01 LUGLIO 2012 MEDICINA, IL TEST CAGLIARI CON SASSARI SEI FACOLTÀ E 17 DIPARTIMENTI, L'ATENEO ADESSO CAMBIA VOLTO UNICA:SENZA QUALITÀ NON SI VA AVANTI UNISS: SEI MILIONI PER L'UNIVERSITÀ RICERCA DI BASE: DALLA REGIONE 34 MILIONI SOLO DOCENTI LAUREATI PER L'ORA DI RELIGIONE MASSARENTI: ENTRIAMO NEL MERITO: MANIFESTO PER LA CULTURA POZZO: DALLA PARTE DELL'ANVUR DI CHIARA: PARTIRE DAI MODELLI FUNZIONANTI ORA OXFORD AMMETTE GLI ASINI MA SOLO SE SONO CINESI E RICCHI IL CNR DISTRATTO SULLA CULTURA UMANISTA I SEDICENNI SAREBBERO IGNORANTI? UNA LEGGENDA TUTTA ITALIANA «L'ATENEO NON È UN'AZIENDA». E LA PROF DIVENTA STAR A 30 ANNI IL PICCO DELL'ISTINTO DEI NUMERI FIGLI MIEI, MA QUANTO MI COSTATE! NEI SOCIAL NETWORK UNA MINIERA DI CONOSCENZE PIÙ RAPIDI E MENO "ENEGIVORI" COSÌ CAMBIA IL MONDO DEI CHIP LOMBROSO, IL MUSEO DELLA DISCORDIA TAV, LO SCONTRO È ANCHE TRA I LIBRI DOCUMENTATI, FAZIOSI E INCONCILIABILI BOSONE DI HIGGS, CI SIAMO VICINI ========================================================= MANAGER A RAPPORTO: NON SI ACCORCIANO LE LISTE D ’ATTESA : LISTE D'ATTESA, PRIVATI IN CAMPO PER ABBATTERLE BROTZU UN NUOVO PRONTO SOCCORSO BROTZU: I PRIMI TRENT'ANNI, ECCELLENZA DELLA SANITÀ SARDA AOUSS: MAXI CONCORSO: PASSANO IN 295 DALLA SANITÀ UN QUARTO DEI RISPARMI SANITÀ: TETTO AI FARMACI E ASTE CON LO SCONTO SANITA’: MA I TEDESCHI HANNO PIÙ DEBITO DEGLI ITALIANI DONARE IL SANGUE, UNA QUESTIONE ETICA L'OPERAZIONE SENZA CHIRURGO IL ROBOT CHE FA TUTTO DA SOLO LA RETE DELLA TOSCANA, RISPARMI E GORVERNANCE OBAMA: PROMOSSO DALLA CORTE SUPREMA SU SANITA’ OBAMA: I VESCOVI AMERICANI CONTRO LA RIFORMA SANITÀ SE CERCHI IL BUONO NON CONFONDERLO CON I "CIBI DELLA NONNA EPATITE C LA RIVOLUZIONE È ALLE PORTE «NATURE»: LA METFORMINA SPEGNE LE CELLULE TUMORALI UNICA: AGGRESSIVITÀ, SI PUÒ CONTROLLARE PERCHÉ SI DICE CHE IL COLLERICO È UNA PERSONA «BILIOSA» COME CURARE UN ARTO FANTASMA AL MERCATO DELLA GENETICA ========================================================= _______________________________________________ Repubblica 29 Giu.’12 MEDICINA, IL TEST VALIDO PER PIÙ DI UNA UNIVERSITÀ CAGLIARI CON SASSARI SALVO I NTRAVAIA IL MINISTERO cambia le regole del numero chiuso all'università. Graduatorie "territoriali", e non più per singolo ateneo, peri test di ingresso a Medicina. E la risposta del ministro Profumo alla notizia, pubblicata martedì da Repubblica, del rinvio alla Consulta della legge che fissa i test di ammissione e il numero chiuso per Medicina, Odontoiatria, Veterinaria, Architettura e per le Professioni sanitarie. LA NOVITÀ è contenuta nel decreto di giovedì scorso che fissa modalità e contenuti delle prove di ammissione alle facoltà a numero chiuso per il 2012/2013. Il 4 settembre gli aspiranti studenti di medicina si troveranno di fronte a un'importante novità: concorreranno non per un singolo ateneo, ma per un gruppo di atenei "vicini". Una scelta salomonica che potrebbe vanificare la bomba a orologeria innescata dal Consiglio di Stato, che il 18 Giugno su ricorso dell'Unione degli universitari ha rinviato alla Consulta la legge sul numero chiuso nazionale. Il meccanismo messo in piedi nel 1999 — test uguali per tutto il territorio nazionale, ma singole graduatorie di ateneo — per i giudici amministrativi affiderebbe al caso e non al merito l'ammissione alle facoltà a numero chiuso. L'anno scorso, in effetti, per essere ammessi, per esempio, a Medicina all'università di Verona occorreva raggiungere un score di 49,5 punti. Per essere ammessi all'università del Molise di punti ne bastavano invece 40,75. Per superare la disparità basterebbe stilare una graduatoria unica nazionale e i più bravi sarebbero premiati. Ma la graduatoria unica ha una controindicazione: gli studenti che hanno trovato un posto a migliaia di chilometri da casa, accetterebbero di trasferirsi? Se così non fosse, la lista su base nazionale avrebbe valore solo sulla carta. Così, ecco la salomonica soluzione del ministero: graduatorie per gruppi di atenei. Gli aspiranti medici (e odontoiatri) di Sicilia e Calabria, per esempio, parteciperanno al test giocandosi tutti i posti assegnati ai quattro atenei interessati: Palermo, Messina, Catania e Catanzaro (Magna Grecia). Per Medicina, lo scorso anno, le aggregazioni previste erano soltanto due: Udine/Trieste e La Sapienza, che al suo interno conta diverse facoltà di Medicina. Tutti gli altri atenei italiani facevano storia a sé. Quest'anno, l'aggregazione degli atenei è stata spinta al massimo: il decreto di due giorni fa ne prevede dodici. In più, la stessa aggregazione di sedi vale anche per l'ammissione a Odontoiatria. Per Veterinaria sono confermate le due aggregazioni dello scorso anno (Bologna, Milano, Parma, Padova e Teramo / Camerino). Così come per Architettura: la sola aggregazione prevista è quella tra Napoli e Salerno. La soluzione del ministero non piace all'Udu: «Il numero chiuso è sbagliato, non funziona e svilisce il merito e il ruolo dell'università italiana», dice Michele Orezzi dell'Udu. «Questi goffi interventi non riusciranno a nascondere l'ingiustizia e l'inefficacia dei test». Sedi Universitarie Aggregate - Bari, Foggia, Molise - Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia, Politecnica delle Marche - Brescia, Pavia, Verona - Cagliari, Sassari - Catania, Catanzaro "Magna Graecia", Messina, Palermo, - Chieti "G. D'Annunzio" , L'Aquila, Perugia, Roma "Tor Vergata" - Genova, Torino I Facoltà, Torino II Facoltà - Milano, Milano Bicocca, Varese "Insubria", Vercelli "Avogadro" - Napoli "Federico II", Napoli Seconda Università, Salerno - Padova, Trieste, Udine - Firenze, Parma, Pisa, Siena - Roma La Sapienza Med. e Farmacia Policlinico A E, Roma La Sapienza Med. E Odontoiatria Policlinico B C D, Roma La Sapienza Med e Psicologia _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 giu. ’12 SEI FACOLTÀ E 17 DIPARTIMENTI, L'ATENEO ADESSO CAMBIA VOLTO Non è, non sarà, un cambiamento gattopardesco. Stavolta le cose si modificano ma poco resta come prima. La riforma universitaria è stata approvata diciotto mesi fa (22 dicembre 2010) con la legge 240/10, detta Gelmini, che ne ha completamente rinnovato l'architettura normativa. L'assemblaggio di tutti gli elementi necessari a renderla operativa è ormai alla fase finale, logico che qualsiasi efficacia pratica, positiva o negativa, non si possa ancora valutare. Servirà un po' di tempo, mesi o qualche anno, per capire in che direzione si sta andando: se avevano ragione i sostenitori della riforma o quelli (e sono tanti, la maggioranza nell'ateneo cagliaritano) che l'hanno criticata. LO STATUTO E LA LEGGE L'esame sugli obiettivi - miglioramento della qualità della governance, della didattica, della competizione meritocratica per ottenere fondi - è rimandato, si può magari ragionare sul modo in cui le università hanno attuato e interpretato nei loro statuti i principi della legge 240 su composizione degli organi di governo e ruolo e competenze dei dipartimenti. Già perché i vecchi vizi sono saltati fuori: la riforma prevede per i rettori la fine del mandato a vita, c'è stato uno scontro sull'applicazione della norma visto che alcuni atenei (uno addirittura retrodatando l'inizio dell'anno accademico) hanno prolungato l'incarico suscitando un vespaio di polemiche. RIFORMA IMPERFETTA Sono puerili difese baronali che se ne infischiano di chi paga il costo della riforma, ovvero giovani ricercatori e studenti, le fasce più deboli del sistema, anche se tutti risentono dello stallo e degli effetti devastanti dei tagli. Che ci sia un difetto strutturale nella legge Gelmini l'ha pure intuito il nuovo governo che, per bocca del ministro Profumo, ha messo le mani avanti: il 2012 sarà un “anno palestra” ma dobbiamo allenarci a cambiamenti e competere sui mercati europei e internazionali. In due parole: è possibile qualche modifica in corsa. PRESIDENTI DI FACOLTÀ L'ateneo cagliaritano sta chiudendo in questi giorni le pratiche imposte dalla riforma, con i passaggi elettorali che riguardano la composizione del Senato accademico. Mentre ieri si è anche completato l'organigramma dei presidenti (non più presidi) delle nuove facoltà, passate da 11 a 6. Sono Giulio Paulis per Studi umanistici; Lucia Cavallini per Scienze economiche, giuridiche e politiche; Alessandra Carucci per Ingegneria e architettura; Paolo Contu per Medicina e chirurgia; Filippo Pirisi per Scienze farmaceutiche e biologiche e Biagio Saitta per Scienze. Nominati anche tutti i direttori dei dipartimenti che sono stati sottoposti a una intensiva cura dimagrante: da 44 a 17. Uno dei nodi sta qui: la nuova legge ha spostato sui dipartimenti le competenze didattiche che prima gravavano sulle facoltà, che adesso assumono un ruolo di coordinamento: si tratta dunque di trovare equilibri, rinforzare le collaborazioni, cercare di far convivere al meglio discipline che prima correvano da sole e adesso sono state accorpate. CORSI DI LAUREA Per gli studenti, dal punto di vista burocratico, poco cambierà: continueranno a rivolgersi agli sportelli delle loro facoltà, mentre per ora è presto per sapere come saranno riorganizzati i corsi di laurea. C'è chi dice che è un guazzabuglio, ma la maggioranza del corpo docente cagliaritano pur evidenziando le debolezze della legge, si è già rimboccata le maniche per lavorare al meglio in questa delicata fase di passaggio. OPINIONI E RESPONSABILITÀ Le opinioni dei docenti sono diverse, però obbedienti a un senso di responsabilità, come dire: cerchiamo di migliorarci altrimenti perdiamo tutti. Il rimescolamento di carte ha provocato anche situazioni anomale, per esempio quella del professor Antonello Sanna, fino all'altro giorno preside della più giovane facoltà dell'ateneo, Architettura, e adesso con l'incarico di direttore del dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e architettura. Non si sente affatto “degradato” anzi con fine umorismo spiega di aver ricevuto «una promozione perché prima da preside avevo 40 docenti, adesso da direttore ne ho 90». E spiega: «In realtà si tratta di un riconoscimento del lavoro che abbiamo svolto prima in Architettura. Adesso il dipartimento ha assorbito un po' di poteri dalla facoltà, si occupa della didattica, può avere voce in capitolo sui nuovi posti, il direttore siede nel Senato accademico. Insomma non è una diminutio ». In realtà, aggiunge Sanna, i problemi possono nascere dagli accorpamenti. «Nel mio dipartimento ne sono stati accorpati quattro che prima erano identità separate. Il rischio è perdere la ricchezza culturale, funzionale, la visibilità che avevano. Quindi occorre che tutti cooperino per un nuovo progetto che serva la formazione, la ricerca e il servizio sul territorio». PIÙ FLESSIBILI Chi invece è chiamato a svolgere le funzioni di presidente di facoltà è il professor Paolo Contu, fresco di nomina a Medicina e chirurgia. «In generale non ero d'accordo sulla legge- dice - come quasi tutti noi all'università. Ma abbiamo costruito uno statuto con aspetti positivi, per non complicarci la vita. La riforma? Può essere un'opportunità per rimettere un po' d'ordine, e capire quali sono i punti di confine tra facoltà e dipartimenti, interpretando la legge alla luce della realtà. Dovremmo essere più flessibili e collaborativi, senza che nessuno invada il campo dell'altro. Noi ne abbiamo già discusso coi direttori dei dipartimenti, la conclusione è che abbiamo gli stessi obiettivi». QUALITÀ Contu aggiunge anche che se per le altre facoltà il ruolo si è ridotto «per Medicina è diverso perché ci restano in carico i rapporti col Servizio sanitario nazionale, un ruolo importante e delicato». I problemi sono quelli di sempre «e non dipendono da noi: per esempio negli ultimi anni abbiamo avuto molti pensionati e pochi nuovi ingressi, si spera nei bandi per ricercatori e nelle abilitazioni per gli associati»; il resto, continua il presidente Contu, è «crescere su tre principi, qualità, accreditamento e internazionalizzazione: è qui che vanno indirizzate le nostre energie». MERITO E RISORSE Nessuno ha la palla di vetro per vedere cosa succederà ma - ammonisce il professor Angelo Cau, direttore del dipartimento di Scienze della vita e dell'ambiente - «se sulla carta pare sia premiata l'operosità, ricordiamoci di tenere anche conto della realtà in cui si lavora perché le università del meridione, Cagliari inclusa, non possono competere con quelle del Nord. Perché con la riduzione delle risorse umane e finanziarie, la mancanza di turn over, sarà sempre più difficile mantenersi su buoni livelli». Preoccupa l'assottigliamento dei dipartimenti: «prima erano autonomi e si mantevenano bene, adesso gli accorpamenti sono stati fatti in fretta e in furia, per aree di ricerca o tematiche, e gli esiti saranno sicuramente da verificare». CONTATTO COL TERRITORIO Cau cita il caso personale: «Da piccolo dipartimento eravamo un gioiello, adesso lo siamo ancora ma non so per quanto visto che ci dobbiamo sobbarcare anche i problemi di altri». Come organizzarsi per rendere al meglio? «L'università deve scendere dalla cattedra e misurarsi con la realtà, col territorio, sforzarsi di ottimizzare quello che la società ci chiede: siamo qui per questo». Comunque «tutto dipende da come è gestito il ruolo del dipartimento - spiega il professor Michele Camerota, direttore di Pedagogia, psicologia e filosofia -. Si è cercato di emulare il modello americano o inglese ma imponendo delle fusioni che funzionano solo se c'è un accordo sinergico». Come trarne benefici? Chiosa Camerota: «Da progetti condivisi che mettono in gioco competenze che prima erano separate. Intanto, anche se va tarato, è positivo che si sia inaugurato un criterio di valutazione della ricerca: di fronte a risorse sempre più scarse, non è più tempo di ripartizioni a pioggia o di logiche di privilegio». RIFORMA A COSTO ZERO Ecco, la questione fondi. Al di là della riforma, bello o brutta, tutti concordano che senza soldi non si va da nessuna parte. «Siamo consapevoli della crisi - aggiunge Antonello Sanna - ma se non si punta su giovani e ricerca tutto è inutile. Non vogliamo dare l'immagine di una università di Cagliari allo sbando però il dimagrimento selvaggio, senza programmazione e possibilità di ragionare, ci penalizza». Vecchia storia all'italiana, sempre riciclata: le riforme a costo zero hanno il fiato corto. Sergio Naitza _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 25 giu. ’12 UNICA:SENZA QUALITÀ NON SI VA AVANTI L'ateneo coinvolto per promuovere una crescita guidata Il professor Vincenzo Solinas guida i programmi di formazione e autovalutazione Si ha un bel criticare, spesso giustamente, la corposa macchina dell'ateneo cagliaritano ma bisogna anche riconoscere gli sforzi che produce per migliorarsi, per arrivare a un livello di trasparenza e qualità che la renda competitiva e soprattutto possa dialogare più facilmente con gli studenti, gli enti, le istituzioni e il mondo del lavoro. IL CENTRO Qualità è appunto la parola - molto abusata e poco rispettata - che ricorre nei propositi, nei desiderata, negli obbiettivi, tanto che a partire dal 2000 (concretamente dal dicembre 2009) si è deciso di passare ai fatti: così è nato il Centro per la Qualità dell'Ateneo, un sistema un po' burocratico ma che - applicato con rigore e continuità - dà buoni frutti. E permette all'università cagliaritana di capire se la strada intrapresa - nella didattica, nella ricerca, nella funzione delle strutture amministrative - sia giusta o vada modificata attraverso programmi di formazione e la valorizzazione dei risultati conquistati. GLI OBIETTIVI Tutto questo significa, molto banalmente, che se la “cultura della qualità” diventa il motore di ogni iniziativa e se ogni ingranaggio dell'ateneo lavora con la consapevolezza di aiutare la produttività interna, l'università non solo scala la classifica della premialità e prende più soldi dal Ministero ma migliora l'offerta, cresce, acquista prestigio, credibilità e affidabilità. Sembra l'uovo di Colombo, anzi lo è; la difficoltà stava solo nell'iniziare a cambiare la mentalità delle risorse umane che lavoravano in ordine sparso, tra progetti autoreferenziali, chiusi nei fortini baronali, bacati dall'invidia. Il Centro, voluto dal Rettore (prima Mistretta, poi istituito da Melis), nasce con la finalità opposte, cancellare vecchie logiche per svolgere «attività di formazione per tutte le figure interne dell'Ateneo coinvolte nella gestione della qualità» come si legge nel pieghevole informativo. Oltre al Rettore ne fanno parte, cinque professori esperti di sistemi di gestione della qualità, il presidente del Nucleo di valutazione d'ateneo, il direttore amministrativo e uno studente. Poi c'è il direttore che è mente e braccio operativo: carica che ricopre il professor Vincenzo Solinas, ex docente di Chimica Industriale, ora in pensione ma con entusiasmo ancora dentro l'università a dare il contributo di esperienza e capacità. L'AUTOVALUTAZIONE Il segreto per puntare alla qualità è «mettere in discussione l'organizzazione interna, ascoltare le esigenze di tutti e rispondere alle richieste attraverso sperimentati meccanismi di analisi. E riconoscere che non deve essere una attività di volontariato ma una missione dell'ateneo», spiega Solinas. Il primo passo è la capacità di autovalutazione: «consente di interrogarsi sulle attività programmate, sui modi in cui vengono svolte e in cui possono migliorare». Un esempio? L'ateneo cagliaritano (come tutti gli altri italiani) soffre del problema della dispersione: la cifra di abbandono studentesco è intorno al 35%, serve capire le ragioni e indagare per trattenere i fuggitivi che sono peraltro i “clienti prioritari” dell'università: pagano le tasse ed esigono un servizio. Ecco dunque che il Centro per la Qualità si mette al lavoro: sa che entro il 2020, secondo l'indicatore europeo, la dispersione deve essere contenuta al 10%, quindi in 8 anni si deve recuperare una consistente fetta del 25%. Spiega Solinas: «Bisogna verificare chi sono queste matricole, come fanno le prove di accesso, garantirgli un corso di sostegno per dargli una seconda possibilità». Insomma organizzare una rete di servizi e assistenza in grado di stimolare la cultura della qualità. PREMI E SANZIONI Finora solo 7 università italiane, e Cagliari è fra queste, hanno istituito il Centro che ha già dato confortanti risultati: i corsi di studio che hanno consegnato il Rav (il Rapporto di autovalutazione) sono 74 su 82, una media dunque del 90%. Vuol dire che pur nella fatica di dover produrre un “libro” di un centinaio di pagine, seguendo una precisa analisi analitica, i docenti hanno capito l'importanza del sistema. Oltretutto scatta il criterio del premio, una cifra simbolica da investire nella didattica, che va però di pari passo con eventuali sanzioni per chi non sta alle regole. La strada è solo all'inizio anche perché dopo la prima autovalutazione scatta quella esterna, entrando in un dedalo di sigle tra Anvur, Civr, Civit, Caf, Iso 9000 che saranno utilizzati dal Miur e dal Governo come criterio per ripartire le risorse in base a efficacia ed efficienza. SPERIMENTAZIONE Cagliari sta cercando di guardare più avanti con la sperimentazione di un modello di didattica universitaria, in collaborazione con altre università, basato sull'apprendimento delle conoscenze e competenze da parte degli studenti. E con un recente corso di formazione a cui hanno partecipato enti, associazioni, industrie sarde, per creare un collegamento fra università e territorio. Tutto serve per dare qualità all'ateneo cagliaritano visto che nella classifica italiana stilata dal Sole 24 ore viaggia, per ora, al 42° posto (su 58). Sergio Naitza _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 giu. ’12 UNISS: SEI MILIONI PER L'UNIVERSITÀ L'Università si è aggiudicata un finanziamento di 6 milioni e 763mila euro, nell'ambito del Programma operativo regionale, grazie a un progetto che porterà un forte impulso all'innovazione in alcuni settori strategici per il sistema della ricerca in Sardegna: Information Communication Technology, nanotecnologie, biotecnologie, ambiente, energia e sviluppo sostenibile, agroalimentare. Le risorse consentiranno entro l'estate la pubblicazione di bandi per 29 ricercatori a tempo determinato (21 si dedicheranno a progetti dell'area scientifica e sanitaria, 8 a proposte dell'area umanistica e delle scienze sociali) e 34 assegnisti (14 si occuperanno di conservazione e restauro dei beni culturali, 20 saranno impegnati in progetti multidisciplinari, in forma associata e partenariale, con centri di ricerca e imprese del territorio). _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 24 giu. ’12 RICERCA DI BASE: DALLA REGIONE 34 MILIONI «Competere nell'innovazione significa scegliere, con criteri rigorosi, i campi nei quali è possibile eccellere in ricerca e la Sardegna ha scelto di percorrere questa strada in modo deciso investendo 34 milioni per rifinanziare la legge 7 sulla ricerca di base, 25 milioni dal protocollo attuativo con il Miur per progetti industriali e sperimentali e ricerca applicata per organismi di ricerca e imprese, 30 milioni dal Fesr per start up di imprese innovative e per sostegno all'attrattività del territorio attraverso iniziative di finanza innovativa». Lo ha detto il vice presidente e assessore della Programmazione, Giorgio La Spisa, concludendo a Pula l'incontro: “Telethon in Sardegna: le sfide della ricerca genetica in un convegno internazionale”. «Per stare al passo dei nuovi modelli di competizione internazionale occorrono nuove strategie di ricerca e di sviluppo», ha aggiunto La Spisa. «È necessario concentrare gli interventi e le risorse valorizzando i punti di forza del nostro sistema di ricerca e del nostro sistema produttivo rafforzando, in linea con le politiche europee in materia di ricerca, la nostra presenza in settori emergenti ad alta intensità di conoscenza». _______________________________________________ Unità 1 Lug.’12 UNIVERSITÀ, ABILITAZIONI AL VIA MA CON IL PIEDE SBAGLIATO Il reclutamento universitario è bloccato dal 2008; l'università non è come qualsiasi altra struttura pubblica. Se si blocca il reclutamento e si disincentivano i giovani dalla ricerca, si mina l'università alla base, con conseguenze gravi sul Paese e in particolare sulle sue potenzialità di sviluppo. Ora, dopo infinite discussioni, stanno per avviarsi le abilitazioni nazionali. I candidati professori ordinari e associati dovranno prima essere abilitati da una commissione nazionale. Gli abilitati potranno partecipare a concorsi locali banditi dalle singole sedi, i cui vincitori entreranno in ruolo. Un meccanismo, previsto dalla riforma Gelmini, che pone una quantità di problemi, tanto più che la possibilità di procedere a un effettivo reclutamento degli abilitati è comunque strozzata dalle previsioni di un decreto ministeriale che colloca il turnover fra il 10 e poco più del 20%, a seconda della virtuosità delle sedi. A prescindere da ciò, le abilitazioni non partono nel migliore dei modi. Per essere abilitati i candidati dovranno superare la mediana del proprio settore concorsuale per il ruolo a cui concorrono, quanto a produttività o indici bibliometrici (numero di citazioni dei propri scritti, e così via). Come saranno calcolate le mediane? Lo farà l'Agenzia nazionale per la valutazione (Anvur) fondandosi su un database nazionale (il Cineca. Ora, il Cineca è un database notoriamente non affidabile: l'inserimento dei dati è totalmente affidato ai docenti, che possono commettere errori, imprecisioni, volendo potrebbero perfino inserire volutamente dati non esatti. L'Anvur chiede a tutti i docenti italiani di inserire le proprie pubblicazioni nel Cineca entro 1'8 luglio, senza prevedere alcun controllo dei dati inseriti. Le mediane, sulla base delle quali si stabilirà se i candidati possono essere ammessi o meno alle abilitazioni, saranno dunque calcolate sulla base di dati inseriti volontariamente quindi certamente non completi, non verificati e non verificabili. Sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere: vale la pena di ricordare che il Cineca si interfaccia male con i database delle singole università. Può capitare, ad esempio, di aver inserito certe pubblicazioni nel Cineca, magari per presentare domanda per finanziamenti alla ricerca. Se quelle stesse pubblicazioni vengono poi inserite anche nel database della propria sede universitaria, questo le ritrasmette al Cineca, il quale non filtra però i doppioni e la stessa pubblicazione risulta inserita due volte. Che razza di mediane si vogliono calcolare con questi dati? Ancor peggio il secondo criterio previsto per l'ammissione dei candidati alle abilitazioni delle aree umanistiche: si è pensato, giustamente, che vi possono essere studiosi che hanno scritto poco, ma lavori eccellenti. Non volendoli escludere dalla procedura, si è pensato di ammettere coloro che superano la mediana del settore concorsuale per il numero di pubblicazioni su riviste scientifiche "eccellenti" (di fascia A). Chi decide se una rivista scientifica è eccellente o meno? L'Anvur, ossia un organo di nomina ministeriale. L'Associazione Italiana dei Costituzionalisti, guidata da Valerio Onida, ha annunciato l'intenzione di impugnare la parte del decreto relativa alle classifiche di riviste, sostenendo a ragione che si tratta di un criterio nuovo fatto valere retroattivamente (chi ha scritto anni fa su riviste che ora saranno classificate B o C sarebbe infatti ingiustamente penalizzato). Ma al di là di questo, c'è un aspetto ancora più inquietante, legato alla commistione fra scienza e politica, che ricorda epoche non felici del passato europeo. L'Anvur è un'agenzia di nomina politica. Pur senza mettere in dubbio la correttezza dei componenti il direttivo, è assolutamente inopportuno dal punto di vista istituzionale e per la salvaguardia della libertà di ricerca che una simile struttura si assuma il compito di discriminare scienza buona e scienza cattiva. Senza scomodare l'Urss e la biologia di Stato imposta da Lysenko, non vorremmo che in futuro, a seconda del colore del governo che nominerà il direttivo Anvur, ci tocchi vedere alternarsi in fascia A "Studi Gramsciani nel mondo" e "Nova Historica" (diretta dal creazionista Roberto De Mattei). L'INTERVENTO ANTONIO BANFI Università di Bergamo _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Lug. ’12 MASSARENTI: ENTRIAMO NEL MERITO: MANIFESTO PER LA CULTURA Armando Massarenti Siamo o no il paese degli Azzeccagarbugli? Quando il 19 febbraio scorso abbiamo deciso di pubblicare il Manifesto per la costituente della cultura ne eravamo perfettamente consapevoli. In questi mesi abbiamo seguito e alimentato il dibattito in modo particolare su uno dei temi cruciali: la valutazione della ricerca. Ora spiace che proprio un costituzionalista di grande valore come Valerio Onida abbia preso di mira il faticoso, e certamente perfettibile, lavoro che l'Anvur sta facendo per introdurre criteri oggettivi di valutazione nelle procedure di reclutamento universitario. In una lettera inviata nei giorni scorsi, in qualità di Presidente dell'Associazione Italiana dei Costituzionalisti, ai presidenti delle società scientifiche dell'Area 12 (Scienze Giuridiche), il presidente emerito della Corte Costituzionale sostiene che il decreto con cui l'Anvur ha stabilito criteri e parametri per valutare i candidati e per accertare la qualificazione dei commissari che li giudicheranno ai fini di riconoscerli abilitati per diventare professori universitari di prima e seconda fascia sia viziato di «illegittimità e di irragionevolezza». Introducendo ora dei criteri che vanno a valere per le pubblicazioni uscite nei dieci anni precedenti il bando, si violerebbero i «principi di eguaglianza e ragionevolezza», nonché il «principio di affidamento legittimamente sorto nei soggetti "quale principio connaturato allo stato di diritto"». In altre parole, la tesi è che non sarebbe legittimo e ragionevole usare le classificazioni gerarchiche delle riviste stabilite ora, per un periodo in cui tali classificazioni non esistevano e quindi nessuno poteva prevedere l'esito delle attuali scelte degli esperti. Ma un discorso del genere può valere quando non sono in gioco interessi generali: nella sfera dei diritti soggettivi per esempio. Ma il buon senso darebbe per scontato che chi aspirava a diventare professore universitario negli ultimi dieci anni selezionasse già le riviste dove pubblicava sulla base del prestigio, e che i commissari che valutavano i candidati a diventare loro colleghi usassero delle implicite graduatorie, considerando per esempio che un articolo pubblicato su una rivista internazionale con referaggio è più meritevole (e dunque ha più peso) di uno pubblicato su una rivista nazionale con referaggio, e quest'ultima sede più apprezzata di una rivista senza referaggio. La denuncia di Onida potrebbe indurci a credere che i professori del l'area di scienze giuridiche, o tutti quelli che sono contrari ai criteri proposti, venissero valutati o valutassero senza usare metriche implicite condivise. Non vogliamo crederlo. Se dunque queste metriche vengono rese trasparenti dall'Anvur, dove sta il problema di illegittimità? E soprattutto di irragionevolezza? Si tratta solo di cercare una metodologia per dare trasparenza alle procedure per accertare che tutti i futuri docenti di prima e seconda fascia abbiamo una qualifica scientifica alta. Tutto ciò, lo sappiamo, è perfettibile. Dunque il dibattito e il lavoro di affinamento continuano. _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Lug. ’12 POZZO: DALLA PARTE DELL'ANVUR Il mondo accademico deve sostenere l'Agenzia e proporre costruttivi aggiustamenti di rotta, evitando invece i ricorsi che rischiano di paralizzare il sistema Nel settore delle scienze umane c'è un problema di confronto nazionale e internazionale e la necessità di costruire una metodologia seria Riccardo Pozzo Alla vigilia dell'impresa Anvur, Edoardo Barbieri aveva proposto con preveggenza dieci punti per la valutazione della ricerca nelle scienze umane volti alla creazione di parametri complessi costruiti per tener conto del maggior numero di fattori in gioco. La via regia per evitare errori e superare incomprensioni era l'indicizzazione attraverso nuove banche dati sviluppate in stretto contatto con i repository istituzionali delle università e del Cnr. Non costituisce un serio ostacolo, l'ammissione di errori, ma è quasi una conferma che l'Anvur stia procedendo nella direzione giusta. Che riviste di provata eccellenza come "Isis" e "Bruniana & Campanelliana" siano finite in fascia B è evidentemente un errore. Risulta che dalla pubblicazione, il 29 febbraio, di elenchi di centinaia di riviste, quella di "Isis" e "Bruniana & Campanelliana" sia stata la prima seria segnalazione ricevuta (sul Sole 24 Ore del 3 giugno). Proprio per questo motivo, l'Anvur ha messo in opera un meccanismo di revisione delle liste, al quale si sono subito rivolte le case editrici delle due riviste in questione. L'Anvur per la prima volta ha costretto un'accademia, che – almeno in vasti settori delle scienze umane – credeva ancora di vivere in un mondo di 1.500 ordinari tutti eguali e inattaccabili, a riconoscere che vi era un problema di confronto nazionale e internazionale, unica condizione per un reale riconoscimento di valore. L'Anvur ha in effetti costruito in pochi mesi con una metodologia seria (domande a società, spedizione a referee delle liste ricevute, revisione delle proposte dei referee insieme alle società scientifiche e ai gruppi di esperti), gestita da alcuni dei migliori studiosi italiani, degli elenchi di riviste condivisibili. Credo che sia per questo motivo, nella direzione di liste più solide e oggettive, basate su criteri chiari, enunciati in anticipo, virtuosi e difficilmente contestabili, che la segnalazione del l'errore che ha colpito le due riviste sia stata benvenuta. In una strada come quella presa dall'Anvur, possono però trovarsi ostacoli più insidiosi. Dal 25 giugno circola in rete la notizia che il direttivo dell'associazione italiana dei costituzionalisti, esaminato il testo del Decreto ministeriale 7 giugno 2012 sull'abilitazione nazionale all'insegnamento universitario, ha deliberato di impugnarlo. In effetti, il Decreto ministeriale introduce fra gli indicatori di attività scientifica non bibliometrici (che condizionano la valutazione positiva dell'importanza e dell'impatto della produzione scientifica complessiva) il numero di articoli pubblicati nei dieci anni precedenti il bando su riviste appartenenti alle riviste di fascia A. Ma va detto che, poiché l'obiettivo delle abilitazioni nazionali è diverso da quello della valutazione, queste liste non saranno identiche a quelle pubblicate dall'Anvur il 29 febbraio, anche se naturalmente le prime dovranno tener conto delle seconde, oltre che del parere delle società scientifiche. Secondo i costituzionalisti, si farebbe così dipendere la valutazione della qualità della produzione scientifica da un elemento estrinseco: la fascia di appartenenza delle riviste su cui sono comparsi gli articoli. Una fascia definita ora per allora e con effetto retroattivo, visto che la produzione scientifica da valutare si intende riferita ai dieci anni precedenti la indizione della sessione di abilitazione. I costituzionalisti rilevano insomma un vizio d'illegittimità e irragionevolezza che inficia l'applicazione degli indicatori di attività scientifica non bibliometrici ai settori dell'area 12 (Scienze giuridiche). Tale disciplina, concludono, appare lesiva dei principi di eguaglianza e di affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo stato di diritto. Su tale retroattività è aperta la discussione. Tanto gli elenchi pubblicati dall'Anvur il 29 febbraio, quanto i nuovi che in preparazione per le abilitazioni non si fondano infatti su criteri stabiliti oggi, ma si rifanno alla notorietà e alla credibilità che le riviste hanno acquisito nel corso degli anni. Sembra che alcuni settori delle altre aree delle scienze umane e sociali, le aree 10, 11, 13 e 14, intendano muoversi sulla strada dei ricorsi, mentre la loro maggioranza sarebbe favorevole ai criteri dell'Anvur nella prospettiva delle abilitazioni nazionali. In ogni caso, la strada dei ricorsi, rischia di compromettere l'intera impresa e di bloccare le abilitazioni nelle scienze umane. Occorre correggere un'impresa necessariamente complessa e dunque soggetta a errori, non creare effetti secondari incontrollabili. Occorre sostenere l'Anvur con la collaborazione della parte attiva dell'accademia italiana, una collaborazione preziosa, che ha prodotto risultati di sostanza. © RIPRODUZIONE RISERVATA La ricerca universitaria e la sua valutazione, a cura di Edoardo Barbieri, Guaraldi Universitaria, Rimini, pagg. 102, € 15,00 _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Lug. ’12 DI CHIARA: PARTIRE DAI MODELLI FUNZIONANTI Gaetano Di Chiara e Maria Grazia Roncarolo Un Paese che voglia rimanere competitivo deve investire nella ricerca scientifica. La necessità di ridurre la spesa pubblica rende ora ancora più acuta la necessità di aumentare la produttività della ricerca attraverso una rigorosa selezione dei progetti e delle strutture da finanziare. Da qui la necessità di un sistema di valutazione della qualità della ricerca capace di premiare il merito. In caso contrario si mette a rischio la fiducia degli stessi ricercatori nelle istituzioni e nella ricerca. La creazione dell'Anvur - Agenzia per la valutazione dell'Università e della Ricerca - indica che l'Italia si sta finalmente muovendo in questa direzione. Ma l'esperienza negativa della valutazione dei progetti di ricerca nazionali (Prin e Firb) dimostra che i metodi finora utilizzati possono essere migliorati. Ecco le proposte del Gruppo 2003, che ha attentamente valutato i sistemi di valutazione attualmente in uso in Italia. L'attuale processo di valutazione dei progetti di ricerca finanziati con fondi pubblici (Prin e Firb) necessita di una urgente e radicale riforma. La valutazione dei progetti è infatti affidata di norma a due revisori esterni che confrontano i loro giudizi con nessun altro, se non con il Garante che li ha scelti - il quale, peraltro, non deve dar conto a nessuno. Oltre alla scarsa trasparenza del processo di revisione, questo sistema soffre di altre pecche, come l'impossibilità di una valutazione comparativa dei progetti sulla base di un comune metro di giudizio, l'insufficiente peso attribuito alla produttività in ricerca già dimostrata dal proponente, e l' inadeguatezza delle risorse ai fini della fattibilità di ciascun progetto. Questi difetti, nel loro insieme, finiscono per impedire una valutazione giusta ed efficace dei progetti di ricerca. In che modo si può riformare la valutazione e selezione dei progetti di ricerca? Il Miur potrebbe adottare modelli di valutazione che hanno già dimostrato in pratica di funzionare egregiamente, come il sistema di revisione dei National Institutes of Health (NIH) statunitensi, o di fondazioni private italiane come Telethon e Airc. Il cardine di questi sistemi è il confronto tra i progetti di ricerca e la loro discussione da parte di un panel internazionale di esperti: la study session. Questo sistema riduce al minimo i conflitti di interesse e i personalismi e consente l'applicazione di un metro di valutazione comune ai progetti che appartengono alla stessa area scientifica del proponente. Per quanto riguarda la valutazione delle Strutture che producono ricerca (Atenei e Istituti di ricerca) l'entrata in funzione dell'Anvur ha finalmente dotato l'Italia di uno strumento finalizzato a questo scopo. Il metodo di valutazione dei prodotti della ricerca ( essenzialmente, pubblicazioni) da parte dell'Anvur si basa su un sistema misto che utilizza gli indici bibliometrici costituiti dalle citazioni ottenute da ciascuna pubblicazione e dalle relative riviste (impact factor), codificate da un gruppo di esperti per ogni area di ricerca (Gev), e il giudizio di revisori esterni del stesso settore di ricerca cui appartengono le pubblicazioni (peer review). Alla valutazione da parte della peer review sono destinate le pubblicazioni non valutabili sulla base degli indici bibliometrici (per esempio, atti di in convegni, libri, monografie su collane) e un certo numero, scelto a campione, delle pubblicazioni per le quali sono applicabili gli indici bibliometrici (citazioni e impact factor della rivista). Sulla base di questi fattori viene assegnato un punteggio e i prodotti considerati eccellenti corrispondono al miglior 20% della produzione dell'area. Secondo il Gruppo 2003 il limite dello strumento dell'Anvur è il ridotto potere di risoluzione della valutazione della qualità della ricerca e la tendenza a livellare le eccellenze. Le cause sono l'esiguo numero massimo di pubblicazioni da sottoporre alla valutazione (3 in 7 anni per docente e 6 per ricercatore) e la fissazione dell'eccellenza al miglior 20% della produzione dell'area. Questo limite si potrebbe correggere estendendo la valutazione basata su indici bibliometrici a tutte le pubblicazioni della Struttura nel periodo considerato e portando il requisito per l'eccellenza dal 20% al miglior 5% della produzione dell'area. D'altra parte, l'utilizzazione di revisori esterni costituisce una possibile fonte degli stessi problemi che affliggono la valutazione dei progetti di ricerca da parte di revisori esterni. A questo scopo potrebbe essere necessario istituire panel di esperti (study session) che confrontino e discutano le valutazioni dei lavori da parte dei revisori esterni (peer review). Per finire, scopo ultimo di una valutazione della ricerca è la distribuzione delle risorse secondo il merito. Perciò, una valutazione, per quanto accurata e ben condotta, è inutile se non influenza il finanziamento dell'Università e degli Istituti di ricerca. Di questo l'Anvur dovrebbe farsi promotore e indicare le modalità applicative dei risultati della valutazione al fine di attivare un efficace meccanismo virtuoso volto a migliorare la qualità della ricerca. Gruppo 2003 Il documento integrale del Gruppo 2003 può essere letto sul sito http://www.scienzainrete.it _______________________________________________ Avvenire 29 Giu.’12 SOLO DOCENTI LAUREATI PER L'ORA DI RELIGIONE Nuova intesa Stato-Cei sulla qualificazione degli insegnanti Bagnasco: consolidato l'armonioso inserimento dell'Irc nella scuola DA ROMA MIMMO MUOLO La firma prima e la stretta di mano poi, subito immortalata dal nugolo dei fotografi presenti. Nella cornice della Sala del Consiglio permanente si è svolta ieri mattina la cerimonia della firma della nuova Intesa Stato-Cei sull'Insegnamento della Religione Cattolica (Irc) nella scuola statale. In un clima cordiale - come del resto tutto l'iter di revisione iniziato nel 2010 - il cardinale presidente della Cei, Angelo Bagnasco, e il ministro della Pubblica Istruzione e Ricerca, Francesco Profumo, hanno apposto le loro sigle in calce al documento che prende il posto dell'analoga Intesa varata nel 1985 e adegua lo statuto dell'Irc al quadro complessivo della scuola italiana, che in questi 22 anni è naturalmente mutato. «L'atto che stiamo per compiere - ha detto Bagnasco poco prima della firma - non solo conferma lo stile di dialogo e di collaborazione che caratterizza i rapporti tra le nostre Istituzioni, ma consolida ulteriormente l'armonioso inserimento dell'Irc nei percorsi formativi della scuola italiana». Anche il ministro ha sottolineato che si tratta di «un passo molto importante» oltre che «un elemento di chiarezza per il procedere dei prossimi anni». E in effetti la nuova Intesa aggiorna completamente le norme relative ai profili di qualificazione degli insegnanti e modifica a livello lessicale i punti che riguardano i programmi, le modalità organizzative di insegnamento e i criteri di scelta dei libri di testo. Rivisto l'analogo accordo che era stato siglato nel 1985 Il ministro della Pubblica Istruzione, Profumo: passo molto importante ed elemento di chiarezza per i prossimi anni. In sostanza, ha spiegato il ministro», «la nuova Intesa prevede che per accedere all'Irc in ogni ordine e grado di scuola si debba essere in possesso dei titoli accademici di baccalaureato, licenza o dottorato in teologia o in altre discipline ecclesiastiche (come era già stabilito in precedenza), oppure che si sia conseguita una laurea magistrale in scienze religiose secondo il nuovo ordinamento». Per i sacerdoti invece resta titolo valido il percorso di studi svolto nel seminario maggiore. «Nelle scuole dell'infanzia e primarie - ha aggiunto Profumo -, dove il Concordato del 1984 consente di affidare l'Irc anche agli insegnanti ordinari delle sezioni o delle classi, è stata conservata questa possibilità, richiedendo agli interessati il conseguimento di un apposito master universitario di secondo livello in scienze religiose, al fine di equiparare in qualche modo la preparazione professionale degli insegnanti specialisti che svolgono solo l'Irc e quella degli insegnanti comuni che curano l'Irc solo nella propria classe o sezione». I nuovi titoli saranno richiesti a partire dal 1° settembre 2017 per lasciare a tutti il tempo di completare eventuali percorsi di studio già avviati. «Fino a quella data - ha detto il ministro - saranno ancora validi i titoli previsti dalla precedente Intesa». Alla cerimonia erano presenti anche il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, monsignor Vincenzo Annicchiarico, responsabile del Servizio nazionale della Cei per l'Irc e una folta delegazione del ministero. «Auspico - ha concluso Bagnasco - di vedere quanto prima i frutti di bene che scaturiranno da questo rinnovato accordo». _________________________________________________________ Il Giornale 28 Giu.’12 ORA OXFORD AMMETTE GLI ASINI MA SOLO SE SONO CINESI E RICCHI Sotto accusa le università britanniche d'élite: ai giovani inglesi chiesti voti altissimi. L'inghippo: per gli stranieri non c'è alcun tetto alla retta Gaia Cesare Contro l'aumento delle tasse - ormai di fatto triplicate nei due terzi delle università inglesi - a Londra finì a manganellate, arresti e feriti tra la polizia egli studenti in manifestazione appena un anno e mezzo fa. Eppure, a giudicare dall'inchiesta sfoderata ieri in prima pagina dal Telegraph, la questione che rischia di bruciare ancora di più nel Regno Unito patria delle migliori università del mondo (5 figurano fra le prime 30 e altrettante nella top ten delle migliori d'Europa), è che molti studenti britannici le rette da capogiro introdotte dal governo di David Cameron (9mila sterline l'anno, circa 11mila euro) le pagherebbero volentieri se solo potessero davvero mettere piede in quegli atenei. Peccato che, al po-sto loro, a entrare siano soprattutto studenti stranieri, magari pessimamente qualificati ma in grado di tenere in piedi quell'industria del sapere che rappresenta il 9,9% della quota di mercato globale e che grazie al contributo degli arrivi internazionali porta nelle casse dell'economia britannica 5 miliardi di sterline l'anno e ne porterà fino a 17 miliardi entro i12025. Un affare da Pil, come ha sottolineato il nostro ministro degli Esteri Giulio Terzi, ricordando che «la crescita italiana passa anche per l'attrazione dei migliori cervelli dall'estero nel nostro sistema universitario». Così accade a Londra, non senza qualche polemica. Lo scandalo denunciato dal quotidiano conservatore ha come teatro Pechino. Con una telecamera nascosta, due giornaliste si presentano in uno dei 15 uffici Golden Arrow che in Cina svolgono funzioni di agenzie ufficiali per conto di Russell Group, organizzazione che raccoglie venti delle più prestigio se università inglesi, comprese Cambridge, Oxford, Birmingham, Bristol e Cardiff. Basta una semplice chiacchierata per svelare che, a dispetto delle scarse performance scolastiche dell' aspirante matricola di cittadinanza cinese sulla quale le due reporter prendono informazioni, per la giovane non sarà affatto un problema trovare posto. «Ci è capitato di mandare ragazzi alla Cardiff Business School per studiare contabilità e finanza anche con un ACD (il voto della maturità, ndr). Quindi anche con un CCC possiamo aiutarla». Se poi i voti fossero persino migliori (ma sempre al di sotto dei risultati pretesi dagli studenti inglesi) non ci sarebbero problemi a entrare a Cardiff, alla Sou-thampton University (terza in Europa) e «magari anche a qualche ateneo più su» (restano solo Cambridge e Oxford).Il paradosso è tutto qui: migliaia di studenti inglesi, pur avendo ottenuto un brillante AAA all'A-level (l'equivalente del nostro 100/100 alla maturità) non riescono ad accedere alle università britanniche perché l'ingresso è a numero chiuso e le università che sforano il tetto (è accaduto quest' anno per circa 25mila posti)vengono multate. Lo stesso non accade agli studenti extraeuropei, accolti con un tappeto rosso per rimpolpare i bilanci delle accademie, che caricano sugli stranieri dalle 3mila alle 22mila sterline in più (così accade per alcuni corsi di medicina). Business is business. Lo spiega senza peli sulla lingua Alan Smithers, direttore del Centro per l'Istruzione della Buckingham University. «Gli atenei sono un affare, devono garantirsi il futuro e guardano agli introiti. Ma il rischio è che gli standard educativi vengano compromessi se a guidare le scelte è solo il denaro». Quattrini che incidono sempre di più nelle scelte delle accademie dove il numero di studenti extraeuropei è cresciuto del 6,2% nell'ultimo anno e quello degli studenti cinesi - i più numerosi con gli indiani - addirittura del 43% negli ultimi due anni. Dal 2013 per gli inglesi arriva l'apertura: gli atenei potranno accettare tutti gli studenti che desiderano, purché rispondano a determinati standard (essersi diplomati almeno con una A e due B). Intanto la grande fuga è cominciata. I migliori cervelli british scappano verso gli Stati Uniti, un record di 8947 nell'anno accademico 2010-2011. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 27 giu. ’12 IL CNR DISTRATTO SULLA CULTURA UMANISTA di TULLIO GREGORY Il Cnr ha pubblicato il «Documento di visione strategica» per il prossimo decennio: documento importante nelle sue scelte e raccomandazioni, redatto da una commissione — nominata dal ministro Profumo — composta di 16 membri, dei quali due stranieri. In larga maggioranza autorevoli esperti delle cosiddette scienze dure, con un solo rappresentante delle scienze filologiche, storiche, filosofiche, Michel Gras, studioso francese di primo piano nel campo della ricerca archeologica: di questo «equilibrio imperfetto» il documento porta le conseguenze, come si vedrà. Poiché il presidente Nicolais, presentando il Documento, ha auspicato che si apra un dibattito, cerchiamo qui di avviarlo. Tra le proposte molto positive e innovative mi sembra da segnalare l'istituzione di Scuole internazionali di dottorato presso i Dipartimenti e le aree di ricerca Cnr: si avrebbero finalmente scuole con corsi regolari, di alta specializzazione, con laboratori e biblioteche, cosa che avviene raramente nelle università dove i dottorandi sono per lo più abbandonati a se stessi, al massimo affidati a un tutor, senza corsi regolari. Molto spazio è giustamente dato alle tecnologie informatiche e al trasferimento tecnologico. Ma quando si passa alla definizione delle aree tematiche (differentemente presentate nel Documento e nella I appendice) ci si trova innanzi a un elenco piuttosto disordinato di buone intenzioni, di saggi consigli, che prescindono del tutto dal bilancio del Cnr (la spesa per le iniziative proposte non è mai quantificata) e soprattutto sembrano ignorare le ricerche in corso presso i vari Istituti. Siamo di fronte a programmi che potrebbero trovare forse spazio in una rinata Casa di Salomone, di baconiana memoria. Già qualche perplessità desta la serpeggiante insofferenza per la ricerca di base, riconosciuta come caratteristica del Cnr, insistendo piuttosto sul rapporto con il mondo dell'impresa, che è come dire vincolare la ricerca a commesse esterne per un immediato utile economico, mettendo in crisi quelle attività che garantiscono il progresso del sapere, come già era posto in evidenza dal panel generale di valutazione. In questa prospettiva non stupisce l'emarginazione delle discipline umanistiche: in tutto il Documento di 63 pagine, i cenni a queste discipline (accorpate nell'ambigua dizione «scienze sociali e umane e patrimonio culturale») se fossero raccolti tutti insieme non occuperebbero più di una pagina; delle stesse discipline si torna a parlare nella I appendice, occupando due pagine su quindici complessive. Si aggiunga che in tutto il Documento sono ignorate le ricerche storiche, filologiche, filosofiche, la cui presenza nel Cnr e il cui valore sul piano internazionale era stato messo in evidenza dal panel di valutazione dell'ente collocando al vertice, su 107 istituti, proprio i due istituti che svolgono ricerche in questo campo. Dato del tutto ignorato nel Documento che pur utilizza, per altri settori, le valutazioni del panel. Peraltro, quando definisce le aree tematiche, il Documento propone per le scienze economiche, sociali e umane e il patrimonio culturale (inserite nell'area intestata alla «sicurezza e inclusione sociale») temi di una genericità significativa: «innovazioni sociali creative», «lotta contro il crimine e il terrorismo», «libertà di accesso a Internet», «sensori per stati di crisi», «coesione sociale», «pace», «legalità e sicurezza», «la rappresentazione dei beni», «l'eredità storica», «le strategie territoriali». Il tutto servito con affermazioni di assoluta ovvietà: «il patrimonio culturale va valorizzato», «il patrimonio culturale immateriale va incrementato». Né maggiore chiarezza troviamo nella I appendice, dedicata alle aree tematiche, ove — ancora una volta ignorando settori di ricerca nei quali l'ente ha posizioni di prestigio — si indicano alcune priorità: per il patrimonio culturale, «conoscenza approfondita dei litorali», «turismo planetario, «miglioramento della rappresentazione e dell'immagine dei beni culturali, in relazione soprattutto alla persona umana e alla natura». Per le scienze sociali e umane le priorità sono: «cambiamenti demografici», «coesione sociale e culturale, legalità e sicurezza», «competitività del sistema economico», «pace», «pensare il futuro della città». Affermazioni tutte che si commentano da sole per la loro banalità. Come spiegare questa disattenzione del Documento per le discipline umanistiche senza riaprire un inutile dibattito — del tutto privo di senso — sulle cosiddette due culture? Semplicemente ricordando l'endemica indifferenza, a volte diffidenza, di larghi settori del Cnr verso le discipline umanistiche (ammesse nell'ente cinquanta anni orsono) che, come ho avuto altra volta occasione di ricordare, sono state recentemente «compresse» dal nuovo CdA del Cnr in un unico Dipartimento, così da mettere insieme l'archeologia micenea con il diritto privato europeo, la psicologia con il restauro, la filologia classica con la sociologia industriale. Va anche riconosciuto che la prospettiva del Documento non differisce dalla politica del Miur e del Cipe (come si rileva anche dal Piano nazionale della ricerca 2011-2013), espressione del più miope aziendalismo, tutto volto al prodotto (tanto caro all'Anvur) vendibile sul mercato e valutabile con criteri «quantitativi» (oggi ampiamente criticati da tutte le grandi istituzioni scientifiche europee); di qui l'emarginazione della ricerca di base, scientifica e umanistica, e più ancora di una cultura che crei valori, non commerciabili ma essenziali per la crescita della società civile. Dimenticavo: il Documento auspica l'avvento di apostoli specialisti di «analisi bibliometriche» per «posizionare la ricerca del Cnr nell'ambito europeo ed internazionale»; per i direttori scientifici di dipartimenti e istituti richiede «esperienze gestionali e manageriali», come vuole l'Anvur per i professori universitari, con i noti risultati. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 27 giu. ’12 I SEDICENNI SAREBBERO IGNORANTI? UNA LEGGENDA TUTTA ITALIANA Credo che i sedicenni o diciottenni, che frequentano i licei italiani, siano calunniati sui nostri giornali. Dovunque leggiamo che non hanno letto libri, e che non sanno scrivere in italiano: mentre si dà per inteso che le generazioni anteriori conoscessero molti libri e scrivessero decorosamente. Credo che sia una sciocchezza, come tutte quelle che paragonano, in generale, l'intelligenza e la cultura delle diverse generazioni. La mia esperienza è diversa. Ogni tanto, per una ragione o l'altra, obbedendo a questa o quella curiosità, mi vengono a trovare dei ragazzi o dei giovani. L'ultimo è venuto pochi giorni fa. Aveva sedici anni. Abitava in un paesone degli Abruzzi non lontano da Pescara. Parlava con eleganza, precisione e leggerezza, senza nemmeno una traccia di profumo dialettale. E, via via che il discorso superava la sua naturale timidezza, mi sono accorto che aveva letto moltissimi libri: molti più di quelli che, nel lontano passato, avevo letto io alla sua età. Non erano libri comuni, raccomandati a scuola, o conosciuti da tutti. Erano libri rari. Per esempio, mi disse che amava i saggi di Mario Praz: libri che, oggi, non pochi anglisti di quaranta o cinquant'anni non hanno mai sentito nominare. Credo che il ragazzo abruzzese abbia molti affini. Un mio amico, che insegna in una università degli Stati Uniti e alla Sapienza di Roma, mi dice che la ignoranza e la mediocrità degli studenti italiani è una leggenda. Tra i suoi studenti, quelli di Roma posseggono spesso un'intelligenza più sottile e una cultura più rara. Insieme a loro, tiene seminari con molto profitto. Solo che, come tutti sappiamo, mentre gli anni passano, i suoi eccellenti studenti romani restano a casa, senza lavoro e senza stipendio. Pietro Citati _______________________________________________ Il Giornale 28 Giu.’12 «L'ATENEO NON È UN'AZIENDA». E LA PROF DIVENTA STAR La licenziano, studenti e colleghi si ribellano: riassunta Gli ingredienti per un successo a Hollywood ci sono tutti: la professoressa coscienziosa, i turpi burocrati, la rivolta dei colleghi e degli studenti, il lieto fine. E chissà che la storia di Teresa Sullivan non finisca davvero sul grande schermo. La scena vista ieri davanti all'università della Virginia è senz'altro da film: la presidentessa dell'ateneo che riprende possesso dell'ufficio da cui era stata cacciata, accolta da due ali di folla che battono le mani: sono gli studenti e i professori entrati in rivolta dopo che il consiglio d'amministrazione dell'università ha deciso di cacciare la dirigente che era al lavoro da appena un anno. Il licenziamento, deciso in piena estate e in modo un po' carbonaro, era stato motivato in modo un po' fumoso. Ma dalle email dei componenti del Cda si capiva che avrebbero voluto imprimere un'accelerazione al cambiamento dell'università, aumentando la propensione all'insegnamento on line, in vista anche dell'arrivo di nuovi investitori nel campus. Un'ansia di rinnovamento che si avverte molto forte nel sistema scolastico americano che da qualche tempo è un po' appannato, anche se nelle classifiche internazionali molti atenei americani svettano nelle prime posizioni. La professoressa Sullivan però non si era arresa al licenziamento e aveva denunciato la «congiura» con una lettera in cui si chiedeva, retoricamente, se era giusto che un'università venisse gestita come un business, premendo l' acceleratore sui risultati. Il caso è p oi rimbalzato su Time, dando il via a un ampio dibattito sulla questione: «Spetta ai professori gestire o ad amministratori delegati?». Ma dietro la domanda retorica c'è anche una realtà sempre più difficile: il governo americano ha ridotto gli stanziamenti dell'8 per cento, sottraendo sei miliardi alla macchina dell'istruzione. Una realtà con cui anche gli insegnanti devono, letteralmente, fare i conti. Con conseguenti riduzioni del personale e dei corsi e caccia a sponsorizzazioni ed entrate supplementari garantite dall'istruzione a distanza. Ma dopo la lettera di Teresa Sullivan la questione è stata azzannata dai media, e i bilanci hanno dovuto lasciar spazio all'emozione. Prima le dimissioni di un professore e del vice rettore. Poi i cortei di studenti e la comparsa della scritta «avidità» vergata con lo spray all' ingresso dell’ateneo. Insomma, uno psicodramma. Di fronte al quale i vertici dell’ateneo hanno dovuto fare ammenda e procedere al reintegro della professoressa. Celebrato con un bagno di folla. Tutti contenti. E la questione del vile denaro? Sepolta dall'applauso degli studenti. Ma chissà per quanto tempo ancora. _______________________________________________ Repubblica 29 Giu.’12 A 30 ANNI IL PICCO DELL'ISTINTO DEI NUMERI La matematica aiuta a vivere meglio I ricercatori dell'università di Baltimora hanno sottoposto a un test diecimila persone tra gli 11 e gli 85 anni Lo studio, uscito sulla rivista scientifica "Pnas", conferma che studiare bene a scuola fa mantenere l'allenamento ELENA DUSI ROMA La matematica è un istinto che cresce e invecchia con noi. Come la forza dei muscoli, la capacità di manipolare i numeri si rafforza rapidamente nei bambini, raggiunge il massimo intorno ai 30 anni di età, poi inizia lentamente a decadere. In maniera sempre simile allo sport, un buon allenamento sui banchi di scuola migliora il rapporto con cifre e insiemi. E fa sì che l'agilità nelle operazioni resti intatta nonostante gli anni. Il senso dell'uomo per la matematica ha la forma di una curva a forma di scudo, con il picco che coincide con la tarda gioventù. L'hanno messa insieme per la prima volta i ricercatori dell'università di Baltimora sottoponendo a un test numerico 10mila persone tra gli 11 e gli 85 anni. Raccogliere un numero così grande di "cavie" è stato possibile grazie a Internet, che sempre più spesso viene sfruttato negli esperimenti scientifici su larga scala perla sua capacità di riunire grandi coorti di volontari provenienti da tutti i paesi del mondo. Il test proposto dai ricercatori (ancora disponibile in rete su www.panamath.org) misura una funzione innata del nostro cervello: il sistema numerico approssimativo. Sullo schermo di un computer, per un tempo brevissimo, vengono proiettati due gruppi di cerchi di due colori diversi. I volontari devono decidere quale dei due gruppi è più numeroso. La capacità di soppesare e confrontare due quantità anche senza calcolamela cifra esatta ha accompagnato la storia della nostra specie. Insieme alla geometria appartiene (in forme meno specializzate) anche ai bambini di pochi mesi e ad alcune tribù aborigene o amazzoniche che non hanno mai affrontato la matematica sui banchi. Alcuni esperimenti l'hanno riscontrata perfino in scimmie, piccioni e ratti. E i neurologi hanno individuato l'area dell'"istinto per i numeri" nel solco intra parietale: una delle pieghe della corteccia del cervello situata verso la nuca. Lo studio uscito su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) conferma che ottenere buoni voti, dalle elementari all'università, rende l'istinto più acuto e meno vulnerabile all'età. Curiosamente però, lo stesso numero della rivista pubblica un altro articolo che bacchetta gli scienziati. Loro per primi sarebbero troppo refrattari all'uso dei calcoli, con buona pace di Galileo secondo cui il grandissimo libro della natura è scritto in lingua matematica. Le pubblicazioni scientifiche che contengono molte equazioni, secondo lo studio di Pnas, vengono citate negli articoli scientifici successivi il 50% in meno rispetto a quelli scritti completamente nel "linguaggio delle lettere". I ricercatori dell'università di Bristol che hanno misurato la pigrizia numerica dei loro colleghi suggeriscono di migliorare la preparazione matematica dei laureati nelle materie scientifiche. Ma secondo gli esperti di Baltimora, svolgere più operazioni sui banchi può migliorare l'"istinto dei numeri" nella popolazione in generale, aiutando chi invecchia a mantenere l'agilità mentale. «Abbiamo scoperto — scrivono gli autori— che la sensibilità ai numeri cresce durante l'età scolare e diventa massima intorno ai 30 anni. Questo miglioramento è comune a tutti, ma ci sono profonde diffidenze tra individui della stessa età. Quelli che vanno meglio in matematica a scuola, restano i più bravi per tutta la vita». Il sistema numerico approssimativo serviva ai nostri antenati a misurare, ancorché a spanne, il mondo della natura per decidere quale fonte di cibo era più abbondante o per darsi alla fuga nel momento in cui i nemici erano troppo numerosi. Oggi saper confrontare due insiemi può aiutare a scegliere la fila più corta o a sommare a grandi linee le calorie introdotte conia dieta. Cambiato il contesti, affidarsi al senso del cervello per i numeri conviene ancora. _______________________________________________ La Stampa 27 Giu.’12 FIGLI MIEI, MA QUANTO MI COSTATE! Il cibo È la voce in maggior calo percentuale mentre cresce quella per la comunicazione e i trasporti e resta costante l'abbigliamento Negli Usa le famiglie spendono 234.900 dollari in 18 anni. Poi ne pagano altri 200 mila per l'Università PAOLO MASTROLILLI INVIATO A NEW YORK Il governo americano, attraverso il dipartimento all'Agricoltura, ha calcolato che crescere un figlio fino all'età di 17 anni costa in media 234.900 dollari alla famiglia. Stima che, secondo il settimanale Time, è decisamente inferiore alla realtà, perché le spese reali per accompagnare un bambino fino all'università arrivano a un milione di dollari. I conti+ del governo Usa sono troppo ottimistici, per diverse ragioni. Come prima cosa, escludono completamente i costi dell'università. In America oggi per frequentare un buon college privato ci vogliono circa 40 mila dollari all'anno: basta moltiplicare questa cifra per quattro, e aggiungerci le altre spese per vitto, alloggio, libri e accessori vari, e si arriva facilmente a sfiorare il mezzo milione di dollari. Il dipartimento all'Agricoltura ha però fatto i suoi calcoli basandosi su una famiglia media che guadagna tra 59.410 e 102.870 dollari all'anno, e non vive a Manhattan o a Beverly Hills. Se però si sale sopra quella soglia di reddito, il vero costo complessivo per allevare un figlio cresce a 389.670, con circa altri 200 mila dollari da aggiungere per frequentare l'università. A questo punto un genitore vorrebbe avere un istante per tirare il fiato, pensando di avercela fatta, anche se a fatica. Sbaglierebbe, però, perché siamo ancora lontani dalla realtà. Secondo il Wall Street Journal, infatti, a tutti questi soldi spesi bisogna aggiungere anche quelli non guadagnati: le rinunce, le opportunità mancate di fare carriera, i quattrini che non abbiamo potuto investire perché servivano a pagare bollette varie. Sommando tutto, si arriva ad un totale compreso tra 900 mila e 1,1 milioni di dollari per figlio. La crisi economica, poi, ha complicato questi sacrifici, e ridotto i tassi di fertilità nel mondo occidentale. Nello stesso tempo i giovani faticano a trovare, lavoro, e quindi restano più a lungo in casa con i genitori, estendendo l'arco della vita in cui vanno mantenuti. Naturalmente avere un bambino non ha prezzo, e qualunque genitore vi dirà che vederlo sorridere ripaga ogni sforzo compiuto per renderlo felice. Meglio pagare, insomma, e non pensarci più. _______________________________________________ La repubblica 25 Giu.’12 PIÙ RAPIDI E MENO "ENEGIVORI" COSÌ CAMBIA IL MONDO DEI CHIP CON L'AVVENTO DEL CLOUD E DEGLI SMARTPHONE SI EVOLVONO LE ESIGENZE DELL'INFORMATICA, E I PROTAGONISTI DEL SETTORE A PARTIRE DA INTEL LANCIANO UNA SERIE DI NUOVI MICROPROCESSORI Valerio Maccari Veloci nei calcoli, energetica- mente efficienti, adatti alla mobilità. Con l'avvento di cloud computing, smartphone e tablet, si sta trasformando la concezione di microprocessore, il cervello elettronico dentro ogni dispositivo che ne è il motore. Se prima contava la potenza adesso si sono aggiunti altri fattori: le dimensioni, il consumo di energia elettrica, il calore prodotto. Che devono essere appunto a misura di smartphone e simili. Il mercato dei chip di questi dispositivi è in crescita: ne12011, quello degli smartphone ha raggiunto gli 8 miliardi di dollari, in salita di ben i170% sull'anno precedente. Una torta ricchissima per il dominio della quale gli sfidanti sono due: l'americana Intel e l'inglese Arm. Due avversari diversi per filosofia e dimensioni. L'Intel ha inventato l'architettura x86: una tipologia di chip che, dall'inizio degli anni '80 a oggi ha sconfitto tutti i rivali (da Cyrix a Amd) e conquistato il mondo del personal computing tradizionale, dai primi Pc Ibm compatibili agli Apple. Nel 2011, l'Intel ha dominato il mercato mondiale dei chip (che vale 41 miliardi di dollari) con l'80,3%. Abbastanza per meritarsi il soprannome di "Chipzilla" , il Godzilla dei chip. Come il mostro giapponese la colossale Intel si trova davanti un nemico di dimensioni più ridotte ma non per questo meno pericoloso. La casa inglese Arm, con un fatturato di 490 milioni di sterline contro i 50 miliardi di dollari dell'Intel, nacque nel 1990 a Cambridge (si chiamava allora Advanced Risc Machine) come joint venture fra Apple, Visi Technology e Acom Computer (quest'ultima aveva avuto una certa gloria negli anni precedenti quale rivale della Commodore nei piccoli computer domestici). Da Acorn, l'Arm ha ereditato la filosofia di base dei processori: gli inglesi puntano su un modello detto Risc che semplifica le operazioni eseguite dal chip, a vantaggio dei bassi consumi e della flessibilità. Gli americani di Intel, invece, si basano sulla filosofia Cisc che incorpora operazioni più specializzate rendendo i chip meno adatti ad applicazioni generiche. Sebbene la filosofia promossa da Arm (e da Sparc, Motorola, Apple) abbia tentato di rompere il predominio di Intel sui pc, la casa di Santa Clara, investendo sempre più nella progettazione e nello sviluppo dei suoi processori, ha mantenuto fermamente il controllo del mercato dei computer domestici. L'avvento di smartphone e tablet ha mosso la situazione. Nei dispositivi portatili (anche quelli specializzati in videogiochi come i Nintendo) i processori Arm stanno vivendo una nuova primavera. Tanto che nel mercato degli smartphone e dei tablet i processori Arm detengono il 92% del mercato. Merito della flessibilità dell'architettura di questi chip, che li rende adatti praticamente a tutto, e ai bassi consumi. Ma c'è un'altra differenza che permette ad Arm di competere alla pari di Intel. Questa volta non si tratta di caratteristiche tecniche, ma di modello di business. Mentre l'Intel, infatti, sebbene non sia piena proprietaria dei diritti sull'architettura x86 (l'antitrust americana l'ha costretta a lasciare che potessero produrli anche Amd e Cyrix), esercita un controllo assoluto sulle tecnologie impiegate nella produzione dei nuovi processori, la Arm è un progetto aperto: la piccola casa inglese non produce direttamente i processori ma si limita a disegnarne l'architettura per poi affidarne la licenza e la produzione a terzi, tipo Amd/ Nvidia, Qualcomm (che è la leader di processori Arm per telefonini), Samsung, Hp e Dell, solo per nominarne alcune. Una squadra di primo piano, che ha letteralmente buttato fuori Intel da smartphone e simili. Per far fronte al calo di competitività sul fronte tablet e smartphone e allo stallo che sta interessando il settore pc, mercato chiave per la Intel, la casa di Santa Clara ha lanciato nel 2008 l'Atom, processore a basso voltaggio che garantisce buone prestazioni e consumi bassi. Atom è stato un successo soprattutto sugli ultrabook, i computer sottilissimi orientati alla portabilità, dove la concorrenza Arm stenta a decollare. Ma è sul fronte dei server e dei data center Intel può dormire sonni poco tranquilli Il Ceo di Arm, Graham Budd, ha sottolineato l'interesse della compagnia a invadere il settore con dei processori specifici: «Arriveremo entro la fine dell'anno con i primi prodotti - ha dichiarato - e puntiamo ad ottenere i110% del mercato già entro il 2016». Hewlett Packard e Dell, fra i più grandi produttori di server, hanno già dato il loro appoggio. E stanno testando le prime macchine. Sempre più vicini ai meccanismi "multitasking" del cervello umano Che il microprocessore sia il cervello del computer è una metafora che sta per diventare più calzante che mai: Intel e Amd stanno lavorando a una nuova generazione di chip "neuromorfici", che si ispirano cioè alla struttura neurale del cervello. L'obiettivo è imitare, almeno in parte, le prestazioni dei veri cervelli: in sostanza, questi nuovi processori dovrebbero essere in grado di elaborare contemporaneamente molte operazioni differenti, fornendo prestazioni superiori a quelle dei chip attualmente sul mercato consumando una frazione dell'energia. Proprio le caratteristiche chiave del cervello umano, potente come un supercomputer ma con un consumo stimato intorno ai 30 watt. Gli entusiasti della nuova tecnologia però dovranno attendere: I chip neuromorfici sono ancora a livello teorico, e non saranno disponibili sul mercato per diversi anni. (v.mac.) E I PADRONI DEL MERCATO l I quattro protagonisti assoluti del mercato dei microprocessori: la californiana Intel (1), il gruppo fondato nel 1968 da Andy Grove tuttora indiscusso numero uno del settore; la britannica Arm (2), che deriva da un'antica società di computer e ora ha ritrovato smalto con una serie di nuovi brevetti; le altre americane American Micro Devices (3) e Cyrix (4), che stanno recuperando dopo aver perduto alcune posizioni. Nel comparto si muovono poi gruppi meno specializzati e meno dipendenti dai chip, come Motorola e Samsung _______________________________________________ TST 27 Giu.’12 NEI SOCIAL NETWORK UNA MINIERA DI CONOSCENZE Inseguendo le tracce digitali che svelano amicizie e passioni Il nostro mondo è permeato di reti, da quelle che regolano la vita fino ai network sociali e tecnologici. Sono sempre stata affascinata dal modo in cui le reti influiscono sui flussi: i flussi di informazione e della fiducia, gli scambi di competenze e perfino il trasferimento inconsapevole di malattie infettive e di virus informatici. Gran parte delle mie ricerche è stata resa possibile dal fatto che i dati abbondano. Sono l'effetto collaterale del modo digitale con cui viviamo: sia che si navighi su Internet sia che ci si muova per strada, lasciamo tracce digitali. Queste tracce hanno portato a una fioritura delle analisi nel campo delle scienze sociali, che in passato erano limitate dal fatto che i dati significativi potevano essere ottenuti solo con faticose interviste a singoli individui. Ora invece emerge nell' ambito delle scienze sociali una nuova area di ricerca computazionale che consente di analizzare come sistemi complessi i network di individui e di altre entità su larga scala. Interessante è il modo in cui i social network influiscono sul flusso di informazioni. Di recente, per esempio, i miei collaboratori e io siamo riusciti a raccogliere una frazione di indirizzi Web postati da utenti di Facebook per alcuni amici. Abbiamo poi studiato se questi amici condividessero il link indipendentemente, in modo da arrivare a rispondere alla domanda - controversa - su quanto le somiglianze che abbiamo con i nostri amici siano dovute alla loro influenza su di noi e quanto invece siano causate dall'omofilia (la tendenza a diventare amici di individui simili a noi). Abbiamo scoperto che i sodai network influenzano parte dell'informazione condivisa, ma non tutta. Abbiamo anche scoperto che accelerano la diffusione di informazioni, ma che hanno un ruolo ancora più importante nel convogliare informazioni «di nicchia», proprio perché gli amici hanno la tendenza ad avere interessi in comune. Non tutta l'informazione scorre libera fino a noi quando ne abbiamo bisogno, però, e il limite non dipende da quanto la nostra rete sociale sia ricca di informazioni. Molti di noi, perciò, si rivolgono ai forum per porre domande precise. Se costruiamo una rete di competenze seguendo i legami tra chi fa le domande e chi dà le risposte, possiamo inferire le competenze degli individui a partire dalla loro posizione nel network. La struttura del network, per di più, rivela le dinamiche sullo scambio di informazioni. I forum in cui le informazioni che si cercano e si danno sono principalmente fattuali - come quelli dedicati a scienza e tecnologie - hanno una struttura diversa da quelli in cui non esiste un'unica risposta «giusta», come quelli in cui le domande vertono sulla politica. E, inoltre, il modo in cui chi risponde seleziona le domande non influenza solo la forma del network, ma i tipi di algoritmi che, successivamente, utilizzeranno gli esperti. Spesso mi piace cambiare ambito e avventurarmi là dove mi accorgo che ci sono masse di dati. Così sono stata coinvolta in uno studio divertente che esaminava ricette online. Anziché avere una sola ricetta per le «polpette svedesi», il sito Allrecipes.com ha «Polpette svedesi I», «II» e «III», senza contare le «Incredibili polpette svedesi». Questo ci permette di costruire due network interessanti. Il primo è quello della complementarietà: quali ingredienti si combinano con più frequenza nella stessa ricetta? E il secondo è quello dei sostituti: tra i milioni di suggerimenti delle recensioni, quali sostituzioni sono più comuni e queste sostituzioni nascondono una preferenza per un ingrediente rispetto a un altro? Abbiamo scoperto di sì. Se prendiamo due ricette simili, che si sovrappongono per alcuni ingredienti ma non per tutti, possiamo usare i due network per fare previsioni su quale delle ricette sarà preferita da un maggior numero di utenti. Questo genere di intuizioni potrebbe essere usato per migliorare i suggerimenti personalizzati, sfruttando la saggezza congiunta di milioni di persone che condividono le proprie esperienze e valutano i suggerimenti degli altri. Valutare gli altri, tuttavia, è spinoso. Perché danneggiare la loro reputazione? E se dovessero ricambiarci il favore? Abbiamo studiato tre siti (Amazon, Epinions e CouchSurfing), in cui gli utenti fanno recensioni. I dati raccolti sono chiari: tendiamo a fidarci molto di quanti riteniamo essere buoni amici, ma possiamo sviluppare un alto livello di fiducia anche nei confronti di persone con cui non necessariamente abbiamo un rapporto stretto. Purtroppo, le logiche basate sui network come PageRank, non funzionano per prevedere se un individuo avrà fiducia in un altro: è una questione molto personale. Traduzione di Eva Filoramo _______________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Lug. ’12 LOMBROSO, IL MUSEO DELLA DISCORDIA di PAOLO FOSCHINI Un movimento rilancia la campagna per chiudere la collezione di Torino. La replica: qui studiamo la storia, non facciamo razzismo A volte ritornano: in principio fu Scilipoti. E diciamo subito che l'argomento sarebbe davvero troppo serio per scherzarci, ma il fatto è che a volte le combinazioni di Google sono irresistibili: cosa c'entra cioè Cesare Lombroso, quello della fisiognomica e del «delinquente nato», l'ottocentesco trafugatore-misuratore-collezionista di «teschi di briganti» con l'indimenticato Domenico ex dipietrista folgorato da Silvio? Eh: c'entra. (Anche) a lui infatti si arriva risalendo la polemica in corso ormai da qualche anno, e periodicamente riattizzata come ora, sul «Museo di antropologia criminale» di Torino intitolato appunto a Cesare Lombroso. Polemica dai numerosi protagonisti tra i quali spicca — con un sito Internet che li raccoglie un po' tutti — il comitato «No Lombroso» presieduto dall'ingegner Domenico Iannantuoni, la cui posizione in sintesi è la seguente: quel museo è apologia implicita di razzismo, perpetua la discriminazione dei meridionali, espone resti umani che andrebbero seppelliti, così com'è non può andare avanti. La risposta dell'Università di Torino, attraverso lo storico Silvano Montaldo da cui il Museo è presieduto, è da anni pazientemente la stessa: «Questo museo racconta cosa è stata l'antropologia criminale, l'importanza che ebbe a livello internazionale, ma anche gli errori scientifici su cui era fondata, e invita a riflettere tanto sui meriti quanto sui rischi della cultura scientifica che sta alle origini del mondo contemporaneo. Altro che apologia». Ma andiamo con ordine. Nata nel 1859 come raccolta privata del suo «materiale di studio» — allora soprattutto crani e cervelli, messi da parte quando era medico dell'esercito piemontese — la collezione di Cesare Lombroso si ampliò sempre più non solo con una infinità di scheletri e altri resti umani ma anche oggetti, strumenti, scritti, fino alla prima apertura pubblica in occasione dell'Esposizione generale italiana del 1884: allestimento poi divenuto permanente nel 1896 all'Istituto di medicina legale dell'Università. Alla sua morte nel 1909 il Museo, al quale Lombroso donò il suo stesso scheletro, fu portato avanti dal genero Mario Carrara e fu chiuso negli anni 30 allorché questi, a sua volta docente ebreo come il suocero, si rifiutò di giurare fedeltà al fascismo. E saltiamo al 2009: quando la stessa Università lo inaugurò di nuovo — depurato dei «reperti» più impressionanti quali feti, nell'ambito di un progetto che comprendeva anche quelli di «Anatomia umana» nonché «Antropologia ed etnologia», riuniti nel complesso dei «Musei universitari» guidati da Giacomo Giacobini. «Pezzo forte» dell'esposizione, tra le centinaia esposte, è da sempre considerato per asserzione dello stesso Lombroso il cranio di Giuseppe Villella: un calabrese di Motta Santa Lucia, in provincia di Cosenza, arrestato per brigantaggio, sulla cui fronte Lombroso ritenne di riconoscere — facendone l'autopsia nel 1872 — quella «fossetta occipitale mediana» che a suo avviso chiariva una volta per tutte «il problema della natura del delinquente che doveva riprodurre ai nostri tempi — parole del positivista veronese — i caratteri dell'uomo primitivo giù giù fino ai carnivori». Epigoni e discepoli di Lombroso, come quel tale Alfredo Niceforo che pure era un siciliano, spinsero le osservazioni del «maestro» più in là arrivando per esempio a scrivere che «la razza maledetta che popola il Mezzogiorno dovrebbe essere trattata col ferro e col fuoco come le razze inferiori dell'Africa e dell'Australia». Vabbè, no comment. Senonché, già all'indomani della sua riapertura, il Museo di antropologia criminale lombrosiano si era ritrovato oggetto di contestazioni. Un medico casertano, Michele Iannelli, nella primavera del 2010 si mise alla testa di un gruppo Facebook che organizzò una marcia a Torino per invocarne la chiusura. E nel luglio dello stesso anno, eccolo là, arrivò Scilipoti con addirittura tre interrogazioni parlamentari per chiedere, nell'ordine, se non la chiusura almeno il ritiro dei resti umani; la cancellazione di tutte le vie italiane tuttora intitolate a Lombroso; la restituzione della testa di Villella al suo Comune di nascita. Un sacerdote di Napoli, don Antonio Loffredo, si offrì di dar sepoltura a tutti gli altri resti umani anonimi nel cimitero delle Fontanelle nel rione Sanità. Intanto un libro di Pino Aprile significativamente intitolato Terroni spostava ancor più la polemica su un terreno politico: quel museo, è la tesi che lo percorre, dà una copertura pseudoscientifica all'antimeridionalismo della Lega. E siamo a oggi con una lettera che l'ingegner Iannantuoni — ultima di una lunga serie — ha appena scritto al sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, per chiedergli di pretendere a sua volta la restituzione dei resti del povero Villella. Ma con un duplice passaggio argomentativo in più. Da una parte la reiterata contestazione, di natura etica, della legittimità di esporre al pubblico resti umani. Dall'altra la manifestazione di un obiettivo più generale: e cioè la «promozione di un disegno di legge per la messa al bando della memoria di uomini colpevoli, direttamente o indirettamente, di delitti connessi con crimini di guerra o di razzismo». Assunto particolare, per così dire, se non altro perché preso alla lettera dovrebbe portare al divieto di visitare Auschwitz, o a eliminare l'antica Grecia dai libri di storia in quanto civiltà schiavista, e chi più ne ha più ne metta. E infatti Iannantuoni, interpellato sul punto, chiarisce: «Non chiediamo la chiusura del museo, basterebbe sostituire i resti anatomici con calchi in gesso o cera. E soprattutto bisognerebbe che venisse specificato meglio che le teorie di Lombroso erano infondate». Il direttore Montaldo però a questa lettura delle cose e di un museo «apologetico» non ci sta neanche un po'. «Figuriamoci se il museo Lombroso si presta a questo genere di equivoci. È un museo degli "errori", certo: ed è chiaramente spiegato. Ma è anche la testimonianza di un momento della storia scientifica che va considerato nel suo contesto: come è giusto che sia. Quanto ai resti umani, perché di resti anatomici e non di corpi stiamo parlando, la materia è regolata da precise disposizioni di legge e il museo le rispetta al cento per cento: peraltro l'Italia e il mondo sono pieni di musei anatomici aperti al pubblico, e per fortuna nessuno si sogna di chiederne la chiusura». Come quello dell'Università di Modena e Reggio Emilia, che di donne (intere) mummificate nell'Ottocento ne espone addirittura tre. «Il punto è — chiude Montaldo — esclusivamente politico: le polemiche contro il museo Lombroso sono pretestuose da parte di chi usa solo argomenti, questi sì, pseudoscientifici per distruggere il Risorgimento». _______________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Lug. ’12 TAV, LO SCONTRO È ANCHE TRA I LIBRI DOCUMENTATI, FAZIOSI E INCONCILIABILI di MARCO IMARISIO Il lavoro di Foietta ed Esposito spiega le ragioni favorevoli ai lavori Revelli e Pepino ribattono con veemenza. Senza spazio per il dialogo Dopo tanto parlare e scrivere sul Treno ad alta velocità Torino-Lione e sulla Val Susa, ormai va bene anche il terzo principio della dinamica. A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Anche così può essere spiegato quel che accade da anni in questa estrema periferia boschiva d'Italia, teatro di uno scontro che dalla scorsa estate è diventato violento non solo nei toni ma soprattutto nelle pratiche di alcuni manifestanti. Un conflitto a bassa intensità con le forze dell'ordine che presidiano i cantieri. Un fuoco perpetuo sotto la cenere — sempre pronto a ravvivarsi, come dimostrano le scaramucce di questi giorni — dove ognuno ci vede quel che desidera, e che ormai per alcuni trascende il semplice concetto di favorevole o contrario al Tav. «Ce lo chiede l'Europa». «Non possiamo rimanere tagliati fuori». «Crea sviluppo e lavoro». Dopo tante formule vuote, giustamente oscurate da una copiosa messe di saggi No Tav che, seppur citando studi di parte, almeno elencavano numeri e cifre, un mese fa è uscito il primo libro di sponda opposta. Tav sì riempie un vuoto. Per la prima volta, motiva le ragioni a favore della nuova ferrovia attraverso l'analisi tecnica dei volumi del traffico merci, dell'impatto ambientale. Prendendo di petto, senza più slogan e frasi fatte, con una prosa scorrevole e finalmente con tabelle, cifre, analisi autorevoli, ognuna delle questioni sollevate dal fronte avverso. Due parole sugli autori. Paolo Foietta è il tecnico della coppia, direttore della Provincia di Torino, ente favorevole all'opera, membro del contestato Osservatorio sulla Torino-Lione. Stefano Esposito, deputato piemontese del Pd, è uno strano tipo di politico. Uno verace, che sgomita, attacca. Al netto di qualche uscita eccessiva, ha sempre preso di petto quel che accadeva in Val Susa, denunciando le pratiche violente e il silenzio. In cambio ha avuto minacce, intimidazioni. Come si addice a un libro militante, Tav sì è scaricabile gratuitamente dall'omonimo sito (www.tavsi.it). Sorpresa: settemila copie. Azione- reazione, a stretto giro di posta. Non solo un treno... la democrazia alla prova della Val Susa, scritto dal sociologo Marco Revelli e dal magistrato in pensione Livio Pepino, ha anch'esso il merito di essere schierato, senza fingimenti. A ognuno il suo. Revelli compie un lungo viaggio sulle ragioni del no all'opera. «Il centro è cieco, la verità si vede dai margini». Il male oscuro della democrazia contemporanea viene identificato nella sua radicale separazione della quotidianità vissuta: «L'aspetto da other country del paesaggio politico, assunto come "straniero" o comunque estraneo nella sua incomprensibilità e impraticabilità da parte di chi sta all'altro capo della catena sociale». Applicata in dettaglio alla Val Susa, per Revelli esempio di una nuova democrazia partecipata dal basso, questa tesi generale riflette la radicata sfiducia che il movimento No Tav nutre verso le istituzioni. Non si fida, ha imparato a non farlo. Con qualche buona ragione, come ammettono anche Esposito-Foietta: almeno fino al 2006, anno di nascita di quell'Osservatorio aperto ai Comuni della valle sul cui lavoro Non solo un treno... sorvola del tutto, la gestione dei rapporti con le popolazioni locali è stata «disastrosa», creando un grumo perpetuo di risentimento. Other country, un altro Paese. È la logica da maso chiuso che si respira in Val Susa. Noi da soli. Nella parte più tecnica, Revelli cita spesso il lavoro di quel gruppo di docenti e studiosi che in questi anni hanno fornito sponde scientifiche al movimento No Tav. Documenti e pareri autorevoli ma opinabili, che andrebbero messi a confronto con quelli della controparte. Appunto. Sarebbe bello se i quattro autori si trovassero per discuterne. Non accadrà. Ormai è diventata una crociata. La concessione della buona fede a chi sta in mezzo non è prevista. Non sfuggono alla regola della delegittimazione reciproca neppure Esposito-Foietta, quando scrivono di «esperti No Tav», dove le virgolette hanno valore denigratorio, e di una sindrome Nimby che appare riduttiva per definire i contorni del movimento contro il Tav. Neppure Revelli fa concessioni. La sua tesi si fonda sull'assunto non dichiarato di una totale disonestà della controparte, sia essa lo Stato, l'Unione Europea, i partiti, le aziende che lavorano al progetto. Ne vengono fuori un'Italia e una Europa descritti come il posto più tetro dell'universo. O siamo tutti farabutti, oppure c'è qualcosa che non funziona in questa narrazione. Il discrimine tra i due libri sta proprio nel diverso racconto della violenza che ha segnato quest'ultima stagione di lotte. I due autori di Tav sì sono sulle posizioni della Procura di Torino, che lo scorso febbraio ha arrestato 26 militanti per gli attacchi alle forze dell'ordine avvenuti il 3 luglio 2011 in Val Susa. Pepino, ex presidente di Magistratura democratica, rifiuta la facile via d'uscita dei mille «alieni» infiltrati. Il movimento No Tav ha forte coesione e altrettanta capacità di autodeterminazione. Non deve «isolare i violenti», altro slogan senza senso. Piuttosto, «deve fare i conti con le ragioni interne ed esterne» che provocano atti di violenza. E lo stesso dovrebbe fare la buona politica, senza delegare il problema a quella che Pepino definisce «repressione». Ma le parole sono pietre, lo scrive il suo coautore citando Carlo Levi. Nell'affrontare la parte giudiziaria, Pepino si produce in un frontale con i magistrati che indagano sul Tav. E così la procura di Torino diventa un ricettacolo di persecutori a senso unico. «Ipotizzare un sospetto di parzialità non è certo fuor d'opera...». Accusa il tribunale di «creare il mostro». A proposito degli scontri definisce «teorema» il riconoscimento del giudice di quelle comuni intenzioni del movimento che lui stesso ha teorizzato. Per finire con un classico, «l'evidente accanimento accusatorio» contro i No Tav da parte dei suoi colleghi. Qualcosa più di una critica legittima. Parole come pietre. Alla fine si torna al punto di partenza. All'elisione degli aspetti più scabrosi, quelli che confliggono con la propria visione ideale della realtà. Non solo un treno... contiene idee interessanti e colte. Ma è quasi costretto, per sua stessa natura, a sottovalutare, e parecchio, due o trecento cose molto cattive avvenute in Val Susa. Come si concilia la democrazia dal basso con le pietre, quelle vere, che piovono dall'alto? Per quanto semplice, la domanda resta ancora senza risposta. _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Lug. ’12 BOSONE DI HIGGS, CI SIAMO VICINI Al Cern il 4 luglio usciranno i nuovi dati, che si annunciano positivi. Ma anche in questo caso, mancherebbero altri tasselli per capire il mondo subatomico. Il padre dell'Lhc ci spiega perché La Supersimmetria è l'ipotesi più consolidata. Ma i dati implicano l'esistenza non di una, ma di un'intera famiglia di «particelle Dio» Luciano Maiani Il 4 luglio, giorno dell'indipendenza americana, l'Europa potrebbe segnare un punto di grandissimo valore nella competizione-collaborazione con il Nuovo Mondo. Per la mattina di quel giorno è previsto infatti un seminario al laboratorio europeo del Cern di Ginevra e all'ordine del giorno ci sono le ultime novità sulla caccia al bosone di Higgs. Parleranno i rappresentanti dei due esperimenti più grandi dell'acceleratore Lhc di Ginevra: Fabiola Gianotti per Atlas e Joseph Incandela per Cms. Raccolta nel 2012 una notevole messe di nuovi dati, la settimana scorsa i fisici delle collaborazioni Atlas e Cms hanno "aperto le scatole" in vista della Conferenza internazionale che si terrà a Melbourne subito dopo il seminario del Cern, e hanno passato i dati nella sofisticata macchina di analisi messa a punto negli anni scorsi. Scopo: raddoppiare la statistica dei dati per cercare di estrarre il segnale di un eventuale bosone di Higgs dal rumore del fondo generale delle collisioni prodotte dalla macchina del Cern, il Grande Collisore Adronico-Lhc. Che produce, alla luminosità di oggi, più di cinquecento milioni di collisioni al secondo. Vale ricordare che le collaborazioni Atlas e Cms sono composte da fisici di tutto il mondo, con una notevole presenza dell'Italia e la partecipazione di Stati Uniti, Russia e Giappone, Paesi che, accanto agli Stati europei del Cern, hanno contribuito alla costruzione di Lhc, il primo progetto globale nella fisica delle particelle. I dati del 2011, presentati a dicembre in un seminario che si è svolto praticamente in mondo-visione, avevano mostrato indicazioni molto serie sull'esistenza del bosone di Higgs con una massa di circa 125 volte la massa del protone, escludendo la regione di massa immediatamente inferiore, quella che congiunge i dati raccolti da Lhc con quelli raccolti dalla macchina precedente, Lep, e grandissima parte della regione superiore. Adesso, a giudicare dall'ottimismo che traspare dall'annuncio del seminario del 4 luglio da parte di Rolf Heuer, direttore generale del Cern, potrebbe essere stata varcata la soglia fatidica in cui parlare di "evidenza" piuttosto che di "indicazioni". Un traguardo cruciale, che consoliderebbe la situazione attuale a aprirebbe la strada a sviluppi importanti nei prossimi anni. Al di là delle definizioni escatologiche che ne sono state date (Sacro Graal della fisica delle particelle, particella di Dio e simili) è certamente difficile sottostimare l'importanza della scoperta del bosone di Higgs. Possiamo ricordare in breve che il bosone di Higgs rende possibile una spiegazione semplice e matematicamente consistente del perché la maggior parte delle particelle fondamentali ha una massa. La massa dell'elettrone, tra queste, rende possibile la formazione degli atomi e per essi la forma delle cose che popolano il nostro mondo, noi stessi inclusi. L'eventuale scoperta del bosone di Higgs (d'obbligo sottolineare eventuale) sarebbe una svolta fondamentale nella conoscenza della Natura e ci permetterebbe di affrontare su base più solida questioni profonde su cui avanziamo ancora con difficoltà, ad esempio la comprensione dei primi istanti dell'Universo o la possibilità di Universi con caratteristiche fisiche completamente diverse dal nostro. Il valore della massa del bosone di Higgs porta anch'esso un messaggio importante, ma per capire questo dobbiamo fare un passo indietro nel tempo. Il meccanismo introdotto da Peter Higgs ha portato nel mondo delle particelle dei concetti che erano stati sviluppati nella fisica della materia condensata, in particolare per i superconduttori, quei metalli nei quali a bassa temperatura la resistenza alla conduzione di corrente elettrica si riduce a zero. Sono i materiali che portano la corrente nei magneti Rnm, la risonanza magnetica nucleare impiegata per le diagnosi cliniche, e che alimentano i grandi magneti di Lhc. La superconduttività è resa possibile da un fenomeno indicato col nome di «rottura spontanea della simmetria locale» che, come aveva mostrato Phil Anderson nel 1962, conduce a due effetti. Da un lato, è soppressa la propagazione nel superconduttore del campo elettromagnetico (i fotoni), dall'altro gli elettroni si legano a due a due e queste coppie (dette "coppie di Cooper") "condensano" in uno stato che si propaga senza resistenza. Trasportati da Higgs nel mondo delle particelle, l'estinzione delle onde elettromagnetiche si traduce nell'esistenza di una massa per le particelle stesse mentre l'analogo delle coppie di Cooper è una nuova particella, il bosone di Higgs. Negli anni '80, molti fisici si chiesero se il bosone di Higgs fosse una particella realmente elementare, sullo stesso piano degli elettroni e dei quark, come avevano assunto Steve Weinberg e Abdus Salam nei loro lavori sull'unificazione, oppure se fosse un sistema composto da particelle più fondamentali, come avviene per le coppie di Cooper, particelle cui fu dato da Leonard Susskind il curioso nome di Techniquark, per distinguerli dagli ormai familiari quark che costituiscono il protone e le altre particelle nucleari. Furono proposte dai fisici due soluzioni molto diverse. La prima era drastica: il bosone di Higgs doveva essere costituito da particelle con spin di mezza unità, appunto i Techniquark. La conseguenza di questa ipotesi era la necessità di nuove forze sub-sub nucleari per tenere insieme i Techniquark e una massa del bosone di Higgs intorno a 800 volte la massa del protone. La seconda soluzione ipotizzava invece una nuova simmetria, detta Supersimmetria, scoperta da Julius Wess e Bruno Zumino, che rendeva possibile un valore non astronomico della massa del bosone di Higgs. In questo caso, nuove particelle avrebbero dovuto esistere nella regione intorno a mille volte la massa del protone, con valori dello spin che differiscono di mezza unità rispetto a quello di ciascuna delle particelle conosciute (particelle indicate col nome di "compagni supersimmetrici"). La situazione attuale favorisce un valore relativamente piccolo della massa e fa pendere la bilancia dalla parte di un bosone di Higgs elementare, quindi a favore dell'esistenza di nuove particelle ad energie abbordabili da parte di Lhc. La scoperta di indicazioni concrete in questo senso sarebbe un forte motivo per tirar fuori dai cassetti i progetti per macchine a energia ancora superiore, che negli scorsi anni sono state messe in standby. È quasi inutile dire che, anche se si avverassero le previsioni più rosee sul seminario del 4 luglio, resterebbe ancora molto lavoro da fare. Intanto occorre accertare che la particella a massa 125, se esiste, sia realmente il bosone di Higgs, soddisfi cioè a tutti i requisiti previsti dall'identikit molto preciso che i fisici ne hanno fatto negli anni trascorsi. Inoltre, sulla strada della Supersimmetria, occorrerebbe trovare altre particelle di spin zero: la famiglia di Higgs in Supersimmetria è una vera e propria famiglia allargata. Infine, ancora più importante, trovare qualche segnale dei compagni supersimmetrici. O, forse, qualcosa di ancora completamente imprevisto ci aspetta alla prossima raccolta di dati. Come si usa dire alla fine dei seminari di questo tipo: restate collegati. ========================================================= _______________________________________________ Il Sardegna 28 Giu.’12 MANAGER A RAPPORTO: NON SI ACCORCIANO LE LISTE D ’ATTESA : un anno e mezzo per un ecodoppler IL PIANO MILIONARIO Il Piano per accorciare le liste d’attesa è stato approvato dalla giunta nel settembre del 2011, e ha messo a disposizione delle aziende sanitarie e ospedaliere sarde 21 milioni di euro per migliorare le prestazioni erogate agli utenti. Il programma includeva anche un elenco di prestazioni per le quali sono stati fissati i tempi massimi di attesa le quali, ad esempio, possono sovrapporsi le richieste di visite magari fatte dallo stesso utente. I TEMPI D ’ATTESA I 21 milioni di euro distribuiti dalla Regione alle aziende sanitarie negli ultimi mesi del 2011 per accorciare i tempi di attesa delle prestazioni, sono stati utilizzati su tre fronti: acquistare nuovi macchinari e aumentare le ore del personale allungando i periodi di apertura delle strutture al pubblico, aumentare le collaborazioni con le strutture convenzionate. Un metodo che ha funzionato in alcuni casi, ma che la Regione e i direttori delle Aziende si aspettano possa dare risultati apprezzabili nel medio termine. Qualcosa di buono si è già visto: alla Asl 8 di Cagliari i tempi per una risonanza magnetica sono scesi da tre mesi a 15 giorni. Così come all’azienda ospedaliero universitaria cagliaritana l’arrivo di dieci ecografi nuovi fa sperare gli utenti in attese finalmente sopportabili. Tolti i pochi casi in cui il piano sembra essere andato a segno, resta troppo lungo l’elenco degli esami e visite diagnostiche impossibili. Prendiamo l’ospedale Brotzu di Cagliari, l’unico a rendere immediatamente pubbliche le liste d’attesa. Nonostante lo sforzo e i programmi messi in campo, nella struttura cagliaritana i tempi fanno paura: 279 giorni per una visita urologica pediatrica, 203 giorni per una mammografia al Brotzu, 206 per un ecocolor doppler addome inferiore, visita chirurgia vascolare, 205 giorni per ottenere una visita immunologica, 168 per una ecografia ginecologica trans addominale, e per un’ecografia, 153 giorni per una visita allergologica pediatrica, 146 per una colonscopia. e ancora, 207 giorni di attesa per una visita cardiologica pediatrica, idem per risonanza al torace o all’encefalo, stessa ansia per un’angiorisonanza dell’addome inferiore. Al Brotzu ci sono anche attese sorprendentemente brevi: 20 giorni per una visita oculistica geriatrica, o nefrologica pediatrica, tre giorni per una visita chirurgica, sei per una visita dal chirurgo plastico e mettiamoci anche i 21 giorni per una Tac e per una visita dal cardiochirurgo. Ma il record resta quello dell’appuntamento per effettuare un ecocolor doppler agli arti inferiori: chi ne dovesse avere bisogno, reciti un Padre nostro, o tenga le dite incrociate, perché per poter varcare l’uscio dell’ambulatorio dovrà aspettare 518 giorni. V. G. I DATI L’assessore regionale della Sanità convoca i direttori generali delle aziende sarde: «Accelerare sulla spesa dei 21 milioni di euro erogati alle Asl e rivolgersi al settore privato» Nessun miracolo. I 21 milioni di euro del Piano regionale di governo delle liste d’attesa non sono riusciti nell’impresa di abbattere i lunghi tempi che trascorrono dalla prenotazione di una visita specialistica all’ingresso del paziente negli ambulatori della Sanità pubblica. Alcune prestazioni sono migliorate, ma fin quando esisteranno picchi di 518 giorni di attesa (come nel caso di un ecocolor doppler agli arti inferiori al Brotzu di Cagliari), sarà difficile parlare un successo del Piano messo in piedi dall’assessorato regionale alla Sanità. DIRETTORI A RAPPORTO Per fare il punto della situazione sulle liste d’attesa e sul funzionamento più in generale delle strutture sanitarie della Sardegna, ieri pomeriggio l’assessore regionale della Sanità, Simona De Francisci, ha convocato i direttori generali delle Asl e delle Aziende ospedaliero universitarie sarde. L’assessore ha chiesto ai manager di fornire al più presto un report dettagliato dei tempi di attesa per prestazione e territorio (in fase di elaborazione) e sulle azioni messe in campo dalle Aziende all’indomani dell’erogazione delle risorse finanziarie e dell’approvazione, l’anno scorso, del Piano di governo delle liste: «L’a b- battimento dei tempi per una visita specialistica o altre prestazioni sanitarie è il primo segnale che il cittadino ha sulla sanità che funziona: ecco perché è fondamentale avere un quadro chiaro e definito sull’attuazione del Piano e che le Asl accelerino sulla spesa dei fondi e sugli interventi previsti», ha detto l’assessore De Francisci. Non tutti i manager si sono presentati all’appuntamento con la tabella dei tempi d’attesa, ma si sono impegnati a fornire al più presto le liste all’amministrazione regionale. Solo con i dati di ogni struttura dell’isola l’a ss ess o- rato sarà in grado di valutare l’efficienza delle misure adottate per abbattere le liste d’attesa. Nel corso dei loro interventi, alcuni direttori hanno messo in luce i problemi su come quantificare alcune liste, _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 giu. ’12 LISTE D'ATTESA, PRIVATI IN CAMPO PER ABBATTERLE Accelerare sulla spesa dei 21 milioni di euro erogati alle Asl per abbattere le liste d'attesa e possibilità di rivolgersi al settore privato per velocizzare le prestazioni sanitarie, contenendo allo stesso tempo i costi delle Aziende. Su questo e altri punti Regione, Asl e Aziende ospedaliero universitarie si sono trovate d'accordo nel corso del vertice convocato ieri pomeriggio a Cagliari dall'assessore regionale Simona De Francisci con i direttori generali. L'assessore ha chiesto ai manager di fornire al più presto un report dettagliato dei tempi di attesa per prestazione e territorio (in fase di elaborazione) e sulle azioni messe in campo dalle Aziende all'indomani dell'erogazione delle risorse finanziarie e dell'approvazione, l'anno scorso, del Piano di governo delle liste. «L'abbattimento dei tempi per una visita specialistica o altre prestazioni sanitarie è il primo segnale che il cittadino ha sulla sanità che funziona: ecco perché è fondamentale avere un quadro chiaro e definito sull'attuazione del Piano e che le Asl accelerino sulla spesa dei fondi e sugli interventi previsti», ha detto l'assessore De Francisci. Nel corso dei loro interventi, alcuni direttori hanno messo in luce i problemi su come quantificare alcune liste, nelle quali, ad esempio, possono sovrapporsi le richieste di visite magari fatte dallo stesso utente. In altri casi, si sono aumentate le ore di lavoro del personale per venir incontro alle esigenze degli utenti o si stanno erogando più servizi. Sono emersi anche casi positivi, in cui per una risonanza magnetica si è arrivati ad appena 15 giorni di attesa. Infine, si valuterà il ricorso al settore privato, che consente in alcuni casi di offrire servizi più veloci, senza per questo incidere sulla spesa e contenendo allo stesso tempo i costi. L'assessore è tornata sull'erogazione dei 450 milioni alle Asl per il pagamento dei fornitori e anche in questo caso ha sollecitato i manager a consegnare entro un mese un report sull'erogazione dei fondi ai creditori. _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 giu. ’12 I PRIMI TRENT'ANNI DEL BROTZU, ECCELLENZA DELLA SANITÀ SARDA L'ospedale Brotzu compie trent'anni. Per celebrare la ricorrenza l'associazione culturale “Giuseppe Brotzu”, promuove per oggi nella sala convegni (aula Atza, corpo staccato) a partire dalle 9,30, un incontro moderato dal giornalista Giorgio Pisano. Parteciperanno, tra gli altri, il presidente della Regione Ugo Cappellacci, l'assessore regionale della Sanità Simona De Francisci, il sindaco di Cagliari Massimo Zedda, il direttore generale dell'Azienda ospedaliera Antonio Garau. Saranno presenti medici e personale che hanno lavorato al Brotzu in questi 30 anni portando la loro testimonianza importante per capire come l'ospedale sia cresciuto nel tempo. LA STORIA La prima pietra del Brotzu fu posata nel 1973. I lavori si conclusero dopo 9 anni e nel 1982 ci fu l'inaugurazione. Nel 1993 con decreto del presidente del Consiglio dei ministri diventa “ospedale di rilievo nazionale e di alta specializzazione”, mentre nel 1996 la Regione lo ha trasformato in Azienda ospedaliera autonoma. I DIPARTIMENTI Dal 2000 è stato avviato il processo di dipartimentalizzazione, facendo convergere competenze ed esperienze scientifiche, tecniche ed assistenziali, allo scopo di fornire al paziente una risposta diagnostico-terapeutica più completa. Un insieme quindi di strutture che conservano la propria autonomia e responsabilità, ma sempre interdipendenti al fine di raggiungere obiettivi comuni in termini di risultati e di utilizzo delle risorse. L'OSPEDALE OGGI Oggi il Brotzu è costituito da una moderna struttura monoblocco, che dispone di circa 600 posti letto, articolata su 14 piani, di cui 2 seminterrati, e un corpo staccato che ospita i nuovi ambulatori. Sin dalla sua progettazione è stato pensato come un centro di alta specializzazione, in grado cioè di offrire ai cittadini sardi un'assistenza all'avanguardia soprattutto nelle specialità, come quelle relative alla malattia del cuore e i trapianti d'organo, che si ritrovavano solo negli ospedali della Penisola. LA VOCAZIONE Le successive riforme ne hanno modificato lo stato giuridico ma il più grande ospedale della Sardegna ha mantenuto la sua naturale vocazione di motore per l'innovazione in campo sanitario attraverso la capacità e la volontà di progettare ed offrire un'assistenza sanitaria migliore e sempre più utile ai cittadini. Sergio Atzeni _______________________________________________ Il Sardegna 28 Giu.’12 BROTZU UN NUOVO PRONTO SOCCORSO Aumentano i posti letto per i pazienti più gravi e sono state rese confortevoli le sale per i codici bianchi Una struttura all’avanguardia. È stato inaugurato ieri il nuovo Pronto Soccorso del Brotzu. Con spazi più accoglienti e nuove apparecchiature. Il reparto comprende cinque postazioni assistenziali (per le urgenze più gravi) e altrettante postazioni temporanee. C’è anche una importante struttura radiologica con apparecchiature digitali. «Abbiamo voluto creare una struttura – spiega Remigio Puddu, direttore sanitario del Brotzu– che potesse offrire una assistenza adeguata per chi arriva al Pronto Soccorso con patologie complesse (i codici rossi), ma è stata progettata anche una sistemazione più confortevole nella sala d’attesa per chi deve aspettare (i codici bianchi, verdi e gialli)». Il pronto soccorso del Brotzu funziona sempre a pieno regime e i numeri lo dimostra no: «Nel 2011», spiega il direttore del pronto soccorso Alberto Arru, «gli ac cessi sono stati 41.000 e quelli nell’Osservazione breve intensiva) 4.000 per trattare urgenze- emergenze». Il tutto rientra in un progetto più ampio della direzione generale che punta a ristrutturare gli spazi esistenti del vecchio reparto dove troverà posto la diagnostica per immagini. _______________________________________________ La Stampa 29 Giu.’12 LA RETE DELLA TOSCANA, RISPARMI E GORVERNANCE A colloquio con l'assessore al Diritto alla Salute della Regione Toscana Daniela Scaramuccia sul modello 'leader' in Europa per l'organizzazione dei servizi ad alta tecnologia come il robot 'da Vinci di ANDREA SER•ONTI E della Toscana la prima rete oncologica italiana - che adesso è diventata un modello esportabile ovunque - con l'obiettivo di garantire l'accesso alle cure e la sostenibilità al sistema. «In questo ambito di altissima tecnologia - sottolinea l'assessore al Diritto alla Salute della Regione Toscana Daniela Scaramuccia - dove è determinante garantire l'innovazione e la formazione e nello stesso tempo governarne l'applicazione, la 'rete' diventa un elemento imprescindibile. Concentrare le tecnologie in poche strutture e non consentirvi l'accesso a tutti i professionisti significherebbe automaticamente creare chirurghi di serie A e chirurghi di serie B. E quindi pazienti di serie A e B». Obiettivo è quello di garantire un'innovazione all'avanguardia, la crescita di tutti i nostri professionisti e insieme l'accesso a tutti i pazienti. Un esempio concreto, Tutto questo funziona molto bene, ad esempio, nell'azienda ospedaliera pisana «dove sono stati raggiunti i 500 interventi l'anno - sottolinea Scaramuccia - e dove i professionisti di altre ASL, vanno ad operare i loro pazienti e a confrontare le diverse esperienze. Certo, l'efficacia massima è dimostrata soprattutto in determinate patologie - tipo quelle urologiche - ma è importante che una tecnologia così elevata e costosa sia messa a disposizione di tutte le specialità possibili. In Toscana possiamo contare su 7 robot e gestire in modo accentrato il consumo di materiali e l'assistenza ci consente di ottimizzare la spesa. L'utilizzo del robot, ancora oggi, non è determinato dal risparmio per l'Ssn, anche se questi potranno diventare consistenti soprattutto nella durata della degenza e nella qualità di vita del paziente, quando l'utilizzo diventerà 'a regime' a tutti gli effetti». Una nuova cultura della salute. In un momento di tagli necessari alla spesa sanitaria il robot è, secondo Daniela Scaramuccia «un investimento che riteniamo determinante per sostenere il livello qualitativo del nostro servizio sanitario. Abbiamo un percorso di ottimizzazione della spesa che prevede un'unica gara regionale per tutti gli acquisti, anche per i dispositivi più sofisticati. E siamo fieri di essere stati i primi a creare questa 'rete', addirittura in Europa: è un percorso filosofico- culturale difficilissimo da accettare da parte di molti amministratori e professionisti, che tendono all'accentramento. I dati di mobilità intensa regionale sono i più bassi del paese, soprattutto in oncologia: significa che il cittadino si cura nel presidio ospedaliero 'sotto casa'. 10 anni di battaglia sulla rete oncologica hanno aperto la cultura dei nostri professionisti e amministratori». _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 29 giu. ’12 AOUSS: MAXI CONCORSO: PASSANO IN 295 Per l’Azienda ospedaliera universitaria di Sassari «un risultato inatteso» di Chiaramaria Pinna Hanno fatto in tempo a sentire il voto e correre a conquistare il divano di casa mentre la nazionale intonava l’inno d’Italia, e godersi il primo gol di Balotelli. E’ finito ieri dopo le 20 il tour de force dei 1500 concorrenti, dei 7.500 che avevano fatto domanda, alla preselezione di un concorso per 27 amministrativi banditi dalla Azienda ospedaliera universitaria di Sassari. Una prova andata avanti per tre giorni. In palio c’è il sogno degli italiani: un posto di lavoro a tempo indeterminato, cioè per tutta la vita. «Un evento epocale», sottolinea il direttore amministrativo della Aou Lorenzo Moretti, perchè dall’89 nessuno aveva più avuto occasione di salire le scale di una delle più grandi aziende ospedaliere per fatturato e posti di lavoro senza l’incubo del contratto in scadenza. A fine serata sono state pubblicate le graduatorie e le cifre: ai 130 «vincitori» del turno dei diplomati che hanno concorso martedì e mercoledì, si sono aggiunti 165 laureati che hanno portato a casa il massimo della votazione. I più bravi dei primi che hanno risposto al questionario con 30 domande, hanno incassato 30, gli altri, per 40 risposte esatte hanno avuto 40. Soddisfatto Alessandro Cattani, il manager dell’Aou che non si è schiodato per una attimo dalla palestra del San Giovanni Battista di Ploaghe dove si sono svolte le prove. «Dalla preselezione ci siamo resi conto che la preparazione è di un buon livello, soprattutto ci ha sorpreso quella dei laureati, è altissima». Segno che la battaglia per la poltrona ora sarà all’ultimo sangue alle prove scritte e orali. «Il bando prevedeva un numero inferiore di posti – spiega Cattani – ma di fatto nell’azienda nel volgere di poco tempo sarà necessario rinnovare molti posti per cui tutti quelli che alla fine supereranno le tre prove troveranno spazio nell’azienda». Se come dice il ministro Fornero «il posto non è un diritto ma una conquista», molti concorrenti per conquistarlo ce l’hanno messa tutta e hanno corso come Bolt, ma molti hanno scalato lo specchio della speranza rischiando, così come è stato, di precipitare. «L’importante – commentava ieri mattina la madre di una concorrente – è che tutti siano partiti davvero insieme». Fino all’ultimo momento, infatti, ha continuato a serpeggiare il sospetto, la diffidenza, che da sempre accompagnano i concorsi imbastiti troppo spesso su misura. Una delle piaghe italiane.«Se fosse stato così – ha spiegato il manager Cattani – due tra i miei più stretti collaboratori che ora dovranno tornarsene a casa avrebbero superato brillantemente l’ostacolo». Già, perchè paradossalmente alcune persone formate e attive da anni ma con contratti in scadenza, verranno sostituite dai vincitori che hanno una buona preparazione teorica ma probabilmente non sanno districarsi nei meandri della burocrazia e del quotidiano. Ieri, al San Giovanni c’erano molti di quanti avevano partecipato al concorso per diplomati. Non sono pochi quelli che hanno superato entrambe le prove. «Faccio il bis – dice una delle candidate – spero di superare almeno uno scoglio». Laureata in giurisprudenza, praticantato in uno studio legale, dopo aver affrontato una dura prova per un tumore ha dato una svolta alla vita. Accanto a lei un’altra aspirante avvocato ancora mortificata per il 29 preso il giorno precedente «mi sono resa conto di aver sbagliato e volevo correggere, me l’hanno impedito», spiega. Sogna la toga, ma la commissione d’esame continua a rimandarla a casa. «So aspettare – dice – ma intanto voglio essere completamente indipendente dai miei genitori e questa è un’occasione irripetibile. E’ chiaro che non lascerò lo studio legale». Un papà giovanissimo per tutta la mattina ha atteso spingendo una carrozzina che la moglie riemergesse dalla palestra blindata. «E’ preparatissima – diceva – non ha studiato i quiz ma la legislazione e poi si è esercitata tutti i giorni, persino quando allattava aveva vicino il libro dei test, quando il bambino non dormiva lei sedeva sul tappeto accanto alla culla e intanto studiava. Per me oggi è la fine di un incubo». La seconda batteria di candidati stava per consegnare il compito quando una signora si è rivolta a Cattani senza nemmeno domandarsi chi fosse: «Secondo lei è tutto davvero trasparente? mia figlia ha studiato tanto, ma chissà ...». Il manager provato dal caldo e dalla stanchezza ha risposto: «Credo che tutta Sassari abbia un parente o un conoscente che ha partecipato a questa selezione, stia tranquilla, la persona che mi è più vicina è stata bocciata...» _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Lug. ’12 DALLA SANITÀ UN QUARTO DEI RISPARMI Nel mirino acquisto di beni e servizi - Braccio di ferro con l'Economia LA PROPOSTA BALDUZZI Il ministro della Salute propone, come ipotesi massima, di limitare l'intervento a un miliardo per i prossimi sei mesi Roberto Turno ROMA L'acquisto di beni e servizi a prezzi sopra le righe da parte di asl e ospedali e una nuova stangata sulla farmaceutica restano in cima alla lista del menu dei tagli che colpiranno la spesa sanitaria negli ultimi sei mesi dell'anno. Ma anche la riduzione degli "sconti" a farmacie e industrie del farmaco, le remunerazioni dei privati accreditati, qualche soppressione di ente. Forse anche un intervento per azzerare i reparti ospedalieri poco produttivi, che intanto hanno comunque costi altissimi. Mentre col «Patto per la salute», da ratificare entro ottobre con le Regioni, il Governo conta di incrementare di almeno altri 500 milioni nel 2013 i tagli già in cantiere per 8 miliardi previsti per il 2013-2014 dalla manovra estiva dell'anno scorso. Nell'operazione spending review i tecnici dell'Economia confermano che la spesa sanitaria reciterà una parte di primissimo piano. Partecipando per più di un quarto ai risparmi totali attesi dal Governo, e non solo per azzerare l'effetto dell'aumento dell'Iva. La spending review in senso stretto, infatti, non potrà dare grandi risultati in soli sei mesi. Col risultato che per fare cassa da subito si dovrà dare fondo anche ai tagli lineari e a misure che non sempre possono garantire una proiezione di risparmi nel lungo periodo. Sia sull'entità che sulle modalità del taglio, tuttavia, le posizioni del ministero della Salute e dell'Economia continuano a restare distanti. «C'è ancora tempo per discutere, nessuno sta facendo alcun gioco tattico», ci si limita a far filtrare dall'interno del Governo anche per smorzare le voci di contrasti che continuano a circolare. In questo senso il rinvio (addirittura fino a giovedì) della data del Consiglio dei ministri che deciderà la manovra, lascia aperte le porte a tutte le mediazioni possibili. Come del resto sul valore assoluto dell'intera operazione. Il ministro della Salute, Renato Balduzzi, propone di limitare l'intervento a 1 miliardo per i sei mesi che restano del 2012, ma come ipotesi massima. Mentre l'Economia è pronta a chiedere di alzare più in alto l'asticella: almeno 1,5 miliardi, ma come soglia minima. Perché la cifra da sacrificare sull'altare della spesa sanitaria potrebbe essere anche più elevata. Tutto dipende evidentemente da quanto il Governo conta di risparmiare in termini assoluti. Mentre cresce il pressing dei governatori, che saranno ricevuti martedì a palazzo Chigi. Con Pd e sindacati che intanto hanno fatto sapere di non essere disposti ad accettare altri tagli alla spesa sociale. «Il rischio – denunciano tra l'altro – è di superare i limiti di guardia di tenuta del sistema». La ricetta di Balduzzi, proposta in due articoli di un maxi decreto legge sanitario poi fermato dal Consiglio dei ministri, vale al momento 1,085 miliardi di risparmi per il 2012. Si comincia dal contenimento della spesa per l'acquisto di beni e servizi, per 600 milioni di tagli: gli importi e le prestazioni per contratti d'appalto in essere dovranno essere ridotti del 3,7%, mentre per tutte le forniture dovranno essere adottati prezzi di riferimento non superiori al valore mediano determinato dall'Osservatorio dell'Authority di vigilanza sugli appalti. Ecco poi il taglio del 2% sul 2011 della spesa per i privati accreditati nell'ospedaliera e nell'assistenza specialistica ambulatoriale per 135 milioni. E ancora il raddoppio dello "sconto" a carico di farmacie e industrie farmaceutiche, che varrebbe 350 milioni. Infine il capitolo dei tetti della spesa farmaceutica, in applicazione della manovra dell'estate 2011: scenderebbe dal 13,3 all'11,3% la territoriale e salirebbe dal 2,4 al 3,2% quella ospedaliera su cui le farmaceutiche pagheranno il 35% del disavanzo. Il risparmio previsto sarebbe di 1,59 miliardi nel 2013 e di 1,65 nel 2014. I pilastri della spending review SANITÀ Risparmi in tre mosse Si articola in tre punti la proposta del ministro della Salute, Renato Balduzzi, per risparmiare 1,08 miliardi di euro nel 2012: 600 milioni dall'acquisto di beni e servizi, 350 milioni dagli sconti a farmacisti e industrie farmaceutiche, 135 milioni dalla riduzione di spesa per la specialistica e le case di cura DAL PIANO BALDUZZI 1,08 miliardi GIUSTIZIA Taglio dei «tribunalini» Il riordino della geografia giudiziaria è l'ingrediente più corposo della spending review per il ministero di Via Arenula: 76 milioni l'anno. Risparmi fino a 300 milioni l'anno potrebbero arrivare dall'indizione di una gara unica nazionale per il noleggio delle apparecchiature per le intercettazioni. Il piano Severino nel complesso porta 600 milioni PIANO SEVERINO 600 milioni PUBBLICO IMPIEGO Accorpamenti tra ministeri Tra gli interventi di rilievo c'è quello dei tagli al pubblico impiego. Un capitolo delicato che si svilupperà su un mix di misure da cui sono attesi risparmi dai 400 agli 800 milioni di euro. Questo intervento verrà rafforzato anche da accorpamenti all'interno dei ministeri RISPARMI ATTESI 800 milioni DIFESA La Consip per gli acquisti Il piano Bondi dovrebbe riguardare anche il ministero della Difesa. Finirebbero sotto il metodo Consip le gare per carburanti, vestiario, catering e facchinaggio (ma non gli armamenti). Allo studio una riduzione delle piante organiche del 5-10% che interesserà le forze armate ORGANICO FORZE ARMATE - 5/10% INTERNI Centrali uniche d'acquisto Circa 200 milioni di euro in nove anni di tagli per il Viminale. La molla saranno le centrali uniche di acquisto per le forze dell'ordine, per portare maggiore efficienza. Altro obiettivo per l'amministrazione degli Interni è individuare forme di razionalizzazione di spesa uguali per tutte le forze dell'ordine OBIETTIVO IN 9 ANNI 200 milioni ACQUISTI Meno spese per beni e servizi In primo piano il progetto di Enrico Bondi sul freno agli affitti e sulla razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi per le amministrazioni a cominciare dalla sanità (che da sola pesa oltre 1 miliardo, si veda la scheda). Da questo versante, complessivamente, dovrebbero arrivare dai 4 ai 6 miliardi DAL PIANO BONDI 4-6 miliardi ISTRUZIONE Fusioni tra piccoli atenei Incentivare la fusione tra piccole università, razionalizzare le sedi decentrate, procedere ad acquisti centralizzati di beni e servizi. I tagli comprendono pure una revisione della struttura organizzativa. Per logistica e consumi intermedi si punta a recuperare circa 145 milioni (solo per gli affitti si spendono 13 milioni l'anno) LOGISTICA E CONSUMI 145 milioni AGENZIE FISCALI Aboliti i monopoli e il Territorio Il taglio delle Agenzie fiscali e la riorganizzazione del personale del fisco, inseriti nel Dl dismissioni, rappresentano un antipasto della spending review. Il provvedimento, che prevede l'abolizione dei monopoli e dell'agenzia del Territorio, è all'esame delle commissioni Finanze e Bilancio del Senato TAGLIO DIRIGENTI -20% _______________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Lug. ’12 TETTO AI FARMACI E ASTE CON LO SCONTO LE FORBICI PARTONO DALLA SANITÀ Prevista una riduzione immediata su appalti e convenzioni ROMA — Taglio della spesa farmaceutica; drastica riduzione delle spese per le prestazioni in convenzione con le strutture private e sui contratti in essere di appalto e fornitura beni e servizi al sistema sanitario nazionale; scioglimento di alcuni enti giudicati inutili. Il menù di tagli alla spesa sanitaria è pronto da una settimana. Era già contenuto nella bozza di decreto legge esaminato in preconsiglio dei ministri e poi spacchettato. Un menù sul quale si continua a lavorare in vista del consiglio dei ministri che la prossima settimana dovrebbe approvare le misure di revisione della spesa pubblica, dove la sanità avrà un peso rilevante. I tecnici del ministero della sanità quantificano infatti in circa un miliardo di euro i risparmi che si potrebbero ottenere per la parte restante del 2012 e attorno a 1,6 miliardi l'anno quelli dal 2013 in poi. Ma negli ultimi giorni alla sanità è stato chiesto di aumentare il conto dal 2013 in poi di almeno altri 2-300 milioni, per avvicinarsi ai 2 miliardi l'anno. Sommati ai tagli già previsti dal decreto Salva Italia di dicembre si arriverebbe a 8 miliardi di euro di minore spesa nel triennio. Tutto questo ha scatenato le proteste delle Regioni, dei sindacati, delle associazioni di categoria dei farmacisti, che minacciano la serrata, e delle aziende fornitrici. Reazioni inevitabili che non impediranno però al governo di affondare il bisturi, è il caso di dire, perché come risulta da tutte le analisi sulla spending review, fatte sia dal ministro incaricato della materia, Piero Giarda, sia dal superconsulente Enrico Bondi, la spesa sanitaria è quella più fuori controllo: dal 1990 al 2009 è passata dal 32,3% al 37% della «spesa pubblica per consumi collettivi» (in pratica i servizi pubblici) con un aumento di 4,7 punti. Nessun'altra voce è salita tanto. Nella prossima riunione tra Monti e i ministri interessati alla spending review, che dovrebbe tenersi domani pomeriggio, la sanità ripresenterà le sue principali proposte: la revisione dei tetti alla spesa farmaceutica territoriale e ospedaliera, che dovrebbe garantire risparmi per 350 milioni quest'anno e circa 400-450 milioni dal prossimo; la riduzione (del 2% secondo quanto messo a punto dal ministero guidato da Renato Balduzzi) delle spese per le prestazioni ambulatoriali e ospedaliere in convenzione con le strutture private; il taglio (del 3,7% nella bozza Balduzzi) sui contratti in essere di appalto servizi e di fornitura di beni e servizi al sistema sanitario nazionale. Ovviamente, spiegano fonti di governo, queste misure si dovranno inserire in un quadro complessivo e coerente di revisione della spesa pubblica che, in particolare per quanto riguarda le uscite per l'acquisto di beni e servizi, avviene sotto la regia del supercommissario Bondi. Qualche misura potrebbe quindi subire aggiustamenti. Ma al ministero della sanità assicurano che le loro proposte sono state messe a punto in linea con gli obiettivi dichiarati dal governo. Del resto nella stessa relazione Giarda sulla spending review si afferma che «la dinamica della domanda — più persone anziane e meno giovani — non è sufficiente a spiegare» l'esplosione della spesa sanitaria. La colpa, invece, è dei «governi regionali (per i quali la spesa sanitaria assorbe circa il 70% della spesa complessiva)» ai quali «fanno eco gli interessi delle ditte fornitrici di farmaci e di attrezzature sanitarie». Lo stesso Giarda concludeva che su 295 miliardi di spesa pubblica «aggredibile», cioè sulla quale ci sono margini di riduzione «nel medio periodo», più di un terzo, cioè 97,6 miliardi fa capo alla sanità, di cui 69 miliardi solo alla voce acquisti di beni e servizi. Tra le misure, già contenute nel decreto esaminato in preconsiglio, e che il ministero della sanità potrebbe riproporre per il decretone della prossima settimana, c'è anche la possibilità di ricorrere, in sostituzione del farmaco autorizzato per una determinata patologia, a medicinali non ancora autorizzati ma in commercio in altri Paesi, o in fase di sperimentazione, o con una indicazione diversa, ma comunque inseriti in un apposito elenco dalla Commissione unica del farmaco. Inoltre, le farmacie ospedaliere dovrebbero avere la possibilità di preparare dosi farmacologiche personalizzate per i pazienti, così da evitare sprechi. È previsto anche un inasprimento delle sanzioni per chi vende sigarette ai minori (multe fino a mille euro, 2mila per i recidivi) e sospensione della licenza. Potrebbero infine essere soppressi tre enti: Fondazione istituto mediterraneo di ematologia, Alleanza ospedali nel mondo, Consorzio anagrafi animali. Enrico Marro _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Lug. ’12 MA I TEDESCHI HANNO PIÙ DEBITO DEGLI ITALIANI Nel 1999 soltanto tre Paesi Ue (Italia, Belgio e Grecia) avevano un debito pubblico superiore all'80% del Pil e solo un altro (Bulgaria) sopra il 70%. Nel 2013, invece, secondo le ultime proiezioni della Commissione, vi saranno nove economie con debiti pubblici oltre l'80% (Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo, Belgio, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Germania) e altre tre sopra il 70% (Cipro, Malta, Austria). Inoltre, secondo l'Fmi, il debito pubblico Usa nel 2013 sarà balzato al 113% del Pil. Marco Fortis Continua da pagina 1 Il tutto senza considerare i debiti degli Stati federali (molti dei quali, come la California, versano in gravi difficoltà finanziarie), altrimenti il debito Usa risulterebbe già oggi superiore a quello del nostro Paese. Nel 2013 il debito pubblico italiano sarà pari a 1.988 miliardi di euro. Quello tedesco sarà di 2.082 miliardi, quello francese di 1.946 miliardi e quello inglese di 1.532 miliardi di sterline, che al cambio attuale significano circa 1.900 miliardi di euro. Da notare, che i debiti pubblici di Francia e Gran Bretagna in valore assoluto venti anni fa erano poco più della meta di quello italiano e quello tedesco era inferiore. Mentre ora i debiti dei quattro maggiori Paesi europei sono sostanzialmente simili tra loro, con quello tedesco una spanna sopra gli altri. Questi dati dimostrano inequivocabilmente che ormai l'Italia non è più la pecora "nera" del debito pubblico europeo e mondiale. Eppure, nel 2013 pagheremo interessi sul debito per la ragguardevole cifra di 91 miliardi di euro: 36 miliardi in più della Francia, che ha un'esposizione statale uguale a quella italiana, 21 in più della Gran Bretagna, che si sta avvicinando ai nostri livelli di indebitamento, e 27 in più della Germania, il cui debito è più alto di quello italiano. Gli svantaggiosi tassi pagati dal nostro Paese riflettono, innanzi tutto, un deficit di credibilità dell'Italia, cresciuto a dismisura nell'estate-autunno dello scorso anno, a cui Monti sta cercando laboriosamente di porre rimedio nonostante i teatrini della nostra politica. Ma, oltre a ciò, il differenziale sugli interessi a nostro sfavore è anche una conseguenza della rigida misurazione statistica del debito pubblico in rapporto al Pil. Tale rapporto, nel 90% dei casi, fornisce un'idea accettabilmente approssimativa, anche se non matematica (vedi Irlanda e Spagna), della sostenibilità attuale e futura del debito stesso. Ma nel restante 10% dei casi, come succede per Giappone, Belgio ed Italia, il debito/Pil è un parametro assai riduttivo e di ciò il nostro Paese farebbe bene a prendere coscienza anche per meglio argomentare la sua posizione a livello internazionale. L'Italia, infatti, ha un patrimonio delle famiglie molto elevato che, anche solo limitatamente alla parte finanziaria, equivale a circa il 175% del Pil (il dato corrispondente è appena del 126% in Germania). Sicché il rapporto tra debito pubblico e ricchezza finanziaria netta privata fornisce un'idea più precisa della dimensione comparata del nostro debito statale che non il suo confronto con il Pil. Ciò non significa, ovviamente, che non debba essere avviata in Italia un'azione estremamente determinata di taglio della spesa pubblica improduttiva e degli sprechi che stridono con le virtù implicite nel nostro elevato stock di risparmio privato. Ma il rapporto debito/ricchezza cambierebbe parecchio la prospettiva di assegnazione dei rating dei debiti sovrani ed in particolare il rating italiano. In questi giorni sulla stampa nazionale è stata rilanciata l'idea di un abbattimento del debito pubblico con varie modalità, ivi inclusa quella di una tassa patrimoniale sulle ricchezze più elevate. A nostro avviso il problema è mal posto. Non solo per le possibili conseguenze negative di una simile manovra sull'economia e sui movimenti di capitali. Ma, soprattutto, perché non si capisce per quale ragione la patrimoniale dovrebbe essere applicata unilateralmente solo da un singolo Paese, vale a dire il nostro. E ciò al semplice scopo di dimostrare alle altre economie e ai mercati che siamo capaci di ridurre drasticamente un puro rapporto simbolico, il debito/Pil, che nel caso dell'Italia è totalmente fuorviante circa la sostenibilità del debito stesso. La riprova teorica di ciò si avrebbe qualora Monti sfidasse la Merkel ad introdurre una tassa patrimoniale in tutta l'Eurozona, eventualmente anche spalmabile su più anni. In Italia ciò comporterebbe sacrifici durissimi ma anche a Berlino, di fronte alla prova del fuoco, i cittadini tedeschi non riderebbero di certo. Che cosa accadrebbe, infatti, se tutti i Paesi della moneta unica decidessero di ridurre simultaneamente i propri debiti pubblici al livello del 60% del Pil mediante un prelievo sulla ricchezza finanziaria netta delle famiglie? In quel caso, come appare dalla tabella, anche dopo aver applicato una tassa patrimoniale relativamente più sostanziosa delle altre nazioni per abbattere il debito eccedente, l'Italia resterebbe tra le economie dell'Eurozona col più alto rapporto ricchezza/Pil, assieme al Belgio e all'Olanda. Più indietro vi sarebbero Francia, Austria e Germania. Questa ultima, in particolare, avrebbe una ricchezza finanziaria netta delle famiglie post tassa patrimoniale di 8 punti di Pil inferiore a quella delle famiglie italiane (senza considerare il patrimonio immobiliare, che nel nostro Paese è superiore). Mentre nel caso dei Paesi "periferici" e della Spagna, il prelievo sulla ricchezza farebbe emergere lo stato effettivo delle difficoltà finanziarie di tali economie, dove il debito pubblico sta crescendo rapidamente a fronte di un netto ridimensionamento del patrimonio privato. Al punto che, dopo la teorica tassa patrimoniale, il già esiguo rapporto ricchezza finanziaria delle famiglie/Pil della Spagna si ridurrebbe al 51% (meno della metà di quello dell'Italia), quello dell'Irlanda scenderebbe al 15% e quello della Grecia andrebbe addirittura sotto zero. Questo esercizio, basato su una tassa patrimoniale "simulata", dimostra che l'Italia - credibilità del Paese e della sua classe politica a parte - ha oggi un debito pubblico del tutto simile, quanto a sostenibilità, ai debiti di altre economie ritenute più "virtuose". Se si rapporta il debito pubblico alla ricchezza finanziaria privata e non al Pil, i titoli italiani non dovrebbero essere considerati meno sicuri di quelli di Germania e Francia. Il nostro Paese, in aggiunta, ha attualmente una politica di bilancio più rigorosa di quella della stessa Germania, ma i Btp e i BoT continuano a non essere adeguatamente "premiati" dai mercati. Forse anche per un deficit di comunicazione che è soprattutto interesse di noi italiani colmare al più presto. © RIPRODUZIONE RISERVATA _______________________________________________________________ Corriere della Sera 29 giu. ’12 DONARE IL SANGUE, UNA QUESTIONE ETICA di SALVATORE VECA Cominciamo raccontando una storia. Richard Titmuss, celebre sociologo inglese, professore di Scienze Sociali alla London School of Economics, studioso degli aspetti morali ed economici della donazione del sangue, lavora al suo libro The Gift Relationship nella seconda metà degli anni Sessanta. La prima edizione inglese esce nel 1970. L'edizione americana, nel 1971. Dopo quasi trent'anni, nel 1997, uscirà una nuova edizione integrata con contributi che rendono conto delle profonde trasformazioni del sistema sangue, trasformazioni storiche, politiche, culturali, economiche e innovazioni scientifiche e tecnologiche. La nuova edizione si conclude con una efficace postfazione di Julian Le Grand. Il problema centrale che si pone Titmuss è un'analisi comparata tra un sistema volontario, basato sulla scelta del dono, e un sistema in cui l'offerta di sangue è retribuita su un mercato. La difesa del sistema del dono è svolta certamente in termini di etica ma si avvale anche e significativamente di una valutazione in termini di efficienza sociale. Ma il punto più importante sta in questo: Titmuss è convinto che la donazione di sangue esemplifichi nel modo più indiscutibile la relazione del dono fra persone nella sua forma più pura perché si tratta strutturalmente di un dono per stranieri morali. Non è un dono per qualcuno, è un dono per chiunque, entro la cerchia sociale. Per questo genera un vincolo o legame sociale, corroborando e alimentando, grazie alle risorse di valori morali e impersonali, le istituzioni e le politiche nell'ambito del sistema salute. Titmuss aggiunge infine un commento: se il principio di anonimato dovesse essere abbandonato, le conseguenze potrebbero essere disastrose sia per i donatori sia per i riceventi. In altri termini, la possibilità di istituzionalizzare l'altruismo ha le sua radici nella moralità intrinseca. Le istituzioni e le politiche della solidarietà, in una società degna di questo nome, presuppongono un capitale di altruismo e cura per gli altri, sotto il duplice vincolo dell'impersonalità e delle preferenze individuali esterne, preferenze che presuppongono lo star bene o star male altrui. Contemporaneamente, mentre nel Regno Unito un ricercatore appassionato, tenace e coerente come Titmuss propone una tesi sull'etica del dono in società moderne con mercato, negli Stati Uniti, un grande filosofo, John Rawls, propone una concezione della giustizia sociale come equità. La coincidenza mi ha incuriosito. L'interpretazione della giustizia come equità sociale è proposta da Rawls ricorrendo a un celebre esperimento mentale, che ha dato luogo a una sterminata controversia e ha finito per istituire un vero e proprio paradigma. In sintesi il suo esperimento riguardava la scelta che ciascuno di noi può fare, non sapendo chi è ma sapendo di poter essere chiunque. In questo modo adottiamo una prospettiva impersonale sul nostro mondo politico e sociale. Adottando tale prospettiva è ragionevole scegliere principi di giustizia che esemplificano l'equità nella distribuzione di costi e benefici della operazione sociale. Si osservi ora che l'argomento si avvale in modo intrinseco del carattere impersonale della scelta e della valutazione etica e ricorre al punto di vista di chiunque. La mia idea, che connette Titmuss a Rawls, è allora questa: dato lo sfondo di istituzioni di base modellate dai principi di giustizia come equità sociale (Rawls), scelte individuali e personali di dono e di altruismo impersonale (Titmuss) sono favorite per la loro coerenza con alcune delle idee fondamentali incorporate nella concezione stessa della giustizia sociale. Così, si potrebbe dire, micro e macro si connettono in equilibrio, autorafforzandosi vicendevolmente nel tempo. Quali sono le specifiche circostanze affinché nella ricerca e nella teoria politica e sociale, la relazione del dono e i valori insiti nella scelta del donare ad altri assumono una particolare rilevanza? La mia risposta non è contro il mercato, ma pone in evidenza i suoi limiti e come alcuni, cruciali, spazi dell'azione e del valore sociale non dovrebbero essere affidati solamente al mercato stesso. E questo anche al fine di evitare un'impressionante aumento di sofferenza sociale in termini di diritti, aspettative e benessere. È nello spazio che separa il mercato e l'economia del dono, dai confini incerti e porosi, che potremmo allora, forse, ritrovare le radici delle relazioni umane: nella cura, nell'altruismo, nel rispetto, nell'empatia, nell'attenzione, nella rispondenza agli altri come persone. Come persone biografiche, o come persone. Come stranieri morali, ci avrebbe suggerito Titmuss. Come chiunque, ci inviterebbe a dire Rawls. Come chiunque ovunque, aggiungerei allargando lo sguardo, con gli «occhi d'umanità», alla gran città del genere umano. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 26 giu. ’12 L'OPERAZIONE SENZA CHIRURGO IL ROBOT CHE FA TUTTO DA SOLO Preleva il fegato a un paziente: è il primo caso al mondo Il chirurgo è comodamente seduto alla console e manovra delle piccole leve, lo sguardo fisso su uno schermo dove viene visualizzata l'immagine del fegato. Leonardo esegue gli ordini con una precisione infinite volte migliore di quella dell'uomo. Taglia, ricuce, aspira, ricostruisce grazie ad abilità acquisite in 15 anni di esperienza. Aveva cominciato con interventi semplici. Oggi il robot «Da Vinci» è in grado di affrontare casi complicati come il prelievo di organo da un donatore vivente. Il primo a livello mondiale è stato eseguito con esito positivo qualche settimana fa all'Ismett, l'Istituto Mediterraneo ad alta specializzazione di Palermo. Si contano non più di tre precedenti a livello internazionale ma col coinvolgimento parziale della macchina. Stavolta il chirurgo meccanico ha fatto tutto da solo. Bruno Gridelli, direttore del centro siciliano, prevede l'avvio di un nuovo modo di trapiantare anche se la tecnica andrà perfezionata attraverso l'esperienza: «Il prelievo è una delle operazioni più delicate perché riguarda persone sane la cui salute deve necessariamente essere salvaguardata. Bisogna agire nella massima sicurezza limitando quanto più possibile il trauma. L'uso del robot garantisce minore invasività, una ripresa più rapida e cicatrici invisibili. Si riducono i rischi di emorragia». Sono bastati 5 fori e un'incisione di 9 centimetri rispetto ai 40 previsti dal metodo tradizionale. Il chirurgo ha inoltre il vantaggio della visione tridimensionale che lo aiuta a muovere meglio di quanto avvenga in laparoscopia (visione bidimensionale) gli strumenti all'interno del corpo. L'esperienza andrà avanti, a Palermo altri pazienti disponibili a donare il fegato a un familiare sono in fase di valutazione. È la conclusione di una delle tante storie di trapianto di fegato da donatore vivente. Un uomo di 46 anni che si priva di un lobo dell'organo per salvare il fratello, malato di cirrosi epatica. In sala operatoria, con Gridelli, il responsabile della chirurgia addominale, Marco Spada. Ha collaborato l'azienda universitaria ospedaliera di Cisanello di Pisa, centro diretto da Ugo Boggi. Il donatore è uscito dall'ospedale dopo 9 giorni. È tornato al lavoro e alle sue attività quotidiane. Anche il fratello sta bene ma per lui la strada verso la ripresa è ancora lunga. La malattia di cui soffre, causata da un'epatite virale, è il peggior nemico del fegato. Da Vinci è un piccolo uomo meccanico un po' diverso dai film di fantascienza. Un carrello con quattro bracci meccanici che impugnano altrettanti strumenti. Un sistema molto sofisticato traduce in manovre millimetriche i comandi del chirurgo che utilizza alla console levette tipo joystick. Alessandro Nannicosta, direttore del Centro nazionale trapianti del ministero della salute, giudica l'operazione dell'Ismett «un notevole passo avanti, un risultato significativo. Il vero salto in avanti consisterà nel trapiantare un organo. È chiaro che la qualità del prelievo aumenta le percentuali di successo di quest'ultimo e riduce le complicanze». Nel 2011 in Italia sono stati eseguiti 15 trapianti di fegato da vivente senza conseguente per le persone sane. Una soluzione che contribuisce a sopperire alla carenza di organi donati da persone vittime di grandi traumi. Ecco perché si sta cercando di perfezionare la tecnica e di aumentare i margini di sicurezza di chi compie questo grande gesto di amore e affetto. A cedere una parte del proprio corpo in genere i familiari stretti. La combinazione più frequente, i figli ai genitori. Tra i non consanguinei, le più generose sono le mogli nei riguardi del marito. Margherita De Bac _______________________________________________________________ Corriere della Sera 29 giu. ’12 SANITA’: OBAMA PROMOSSO DALLA CORTE SUPREMA Via libera alla riforma sanitaria. Il presidente: «Una vittoria per tutti gli americani» DAL NOSTRO INVIATO SAN FRANCISCO — Barack Obama vince a sorpresa la battaglia della riforma sanitaria davanti alla Corte Suprema grazie all'aiuto del suo presidente, John Roberts, un giudice conservatore nominato da George Bush che stavolta si è schierato con i quattro magistrati progressisti. 5 a 4: Obamacare supera l'esame di costituzionalità con un voto sul filo del rasoio. Il presidente degli Stati Uniti, sollevato da questa decisione che arriva in un momento molto difficile per lui (sondaggi negativi, economia e occupazione che peggiorano, il ministro della Giustizia, Eric Holder, ieri messo formalmente sotto accusa dalla Camera dei Rappresentanti e che rischia l'impeachment), va in televisione a spiegare che la sentenza conforta non solo la Casa Bianca, ma tutta l'America: soprattutto coloro, come i malati cronici, che avrebbero rischiato di perdere la copertura sanitaria se la riforma fosse stata bocciata. Ma la reazione dei repubblicani è furibonda. Benché sconfitti, giurano che spazzeranno via la legge se Mitt Romney sarà eletto presidente a novembre: «Quello che non ha fatto la Corte nel suo ultimo giorno di sessione — ha detto a caldo il candidato dei conservatori — lo farò io nel mio primo giorno alla Casa Bianca: cancellerò la riforma. I giudici non hanno certo detto che è una buona legge. E, infatti, è una pessima legge: lo era ieri e lo rimane oggi. Aumenta le tasse e fa perdere posti di lavoro». Intanto i leader repubblicani al Congresso annunciano un voto per sopprimere Obamacare già ai primi di luglio alla Camera: un voto simbolico perché al Senato i democratici hanno, per adesso, la maggioranza. Ma la destra, che pensava di usare la sanità come cavallo di battaglia elettorale avendo dato per scontata una bocciatura dell'Alta Corte, adesso agita altri due argomenti. Il primo glielo offre la crisi dell'eurozona: «No alla sanità socializzata, niente soluzioni all'europea, non vogliamo fare la fine della Grecia», gridava ieri la ex candidata repubblicana alla Casa Bianca, Michele Bachmann, in mezzo agli attivisti riuniti davanti al Campidoglio di Washington per manifestare pro e contro la riforma. L'altro argomento, forse più insidioso per i democratici, è di tipo fiscale: l'accusa di aver fatto la riforma aumentando le tasse. Obama lo aveva negato, ma la Corte Suprema in qualche modo lo conferma. Per capirlo bisogna entrare nel meccanismo della sorprendente sentenza, condita anche da un colpo di scena. Nel leggere la decisione della Corte il giudice Roberts ha dapprima detto che il punto più importante e controverso della riforma, l'obbligo per i cittadini di acquistare (a partire dal 2014) una polizza sanitaria, era incostituzionale dal punto di vista dell'applicazione delle norme del codice commerciale: siccome in America la sanità non è un diritto né un servizio pubblico, ma un prodotto che si acquista sul mercato, nessun governo — ragionavano gli oppositori della riforma — può obbligarti a comprare una polizza che è un bene in vendita come un altro. È così, ha confermato ieri la Corte spingendo i giornalisti presenti alla lettura della sentenza ad annunciare la bocciatura della riforma. Ma subito dopo il giudice Roberts ha spiegato che, anche se Obama ha sempre negato sul piano politico di aver aumentato le tasse, gli avvocati del governo hanno sostenuto davanti alla Corte la tesi della legittimità della legge anche con argomenti fiscali. E in effetti, riconosce la sentenza, la multa che chi non si iscrive a una mutua dovrà versare all'Irs, il fisco Usa, è una forma di tassazione che è nei poteri del Congresso deliberare. Stabilirlo non comporta un'adesione dei giudici alla logica della riforma, chiarisce la Corte. I repubblicani, ovviamente, sono irritati dal colpo di scena sulle tasse: un argomento («fate pagare la riforma al taxpayer») sempre respinto dai democratici. Rimettendolo al centro, la Corte offre quantomeno ai conservatori un'arma in più nella campagna elettorale. Comunque la battaglia continuerà: i 26 Stati che avevano chiesto di dichiarare illegale l'obbligo di polizza probabilmente troveranno altri modi per ostacolare la riforma, tanto più che questa norma entrerà in vigore solo nel 2014. Di quelle già in vigore, la Corte è intervenuta solo su un punto: l'estensione del Medicaid, l'assistenza sanitaria per i poveri. La Corte ha accolto il ricorso di molti Stati: il governo federale non può imporre loro un aumento degli oneri per la cura dei cittadini. La sentenza indica, però, anche un percorso relativamente semplice per correggere questo aspetto della legge in Congresso: ma negli ultimi mesi di un'infuocata campagna elettorale nulla è semplice nel Parlamento americano. Massimo Gaggi _____________________________________________ Corriere della Sera 1 Lug. ’12 OBAMA: I VESCOVI AMERICANI CONTRO LA SANITÀ L'opposizione cattolica alla riforma sanitaria di Obama ha ragioni profonde e grandi spazi di fronte a sé. La Chiesa difende la libertà dei cittadini dall'ingerenza di uno Stato che limita l'autonomia privata in nome di valori secolari. Se il governo rende obbligatoria una polizza sanitaria che copra anche spese contraccettive giudicate abortive dalla morale cattolica, esso, protesta la Chiesa, attenta alla libertà degli americani e alla legge naturale. Inoltre l'«Obamacare» obbliga ogni datore di lavoro, anche quelli cattolici, a coprire le spese abortive dei propri dipendenti. La lotta alla politica sanitaria laica di Obama è dunque una questione di libertà religiosa: libertà della Chiesa di affermare le proprie prerogative; libertà dei cattolici di sottrarsi a obblighi in contrasto con la loro coscienza. Si potrebbe credere che il salvataggio della riforma giovedì scorso a opera di una Corte suprema composta da sei giudici cattolici su nove sia uno smacco per la Chiesa. In un intervento per Vatican Insider, il giurista Pasquale Annicchino spiega che non è così. La Corte ha salvato soltanto la copertura medica obbligatoria (individual mandate) e non si è pronunciata sulle spese abortive (contraception mandate). Resta dunque ampio lo spazio di manovra per i cattolici americani: i cui numerosi ricorsi (23 già pendenti in 14 Stati diversi) sfideranno la clausola abortista della riforma Obama e il cui sostegno al candidato repubblicano Romney diventa un'arma potente. Il criterio che ha salvato la riforma oggi, il primato della decisione politica sui tribunali proclamato dal Presidente della Corte Roberts, potrebbe condannarla domani, se il decisore dovesse essere Romney. Mercoledì prossimo, festa del 4 luglio, si concluderanno le due settimane di «preghiera, studio, catechesi e azione pubblica» dedicate dai vescovi alla difesa della libertà religiosa. Si ricorderanno i martiri del «potere pubblico»: il Battista, Pietro, Tommaso Moro. Coinciderà con l'Independence day la celebrazione della lotta per l'indipendenza della Chiesa di Roma e di tutte le chiese. Marco Ventura _______________________________________________ TST 27 Giu.’12 SE CERCHI IL BUONO NON CONFONDERLO CON I "CIBI DELLA NONNA Non è vero che i cibi della nonna, ritenuti genuini e naturali, erano migliori dei nostri. Le innovazioni in tavola ci sono sempre state e continuano: la scienza in tavola non si ferma. Si dice - e a ragione - che la maggior parte dei «cibi tradizionali» non sono altro che innovazioni ben riuscite. Il pomodoro, per esempio, valorizzato dalla dieta mediterranea, per due secoli è stato trascurato. Arrivato in Europa dopo la scoperta dell'America, veniva utilizzato come pianta ornamentale, perché il colore rosso faceva «bella figura». Non a caso la «pommarola» è citata per la prima volta nei ricettari di cucina solo nel 1839 grazie al manuale di Ippolito Cavalcanti e la pizza «Margherita» è stata creata ancora più tardi, nel 1889, a Napoli. Anche la patata è stata trascurata per secoli. Nonostante le carestie, molte famiglie morivano di fame, ma non osavano utilizzare la patata, ricca di carboidrati complessi, perché era sporca e cresceva sotto terra. Alcuni, poi, utilizzavano le sue foglie e i suoi fiori (tossici per la presenza di solanina, un alcaloide che provoca nausea e vomito). Fu il farmacista Antoine Augustine Parmentier, che riuscì a convincere il re di. Francia Luigi XVI, nel 1786, a farsi assegnare un terreno per la prima coltivazione sperimentale: così, finalmente, seguì il boom della patata. Il basso prezzo dello zucchero (che ha consentito lo sviluppo delle industrie dolciarie) è stato reso possibile dalla scoperta fatta nel 1747 dal chimico tedesco Andreas Marggraf, il quale segnalò la presenza di saccarosio nella barbabietola che si poteva coltivare in Europa. E così il carissimo zucchero di canna delle, Antille subì un tracollo. Quanto al cibo in scatola (oggi la stima del suo consumo annuale è di 200 miliardi di confezioni nel mondo), è stato sperimentato per la prima volta da Nicola Appert a fine Settecento e brevettato nel 1810 dall'inglese Pierre Durand, anticipando gli studi di Luigi Pasteur, relativi all'attività del calore sui microorganismi. Poi le tecniche di conservazione proseguirono con il freddo artificiale. Si scoprì che specifiche sostanze, passando dallo stato liquido a quello gassoso, provocavano un abbassamento della temperatura nell'ambiente circostante. Carl von Linnè utilizzò per la prima volta l'ammoniaca liquida per raffreddare, mentre l'australiano James Harrison inventò nel 1851 una macchina per la compressione dell'etere e, grazie ai progressi della refrigerazione, fu possibile congelare il pescato. Nei cibi del futuro la scienza sarà ancora più presente, perché sono emerse nuove soluzioni per conservare i cibi e ridurre le perdite di sapore, colore, vitamine, oligoelementi. Si è visto, per esempio, che negli alimenti sottoposti per pochi attimi a pressioni spinte - comprese fra i 300 e i 700 Mpa, vale a dire 3-7 mila bar - si distruggono le forme vegetative di microorganismi pericolosi, come le salmonelle, la listeria, l'escherichia coli. Le alte pressioni inducono a livello delle strutture cellulari una parziale disorganizzazione delle strutture proteiche, modificando la loro struttura spaziale, mentre sapore e aroma risultano identici al prodotto fresco di partenza. Per abbattere la carica batterica un altro trattamento innovativo è legato alle scariche elettriche ad alta tensione in pochi secondi. Anche in questo caso la «shelf-life» è dovuta alle alterazioni della membrana delle cellule batteriche dei soliti «microorganismi antipatici» (dallo staphilococcus aureus allo pseudomonas). Oggi si discute di Ogm, ma in Italia non si approfondiscono le ricerche su questo settore di enorme importanza per l'agricoltura, dimenticando i quantitativi massicci di soia e mais transgenico che arrivano dall'estero e sono utilizzati per i mangimi animali: la strada è quindi ormai aperta per ottenere cibi ottenuti anche grazie a questa tecnologia d'avanguardia, con buona pace per i cibi della nonna. " _______________________________________________ La Stampa 29 Giu.’12 EPATITE C LA RIVOLUZIONE È ALLE PORTE di SANDRO MARIANP Siamo ad un punto di svolta nella lotta contro il virus dell'Epatite C, la più insidiosa malattia del fegato, prima causa di decesso per malattie infettive trasmissibili: con l'avvento di boceprevir, capostipite di una nuova classe di farmaci con un meccanismo d'azione rivoluzionario, diventa più vicina la prospettiva di eradicare completamente il virus. Boceprevir, inibitore della proteasi, agisce direttamente sul virus ed è risultato efficace contro l'HCV di genotipo l , il più temibile, perché più refrattario ai trattamenti e perché rappresenta il 60% delle infezioni globali. Aggiunto alla terapia standard con interferone pegilato e ribavirina, boceprevir riesce a raddoppiare e addirittura triplicare la percentuale di guarigione dei pazienti. Le evidenze arrivano da due trial clinici di Fase III: lo SPRINTO 2, cui hanno partecipato pazienti mai trattati precedentemente, e il RESPOND-2, che arruolava pazienti che avevano fallito con la terapia `duplice'. Sono circa 180 milioni le persone che soffrono di Epatite C cronica nel inondo, più del 3% della popolazione globale. L'Italia è al primo posto in Europa per numero di persone positive al virus, con 1000 nuovi casi e 20mila decessi ogni anno, ovvero due persone ogni ora. A livello regionale il Sud è il più colpito: in Campania, Puglia e Calabria, per esempio, nella popolazione ultra settantenne la prevalenza dell'HCV supera il 20%. L'HCV può entrare nel nostro organismo attraverso meccanismi diversissimi, dalle punture con oggetti commini-iati da sangue o fluidi corporei infetti, a operazioni sanitarie o estetiche (interventi odontoiatrici, piercing, tatuaggi, etc.) effettuate con materiale contaminato e non adeguatamente sterilizzato, fino ai rapporti sessuali, orno ed eterosessuali; non va inoltre esclusa le possibilità di trasmissione attraverso le mucose. _______________________________________________ Il Giornale 1 Lug.’12 LA CONFERMA SU «NATURE»: LA METFORMINA SPEGNE LE CELLULE TUMORAli cUGI L’attività farmacologica della metformina si basa sulla riduzione dei livelli di insulinemia e glucosio e sulla sua azione diretta contro alcuni bersagli molecolari delle cellule tumorali. La biguanide metformina è utilizzata da molti anni per la cura del diabete di tipo 2. Recenti lavori hanno suggerito che il trattamento con metformina riduce il rischio di sviluppare tumori e la mortalità per cancro, mentre diversi studi epidemiologici osservazionali hanno mostrato che i diabetici trattati con metformina hanno una riduzione dal 25 a140% di cancro, rispetto a quelli trattati con sulfaniluree o terapia insulinica. É proprio l'insulina, se prodotta in eccesso dal nostro organismo, ad aumentare il rischio d'insorgenza dei tumori nei soggetti obesi o diabetici. Nature Communication ha pubblicato i risultati di un lavoro che illustra quale è il legame causa - effetto tra la metformina e la riduzione dell'incidenza tumorale ed in pratica come la metformina svolga la sua funzione anti tumorale nelle neoplasie mammarie. Lo studio, coordinato da Giovanni Blandino, del Laboratorio di oncogenomica traslazionale e da Sabrina Strano del Gruppo di chemio prevenzione molecolare dell'Istituto nazionale Regina Elena (IRE) di Roma si colloca nelle attività previste dal progetto Tevere, finanziato dal ministero della Salute. La metformina spinge la cellula tumorale verso un assetto metabolico più vicino a quello di una cellula normale, che è caratterizzato da un metabolismo di tipo catabolico, la cellula neoplastica utilizza invece le vie anaboliche. Il trattamento con la metformina delle cellule tumorali in vitro ed in vivo, determina una conversione del metabolismo da anabolico a catabolico. Le riporta insomma alla normalità. Gli autori, lavorando su colture cellulari di neoplasie mammarie, hanno dimostrato che ciò avviene attraverso la modulazione dell'enzima Dicer, che svolge un ruolo fondamentale nelle biogenesi dei microRna. Queste piccole molecole sono capaci di controllare l'espressione di decine di geni bersaglio. L'induzione del miR-33 a da metformina, osservano gli autori, determinalo spegnimento dell' oncogene c-myc, coinvolto in diverse alterazioni delle cellule tumorali fra cui quella metabolica. Se il metabolismo di una cellula tumorale viene corretto le cellule rispondono meglio alla chemioterapia. _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 giu. ’12 AGGRESSIVITÀ, SI PUÒ CONTROLLARE Ricerca cagliaritana sul prestigioso Journal of Neuroscience CAGLIARI C'è lo zampino di un gruppo di ricercatori sardi dietro l'importante studio, pubblicato dal prestigioso Journal of Neuroscience, sulle possibilità di arrestare l'aggressività patologica in alcuni topi. La ricerca nasce dalla collaborazione fra Marco Bortolato, Research Assistant Professor della University of Southern California, e alcuni ricercatori della sezione di Neuroscienze del Dipartimento di Scienze Biomediche: i giovani assegnisti Roberto Frau e Angelo Casu, e gli “strutturati” Miriam Melis, Paola Castelli, Giovanna Flore e Paola Devoto. Alcuni di questi hanno ormai una consolidata e fruttuosa tradizione di collaborazione con Bortolato e un bell’elenco di lavori condotti con successo. E’ la dimostrazione di quanto siano validi gli scambi fra l'ateneo cagliaritano e i laboratori all’estero. E non è la prima volta: lo stesso team aveva ottenuto importanti riconoscimenti per gli studi sulla sindrome di Tourette. Una ricerca, quest'ultima sui topi, che suggerisce possibili vie farmacologiche trasferibili anche all'uomo. Si è dimostrato che la aggressività patologica presente in alcuni roditori puó essere arrestata agendo su un particolare recettore cerebrale. Ci sono situazioni- questa la spiegazione dei risultati dello studio- che fanno emergere un lato oscuro del temperamento, l’aggressività, che può sfociare nella patologia se la reazione si manifesta in modo eccessivo, con improvvisa violenza, scoppi d’ira ed esagerate reazioni ostili. È stata individuata una specifica predisposizione genetica all’aggressività patologica: sia gli esseri umani di sesso maschile sia i topi con deficit congenito dell’enzima monoamino-ossidasi A (Mao A), reagiscono con la violenza a situazioni stressanti. Stefano Ambu _______________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Lug. ’12 PERCHÉ SI DICE CHE IL COLLERICO È UNA PERSONA «BILIOSA» di ARMANDO TORNO Illustrazione di Paola Formica Il collerico è sempre una creatura interessante, soprattutto se non rappresentiamo l'oggetto delle sue attenzioni. Lo è per lo psicologo che ne registra la labilità emotiva e lo è per la caratteriologia. René Le Senne, che nel 1945 pubblicò un autorevole trattato su tale materia, ci assicura che il soggetto in questione è denotato dai seguenti tratti: attività, emotività, primarietà. Qualcuno, a dire il vero, preferisce le soluzioni antiche per individuare un collerico. Per esempio, se si riaprono i testi di Ippocrate — il medico greco che s'interessava alle cause naturali delle malattie e attribuiva solo alla Natura il potere di guarirle — si scopre che il povero paziente soffrirebbe di un eccesso di bile nel sangue. Non è così semplice o scontata la sua spiegazione. E poi occorre stabilire di quale colore sia questa dannata bile. Ippocrate aveva cercato di comprendere la natura umana attraverso quattro umori base, ovvero bile nera, gialla, flegma (ciò che è prodotto dalle mucose nelle vie respiratorie) e sangue. Il buon funzionamento di un organismo dipendeva dall'equilibrio che si instaurava. Ma la sua, oltre a essere una teoria eziologica della malattia, consentiva agli umori di gettare luce sulla personalità: l'eccesso di uno dei quattro avrebbe condizionato carattere, temperamento e la cosiddetta «complessione». Il malinconico, per esempio, soffre di sovrabbondanza di bile nera (si presenta magro, debole, pallido, sostanzialmente triste); il collerico, invece, denuncia un eccesso di bile gialla. Anch'egli è magro, ma è altresì irascibile, permaloso, a volte è colto da generosità, sovente diventa superbo. La teoria delle passioni era all'inizio, ma se un collerico si fosse presentato a Platone, ne avrebbe sentite di tutti i generi passando tra i diversi suoi dialoghi, dal Fedro al Timeo. Forse avrebbe fatto meglio a presentarsi ad Aristotele che, tra l'altro, oltre ad avere difeso la collera, gli avrebbe ricordato il termine orgé. Di cosa si tratta? Semplicemente dell'agitazione che gonfia il cuore, il sentimento o la passione, in particolare l'irritazione. È complementare, per taluni aspetti, a thumos, il soffio della vita, il muscolo cardiaco come sede delle passioni, in particolare di coraggio e collera. Ma senza entrare nelle questioni anatomiche, Seneca avrebbe risposto — come ha scritto nel De ira — che alla collera sono da attribuire i delitti più gravi, dall'omicidio alle lotte civili, dai dissensi familiari alle guerre, anche se essa resta «il desiderio, non la possibilità concreta di infliggere un castigo». Tutti in quel tempo, ad Atene e a Roma, ricordavano l'ira di Achille, che si legge ancora oggi sui banchi di scuola quando si apre l'Iliade di Omero, e allora come ai nostri giorni ci si rende conto che essa ha determinato gran parte dell'andamento del celebre poema. N on tutte le collere sono uguali e, come osserva con arguzia Gisèle Mathieu-Castellani che ha appena pubblicato un Éloge de la colère dall'antichità al Rinascimento (Hermann Éditeurs, pp. 452, 35), «merita che noi la consideriamo come una risposta ragionevole, una reazione tutta naturale a un atto di ingiustizia che non possiamo tollerare con il pretesto di preservare la nostra tranquillità egoista». Gli effetti dello squilibrio degli umori a volte lo accettiamo, altre volte ci provoca orrore. Due esempi? Il più classico dei collerici che apprezziamo è Gesù, così come il Vangelo di Giovanni lo descrive in un momento in cui ricorre alle mani: «Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: "Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato"» (2, 13-16). L'altro, che non è facile condividere, è l'uccisione dello zar Paolo I. Prendiamo in prestito la descrizione lasciataci da Maurice Paléologue nel suo saggio dedicato al figlio dell'assassinato, il vincitore di Napoleone Alessandro I (Mondadori 1938): «Lo zar non sospetta nulla. È nel primo sonno, quando un rumore formidabile, una visione spaventosa lo buttano giù dal letto. I congiurati, dopo aver sfondato la porta della sua stanza, si precipitano, la più parte ubriachi, sul disgraziato sovrano, gli squarciano il cranio e il petto a colpi di spada, a pugni, a calci, e, finalmente, lo strangolano con una sciarpa. E poiché il cadavere, a tratti, sembra rabbrividire ancora, uno degli assassini gli salta sul ventre a piè pari, "per fargli uscir l'anima"». Era impazzito, ma non meritava un simile trattamento. La collera che alimentò con le sue follie, va comunque ricordato, aveva superato ogni immaginazione. C he aggiungere? L'ira di Gesù è buona e quella dei congiurati russi no? Mentre ogni lettore cercherà la sua risposta, ci limitiamo a notare che, partendo proprio dai testi antichi e di Aristotele in particolare, i teologi gesuiti — quelli che stavano sullo stomaco a Blaise Pascal — riuscirono a stabilire che l'ira, o collera che la si voglia intendere, al pari di tutte le passioni non ha una moralità propria e può essere diretta a compiere sia il bene che il male. Ovviamente ci fu qualcuno che notò come, intesa quale sentimento, si possa trasformare in desiderio di vendetta. Ma i figli di Sant'Ignazio risposero che proprio questo desiderio, se rimane tale, non ha ancora ragione di peccato. _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Lug. ’12 COME CURARE UN ARTO FANTASMA vilayanur ramachandran Come e perché cambiano i comportamenti di individui che hanno subito lesioni in certe aree del cervello. Basta uno specchio da 5 dollari per eliminare sofferenze inutili «In Italia c'è stato di recente un ritorno dell'età dell'oro della neurologia grazie a Bisiach, Aglioti, Rizzolati, Gallese, Buccino e molti altri» Vilayanur S. Ramachandran Mi occupo di neurologia comportamentale. I pazienti neurologici che hanno subito una piccola lesione nel cervello o un piccolo cambiamento genetico hanno a volte cambiamenti mentali profondi eppure selettivi che chiamiamo «deficit percettivi e cognitivi», e non soltanto un generale ottundimento delle facoltà mentali. Questo ci consente di correlare struttura e funzione, e di capire come mai una massa gelatinosa di un chilo e mezzo che sta nel palmo della mano può contemplare lo spazio interstellare, il senso dell'infinito, di Dio, dell'amore, della carità e della pietà. E addirittura contemplare se stesso che contempla, quello che chiamiamo senza molto rigore auto- consapevolezza di sé. Ci sono pazienti che continuano a sentire la presenza di un arto fantasma o sostengono che appartenga al loro medico; che ne chiedono l'ablazione delle braccia; che dicono di non esistere o che il loro corpo non esista. Abbiamo avuto addirittura un paziente che non riesce più a contare o dire il nome delle proprie dita perché ha la mano gonfia e dolente per colpa di una minuscola frattura di un osso del dito (una distrofia simpatica riflessa). È uno studio ancora preliminare, ma se viene confermato, si tratta di un caso stupefacente di retroazione di un danno fisico che danneggia selettivamente un'area del cervello (il lobulo parietale inferiore) implicato nel contare e nel nominare le dita! Cercare di sviluppare nuove terapie è una sfida. Abbiamo scoperto che con uno specchio da cinque dollari è possibile creare l'illusione di un arto che si muove senza dolore. In certi pazienti questo basta a curare il dolore in un arto fantasma, in uno reale, e persino il dolore e la paralisi dopo un ictus. L'efficacia è stata confermata in esperimenti in doppio cieco rispetto a un placebo, per esempio da Christian Dohle per l'ictus, Jack Tsao per l'arto fantasma e Angelo Cacchio, qui in Italia, per la distrofia simpatica riflessa. Il grado di ripresa è variabile, resta da vedere quale paziente migliora di più. La tecnica del feedback con lo specchio ha anche aperto la strada a trattamenti intensivi con la realtà virtuale. Nell'ultimo trentennio le ricerche sul cervello si sono basate sul modello dell'Intelligenza artificiale. Si pensava che il cervello consistesse in moduli specializzati, organizzati in maniera gerarchica, che autonomamente elaboravano e rendevano espliciti alcuni aspetti delle informazioni prima di trasmetterle al modulo seguente per un'ulteriore elaborazione. Che sin dalla nascita i geni avessero cablato i moduli, i quali non interagivano molto tra loro. Ma si tratta di una rappresentazione sbagliata, salvo in casi specifici come l'area V4 per il colore o l'ippocampo per l'acquisizione dei ricordi. I moduli sono altamente malleabili, in costante equilibrio dinamico, potremmo dire, con gli altri, con l'ambiente, con carne e ossa (come nel caso della distrofia simpatica riflessa) e persino con altri cervelli attraverso i neuroni specchio di Giacomo Rizzolatti. Perfino una distinzione elementare come quella tra sensorio e motorio diventa sfocata. Lo mostrano proprio i neuroni specchio. Nelle aree motorie dei miei lobi frontali, la maggior parte delle cellule sono neuroni dei comandi motori che scaricano quando compio un'azione specifica: se allungo la mano per prendere una matita, per esempio, orchestrano la sequenza appropriata di contrazioni muscolari nel braccio. Alcuni di essi però scaricano anche quando osservo qualcun altro farlo, e mi consentono così di simularne l'intenzione, di "leggergli in mente". Dieci anni fa, quasi, ipotizzavo che nel permettere un'imitazione sofisticata delle capacità altrui, quei neuroni avevano favorito una rapida trasmissione lamarckiana delle invenzioni da una generazione all'altra e aggirato così la lentezza dell'evoluzione darwiniana. Con i miei colleghi, suggerivo che fossero disfunzionali nell'autismo, un'idea per la quale ci sono adesso dati suggestivi anche se non definitivi. Molte delle funzioni attribuite ai neuroni specchio – empatia, adozione del punto di vista altrui, imitazione, finzione ludica, aspetti del linguaggio eccetera – sono proprio quelle perse nell'autismo. A parte la sua plausibilità teorica, la nostra idea è suffragata da vari studi di imaging cerebrale, alcuni fatti da noi. Se teniamo conto dei limiti di questi studi però, al momento per l'autismo la "teoria dello specchio infranto" è convincente, ma non conclusiva (come sottolineo spesso, anche se la stampa tende a dimenticarlo). Ma anche se i dati empirici sono inconcludenti, le nostre ragioni teoriche reggono: non esiste una teoria migliore per mappare in uno sotto-sistema di neuroni i sintomi specifici dell'autismo. Ci sono anche aspetti teorici fondamentali delle funzioni cerebrali. È difficile essere in contatto con pazienti neurologici, senza confrontarsi con alcuni dei problemi cruciali della filosofia: illusione e realtà, verità e inganno, libero arbitrio e determinismo, linguaggio e pensiero e – com'è ovvio – corpo. Questi problemi impegnavano i neurologi a cavallo tra Ottocento e Novecento, come i francesi Charcot, Broca, Dejerine, ma anche Gerstmann, Hughling Jackson e Critchley. Era l'età dell'oro della neurologia, presto eclissata dal behaviorismo e dalla comparsa di nuove tecnologie. In Italia c'è stato di recente un ritorno dell'età dell'oro grazie a Bisiach, Aglioti, Berlucchi, Rizzolatti, Gallese, Buccino, Iacoboni, Ferrari e molti altri che hanno usato tecniche semplicissime per fare scoperte sorprendenti, con uno stile di ricerca che non si usa più negli Stati Uniti (Norm Geschwind e i suoi studenti sono eccezioni). Cerco di continuare quella tradizione parlando sia di questioni cliniche concrete che di quelle teoriche che, spero, interessino i non addetti e diano nuovi spunti agli specialisti. In passato, capitava spesso agli scienziati di presentare in un libro idee comprensibili dai non specialisti. Si pensi alle Origini dell'uomo o all'Espressione delle emozioni di Darwin, in realtà a quasi tutti i suoi libri, a quelli di Galileo e di Thomas Huxley, alle conferenze di Natale di Faraday. Nel secolo scorso sembrava che l'usanza si perdesse, ma le hanno dato nuova vita agenti letterari come John Brockman, autori come Stephen Jay Gould, Richard Dawkins, Steven Pinker, Francis Crick, Eric Kandel, Roger Penrose e Stephen Hawking. _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Lug. ’12 AL MERCATO DELLA GENETICA La lettura del Dna oscilla tra il libero accesso ai propri dati e il rischio che questi vengano commercializzati. Come tutelare ricerca e privacy Francesca Cerati Anne Wojcicki, co-fondatrice dell'azienda di genomica fai da te 23andMe – nonché moglie del boss di Google, Sergey Brin – ha annunciato qualche giorno fa sul suo blog che la società si è aggiudicata il suo primo brevetto dal titolo I polimorfismi associati al morbo di Parkinson. L'annuncio ha ovviamente creato scompiglio, soprattutto tra i clienti che hanno condiviso i dati genetici a titolo gratuito con 23andMe. «Nel consenso informato che ho firmato dov'era scritto che i miei dati potevano essere usati per brevettare geni? Non riesco a trovare il paragrafo...», ha postato perplessa Holly Dunsworth. In realtà, sul documento c'è scritto: «Se 23andMe sviluppa la proprietà intellettuale e/o commercializza prodotti o servizi, direttamente o indirettamente, sulla base dei risultati di questo studio, tu non riceverai alcun compenso». Wojcicki, che ha costituito 23andMe come una rete sociale copiando da Flickr e da Facebook, si difende dietro quello che è da sempre il suo obiettivo: democratizzare la genetica. «In questo modo siamo in grado di rivoluzionare e accelerare il ritmo della ricerca». Come darle torto. In effetti, questi studi possono generare rapidamente nuove informazioni e l'analisi di dati raccolti tramite social media sta davvero cambiando la medicina. Quando a farlo, però, è un'azienda privata che sfrutta i dati dei propri clienti, ci si chiede se non sia ora di cambiare qualcosa, o a fare soldi sono sempre i soliti noti. Perchè invece di selezionare i soggetti di una ricerca, pagarli, seguirli, analizzarli, 23andMe si fa pagare un servizio che poi rivende guadagnandoci altri soldi. Come se ne esce salvaguardando ricerca e privacy allo stesso tempo? Alcuni hanno nostalgia del passato, quando i campioni venivano donati per altruismo. Ma oggi questo non funziona più. La rapida crescita e il crollo dei costi della lettura del Dna hanno creato una mole di dati impressionante e molto preziosa per il progresso della scienza. Il rovescio della medaglia è che questo ha creato un mercato, che oggi più che mai ha bisogno di regole. Le tutele tecnologiche e giuridiche finora usate sono infatti ormai datate e vanno riviste. Alcuni paesi, come Germania, Svizzera e Spagna stanno valutando l'idea di offrire diversi livelli di consenso, coi quali la persona può decidere se e come essere informata. L'Olanda è forse la più avanti, con tre opzioni: conoscere tutto sulla suscettibilità alle malattie, essere informati solo sulla patologia per la quale si è stati esaminati, avere informazioni su misura. E in Italia? Il nostro Paese – dice Alessandro Quattrone, direttore del CiBio (Centro interdipartimentale biologia integrata) e membro del Comitato etico dell'Università di Trento – ha regole simili a quelle di altri paesi Ue, ma che di fatto sono inadeguate: si dividono i dati anagrafici dal campione, e quest'ultimo si usa in modo completamente dissociato dalla persona. Però, ci sono studi che dimostrano come sia possibile risalire all'identità anche attraverso una frazione di Dna». Occorre perciò trovare il modo di continuare questi studi, che danno indicazioni importanti per la salute, slegandoli dal fattore remunerativo. «Fatto salvo che per me non si deve brevettare nulla del genoma umano, sono d'accordo che è necessario usare l'informazione genetica per migliorare la propria vita. Non so se questo significa democratizzare la genetica, ma è importante che questa informazione venga interpretata dal paziente in termini probabilistici e non deterministici. Anche perchè molti di questi dati riguardano la sfera del wellness, che è addirittura "pre- medico". Sulla democratizzazione del gene Ilaria Capua, a capo del dipartimento di Scienze biomediche comparate dell'IzsVe, e che nel 2006 ha lanciato un network internazionale (Gisaid) per la condivisione online dei dati genetici dei virus dell'influenza aviaria, ha un altro parere: «Credo che la maggior parte della popolazione non sia in grado di dare un significato all'espressione di gene piuttosto che a un altro e anzi si corre il rischio di creare misundestanding con la lettura su internet. Quindi non so, da questo punto di vista, quanto funzionino quindi social network e forum. Sono invece d'accordo sul fatto che questo settore vada gestito nel migliore dei modi, cercando un'opzione rispettosa tanto della ricerca scientifica quanto della privacy del singolo. La "terza via" per me è quella intrapresa dall'Olanda, che ha "scelto di poter scegliere", con l'opzione opt-out si può decidere di entrare o meno in una biobanca e per quanto tempo. Sul fronte consenso informato, nella mia esperienza si è dimostrato più che altro un deterrente, che intimoriva. Nel ripensarlo bisognerebbe puntare su una scrittura comprensibile facendo capire i benefici di determinate operazioni». Il tempo stringe e senza che ce ne accorgiamo un "personal gene analyser" potrebbe già spuntare dietro l'angolo.