio di sviluppare un tumo- re al seno. La ricerca di una possibile predisposizione ereditaria per questo tumore ha coinvolto nei primi anni Novanta i più impon ;in i gruppi di ricerca americani ed europei. 11 primo a identifi- care e sequenziare il gene responsabile di que- sta predisposizione (M realtà sono due: Brca-1 e Brca-2) fu pn,l:rio il fondatore della Myriad Ge- netics. Mark Skolnick che insieme al suo socio in affari - il premio Nobel Walter Gilbert - brevet- tarono sia il gene, anzi i geni. che il metodo che aveva :ossibile la scoperta. Secondo la comunità scientifica, la mossa fu un autentico atto di pirateria: senza le preceden- ti conoscenze scientifiche, che gli altri ricercato- ri avevano reso di pubblico dominio. Skolnick non sarebbe mai riuscito a isolare e sequenziare il gene M questione. Sir Bruce Ponder, che negli anni Novanta guidò un gruppo internazionale di ricerca che gettò le basi scientifiche che portaro- no alla scoperta dei geni Brca, è quanto mai «Quando la Myriad capì che eravamo \ ;lila scopen;l. l'accolse 40 milioni di dolla- ri. ;i:colerò le riduréhe e ci bruciò sullo scatto identificando il gene. Sono stati più rapidi di noi non c'è dubbio, ma dovrebbero avere 1 ma di ricordare una cosa: il loro brevetto poggia ancora oggi su conoscenze scientifiche ottenute da ricerche finanziate con fondi pubbli- ci. I latino il dovere di [L'I illuire alla collettività quello che la colletti., ila gli ha messo gratuitamente a disposizione». La Myriad, ovviamente, non sente ragioni. E il motivo è facile da intuire: solo nel secondo trimestre 20121'a/tenda ha fatturato oltre 105 milioni di dollari proprio grazie ai test peri geni Orca. A mite la situazione (e l'immagine Myriad) si è aggiunto un altro fatto. Oltre a detenere i diritti su tutti i te-d per i geni Brcd-L l'azienda ha fatto sapere di olcr iénere per se un bene ancora più prezioso: tutte le informazioni «parallele» che\- ortecmo raccolte eseguendo i test. Come quelle aviazioni genetiche il cui significato non c ancora noto ma che secondo gli scienziati potrebbero aprire nuove strade alla gestione del rischio tumorale e alla prevenzione.«Riuscire a capire il ruolo e il senso di queste mutazioni ci aiuterebbe ad aiutare le donne esposte al rischio di tumore seno e, nel caso, ad adottare le prevenzioni e le terapie necessarie», dice Martina Cornel, docente di genetica e dirigente della Società europea di genetica itma na. «I dati sulle variazioni genetiche presenti nel Dna di una persona sono molto importanti», spiega David Scott responsabile della raccolta fondi di Cancer Research, l'associazione inglese per la ricerca sul cancro. «Ma quando il numero delle persone esaminate è molto vasto, come in questo caso, gli effetti sono potenzialmente rom l ,en ti, perché potrebbero accelerare le conoscente ,»,aentifiche sullo studio dei tumori e sulla possibilità di individuarli ed eventualmente curarli». l'accento cade ancora una volta sul condizionale. Potrebbero. Perché è vero che la conoscenza è un bene, come diceva Socrate. Ma dipende da chi la brevetta. __________________________________________________ Tempo 4 Nov. 12 TECNICHE RIVOLUZIONARIE CONTRO LACRIME E SUDORE Una nuova tecnica laser per fermare la forte lacrimazione che colpisce i pazienti affetti dall'ostruzione del dotto o del sacco lacrimale. Disturbo che determina la fuoriuscita continua delle lacrime, una condizione nota come epifo - ra. L'innovativo intervento si esegue all'ospedale S. Spirito di Roma. . «L'operazione di dacriocistorinostomia (Dcr) endoscopica con l'impiego di un innovativo laser a diodi di ultima generazione è stato il primo del genere in Italia», afferma Lino Di Rienzo Businco, dirigente di otorinolaringoiatria al S. Spirito e presidente della Società italiana di endoscopia e radiofrequenze otorinolaringoiatrica. «Questa nuova tecnica - aggiunge Di Rienzo Businco - ha ridato il sorriso a una paziente di 56 anni con ostruzione del dotto nasolaerimale associata a infezioni oculari e congiuntiviti ricorrenti. L'apparecchiatura utilizzata per l'innovativo intervento, infatti, rappresenta l'avanguardia nel settore dei laser, in quanto è caratterizzata da una particolare lunghezza d'onda di 1.470 nm». «Questo - sottolinea - consente un'azione efficace, indolore, precisa» L'intervento di Dcr Laser è indicato nei casi in cui l'ostruzione del dotto o del sacco lacrimale determina fuoriuscita continua delle lacrime dall'occhio, nota come epifora. «Occhio e cavità nasale - precisa l'esperto - sono collegati da una sistema di drenaggio lacrimale composto da sacco e dotto lacrimale. Se le infezioni ripetute e i restringimenti patologici determinano un ostacolo alla via di deflusso lacrimale, il paziente si trovanella sgradevolissima condizione di avere l'occhio pieno dilacri - me con necessità continua di tamponarne la fuoriuscita e riduzione delle performance visive». Interessanti novità anche dall'ospedale Gemelli: una graffetta al titanio aiuta chi suda troppo. Palmemadide di sudore, camicia con aloni di primo mattino: è l'imbarazzante problema di quelli che sudano troppo, vittime di una malattia misconosciuta e spesso non curata, l'iperidrosi. Le cure però ci sono e al Policlinico Gemelli di Roma è in uso un trattamento chirurgico modificato in cui il nervo simpatico (quello che manda il comando sudore) non viene tagliato, ma compresso con clip in titanio che bloccano ilmessaggio nervoso che induce il sudore. L'iperidrosi riguarda l'uno per cento della popolazione. __________________________________________________ Sanità News 30 Ott. 12 DAL WEB INFORMAZIONI ERRATE SUI TUMORI ALLA PROSTATA Il web e' pieno di siti sui tumori alla prostata, ma la maggior parte e' scritta in un linguaggio molto piu' complesso di quanto il paziente medio sia in grado di capire. Lo afferma uno studio della Loyola university pubblicato dal Journal of Urology. Lo studio ha esaminato 62 siti web sull'argomento, trovando che il livello medio richiesto era pari al diploma di scuola superiore, mentre per leggerne piu di meta' era necessario possedere una laurea, mentre le linee guida del National Institute of Health raccomandano testi comprensibili gia' con un livello da terzo superiore. "Questo e' preoccupante - spiegano gli autori - perche' ci sono diversi trattamenti a disposizione per il tumore alla prostata, e per fare la scelta giusta bisogna capirli bene. Spesso interroghiamo i pazienti su cosa hanno visto on line, e il piu' delle volte constatiamo che non hanno capito niente di cio' che hanno letto". Readability of Websites Containing Information About Prostate Cancer Treatment Options * Chandy Ellimoottil , * Anthony Polcari , * Adam Kadlec , * Gopal Gupta Purpose Approximately 90 million American adults have literacy skills that test below a high school reading level. Websites written above this level can pose a challenge for those seeking online information about prostate cancer treatment options. In this study we determine the readability of selected websites using a systematic search process and validated readability formulas. Materials and Methods We identified the 3 most popular keywords from 513 terms related to prostate cancer treatment options. We then systematically collected 270 websites from the top 3 search engines, and excluded from study those that were nonEnglish, not primarily text, irrelevant and/or duplicated. We used the Flesch-Kincaid grade level and Flesch Reading Ease to determine scores for each site. Results A total of 62 unique websites were analyzed. Median Flesch-Kincaid grade level was 12.0 (range 8.0 to 12.0) and median Flesch Reading Ease score was 38.1 (range 0.0 to 65.5). Only 3 sites (4.8%) were written below a high school reading level (less than 9.0). Conclusions Few websites with discussions on prostate cancer treatment options are written below a high school reading level. This is problematic for a third of Americans who seek to further educate themselves using online resources. Clinicians can use this information to guide their patients to appropriate websites. __________________________________________________ Le Scienze 30 Ott.12 SETTECENTO MILIONI DI ANNI FA NASCEVA LA VISTA Un punto fermo nella ricostruzione dell' evoluzione della capacità visiva degli animali è stato posto da una ricerca che è riuscita a identificare un'antica proteina, da cui si è sviluppata anche la melatonina, che è all'origine di tutte le opsine, le proteine che permettono ai fotorecettori la trasduzione dello stimolo luminoso in segnale nervoso Un gruppo di ricercatori della National University of Ireland a Maynooth, in Irlanda, ha tracciato per la prima volta un quadro dello sviluppo evolutivo delle proteine sensibili alla luce essenziali alla visione in tutto il regno animale. Dallo studio, descritto in un articolo sui “Proceedings of the National Academy os Sciences” risulta che questo gruppo di proteine, le opsine, si è evoluto presto e che ha sperimentato meno cambiamenti genetici di quanto si credesse. Le opsine rappresentano la parte proteica transmembrana dei fotorecettori e hanno un ruolo essenziale nella trasduzione dello stimolo luminoso in segnale elettrico in tutti gli organismi che abbiano strutture specificamente destinate a qualche forma di visione, dagli ocelli di limitata sensibilità di alcune meduse fino ai più sofisticati occhi dei vertebrati, fino all'uomo. Davide Pisani, che ha diretto lo studio, e colleghi, hanno concentrato la loro attenzione sulle forme animali che possono essere considerate evolutivamente più vicine all'ultimo antenato comune a tutti gli animali con qualche capacità visiva: cnidari, ctenofori, placozoi e spugne. Attraverso un’analisi integrata di tutte le informazioni genomiche disponibili relative a questi lignaggi, i ricercatori hanno quindi sviluppato modelli al computer della storia delle duplicazioni e delle delezioni dei geni che codificano per le opsine, ricavandone una linea temporale dell’evoluzione delle opsine. Stando a questa ricostruzione l'opsina ancestrale da cui sono derivate tutte le altre sarebbe comparsa circa 700 milioni di anni fa. Questa opsina sarebbe stata "cieca", ossia incapace di reagire alla luce, ma nell'arco di 11 milioni di anni il suo gene ha subito importanti alterazioni, dando alla proteina la capacità si svolgere la sua funzione di trasduttore. In particolare, Pisani e colleghi hanno scoperto che la prima opsina avrebbe avuto origine dalla duplicazione del gene per una proteina ancestrale, che è all'origine anche della melatonina, l’ormone che ha un ruolo centrale nel ritmo sonno veglia e più in generale nella regolazione dei ritmi circadiani. Due successive duplicazioni di questo gene ancestrale, in cui sarebbero intervenute delle mutazioni, avrebbero poi dato origine alle opsine che oggi sono comuni a tutti gli animali dotati di occhi; l’opsina rabdomerica (opsina R), e dell’opsina ciliare (opsina C), e l’opsina Go/RGR. "La grande rilevanza del nostro studio - ha dichiarato Pisani - è che abbiamo identificato l’origine prima della visione e abbiamo scoperto che ha avuto origine una sola volta negli animali." __________________________________________________ Corriere della Sera 4 Nov. 12 COME DIMENTICARE ATTIVAMENTE Se dalla ricerca sulla memoria arrivano diversi suggerimenti su come migliorare le proprie performance mnemoniche (si veda nella pagina accanto), i consigli si fanno più traballanti quando si tratta di provare a dimenticare. Eventi dolorosi o imbarazzanti del passato tendono a riaffacciarsi alla mente involontariamente e tenerli fuori dalla coscienza può risultare davvero difficile. Secondo studi condotti da Emily Holmes, dell'Università di Oxford, i ricordi si fissano meno nella mente se, subito dopo l'evento che non si vuole ricordare, ci si impegna in attività cerebrali, ad esempio con un videogioco che richiede concentrazione (per esempio il conosciutissimo Tetris). Forse questa concentrazione sottrae energie al processo di cementificazione mnemonica dell'evento che non si vuole ricordare. Un'azione altrettanto positiva sembra possa giocarla l'ascolto di musica rilassante, probabilmente perché ricolloca la mente in un ambiente sereno, sottraendo emotività negativa all'evento che non si vorrebbe ricordare. I ricordi, infatti, si fissano anche in base all'intensità delle emozioni da cui sono accompagnati. «Alcuni studi condotti in passato hanno mostrato che impegnarsi attivamente nel tentativo di dimenticare può anche produrre il risultato opposto — dice il professor Fabio Del Missier, del Dipartimento di Scienze della Vita dell'Università di Trieste —. Seguendo questo ragionamento, per chi vuole dimenticare un evento sarebbe più opportuno cercare di focalizzarsi su un altro pensiero o ricordo ben definito, piuttosto che cercare di sopprimere un ricordo non voluto. Recentemente, alcuni ricercatori, tra i quali Michael Anderson del MRC Cognition and Brain Sciences Unit di Cambridge, nel Regno Unito, hanno avanzato l'ipotesi che le persone siano effettivamente in grado di mettere in atto processi di soppressione dei ricordi, possano insomma esercitare un certo grado di controllo sui ricordi non voluti. È un ambito sul quale si stanno svolgendo attualmente nuove ricerche, e in futuro si arriverà probabilmente a capire meglio anche l'altro aspetto della questione. Ossia, quali sono le conseguenze a lungo termine, oggi non del tutto conosciute, della soppressione dei ricordi con elevata valenza emotiva». Una recente ricerca realizzata proprio da Michael Anderson, in associazione con Roland Benoit, utilizzando la Risonanza magnetica funzionale, e pubblicata sulla rivista Neuron, ha mostrato anche quali sono i meccanismi cerebrali che consentono di "dimenticare attivamente". Un primo meccanismo è basato sulla disattivazione dell'ippocampo, sede, dei ricordi stabilizzati o comunque snodo per il loro recupero. Disattivazione che può avvenire in maniera volontaria attraverso stimoli provenienti da un'area cerebrale chiamata corteccia prefrontale dorso laterale destra. In sostanza, è l'interruttore interno che utilizziamo quando tentiamo di "spegnere" un ricordo sgradevole. A questo meccanismo può aggiungersi il tentare di evitare gli stimoli associati a quel ricordo. «Talvolta si cerca di evitare persone, cose, pensieri, — spiega ancora Del Missier — ma è una strategia da usare con cautela perché rischia di diventare limitante per l'individuo e per la sua vita. Probabilmente una strategia più idonea potrebbe essere quella, oggi sostenuta da alcuni ricercatori, di accettare ed elaborare i pensieri e i ricordi non voluti, senza avere la pretesa di sopprimerli». L'altro meccanismo cerebrale studiato da Anderson e Benoit è quello della sostituzione volontaria di pensieri, alla quale più o meno tutti ricorrono senza rendersene sempre pienamente conto. Questa sostituzione è possibile perché la coscienza ha una capacità limitata e non può ospitare contemporaneamente due diversi ricordi. «Dato che questa sostituzione di pensieri richiede il recupero di un ricordo alternativo, essa prevede un'attivazione dell'ippocampo e non una sua disattivazione» dicono Anderson e Benoit. E concludono: «La comprensione di questi due distinti sistemi di controllo dei ricordi non voluti potrebbe aiutare a sviluppare trattamenti in grado di trattare quei problemi psichici associati a una deficitaria regolazione della memoria, come quella che si presenta dopo un trauma». __________________________________________________ Corriere della Sera 4 Nov. 12 I RICORDI CI SERVONO A IMMAGINARE IL NOSTRO DOMANI Ma l'autobiografia mentale non è del tutto affidabile L a ricerca sta dimostrando che, quando si prova a immaginare il futuro personale, si cade inevitabilmente in un trabocchetto: a partire da frammenti di vita passata si cerca di ipotizzare un nuovo scenario. Qualche volta ci si azzecca, ma più spesso no (e se non fosse così saremmo indovini), perché, infatti, sarebbe più razionale cercare di prevedere il proprio futuro sulla base di indizi provenienti dal l'esterno piuttosto che dall'interno. Alla base della previsione del proprio futuro c'è dunque la memoria personale, quello che si ha dietro le spalle, e questo è il nucleo centrale della teoria del professor Daniel Schacter, psicologo della Harvard University, teoria a cui ha dedicato un articolo la rivista New Scientist. Si tratta di un capovolgimento di quella che era sinora ritenuta la funzione principale della memoria, ossia la conservazione dei ricordi, finalizzata soprattutto al mantenimento di un'identità personale. È verosimile che questa nuova apertura possa, nel giro di alcuni anni, portare allo sviluppo di modelli molto più complicati della memoria e delle sue funzioni. Le teorie del professor Schacter hanno ricevuto conferma anche da studi di visualizzazione cerebrale, e sono state sviluppate a partire dall'intuizione del professor Endel Tulving, attualmente al Rotman Research Institute di Toronto. Questi fu colpito dallo strano caso di un paziente sofferente di amnesia, che aveva perso la memoria episodica, quella su cui si fonda l'autobiografia interiore. Il paziente manifestava un'inaspettata incapacità di previsione del proprio futuro. Si trovava con la mente completamente vuota se gli veniva chiesto di dire cosa avrebbe fatto la sera o di illustrare i programmi per l'estate successiva. «Non è così sorprendente che confondiamo memoria e immaginazione, — dice Schacter — considerando che condividono così tanti processi». L'ipotesi che la memoria non serva solo per ricordare episodi accaduti nel passato ma anche per immaginare scenari futuri sta ricevendo grande attenzione da parte dei ricercatori. Dice in proposito il professor Fabio Del Missier, del Dipartimento di Scienze della Vita dell'Università di Trieste, che da molti anni studia la relazione tra i processi di memoria e le procedure decisionali: «È ancora presto per trarre conclusioni definitive su questo argomento, soprattutto per quanto riguarda le basi neurali di immaginazione e ricordo, ma le ricerche che sono attualmente in corso sembrano confermare l'importanza della memoria, insieme ad altri processi, anche nell'immaginare scenari futuri e nel determinare le decisioni da prendere. Senza contare il fatto che un diverso filone di ricerca ha dimostrato come i ricordi degli eventi passati possano influenzare anche i processi di giudizio e stima che sono alla base di una varietà di comportamenti della vita quotidiana. Anche se non sempre siamo accurati, nei giudizi e nelle stime, nel prevedere il futuro, possiamo comunque sostenere che la memoria è un elemento fondamentale nella nostra capacità di adattamento all'ambiente». La memoria autobiografica è comunque un puzzle al quale mancano molti pezzi. Possono mancare parti importanti della vita e invece essere in bella vista parti apparentemente di nessun rilevo. È evidente come sulla base di questo meccanismo la previsione del futuro basata sulla memoria autobiografica sia da considerare un processo basato su dati mancanti, dall'esito necessariamente poco affidabile. E c'è un altro motivo a monte di tale inaffidabilità: dato che esiste una stretta correlazione tra identità e memoria autobiografica, avvengono anche continui aggiustamenti sui ricordi per far sì che siano congruenti con l'immagine che ciascuno ha di sé. Ad esempio, una persona che si considera coraggiosa tenderà a far svanire dai propri ricordi un gesto poco coraggioso. «Il senso di chi sei e di come metti in atto la tua personalità sono strettamente collegati alla memoria autobiografica» dice la professoressa Robyn Fivush della Emory University di Atlanta, che da molti anni lavora sui rapporti tra memorie infantili, identità personale e gestione interiore dei traumi psicologici. In sostanza nella mente di ciascuno esiste un filo rosso che lega il passato al presente. Ed è straordinario che gli esseri umani possano, senza rendersi pienamente conto dell'eccezionalità di tale fenomeno, viaggiare nel tempo nella propria mente, lungo questo filo rosso che parte dall'infanzia e che non si interrompe mai, almeno finché non intervengono gravi processi patologici cerebrali. Naturalmente a sostenere questa linea del tempo interiore è l'idea stessa del tempo che passa, idea che si sviluppa molto precocemente negli esseri umani, seppure al l'inizio in modo incompleto. A due o tre anni i bambini usano termini come "ieri" o "domani", ma quando si indaga, si scopre che "ieri" si riferisce a ogni evento del passato e "domani" a ogni evento che si dovrà svolgere nel futuro. I ricordi autobiografici hanno infine la caratteristica di poter uscire dai confini della singola persona. Una ricerca condotta dalla dottoressa Amanda Barnier della Macquarie University di Sydney, che studia i meccanismi attraverso i quali la memoria seleziona che cosa ricordare e cosa dimenticare, ha scoperto che all'interno delle coppie ci può essere uno scambio o una condivisione dei ricordi autobiografici. Le coppie intervistate conservavano più ricordi dei singoli componenti la coppia, ma spesso i ricordi dell'uno erano "spacciati" dall'altro come propri, in una confusione mnemonica di cui nessuno aveva più la minima consapevolezza. __________________________________________________ Corriere della Sera 4 Nov. 12 DECIDERE LIBERAMENTE CHE COSA RICORDARE E COSA DIMENTICARE Vuoi «immagazzinare» tutto e più velocemente? Allora gira gli occhi prima a destra e poi a sinistra Chi non vorrebbe decidere liberamente che cosa ricordare e cosa dimenticare della propria vita? Sarebbe come costruire a tavolino la propria memoria, e quindi la propria identità. Ma non è facile. Certi eventi che si vorrebbero ricordare vengono dimenticati, altri che si vorrebbero dimenticare non si riesce proprio a cancellarli. La memoria può essere stimolata a ricordare, ad esempio tornando più volte sullo stesso ricordo. È più o meno quello che si fa quando si studia. Guardare passivamente una pagina anche per ore non aiuta molto a ritenere quello che c'è scritto, ed è meglio ripercorrere i punti essenziali per valutare quanto si è appreso; ancora più utile è tornare a distanza di tempo sulle stesse pagine, per "lucidare" quanto si è imparato in precedenza. E questo vale anche per i ricordi della propria vita. Si sa poi che un ruolo positivo sulle performance della memoria è giocato dall'attività fisica. Studi sperimentali hanno dimostrato che una semplice passeggiata di dieci minuti, e meglio ancora una corsetta, può migliorare la capacità di ricordare una sequenza di nomi, probabilmente perché l'organismo viene stimolato verso una condizione di allerta. Una curiosa indicazione viene da due ricercatori della Manchester Metropolitan University, Andrew Parker e Neil Dagnall. Secondo questi studiosi, in base ai risultati di una loro ricerca, sarebbe opportuno guardare alternativamente più volte verso destra e verso sinistra dopo aver studiato una lista di parole. Questo movimento faciliterebbe, almeno nei destrimani, la connessione tra i due emisferi cerebrali, facilitando la trasmissione e la diffusione delle parole studiate. Mancini e ambidestri non si gioverebbero invece di tale tecnica, dal momento che per loro è già naturalmente attivo un sistema di scambio di informazioni tra i due emisferi. Per chi vuole avere la certezza totale di poter fissare indefinitamente un ricordo della propria vita esiste comunque un sistema infallibile ben conosciuto da tutti, cioè archiviare il ricordo non nel proprio cervello, ma fuori di esso, su una memoria informatica. Molti software sembrano creati apposta per sostituirsi alla memoria autobiografica, così come le agende informatizzate dei cellulari hanno annullato la memoria umana dei numeri telefonici. Applicazioni come Memory-life, o Evernote consentono di fissare un ricordo in uno specifico sito internet, sotto forma di testo, e-mail, foto, sito Internet, registrazione audio o video. Poi il ricordo può essere taggato con alcune parole chiave e recuperato, al momento del bisogno, attraverso un procedimento non diverso da quello della memoria naturale. L'applicazione Hello consente di fare la stessa cosa con le persone che si incontrano e che possono essere catalogate, fotografate e corredate di una serie di informazioni personali. Diventa, così, facile fare bella figura quando le si rincontrerà la volta successiva e le si potrà stupire con una gran quantità di particolari che le riguardano. E magari, anche se oggi sembra fantascienza, un giorno si riuscirà a trovare un modo per accedere a questi siti, ma anche a tutto lo scibile della rete, direttamente dal proprio cervello, così da saltare la mediazione della tastiera. __________________________________________________ Corriere della Sera 4 Nov. 12 QUEI BUCHI NEL PASSATO CAUSA DI DISAGIO PROFONDO C' è qualcosa che non va nella memoria delle persone che hanno subìto uno stress psichico acuto, ad esempio nel corso di una catastrofe naturale, come un terremoto, o in qualche azione di quella catastrofe artificiale che è la guerra. Dopo l'esposizione a un evento traumatico, è possibile sviluppare il cosiddetto Disturbo post-traumatico da stress, caratterizzato da una sequela di sintomi psicologici, come uno stato di nervosismo costante, insonnia, irritabilità, oltre che dalla difficoltà di ricordare particolari di quello specifico evento traumatico. Paradossalmente, però, allo stesso tempo si può essere perseguitati proprio da ricordi non voluti. Sono i cosiddetti flashback, caratterizzati dal ripresentarsi alla mente, in maniera ossessiva e irrefrenabile, di sensazioni simili a quelle sperimentate durante l'evento. La memoria è dunque al centro di questo disturbo, in parte perché non si riesce a ricordare, in parte perché in qualche modo non si riesce a dimenticare. Per molto tempo si è creduto che l'alterazione della funzione mnemonica fosse la conseguenza del Disturbo post-traumatico da stress, ma di recente diversi ricercatori stanno cambiando idea in proposito. Avanza l'ipotesi che per prima cosa potrebbe svilupparsi, proprio in seguito all'evento traumatico, il difetto della memoria, la difficoltà a ricordare attivamente; successivamente, a causa di questo difetto, fanno breccia nella mente l'ansia, l'irritabilità e i flashback non voluti. È sulla base di questa ipotesi che alcuni ricercatori, come Tim Dalgleish della MRC Cognition and brain sciences unit di Cambridge, nel Regno Unito, stanno sviluppando un innovativo approccio terapeutico al Disturbo post-traumatico da stress. Ai pazienti viene chiesto non di provare a dimenticare, ma piuttosto di ricordare, di scavare nella propria memoria, con una tecnica chiamata Memory specificity training, basata su parole chiave che richiamano alla mente proprio i dettagli degli eventi traumatici. Una ricerca realizzata su rifugiati afghani ha dato risultati incoraggianti, anche se non tutti gli esperti concordano sulla razionalità di questo approccio. Di sicuro il paziente viene coinvolto attivamente nel proprio trattamento psicologico, e probabilmente questo aspetto da solo contribuisce a scuoterlo dalla sua condizione. Ma un'alterazione della memoria viene oggi considerata anche come possibile causa o concausa della depressione. Lo ha intuito il dottor Mark Williams dell'Addenbrookes Hospital di Cambridge, nel Regno Unito, durante una serie di test mnemonici di confronto tra pazienti depressi e non depressi: i primi tendevano a riferire ricordi molto più generici. Il dottor Williams si è allora chiesto se questa alterazione mnemonica potesse essere la causa della depressione, invece che la conseguenza. In particolare, oggi i ricercatori concordano sulla differenza esistente tra vari tipi di memoria autobiografica: la "memoria specifica" (per esempio, "il giorno della mia laurea", con luogo ben definito e tempo non superiore a una giornata), e la "memoria generale" che può riferirsi a eventi generici (come "le feste che facevo con i miei amici"), oppure a eventi della durata superiore a un giorno (per esempio, "le vacanze del mese scorso"). Sono differenze apparentemente sottili, ma in realtà importanti perché questi diversi tipi di memoria autobiografica funzionano in maniera diversa nelle persone che soffrono di depressione e in quelle che non ne soffrono. Una volta aperta la strada, altri ricercatori hanno seguito questa ipotesi con studi sperimentali, ad esempio quello realizzato su un gruppo di teenager, che ha dimostrato come quelli dotati di memorie solo generali avrebbero in futuro sviluppato più facilmente uno stato depressivo. Jennifer Sumner della Northwestern university di Evanston, nell'Illinois, ha pubblicato sulla rivista Behavioral Research Therapy una revisione con metanalisi di 15 studi, arrivando alla conclusione che effettivamente la genericità dei ricordi espone a cadute depressive. «Riuscire a ricordare eventi positivi del proprio passato dà automaticamente maggiori speranze per il futuro» dice la dottoressa Sumner. Inoltre, dato che la memoria è lo strumento usato dalla mente, seppure in maniera tendenzialmente fallace, per organizzarsi e affrontare le sfide future, la carenza di specifici ricordi riduce le proprie abilità di problem-solving, la fiducia in se stessi, il che certamente espone a un maggior rischio di depressione. Il passo successivo sarà quello di provare a mettere in campo nuovi trattamenti psicoterapici che abbiano l'obiettivo di aiutare le persone che soffrono di depressione a ricordare in maniera più specifica gli eventi della propria vita. «Solo circa la metà dei pazienti risponde a uno dei vari interventi disponibili per il trattamento della depressione — dice Sumner —. E di loro solo circa un terzo alla fine raggiunge una condizione di completa remissione dei sintomi. Quindi, sviluppare e testare tecniche per aumentare la specificità della memoria autobiografica può essere considerato senz'altro utile, verosimilmente sempre in associazione con le tecniche di psicoterapia cognitiva già esistenti». Anche per la depressione, così come per il Disturbo post- traumatico da stress, la tecnica che appare maggiormente promettente è il Memory specificity training. «Risultati preliminari suggeriscono che questa tecnica possa risultare efficace nell'aumentare il livello di specificità della memoria, e tale incremento è risultato associato a una riduzione della ruminazione psicologica e a un incremento dell'efficacia dei processi mentali di problem-solving — spiega ancora la dottoressa Sumner —. Le future ricerche dovranno esaminare la migliore modalità per incorporare queste tecniche nei protocolli di trattamento già esistenti».