RASSEGNA 22/07/2012 TROPPI TAGLI A QUALITÀ ED EFFICIENZA GESSA:LE FORBICI DI MONTI SULLA RICERCA, COSÌ L’ITALIA TAGLIA IL FUTURO STRETTA SULLA RICERCA, L'OFFERTA DI PROFUMO TASSE UNIVERSITARIE PIÙ ELEVATE I TAGLI PAGATI DAGLI STUDENTI QUEI 600 MILA FUORI CORSO PROFUMO: TROPPI, PIÙ TASSE L'EPOCA DEI FUORI CORSO È FINITA FUORICORSO «NON LI CHIAMO PIÙ SFIGATI, MA SI SBRIGHINO» MORI: ATENEI, NON SVENDIAMO IL NOSTRO PATRIMONIO PER IL TAR I «VECCHI» RETTORI DEVONO LASCIARE ENTRO L'ANNO UNIVERSITÀ: PARTE DAL BASSO LA LOTTA CONTRO I BARONI SINI: SE UNIVERSITÀ E RICERCA DIMENTICANO LA FILOSOFIA ISCRIZIONI IN AUMENTO DELL'8% AI CORSI TRIENNALI UNIVERSITÀ, TANTI CORSI A RISCHIO TEST UNIVERSITARI AL MINI RESTYNG UNICA: NELLO STUDIO DONNE PIÙ BRAVE UNICA:MELIS: CAMBIARE LA CULTURA ORGANIZZATIVA MEDIE E LICEI CRESCE IL NUMERO DEI PROMOSSI WEB: NELLA FOLLA DELLE SOLITUDINI REPUTAZIONE DIGITALE CON IL TRUCCO ========================================================= AOUCA: SALDATO L’ARRETRATO AI FORNITORI SUBITO IL TARIFFARIO PER LE ANALISI PRIVATE OSPEDALI, VIA 7 MILA POSTI NON RIDURREMO I SERVIZI ASL1: ACCUSE PESANTI CONTRO GIANNICO QUIRRA, L’ISS NON CONFERMA L’ALLARME TUMORI IL 50% DEGLI AMERICANI RINUNCIA ALLE CURE PER COSTO ELEVATO OBAMACARE, LA RIFORMA SANITARIA ZAMBONI:PROVATA COESISTENZA TRA INSUFFICIENZA VENOSA E SCLEROSI MULTIPLA STUDIANO LA «TINTARELLA» PER CURARE LA PSORIASI TEST POSITIVO PER IL FASCICOLO SANITARIO ELETTRONICO CALABRO IL MEDICO CHE VIENE GUARITO CON LA COLLETTA DEI COLLEGHI LABBRA E SENI RIFATTI L'ALT DELLA BIOETICA LIMITE ETICO AI RITOCCHI? L'ESEMPIO DEGLI ANTICHI ALLARME MONDIALE PER OBESITÀ.SPERANZA CON IL GRASSO «BEIGE» UNA VITA A INDAGARE I MISTERI DEL CERVELLO COME INGANNARE IL CERVELLO RICOVERI SEMPRE MENO «A MISURA» DI BAMBINO LA SALUTE PUBBLICA COMINCIA DA NOI MERKEL IN PRIMA LINEA SULLA CIRCONCISIONE «INGIUSTO VIETARLA» I BAMBINI NON CIRCONCISI PIU' A RISCHIO DI INFEZIONI URINARIE DA CHICAGO NUOVI FARMACI PER TUMORE AL SENO E CARCINOMA OVARICO SMENTITA L'ESISTENZA DELLA "VITA ALL'ARSENICO" UN DANNO ALL'RNA PER CHI SI SCOTTA AL SOLE ======================================================== ______________________________________________ Il Sole24Ore 15 lug. ’12 TROPPI TAGLI A QUALITÀ ED EFFICIENZA Dalla fine delle collaborazioni pubblico-private, all'assenza di strumenti valutativi per tutelare le eccellenze: punto per punto gli effetti negativi per la cultura e l'economia del decreto legge 95 Al contrario di quanto riportato nel titolo – Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini – il decreto legge n. 95 sulla "spending review" del 6 luglio scorso avrà effetti gravi sui servizi pubblici, anche quelli culturali. In particolare: L'articolo 4 impone lo scioglimento o l'alienazione di tutte le società partecipate da pubbliche amministrazioni e contestualmente fa divieto agli enti quali associazioni e fondazioni di ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche. In questo modo si colpisce indiscriminatamente tutto il sistema delle realtà aziendali e associative che, in particolare nel settore della cultura, negli ultimi vent'anni sono state tra gli attori principali del cambiamento registrato nei consumi culturali, hanno assicurato migliori livelli di efficienza e di efficacia nei servizi e tenuto alta l'attrattività, anche turistica, delle città. Tutto ciò senza individuare nessun criterio di efficienza, economicità e di valutazione dei risultati. Perché, se l'obiettivo è migliorare i servizi e l'efficienza della spesa pubblica e aprire al mercato, vengono a priori azzerate tutte le esperienze, anche quelle di eccellenza e di successo? Con l'articolo 9 il decreto prevede non solo la soppressione o l'accorpamento da parte delle amministrazioni locali (Comuni e Province) e delle Regioni, ma anche il divieto a istituire enti di qualsiasi natura giuridica che svolgano funzioni fondamentali o amministrative previste dagli articoli 117 e 118 della Costituzione. Perché, anche in questo caso, si procede senza nessuna valutazione e distinzione rispetto a realtà che funzionano e si impedisce l'esistenza di soggetti che possono dare risposte importanti nell'ambito di funzioni fondamentali come la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale e la promozione delle attività culturali? Uno dei primi effetti della spending review sarà la chiusura della Fondazione Valore Italia (articolo 12, comma 59) che ha fino a oggi svolto il compito di promuovere nel mondo la produzione delle nostre piccole e medie imprese legata al design, senza utilizzare fondi pubblici. Non dimentichiamo che il valore delle esportazioni del design italiano è di 19 miliardi di dollari e che siamo il Paese leader tra le economie del G8 per l'export in questo settore. Perché, dunque, sopprimere questo ente e azzerarne le finalità, colpendo la valorizzazione di un settore industriale fondamentale per il Paese? Altra vittima del decreto è la Fondazione Centro sperimentale di cinematografia che, in base all'articolo 12, comma 31, sarà soppressa mentre le attività formative della Scuola di cinema confluiranno nel Mibac. Anche in questo caso si colpisce una realtà culturale di assoluta eccellenza, unica al mondo, che svolge attività di altissima formazione in uno dei settori storicamente "fiore all'occhiello" della nostra produzione artistica quale quello cinematografico. Perché rischiare di perdere l'esperienza pluridecennale del Csc che, una volta ricondotta all'interno dell'apparato burocratico pubblico, sarà depotenziata e perderà l'efficacia determinata dall'autonomia gestionale esercitata fino a oggi? ______________________________________________ La Nuova Sardegna 11 lug. ’12 GESSA:LE FORBICI DI MONTI SULLA RICERCA, COSÌ L’ITALIA TAGLIA IL FUTURO La capacità di un Paese di essere competitivo dipende dalla sua capacità di investire nell'istruzione, nell'Università e nella ricerca scientifica di GIAN LUIGI GESSA Fra i settori colpiti dalla Spending review sono gli enti di ricerca scientifica, con tagli che ammontano a 22 miliardi di euro in tre anni. Un primo esempio di questa drastica sforbiciata è l'Istituto nazionale di Ricerca per gli alimenti e la nutrizione (Inram) che viene soppresso, le sue attività dovrebbero passare al Cra (Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura). Un secondo esempio è l'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infm) che subisce tagli di 9 milioni nel 2012 e di 24 nel 2013 e 2014 corrispondenti al 10% delle risorse. Un terzo esempio è il Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche), il maggiore ente pubblico di ricerca italiano, che si vedrà tagliare 6 milioni di euro subito e 16 a partire dal 2013. La riduzione inciderà per il 3.2% sui fondi annuali. Le vittime dei tagli hanno gridato alla "macelleria scientifica", le proteste sono accorate, i tagli ci lasciano increduli e sgomenti. Sentiamo profonda tristezza e grande preoccupazione per il futuro dell'Italia. Qualcuno parla di complotto: si sta smantellando l'Italia con un disegno ben preciso, a beneficio di chi fa shopping di cervelli. Ho riferito dei tre casi sopra detti poiché essi rappresentano tre tipologie di istituti di ricerca in Italia. L'Infm che ha partecipato alla scoperta del bosone di Higgs, la particella di Dio, riceve ogni anno per la ricerca più soldi che tutte le università italiane assieme. Un dimagramento del 10% non produrrà quelle devastanti conseguenze che il suo presidente Ferroni minaccia con una lettera al Presidente della Repubblica Napolitano: se i tagli non rientreranno ci sarà il ritiro dell'Italia dai grandi progetti internazionali, lasciando il posto ai paesi emergenti. Avverrà la fuga dei nostri cervelli, e dei capitali ed interventi esteri dall'Italia. Non mancheranno i danni alla salute dei malati, poiché non si potrà costruire la macchina per i radio farmaci. L'Inram è un ente che esiste dal 1939, il cui merito "scientifico" consiste nel realizzare ogni dieci anni le linee guida per una sana alimentazione. La prossima revisione era prevista per il 2013 ma rischiava di non vedere la luce. Ci mancheranno le comparsate alla tv di alcuni dei loro scienziati e le loro consulenze sul mangiare meno e muoversi di più, i benefici dell'uovo di gallina o del pomodoro maturo. Il Cnr non gestisce più da anni i soldi per la ricerca, ma i suoi ricercatori ricevono il loro salario più un buono pasto. I soldi per la Ricerca sono lasciati all'abilità dei ricercatori di procurarseli, inoltre la maggior percentuale del personale è costituita da amministrativi, specialmente nella sede di Roma. Il ministro Profumo sa perfettamente che non saranno i tagli in un momento di particolare crisi economico a decidere sul destino della ricerca scientifica in Italia. La capacità di un Paese di essere competitivo, produrre innovazione, sviluppare tecnologie, brevetti, cultura, in altre parole creare ricchezza e benessere dipende dalla sua capacità di investire nell'istruzione, nell'Università e nella ricerca. L'Italia negli ultimi anni, in questo settore, è rimasta indietro rispetto alle altre nazioni perché non ha saputo investire a lungo termine. Ma questa politica che guarda lontano potrà essere concretamente pianificata ed attuata solo dopo che il Paese sarà uscito dalla crisi. E la Sardegna? Questa è un'altra storia, direbbe il vecchio Kipling. ______________________________________________ Il Sole24Ore 13 lug. ’12 STRETTA SULLA RICERCA, L'OFFERTA DI PROFUMO Pressing per limitare le riduzioni di spesa, a settembre il riordino degli enti - Scoppia il caso Istat L'ALLARME DI GIOVANNINI A gennaio l'istituto di statistica si fermerà a causa dei risparmi previsti Nicolais (Cnr): effetti pesantissimi sulle ricerche Marzio Bartoloni In Parlamento si farà di tutto per recuperare almeno parte dei tagli ai bilanci degli enti di ricerca decisi dalla spending review o perlomeno si chiederà che non piovano dall'alto colpendo chi più e chi meno, facendo decidere ai "diretti interessati" come assorbirli. E poi da settembre si aprirà un percorso di «razionalizzazione» del pianeta ricerca: una riorganizzazione da fare senza troppa fretta che punti - attraverso un tavolo condiviso - a fare risparmi e a rendere gli enti più efficienti e quindi capaci di competere, insieme agli atenei, per vincere di più nei bandi europei dove l'Italia resta troppo spesso indietro. Questa la strategia del ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Francesco Profumo. Che ieri ha incontrato i vertici dei 12 enti vigilati dal Miur – dal Cnr all'Istituto di fisica nucleare, dall'Agenzia dello spazio all'Istituto di geofisica – finiti nella tagliola della spending review insieme ad altri dieci enti di ricerca vigilati da altri ministeri: dall'Enea (Sviluppo economico) all'Istituto superiore di Sanità (Salute) dall'Inail e l'Isfol (Lavoro e politiche sociali) all'Istat (Economia). Durante l'incontro il ministro ha confermato che farà di tutto per evitare il taglio: 33 milioni per questi ultimi mesi del 2012 e 88 milioni a regime dal 2013 in poi se si considerano tutti e 22 gli enti coinvolti. Una partita tutta "politica", questa, che il ministro giocherà in Parlamento: c'è tempo fino a giovedì per presentare le modifiche al testo. L'obiettivo è cancellare i tagli con un emendamento che si spera sarà condiviso dall'Economia o in subordine si punterà a cancellare la tabella della «riduzione dei trasferimenti» (l'allegato 3 del decreto) lasciando intatto il saldo. Per poi decidere con un percorso condiviso con gli enti il modo per assorbire le sforbiciate ai bilanci che per alcuni sono limitate - a esempio solo lo 0,50% per l'Agenzia spaziale - mentre per altri sono più pesanti come all'Istituto di fisica nucleare che dovrà subire una cura dimagrante del 10% sul budget. Ieri, intanto, Profumo ha trovato una prima sponda dentro il Governo: il ministro della Salute, Renato Balduzzi, colpito anche lui dai tagli visto che il "suo" Istituto superiore di Sanità subisce una riduzione al bilancio che vale 5 milioni ha parlato della ricerca come di «una quota di spesa non rivedibile». «Un conto è rivedere l'organizzazione - ha spiegato Balduzzi -, ma le risorse per la ricerca in senso stretto devono essere tenute al riparo perché così si può consentire di riqualificare il comparto». Il percorso di riorganizzazione, di cui ha parlato Profumo, punterà soprattutto a mettere in comune le best pratices: dalla dematerializzazione delle procedure (sperimentata a esempio dal Cnr) alle sinergie sulla ricerca. Di accorpamenti non si è parlato, né ancora è chiaro se si arriverà a un riordino per legge, anche perché sarebbe il quarto in poco più di dieci anni dopo quelli decisi dagli ex ministri Luigi Berlinguer, Letizia Moratti e Mariastella Gelmini. In cantiere c'è anche la nascita di un maxi portale della ricerca («researchitaly») sulla scia di quello appena realizzato per le università («universitaly») dove concentrare tutte le informazioni (bandi, progetti, concorsi) del pianeta della ricerca pubblica. Ieri comunque si sono susseguiti gli allarmi dei presidenti degli enti come quello clamoroso del presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, pronto a non elaborare più statistiche da gennaio. Perché l'Istituto - spiega - non sarà più in grado di assolvere al suo compito, visto che il provvedimento sottrarrà all'ente di ricerca tre milioni l'anno, dopo i 29 già volatilizzati negli ultimi 36 mesi. Sulla stesa scia il Cnr (che ha appena nominato il nuovo direttore generale, Paolo Annunziato) che spiega di aver subito già una riduzione del 12% delle risorse negli ultimi dieci anni: «Sicuramente queste scelte avranno ricadute pesantissime sulle attività di ricerca», avverte il presidente Luigi Nicolais. E così anche il commissario dell'Enea Giovanni Lelli: «Questi nuovi tagli sono a valle di ulteriori riduzioni già avvenute negli anni 2010 e 2011 che valgono circa 30 milioni di euro». «Tagliare i fondi - è la metafora di Lelli - è come tagliare gli organi di un corpo». _________________________________________________ Il Sole24Ore 11 09 lug. ’12 TASSE UNIVERSITARIE PIÙ ELEVATE Dalla spending review «sanatoria» per gli atenei oltre il tetto Si alzano i tetti massimi alle tasse universitarie che gli atenei statali possono chiedere ai propri studenti, con il risultato che molte università cessano di essere «fuorilegge». La novità arriva all'articolo 7, comma42 del decreto legge sulla spending review approvato la scorsa settimana, e va a restaurare la norma che impediva a ogni università statale di raccogliere in tasse universitarie più del 20% dell'assegno che ogni anno il ministero stacca in suo favore sotto forma di finanziamento ordinario. Il decreto sulla revisione di spesa interviene in due modi: i contributi da calcolare, prima di tutto, sono ora solo quelli versati dagli studenti «italiani e comunitari entro la durata normale» dei rispettivi programmi di studio, escludendo quindi dai conteggi le tasse pagate da chi è fuori corso. Poi, la contribuzione studentesca così calcolata va rapportata a tutti i «trasferimenti statali correnti» in arrivo dal ministero: non più il solo fondo di finanziamento ordinario, quindi, ma anche le risorse collegate ai bandi Prin (progetti di ricerca di interesse nazionale), i fondi per l'edilizia universitaria e così via. Gli atenei che non saranno in grado di mantenere le tasse universitarie nemmeno entro il nuovo limite, poi, saranno chiamati a dedicare le eccedenze alle borse di studio. La novità, spiega la relazione tecnica che accompagna il provvedimento, serve a uniformare la base di calcolo con quella dei costi standard per studente (in via di definizione), che prenderanno appunto in considerazione esclusivamente gli iscritti che non superano la «durata normale» dei corsi. Alla base della novità c'è però un'emergenza molto più pressante: mentre il fondo di finanziamento ordinario, dopo il picco di 7,25 miliardi del 2008, ha cominciato ad arretrare fino ai 6,8 miliardi degli ultimi due anni, le tasse hanno continuato a crescere. Risultato: nel 20ll gli atenei hanno messo a preventivo tasse universitarie sui corsi di laurea per 2,06 miliardi, cioè il 3o% del fondo ordinario complessivo. Dunque, era l'intero sistema degli atenei a essere diventato «fuorilegge», spinto da un gruppone di 33 università (il 60% dei poli statali) che si attestano più in alto del vecchio limite di legge. Il record è stato raggiunto dall'università di Urbino, che ha chiesto ai propri studenti una somma pari al 36,6% del fondo di finanziamento ordinario, seguita a ruota da Bergamo (36,5%), Venezia (34,1%) e dalla Statale di Milano (31,7%). L'indicatore era cresciuto per anni nel silenzio fino a che, nel novembre scorso, il Tar Lombardia ha dato ragione a un ricorso degli studenti chiedendo all'Università di Pavia (dove lo sforamento era di 3,2 punti percentuali) di restituire agli studenti le tasse raccolte in eccesso. Una tendenza che, se generalizzata, avrebbe imposto agli atenei di rinunciare a circa 800 milioni di euro studenteschi all'anno, rendendo impossibile la quadratura dei conti. L'intervento del decreto sulla spending review risolve il problema per il futuro, anche se naturalmente non sana il passato. Determinando, tra l'altro, qualche incognita nuova, dal momento che la separazione delle tasse versate dagli studenti in corso dagli importi a carico degli altri non è semplice, con la conseguenza che sarà difficile controllare il rispetto della norma da parte degli atenei. Qualche problema operativo, poi, potrebbe venire dalla scelta di calcolare solo gli studenti italiani e comunitari. G.Tr. Che cosa cambia 1 LAVECCH1A REGOLA Le università statali non possono raccogliere tasse universitarie per un ammontare superiore al 20% del fondo di finanziamento ordinario toro assegnato. Secondo gli ultimi dati, ormai 1160% degli atenei aveva superato il limite 2 I IL RITOCCO li calcolo riguarda ora solo i contributi versati dagli studenti italiani e comunitari in corso e la somma va rapportata al complesso dei trasferimenti correnti alle università (non solo l'Ffo, quindi, ma anche le altre voci ministeriali) _________________________________________________ Il Manifesto 10 lug. ’12 I TAGLI PAGATI DAGLI STUDENTI UNIVERSITÀ • Il governo cancella il limite delle tasse ai fuori-corso come richiesto dalla Crui Roberto Ciccarelli Il 55 per cento degli atenei (per la precisione 33 su 72) che hanno fatto pagare ai propri studenti tasse più alte del dovuto tireranno un sospiro di sollievo. Il governo Monti li ha esentati dal restituirle e, come più volte richiesto dalla Conferenza dei Rettori (Crui), avranno la possibilità di aumentarle per rimediare alle difficoltà imposte dal taglio di 1,3 miliardi di euro al Fondo ordinario di finanziamento per gli atenei (Ffo). L'articolo 7 del decreto sulla spending, review ha modificato il limite di legge che impedisce alle università pubbliche di raccogliere dalle tasse studentesche una somma superiore al 20 per cento dell'Ffo ricevuto dallo Stato. Da oggi il calcolo di questo rapporto non avverrà più sull'intero ammontare della contribuzione studentesca complessiva (all'incirca 1,6 miliardi di euro versati da 1 milione e 680 mila studenti del nuovo e del vecchio ordinamento), bensì solo sugli studenti «italiani» in corso, ormai una minoranza rispetto al 56,5 per cento dei fuori- corso. Per questi ultimi, allo stato attuale, non viene fissato alcun limite all'aumento il che rende la norma approvata nel decreto salva spese particolarmente ideologica e punitiva. Non solo perché colpisce i ragazzi stranieri iscritti all'università, ma perché penalizza chi studia e lavora e, molto spesso, non riesce a chiudere in tempo il corso dei propri studi. Inoltre, il tetto del 20 per cento, stabilito da un Dpr del 1997, non sarà più calcolato sul fondo ordinario, bensì sulla somma dei contributi complessivi erogati dallo Stato: ad esempio l'edilizia universitaria. «Questa scelta del ministero — denuncia Luca Spadon portavoce del coordinamento universitario Link — porterà a un aumento generalizzato delle tasse universitarie. Uno scenario che non possiamo accettare. Se il governo non ritira questa norma torneremo a riempire le piazze». Un esempio può essere utile per comprendere la situazione. Prendiamo l'università di Bari, dove la base su cui calcolare il 20 per cento passerebbe dai 189 milioni di euro erogati dall'Ffo del 2011 a circa 250 milioni. In questo caso, l'aumento delle tasse per i fuori-corso potrebbe arrivare a 400 euro all'anno. La principale causa di questa scelta è il taglio di 1,3 miliardi di euro dell'Ffo stabilito dal governo Berlusconi e mai messo in discussione dal suo successore che, per un lungo momento, ha ipotizzato un ulteriore taglio da 200 milioni, poi ritirato tra le proteste generali. Nel 2012 all'università verranno tagliati altri 412 milioni di euro, l'anno prossimo 455. In un promemoria indirizzato il 6 luglio 2011 all'allora ministro Gelmini, la Crui propose ufficialmente l'aumento delle tasse studentesche per rimediare all'emergenza provocata dalla drastica diminuzione del contributo statale. In quel testo, i rettori chiedevano di sostituire il valore percentuale con un valore assoluto, in relazione al Pil di ogni Regione. Il governo Monti ha invece fatto di più, e peggio. Vuole far pagare agli studenti i tagli, aggravando una tendenza che già nel 2010 aveva portato le tasse a 1125 euro in media a testa, con un aumento del 38,2 per cento rispetto a cinque anni prima. Nello stesso periodo, a Siena e a Lecce le tasse erano aumentate del 90 per cento. Nell'autunno scorso gli studenti dell'Udu reagirono sommergendo di ricorsi i Tar di tutte le regioni. A Pavia, una sentenza di primo grado impose all'ateneo di restituire circa un milione di euro di tasse. La prospettiva di un contenzioso interminabile con un milione di studenti, tanti sono gli iscritti dei 33 atenei «fuorilegge», ha terrorizzato i rettori. Nella spending review il governo Monti ha trovato il modo per - tranquillizzarli anche su questo punto. Le università che non rispetteranno il tetto del 20 per cento verseranno il gettito extra a favore delle borse di studio, e non lo restituiranno direttamente agli interessati. E gli studenti non potranno più fare ricorso ai Tar. Una beffa, se si considera che le tasse serviranno a rimediare, molto parzialmente, ad un altro taglio: quello alle borse di studio diminuite da 246 milioni nel 2009 a 103 milioni nel 2012. ______________________________________________ Corriere della Sera 15 lug. ’12 QUEI 600 MILA FUORI CORSO PROFUMO: TROPPI, PIÙ TASSE Il ministro: manca il rispetto delle regole e dei tempi ROMA — «I fuori corso all'università esistono solo da noi», per questo «bisogna cambiare rotta». Il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo mette il dito nella piaga, a suo parere tutta italiana, dei quasi 600mila studenti che non hanno completato il ciclo di studi nei tempi previsti dall'ordinamento universitario, il 33,59% del milione e 782 mila iscritti all'anno accademico 2010/2011. E lo fa senza mezzi termini, sollevando quello che ritiene «un problema culturale»: «All'Italia manca il rispetto delle regole e dei tempi. Credo che la scuola sul rispetto delle regole debba dare un segnale forte» perché «gli studenti fuori corso hanno un costo, anche in termini sociali», incalza Profumo. Tanto è vero che uno dei provvedimenti inseriti all'interno della spending review sembra puntare proprio all'aumento delle tasse per quegli studenti che trascorrono all'università molti più anni del necessario. Ogni università attualmente non può ottenere come finanziamento dalle tasse universitarie più del 20% di quanto riceve dal ministero dell'Istruzione attraverso il fondo di funzionamento ordinario. Con il nuovo decreto nel computo di questo 20% non verrà considerata la quota delle tasse che deriva dagli studenti fuori corso ed extracomunitari. Di fatto, gli atenei potrebbero decidere di alzare le tasse a questi studenti. «Questo farà in modo che imparino a non perdere tempo», sottolinea il ministro, che però ci tiene a precisare: «Non puniamo nessuno, il 20% va depurato solo perché nel tempo sono cambiate le condizioni». Però, di fatto, pagare di più spinge gli studenti a «sbrigarsi»? «Non credo. Penso che piuttosto bisogna valorizzare le capacità delle persone, orientandoli in maniera mirata, come stiamo facendo con il portale www.universitaly.it». Un'altra strada suggerita dal ministro è valorizzare il regime «part-time», ovvero una formula che permette di diluire i tempi di studio, senza risultare fuori corso, pensata proprio per studenti lavoratori. «Alla Sapienza di Roma è obbligatorio dopo tre anni di fuori corso — spiega Luigi Frati, rettore dell'università più grande d'Europa, con i suoi 130mila studenti — è uno dei modi per facilitarli nel raggiungimento della laurea». Per Frati, i 162mila studenti che in Italia si sono laureati fuori corso (su 289mila totali, dati Miur 2010) non sono «bamboccioni, ma solo giovani in difficoltà» che andavano aiutati con misure concrete: come Telmasapienza, l'unica università telematica pubblica messa su dalla Sapienza per aiutare gli studenti fuori regione. Eppure la Sapienza ha comunque 40mila studenti fuori corso, non roba da poco. La Luiss, l'ateneo di Confindustria, ha invece poche decine di fuori corso e un tasso di abbandono dopo il primo anno dello 0%, rispetto al 17% nazionale. E gli studenti si laureano in 5 anni e tre mesi in media (per la laurea specialistica o di vecchio ordinamento), contro una media italiana di 8. Tutto merito di quegli 8mila euro all'anno da pagare? «I soldi possono essere un deterrente, ma il vero problema è che gli studenti vanno seguiti», sostiene il direttore generale Pierluigi Celli. «Se uno studente da noi non dà esami per due semestri consecutivi, cerchiamo di capire quali sono i suoi problemi, lo facciamo seguire da un tutor. E se continua a non produrre risultati, lo faccio studiare nel mio studio», conclude con una battuta. Una situazione ovattata rispetto allo «studente che si ritrova in atenei strapieni, con una spersonalizzazione totale della didattica, costi altissimi, soprattutto fuori sede» sottolinea Giuseppe Failla, del Forum nazionale dei giovani. E come conferma Anna Buonanno, studentessa di Giurisprudenza all'università di Salerno, che con i suoi quasi vent'anni di iscrizione e perseveranza potrebbe essere considerata un modello: «Mi manca un ultimo esame e spero di dare la tesi entro l'anno. Sono una studentessa lavoratrice, è vero, e questo mi ha creato dei ritardi. Ma l'atteggiamento autoritario dei professori, le corsie preferenziali, la distanza dall'apparato, possono creare grossi problemi agli studenti. Comunque io alla laurea ci arriverò, questo è certo. E mi iscriverò anche all'Albo degli avvocati». Con buona pace di Profumo, che a un figlio fuori corso direbbe: «Il tempo nel raggiungimento degli obiettivi è fondamentale». Valentina Santarpia ______________________________________________ Corriere della Sera 15 lug. ’12 L'EPOCA DEI FUORI CORSO È FINITA NON È SOLTANTO UN PROBLEMA DI COSTI Come accade troppo spesso nel nostro Paese, le regole si fanno per dei motivi, anche sensati, e poi si risolvono in una consuetudine sbagliata. L'opportunità di continuare gli studi oltre il tempo stabilito, è nata come eccezione comprensiva per i lavoratori; è stata, in fondo, un'opportunità democratica per i meno abbienti, un tempo supplementare per raggiungere gli stessi traguardi di chi poteva dedicarsi soltanto allo studio. Ma si è trasformata, man mano, in una consuetudine, un escamotage che permette di avere, in molti casi, l'università che ti fa compagnia per un lungo segmento di vita, intanto che ti dedichi ad altro. È diventata, la carriera studentesca, una delle opportunità del precariato: provo a fare un lavoro, provo a essere bravo in uno sport, provo a fare uno stage, provo ad andare all'estero, e provo anche a fare un esame. Il tempo fuori corso viene usato non più come un supplementare, ma come uno stile di vita. Ovviamente non per tutti, ma è questo arenamento del costume che il ministro Profumo mette in discussione. Il ministro parla di «costo» per la società. Il costo è l'ossessione di questi mesi. Però forse questo governo, mentre parla di costi, sta spesso puntando il dito verso il malcostume di casa nostra. Cioè, verso una serie di vecchie distorsioni alle quali sembriamo rassegnati. In pratica, al fondo della domanda sui fuori corso, ce n'è un'altra più profonda, su una consuetudine di questo Paese: la laurea come status, e non come opportunità lavorativa. Sembrerebbe a tutti noi che la laurea come simbolo sia ormai in decadenza, ma la verità è che in crisi è il suo valore reale, la sua capacità di trasformare uno specializzato in un lavoratore. Per questo motivo, in una società dove il futuro è al centro della crisi, e il passaggio dallo studio al lavoro è il momento più difficile nella vita di un italiano, l'idea di una carriera studentesca veloce e mirata diventa una necessità. Cittadini migliori sono anche coloro che riescono a vivere le opportunità concrete del presente, per poche o molte che siano. In questo, soprattutto, il fuori corso è una tipologia fuori dal tempo. Francesco Piccolo ______________________________________________ Corriere della Sera 15 lug. ’12 FUORICORSO «NON LI CHIAMO PIÙ SFIGATI, MA SI SBRIGHINO» «Non scrivete che sono quello della frase sugli sfigati, non ne posso più». Michel Martone, viceministro del Lavoro, vorrebbe cancellare quella frase «incauta» che a gennaio sollevò un vespaio. «Laurearsi dopo i 28 anni è da sfigati», osò dire: una provocazione, che gli costò una rivolta mediatica. A distanza di qualche mese, sorride approvando le parole di Profumo, che in sostanza ricalcano le sue convinzioni. «Quaranta milioni di nuovi lavoratori nel mondo sono pronti a competere per ottenere il nostro livello di benessere economico — sostiene Martone — I nostri giovani non possono permettersi di perdere tempo: prima si laureano, prima potranno competere con tutti gli altri, mettersi in gioco». Dunque, il sottosegretario — laurea in Giurisprudenza a 23 anni, ricercatore a 26, professore ordinario di Diritto del lavoro a 31 — cambia toni ma non idea. Per lui l'università «è solo una fase della vita», quindi bisogna puntare su «chi si sbriga a lasciarsela alle spalle. E gli altri, quelli che si laureano a 27-28 anni? «Una cosa sono quelli che incontrano difficoltà, che vanno aiutati. Tutti gli altri vanno spronati perché sono paralizzati dalla paura — spiega Martone — Dalla paura di confrontarsi e di sbagliare, e quindi preferiscono rifugiarsi nella famiglia e nell'università e rimandare scelte difficili». Insomma, anche la cucina di mamma può avere le sue colpe. «È un problema di modelli culturali — ammette Martone — Spesso dietro uno studente poco volenteroso c'è anche una tolleranza dei genitori». V. San. _________________________________________________ Il Sole24Ore 11 09 lug. ’12 PER IL TAR I «VECCHI» RETTORI DEVONO LASCIARE ENTRO L'ANNO Gianni Trovati MILANO I giudici amministrativi provano a spezzare la catena delle proroghe che tengono in sella nelle università i rettori «fuori tempo massimo» in base alle regole della riforma Gelmini. Lo stop ai rinvii a ripetizione arriva dal Tar Umbria, che nella sentenza 261/2o12 depositata ieri ha bocciato le scelte dell'ateneo perugino spiegando che il mandato del rettore Francesco Bistoni scade a ottobre prossimo, e non nell'autunno 2013 come sostenuto dai diretti interessati. Il caso di Perugia è un caso tutt'altro che isolato, e la pronuncia del Tar è destinata a tornare a incendiare un dibattito che riguarda decine di atenei statali. Tutto nasce dalla riforma Gelmini, che assegna ai rettori un mandato unico di sei anni (prima, in pratica, si poteva andare avanti ad libitum) e spiega che i vecchi rettori, tranne i pochi al primo mandato, devono abbandonare l'ufficio nell'anno successivo all'adozione dei nuovi Statuti. Una botta di rinnovamento in un quadro, quello dei rettorati, che in Italia non si è mai rivelato troppo dinamico (il record è a Campobasso, dove l'economista Giovanni Cannata è rettore dal i995, mentre a Viterbo il rettore della Crui Marco Mancini regge le sorti dell'ateneo dal 1999). Già, ma che cos'è l'adozione? Le Carte fondamentali degli atenei, da riscrivere per assegnare a Senato accademico e consigli di amministrazione i nuovi ruoli previsti dalla riforma dell'Università, vengono approvati dall'ateneo, poi inviati al ministero che formula osservazioni (non vincolanti) su cui l'università torna a pronunciarsi. Sono dopo questi passaggi la procedura vede il traguardo, con la pubblicazione del nuovo Statuto in «Gazzetta Ufficiale». Negli atenei dove la guida si è rivelata più «solida» nel tempo è prevalsa l'idea che l'adozione arrivi solo con gli ultimi passaggi, riapprovazione e «Gazzetta Ufficiale», e non con il primo via libera. Il risultato pratico è la scadenza dei mandati attuali arriverebbe nel 2o13 e non quest'anno, anche perché solo un quarto degli atenei statali è riuscito a veder pubblicato in Gazzetta lo Statuto entro il 20ll, anche se la prima approvazione è arrivata quasi sempre lo scorso anno per rispettare i tempi imposti dalla riforma. A Perugia, per esempio, il via libera risale al 5 ottobre 2011, ma lo Statuto non è ancora arrivato in Gazzetta. Ma è proprio questa interpretazione a finire sotto i colpi dei giudici perugini. L'« adozione», spiega la sentenza, è quella del Senato accademico, mentre tutti i passi successivi rappresentano una «fase integrativa dell'efficacia» dell'atto. In caso contrario, infatti, la proroga poggerebbe su un «momento indeterminato», dipendente da infinite variabili. A sostenere la tesi dell'università non bastano una «non meglio identificata nota ministeriale» di appoggio alla linea "dilatoria" (oltre che a Perugia, ne sono arrivate a Parma e in altre università) e ogni docente, titolare di elettorato attivo e passivo, ha un interesse legittimo a pretendere che siano indette le elezioni. _________________________________________________ Avvenire 10 lug. ’12 UNIVERSITÀ: PARTE DAL BASSO LA LOTTA CONTRO I BARONI ROBERTO CARNERO Allora, forse, c'è speranza. C'è speranza per il futuro dell'università italiana, se gli stessi docenti hanno finalmente capito che non è più dilazionabile una riforma seria, reale, dell'intero sistema accademico. L'unica speranza può essere soltanto questa: una riforma che parta dal basso, dall'interno, cioè un'autoriforma. Perché sinora tutti i tentativi di ristrutturare l'insegnamento e la ricerca universitaria dall'alto, cioè da parte della politica, sono falliti miseramente, scontrandosi contro gli interessi lobbistici della casta dei cosiddetti «baroni». Che nel nostro Paese è una delle corporazioni più forti e agguerrite. Perciò va salutata con favore l'iniziativa di quattro docenti universitari - Stefano Semplici (Roma Tor Vergata e Collegio Cavalieri del lavoro), Giampaolo Azzoni (Università di Pavia e Collegio Borromeo), Paolo Leonardi (Università di Bologna e Collegio Superiore) ed Emanuele Rossi (Sant'Anna di Pisa) - i quali si sono fatti promotori di un manifesto di autoriforma dell'università che in questi giorni sta facendo molto discutere (il nostro giornale ne ha parlato venerdì scorso con un'intervista a Semplici realizzata da Enrico Lenzi, il quale ha raccolto anche i pareri di Dario Antiseri, Paola Ricci Sindoni e Raffaele Simone). I firmatari di questo progetto - che recepisce, declinandoli nella concretezza di possibili applicazioni pratiche, alcuni principi a più riprese richiamati negli ultimi mesi dal ministro Francesco Profumo - focalizzano la loro attenzione su diversi punti, tra i quali spicca il concetto di merito. E proprio su questo vorrei soffermarmi brevemente. Per spiegare come, se vogliamo puntare a un'istruzione universitaria di qualità, vada attribuito al merito un valore centrale. Quando parliamo di merito, parliamo del merito degli studenti (ampliamento dell'offerta di collegi d'eccellenza, incentivi al diritto allo studio, eccetera), ma prima ancora dovremmo parlare del merito dei docenti. Cioè della questione del reclutamento. Questo oggi è il vero "punctum dolens" dell'università italiana. Tutti i mali partono da lì. Molto spesso da noi, diversamente da quanto accade nel resto del mondo avanzato, non si bandisce un posto di professore o di ricercatore perché serva davvero quella figura professionale, ma piuttosto perché è giunto il momento di "sistemare" qualcuno. Così la commissione non sarà interessata tanto a trovare il migliore candidato disponibile sulla piazza, quanto a blindare il concorso affinché il ruolo sia attribuito a colui o a colei per cui è stato bandito. Poco importa se quel candidato è molto meno qualificato di altri che si presentano al concorso. Nella quasi totalità dei casi le cose vanno come devono andare. Il tasso di sorpresa è davvero molto basso. Per i concorsi da ricercatore (il primo gradino della docenza universitaria) ci sono anche dei siti Internet nei quali si raccolgono i pronostici, che puntualmente si avverano. Siamo scesi a un punto davvero basso, dal quale non si può più aspettare di risalire. Ne va del futuro dei nostri giovani e dell'intero Paese. Dunque ben venga un'iniziativa che nasce dalla parte sana dell'università italiana. Che ci illudiamo non sia soltanto una sparuta minoranza. _________________________________________________ L’Unità 11 lug. ’12 SINI: SE UNIVERSITÀ E RICERCA DIMENTICANO LA FILOSOFIA IL VIZIO: ESTENDERE A OGNI DISCIPLINA CIÒ CHE VA BENE PER I FISICI O GLI ECONOMISTI MA NON PER GLI ALTRI CARLO SINI Dai criteri per reclutare i docenti fino ai punteggi per le pubblicazioni: così il sistema italiano penalizza gli studi di area umanistica che tutto il mondo ci invidia In un recente intervento su l'Unità ("Atenei, non svendiamo il nostro patrimonio"), Maurizio Mori ha svolto alcune importanti considerazioni alle quali desidero anzitutto associarmi. Mori denunciava un difetto, relativo ai criteri di reclutamento del personale universitario, che in realtà è antico: ricordo ad esempio progetti di riforma dell'università notoriamente ispirati dai rettori dei più importanti politecnici italiani e così via. Il difetto è quello di estendere a tutte le discipline e a tutti i settori della ricerca quei criteri che rispecchiano le esigenze e il costume internazionale della ricerca e della didattica nelle discipline scientifiche. Non è difficile però comprendere che ciò che è opportuno per i fisici, per i biologi, anche per gli economisti ecc. non trova adeguato riscontro nelle discipline umanistiche, filosofia inclusa. Non si sa se ignorare questo fatto, non inserire (come è accaduto) una adeguata rappresentanza di docenti dell'area umanistica nelle commissioni al lavoro sui criteri generali, sia più effetto di grave inconsapevolezza oppure di arroganza da parte dei politici e da parte dei colleghi scienziati. È tempo che un consistente numero di voci della cultura italiana si levi responsabilmente a denunciare uno squilibrio di valutazioni e di propositi che costerà caro a tutti i cittadini, sia in termini di immagine, sia di patrimonio morale e anche, letteralmente, materiale. Non a caso l'Italia è il primo Paese nel mondo per ricchezza di tradizioni storiche e geografiche, una specie di luogo privilegiato per la ricerca e la formazione nelle aree umanistiche, come sanno benissimo tutti gli studiosi della terra, spesso stupefatti di fronte alla nostra inerzia e, diciamo cosi, a una perdurante distrazione riguardo alla tutela e all'incremento di un patrimonio e di un retaggio di studi, di scuole, di documenti e di materiali incomparabili. Non si tratta, ovviamente, di approfondire il solco tra le cosiddette due culture; si tratta di evitare la riduzione della ricerca a un unico parametro, senza ragionevoli differenziazioni ove siano opportune. Di queste opportunità già in molti si sono accorti. Per esempio è insensato privilegiare, nelle materie umanistiche, il saggio o l'articolo rispetto alla monografia, la cui logica, struttura e gestazione è tutt'altra cosa dalla comunicazione di poche pagine e molte formule rivolta da un fisico alla comunità scientifica internazionale. Già ora diversi colleghi mi hanno segnalato che un loro articolino pubblicato su una rivista inglese o americana, un lavoretto occasionale meramente informativo o riassuntivo, con gli attuali criteri sarebbe valutato assai di più del loro libro migliore, al quale hanno dedicato anni di lavoro: queste assurdità devono assolutamente scomparire, così come un troppo accentuato appiattimento della valutazione sulla produzione degli ultimi anni. Demenziale è poi il privilegio della lingua inglese, privilegio che nelle discipline umanistiche è sia un controsenso, sia un esempio clamoroso di provincialismo culturale (cioè il contrario di ciò che pretenderebbe di essere). Inattendibili le valutazioni quantitative che non si confrontino adeguatamente con il contenuto qualitativo dei lavori, e così le riserve editoriali (ci sono piccole case editrici italiane il cui valore culturale è immenso e insostituibile). Insensato il ricorso a valutatori stranieri: i migliori di loro non saranno di certo attratti da un compito arduo e mal retribuito. Resteranno i peggiori, gli amici degli amici, gli italiani compiacenti che insegnano all'estero: un procedimento macchinoso che ripeterà antichi vizi e poco encomiabili comportamenti. Non ultimo va sottolineato il fatto che queste norme finiranno per- suggerire ai più giovani ricercatori comportamenti prevalentemente opportunistici, ai fini di una carriera universitaria già oggi così aleatoria e socialmente poco considerata. Sarà, come si dice, il colpo di grazia: anziché la legittima coscienza di appartenere a una tradizione di monumenti e di studi che tutto il mondo ci invidia e che è nostro onere e onore proteggere e incrementare, la voglia del camuffamento scientifico e internazionale presunto, l'ipocrisia, l'astuzia, il servilismo, il cinismo: tutti fantasmi che, purtroppo, appartengono anche loro al nostro costume. _________________________________________________ L’Unità 09 lug. ’12 MORI: ATENEI, NON SVENDIAMO IL NOSTRO PATRIMONIO Manca un'idea di Università adeguata ai tempi, che sia culturalmente pluralista e multietnica Nelle commissioni di concorso c'è la presenza di docenti stranieri I prof italiani non bastano? SIA PURE NELL'INDIFFERENZA DEI MEDIA, LA MACCHINA UNIVERSITARIA PER IL RICAMBIO DEI DOCENTI È PARTITA. Si tratta di un processo decisivo per il futuro del Paese, visto che il risultato porterà a individuare l'intellighenzia che formerà la classe dirigente dell'Italia a venire. La cosa che più ha interessato la stampa è stata la sistematica denigrazione dell'università, quasi fosse in balìa di «baroni» strapagati e fannulloni che meritano solo di essere messi in riga. Si è dimenticato totalmente che quando i nostri giovani vanno all'estero alla ricerca di un lavoro negato in patria, trovano subito ottime posizioni perché la preparazione ricevuta all'università è tra le migliori al mondo. Segno che, pur tra tante manchevolezze e pecche, l'Università italiana ha funzionato e funziona. Le difficoltà non mancano, ma si tratta di sapere se la cura proposta non sia peggiore del male. Le diagnosi sono molte e una di grande valore è stata fatta dal collega dell'università Cattolica, Adriano Pessina, in un fine articolo visibile sul sito di filosofionline (http://www.filosofionline.com/?p=547), da cui prendo alcuni spunti, come altri dal bel Documento della Società Italiana di Filosofia Politica (http://www.nuovarivistastorica.it/?p=3747). Uno dei principali problemi della riforma in atto è la contraddittorietà degli obiettivi: l'università si qualifica per la ricerca, ma poi assume le persone solo per le esigenze della didattica. Ci si lamenta che i professori sono troppo vecchi, ma non si fanno concorsi per i giovani. Si vuole l'eccellenza, ma si promuove una università di massa. Si fanno le lauree brevi, ma poi si inventano percorsi che non finiscono mai: lauree specialistiche, master, dottorati ecc. Questo capita perché manca una «idea di università» adeguata ai nostri tempi, una università che sia capace di pensare le prospettive di una società sempre più scientifica ma socialmente multietnica e culturalmente pluralista. Invece di tenere conto di queste diverse esigenze che si giocano su vari livelli, si è proceduto a una «normalizzazione» che tiene presente solo modello esteso poi a tutti i settori disciplinari, senza tenere conto della peculiarità dei diversi ambiti e livelli. Quest'aspetto emerge chiaramente nelle procedure di valutazione per la «abilitazione» (i concorsi). Al riguardo si è costituita una nuova agenzia (l'Anvur) che ha il compito di valutare sia i «prodotti» dei docenti sia il valore delle università: una sorta di agenzia di rating in cui esaminati e esaminatori si scambiano gli abiti. Ma se gli esaminatori sono scientificamente screditati, com'è che fanno a valutare in modo scientifico e corretto? Inoltre, l'Anvur ha imposto il modello unico, così che, per esempio, «valgono» più gli articoli su riviste che i libri, e quelli scritti in lingua straniera (l'inglese in primis!) che quelli in italiano, ecc., perché nelle scienze naturali conta questo. Per non parlare dell'idea di arruolare nelle commissioni di concorso docenti stranieri, dimenticando le difficoltà connesse alla lingua, alle corrispondenze disciplinari e, anche, alla retribuzione dovuta per un compito tanto gravoso e delicato. Senza il «certificato» di un collega straniero, i professori italiani non sono in grado valutare la preparazione dei nostri <