FACOLTA’ DI MEDICINA CAGLIARI RASSEGNA STAMPA 24/06/2012 ADDIO A CAO, L’UOMO CHE HA SCONFITTO LA TALASSEMIA L’ISOLA HA PERSO UNO DEI SUOI UOMINI MIGLIORI SI SCRIVE MERITO, SI LEGGE DOCENTI DI QUALITÀ CONCORSI, IL PASSO INDIETRO SUL MERITO ERASMUS L'EUROPA INCOMPIUTA TASSE UNIVERSITARIE FUORILEGGE IN 36 ATENEI SU 61 NOI FILOSOFI POLITICI SEGNALIAMO I RISCHI DELLA VALUTAZIONE SE LA LODE ALLA MATURITÀ DIVENTA UN SOGNO IMPOSSIBILE USA: SE LA CRISI TRAVOLGE I SUPERLAUREATI GLI ANIMALISTI: COSÌ MANGIARE CARNE INQUINA LA TERRA LA TRASPARENZA SULLE SPESE COMINCIA (IN RITARDO) CON UN CLIC SCRIVERE CON LA PENNA DALLE NOSTRE VITE QUEL GESTO USCITO I SEGRETI DEI TAMBURI CHE PARLANO LO SCOIATTOLO CHE HA MESSO KO LA NOSTRA CONNESSIONE ONLINE ========================================================= AOU_OTORINO: L’INTERVENTO SEGUITO IN DIRETTA DAI MEDICI A MOSCA AOU: IL MICROCITEMICO DIVENTA PEDIATRICO E SARÀ AMPLIATO SULLA SANITÀ DALLA GIUNTA SOLTANTO SLOGAN LA SFIDA: TAGLIARE I COSTI SENZA PEGGIORARE L’ASSISTENZA» AGENAS: PRIMI EFFETTI DELLA TERAPIA ANTISPRECHI LA MEDICINA È SERVIZIO NO, LA MEDICINA È SCIENZA L'ASSEDIO LEGALE A MEDICI E PAZIENTI NEGLI OSPEDALI ITALIANI TANTI «INCIDENTI» EVITABILI VIA FARMACI E ANALISI MEDICHE INUTILI ECCO L'ETICA ANTI SPRECHI NELLA SANITÀ LE LISTE DI ATTESA ANCORA NON SI ACCORCIANO PERCHÉ IL DOTTORE COMMETTE L'ERRORE? LA CHIRURGIA LOW COST DELL'INDIA METTE IN GIOCO IL MODELLO OCCIDENTALE «SANITÀ, TAGLI MIRATI E NON AL PERSONALE» LA SANITÀ CHE VORREI: VISITE MEDICHE VELOCI E SERVIZI DI QUALITÀ SANITÀ, IN ARRIVO OLTRE 300 MILIONI VELLUTI,MALECI E MACCIOTTA DAVANTI AL GUP LA COCAINA PROVOCA DANNI IRREVERSIBILI AL CERVELLO CONTINUA L’INNOVAZIONE NELLE TECNOLOGIE MEDICALI RESILIENZA PIÙ FORTI DI PRIMA DOPO LA MALATTIA PER L'ATTIVITÀ FISICA MEGLIO UN FRUTTO DI UNO «SPORT DRINK» DONAZIONI DI SANGUE IN CRESCITA MA ANCORA POCHE DAI GIOVANI SÌ ALLO SPAZZOLINO DOPO I PASTI MA È MEGLIO ASPETTARE UN PO' SÌ ALLO SPAZZOLINO DOPO I PASTI MA È MEGLIO ASPETTARE UN PO' VIRUS DELL'AVIARIA, PUBBLICATO LO STUDIO DELLE POLEMICHE ========================================================= _________________________________________________ L’Unione Sarda 22 Giugno ‘12 ADDIO A CAO, L’UOMO CHE HA SCONFITTO LA TALASSEMIA La Sardegna e la comunità scientifica internazionale perdono Antonio Cao, straordinario pediatra, insigne genetista, in prima fila nella lotta alla talassemia, morto a Cagliari a 83 anni. Una persona speciale che lascia un vuoto immenso in quanti lo hanno conosciuto per le sue qualità umane e professionali. L’insigne pediatra e genetista cagliaritano è morto ieri a 83 anni Il mondo della scienza perde Antonio Cao «Ho dato al lavoro tutti i miei angoli liberi» «L’ età porta con sé questo difetto: diventi più responsabile, e quasi hai timore di non essere all’altezza di ciò che sei stato». Era modesto, Antonio Cao, e consapevole che battere se stesso non era facile. Ottantatré anni compiuti il 4 maggio, il pediatra cagliaritano, genetista di fama mondiale, è morto ieri nella sua città. Era malato da qualche tempo, ma fino alla fine la sua vita è stata caratterizzata da un punto fermo, il lavoro. «E la ricerca scientifica per me è un hobby». Un piacere che ha conservato anche dopo i limiti d’età. Al Microcitemico - il luogo della sua battaglia appassionata contro la talassemia, dove stamattina dalle 11 sarà allestita la camera ardente - aveva conservato uno studio. Una stanza piccola, al sesto piano, invasa di libri, di luce e di musica, e curata dalla insostituibile segretaria Rita, regista di una grande festa a sorpresa per i suoi 80 anni. Amava soprattutto la classica, e il jazz degli anni Trenta, il professor Cao, «ma non posso ascoltare Beethoven mentre lavoro, mi impegna troppo. Meglio Bach. Il Barocco ti dà quel senso di eternità..». Meglio Bach, contrappunto rilassante all’attività frenetica dello studioso e alle inquietudini dell’ uomo. «Mi alzo alle 5, faccio una corsa, torno a casa, mi preparo e poi vengo qui o vado a Monserrato al Policlinico. La sera spesso seguo i miei allievi, o faccio lezioni per specializzandi in genetica o pediatria, ma mi costa una fatica enorme, pretendo troppo da me». Antonio Cao era un raro caso di clinico e di ricercatore. Di studioso che ha alternato l’attività di straordinario pediatra a quella di genetista. «Oggi non sarebbe più possibile, le ricerche sono troppo sofisticate. Io ci sono riuscito, anche se è costato un’enormità ai miei cari. Ho dedicato al lavoro tutti gli angoli liberi della mia vita». Si raccontava il professore, due anni fa, ai microfoni di RadioSardegna. Diretto, scarno, ironico, affascinante, e affettuoso. Non una parola di troppo, non un aggettivo sprecato per dire di sé, dei suoi studi, della sua straordinaria vicenda professionale che lo ha portato a farsi apprezzare dalla comunità scientifica internazionale. Sulla parete dello studio di via Jenner, il riconoscimento della Società americana di genetica conferitogli al Karolinska Institut (la prima volta a un italiano) ma anche il Sardus Pater di cui lo insignì Renato Soru, «un onore, dopo Lilliu». Ci teneva a mostrarli, ma teneva di più a quei dipinti fatti da un amico talassemico oristanese, suo paziente, o alle foto di Giuseppe Pilia e Adele Sanna, amati allievi perduti troppo presto. Aveva parlato, in quella chiacchierata informale, delle tante battaglie per sconfiggere la talassemia, del suo ritorno a Cagliari nel ’74, dopo Perugia, del vuoto di quegli anni sul fronte della lotta alla talassemia, delle prime conquiste, della scommessa recente di Progenia, dei progetti futuri. Gli piaceva ripercorrere la sua vita professionale, con eleganza, senza compiacimenti. Tra i possibili rimpianti, quello di non aver colto al volo le ripetute proposte giunte dagli Stati Uniti. «Sono stato vigliacco, qui stavo bene, non ho voluto rischiare». Professore, che cosa deve fare un buon medico? «Farti capire che in quella mezz’ora che ti dedica ci sei solo tu, il resto non esiste». Lui lo ha fatto per una vita, «ho dato belle notizie ma anche molto brutte. Eppure non ho mai ucciso la speranza. Non sono un allegrone. Sono abbastanza meditabondo e forse se bevo un bicchiere di vino divento anche simpatico, ma in fondo sono un ottimista, perché penso che anche nei momenti più terribili ci sia una via d’uscita». Maria Paola Masala _________________________________________________ La Nuova Sardegna 22 Giugno ‘12 ADDIO AL PAPÀ DELLE CURE PER I TALASSEMICI Cagliari. Antonio Cao, creatore dell’ospedale microcitemico, è morto ieri a 83 anni: le sue sfide, dalla pediatria alla genetica di Roberto Paracchini CAGLIARI Di Antonio Cao due sono gli aspetti che sono diventati leggenda popolare: il rigore unito a un carattere spesso spigoloso, e l’infinita dolcezza che donava ai suoi piccoli pazienti. Quasi due persone in una, ma solo in apparenza. Antonio Cao, morto ieri mattina all’ospedale Brotzu di Cagliari all’età di 83 anni, univa due aspetti raramente vicini tra loro: l’essere un clinico (un pediatra) di prima grandezza, e contemporaneamente, un numero uno nel campo della ricerca internazionale. Era un genetista riconosciuto per i suoi studi sulle talassemie, innanzi tutto, ma anche per i suoi apporti alla conoscenze teoriche legate alla biologia molecolare. Rigore e dolcezza, si diceva, ricerca teorica e aspetto clinico. Spigolosità e disponibilità all’ascolto. Cao è stato anche il pediatra di migliaia di persone e ha continuato a fare questa professione-mestiere sino alla fine: sinché la malattia gli ha lasciato le forze. Tra i tanti riconoscimenti internazionali avuti dal padre degli studi sulla talassemia, teneva in particolare all’onorificenza “Sardus Pater” avuta dalla Regione nel 2008 in quanto «si è particolarmente distinto per l’impegno scientifico nel campo della genetica e dell’ematologia clinica e molecolare, contribuendo in maniera determinante a debellare la piaga della talassemia in Sardegna e a migliorare significativamente la condizione di vita dei pazienti, oltreché per il suo impegno di Maestro della ricerca scientifica» nell’isola. Oggi, grazie ai suoi studi, che hanno permesso tra le altre cose, la cosiddetta “analisi precoce”, il morbo di Cooley non colpisce più i nuovi nati. Probabilmente per la grande diffusione della malaria (sino agli anni Cinquanta del secolo scorso) le popolazioni sarde sono state segnate da tante malattie ereditarie, tra cui le talassemie. Da qui l’importanza degli studi di genetica: indispensabili per combattere queste patologie. E anche la scelta di stare sempre sul campo, con la clinica e la professione pediatrica, da un lato; e in laboratorio con le ricerche più raffinate di genetica, dall’altro. Oltre ad avere legato il proprio nome alla creazione dell’ospedale Microcitemico nel 1981, del quale fu a lungo primario, unica struttura in Italia pensata e dedicata proprio alla cura delle patologie legate alle talassemie; Antonio Cao è stato uno dei pochissimi scienziati in Italia ad aver avuto (tramite un suo allievo, Giuseppe Pilia) un finanziamento di quattordici milioni di dollari dal Nih (l’ente di medicina pubblico degli Usa). Da questi fondi è nato il progetto Progenia che si sta realizzando in Ogliastra sui geni e l’invecchiamento. In Sardegna vi sono alcune centinaia di ultracentenari che hanno attirato l’attenzione del mondo internazionale. «Ma non è questo l’aspetto più importante per le nostre ricerche - ha spiegato a suo tempo allo scrivente Cao col suo solito rigore - bensì il fatto che nell’isola abbiamo una forte omogeneità genetica che permette di fare studi comparati altrimenti impossibili e che ci consentirà anche di capire il perché della longevità presente in alcune aree locali e dei motivi genetici e ambientali che la sorreggono». In termini scientifici si parla di «regolazione dell’espressione genica», in altre parole si tratta di capire che cos’è quell’impasto di genetica e ambiente che ci fa essere quello che siamo. Ed è proprio grazie a questi studi e al rigore nel portarli avanti (la sua spigolosità) che Cao ha potuto tradurre in salute e migliore qualità della vita l’infinita dolcezza che riservava ai suoi piccoli pazienti. LA VITA Una grande passione: la scienza Antonio Cao aveva da poco compiuto 83 anni (era nato il 4 maggio del 1929) e sino a che la malattia glielo ha permesso tutte le mattina (dalle 5,30) lo si poteva vedere correre in viale Poetto, dal campo Coni a Marina Piccola, andata e ritorno. Laureato in Medicina nel 1954, Cao ha dedicato la sua vita all’impegno scientifico, con particoalre attenzione alla genetica e all’ematologia. Grazie soprattutto al suo contributo nel 1981 venne aperto a Cagliari l’ospedale Microcitemico, di cui fu a lungo primario. Dal 1998 è stato direttore della scuola di specializzazione in Pediatria di Cagliari e nel 2010 gli fu conferita anche l’onorificenza di Maestro della pediatria. (r.p.) L’ISOLA HA PERSO UNO DEI SUOI UOMINI MIGLIORI CAGLIARI La morte di Antonio Cao lascia un vuoto. «Oggi ci lascia uno scienziato di fama mondiale, ma soprattutto un grande uomo che ha portato lontano l’eccellenza della sanità sarda», ha affermato l’assessore regionale della Sanità Simona De Francisci, parlando dello scienziato. «Antonio Cao - ha continuato - sarà ricordato non solo e non tanto dalla comunità medico-scientifica internazionale per le sue scoperte e innovazioni, ma soprattutto, e con immensa gratitudine, dalle persone e dai tanti bambini da lui accuditi con cure amorevoli nel corso della sua lunghissima e onorata carriera». Per Emanuele Sanna, pediatra, già assessore regionale alla Sanità, la morte di Cao è stata una perdita profonda: «Con Antonio se ne va uno dei più illustri rappresentanti della pediatria e della cultura medico-scientifica della Sardegna». In particolare la scienziato «è stato un pioniere e un impareggiabile innovatore nel campo della prevenzione e dell’organizzazione sanitaria per sconfiggere la piaga atavica dell’anemia mediterranea nella nostra isola. Un maestro che ha creato una scuola di assoluto valore internazionale per prevenire e curare in Sardegna e nel mondo tante patologie su base genetica considerate per troppo tempo e a torto incurabili». Con Cao la Sardegna perde uno scienziato che, tra le altre cose, non ha disdegnato di scendere nell’arena del potere pur di portare avanti le battaglie in cui credeva. Per pochi giorni è stato anche consigliere comunale, ma era troppo: non ha resistito e si è subito dimesso. (r.p) _________________________________________________ Corriere della Sera 15 Giugno ‘12 SI SCRIVE MERITO, SI LEGGE DOCENTI DI QUALITÀ di ROGER ABRAVANEL I l ministro Profumo sta subendo diversi attacchi alla sua proposta del «premio al merito», sulla base essenzialmente di due argomenti. Il primo, all'apparenza giusto, sostiene che non bisogna preoccuparsi solo dei mille giovani italiani eccellenti, ma anche della massa di studenti italiani che non hanno oggi scuole adeguate. Il secondo, più sfacciatamente antimerito, sostiene che è sbagliato promuovere la competizione, che non è giusto spingere i figli a «essere i primi della classe», che il successo nella vita si misura con «cose diverse dai buoni voti a scuola» eccetera. Alla prima obiezione il ministro ha risposto in modo sbagliato, sostenendo che oltre ai 30 milioni di spesa per il merito è prevista una spesa di un miliardo di euro per le scuole. La risposta è sbagliata perché il problema delle scuole italiane non sono i fondi. Avrebbe dovuto rispondere che i sistemi educativi migliori del mondo del nord Europa (che non costano più del nostro) dimostrano che sono possibili entrambi gli obbiettivi: favorire l'emergere di giovani eccellenti indipendentemente dalla loro provenienza, ma anche aumentare la qualità della formazione di tutti gli studenti alle «competenze della vita» (capacità di ragionare con la propria testa, risolvere problemi, capire ciò che si legge). E lo fanno unicamente grazie alla qualità dei loro insegnanti, che da noi scarseggia perché molte scuole sono diventate uno stipendificio che si preoccupa più dei «lavoratori» dell'istruzione (gli insegnanti) che dei «consumatori» (gli studenti). Il nostro sistema educativo, oltre ad avere distrutto le pari opportunità in un Paese dove i cittadini del Sud sono palesemente discriminati da scuole peggiori, ha creato una popolazione che secondo l'Ocse è all'80 percento analfabeta delle suddette «competenze della vita». È ormai urgente un programma per migliorare la qualità dell'insegnamento, misurando la qualità delle singole scuole con standard nazionali e rendendola trasparente ad allievi e genitori. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il miliardo di euro promesso dal ministro. Ma ha a che vedere con la meritocrazia oggi inesistente nel mondo degli insegnanti italiani. Il premio al merito degli studenti eccellenti proposto dal ministro ha invece un altro, vero, difetto che ha attirato però pochissime critiche. Profumo intende selezionare i destinatari del premio al merito lasciando che il preside e i docenti di ogni scuola selezionino il loro miglior studente. Il problema è che, come ormai ben sappiamo, gli standard variano da scuola a scuola, come dimostra il fatto che al Sud i 100 e lode sono il doppio che al Nord. Premiare la vera eccellenza italiana richiederebbe invece di premiare magari anche il secondo o il terzo studente più bravo delle scuole migliori e non certo il primo di ciascuna scuola, offrendo ai migliori giovani italiani una generosa borsa di studio per andare nelle università migliori. E gli studenti migliori possono essere inizialmente selezionati dai presidi (magari i migliori 10 di ogni scuola) ma la selezione finale deve avvenire attraverso un concorso nazionale basato su «test Invalsi» standard. Il ministro non ha purtroppo risposto all'obiezione anticompetizione che è il vero credo della crociata antimerito ed anticrescita in Italia, che purtroppo alla fine mette tutti d'accordo. Studenti e genitori illusi che debba bastare il «pezzo di carta» e poi ci debba pensare lo Stato. Furbetti e privilegiati ai quali il «pezzo di carta» è più che sufficiente, perché poi ci pensano le raccomandazioni o la rendita di posizione di un papà protetto da un welfare famigliare antiproduttività. Imprenditori poco istruiti che sopravvivono grazie al «nero» e fanno concorrenza sleale a quelli più istruiti che vogliono competere secondo le regole. Sindacalisti che vogliono il lavoratore massificato che chiede stipendi uguali per tutti, negoziati dai sindacati medesimi. La mancata risposta del ministro della pubblica istruzione a questo tipo di obiezione è il simbolo della incapacità del governo Monti ad affrontare di petto i pregiudizi culturali anticrescita del nostro Paese, che stanno riesplodendo nel momento più delicato della nostra storia del dopo-guerra. Proprio quando l'Italia avrebbe bisogno di uno scatto d'orgoglio per riscoprire competizione e merito, per riprendere a crescere. Meritocrazia. corriere.it _______________________________________________________ Corriere della Sera 5 Giugno ‘12 CONCORSI, IL PASSO INDIETRO SUL MERITO Un compromesso accettabile tra l'esigenza di dare agli atenei un'autonomia sottoposta a valutazione e l'esigenza di evitare gli abusi che il macchinoso sistema dei concorsi locali comunque non era riuscito a evitare. L'ipotesi ovviamente implicita in questo schema era che non tutti gli abilitati sarebbero dovuti necessariamente diventare professori a spese dello Stato, dato che le università nella loro autonomia avrebbero potuto mettere asticelle ancora più alte per le loro chiamate. Il ministro Profumo sembra voler cambiare di nuovo le cose, probabilmente per impedire una proliferazione di abilitati che poi pretenderebbero il «posto fisso». Ma per evitare questo, bastava consentire all'Anvur di alzare essa stessa l'asticella, come giustamente vorrebbe fare tra mille opposizioni indebite, e soprattutto dare un chiaro segnale di impegno a lasciare a casa gli abilitati non chiamati da alcun ateneo. Invece di dare questo segnale, il perverso buonismo ministeriale (come si fa poi a dir di no a chi è meno capace?) prevede una nuova procedura apparentemente sensata, ma soggetta al forte rischio di ributtare il sistema nel mare degli abusi che fino ad ora ha conosciuto. Il ministro vorrebbe che prima le università scegliessero chi chiamare in base al loro budget e che poi, a scelte fatte, l'Anvur certificasse la loro bontà, con tagli ai finanziamenti degli atenei di cui l'Anvur ritenesse inadeguate le chiamate. Apparentemente sembra un sistema ragionevole, ispirato al principio giusto secondo cui se un dipartimento sopporta le conseguenze dell'assunzione di un incapace, non sono necessari vincoli formali ex ante. Quando il c.t. della Nazionale Maldini (padre) scelse, nella sua autonomia, Maldini (figlio) tra i difensori titolari della squadra per i Mondiali, nessuno protestò perché era ovvio a tutti che quel giocatore fosse il migliore a disposizione per quel ruolo. E tutti sapevano che, senza bisogno di concorsi e controlli, Maldini (padre) aveva incentivi fortissimi a non fare scelte sbagliate: milioni di occhi in tutto il mondo lo avrebbero giudicato. Questo tipo di incentivi sorregge il buon funzionamento dei metodi di reclutamento nei sistemi universitari di altri Paesi in cui gli atenei sono liberi di scegliere come e chi assumere, sapendo però che dovranno sopportare le conseguenze delle loro scelte, le quali saranno valutate dal mercato (ad esempio in Usa) o da un'agenzia di valutazione centralizzata (ad esempio in Gran Bretagna). Ma il diavolo, come sempre, è nei dettagli, e la nuova proposta ne ha almeno due che preoccupano. In primo luogo, poiché il ministro conosce i suoi polli, non lascia liberi i dipartimenti di scegliere i candidati con la procedura che preferiscono. Impone loro di ricorrere a commissioni di 5 docenti di cui 2 scelti dal dipartimento e tre sorteggiati entro liste predisposte dall'Anvur, tra cui un docente di università estera. Commissioni come queste sono per loro natura costituite da soggetti che non sopporteranno le conseguenze delle loro scelte. Non saranno infatti questi commissari a subire il taglio del finanziamento pubblico previsto dal ministro per l'ateneo in caso di scelta inadeguata. La legge Gelmini prevedeva il ricorso ad esterni per raccogliere pareri motivati sui candidati. Questo va benissimo e accade in tutto il mondo. Ma la scelta ultima deve ricadere su chi dovrà fare i conti con i suoi effetti e proprio per questo ha gli incentivi giusti per scegliere bene. In secondo luogo, la certificazione ex post oltre ad essere molto onerosa per l'Anvur, che dovrebbe ricontrollare l'operato di ogni commissione locale, ripetendo un lavoro già fatto, sarà fortemente soggetta a pressioni per evitare dinieghi. Se è così difficile non assumere gli abilitati rifiutati dagli atenei, pensa davvero il ministro che sia più facile considerare inadeguati i professori già nominati come vincitori dalle nuove commissioni concorsuali? Imboccare una nuova strada serve davvero o è cambiare tutto affinché nulla cambi? La capacità del Governo di impedire che questo accada è determinante per la crescita perché essa si fonda anche sulla qualità del sistema universitario. andrea.ichino@unibo.it Un compromesso accettabile tra l'esigenza di dare agli atenei un'autonomia sottoposta a valutazione e l'esigenza di evitare gli abusi che il macchinoso sistema dei concorsi locali comunque non era riuscito a evitare. L'ipotesi ovviamente implicita in questo schema era che non tutti gli abilitati sarebbero dovuti necessariamente diventare professori a spese dello Stato, dato che le università nella loro autonomia avrebbero potuto mettere asticelle ancora più alte per le loro chiamate. Il ministro Profumo sembra voler cambiare di nuovo le cose, probabilmente per impedire una proliferazione di abilitati che poi pretenderebbero il «posto fisso». Ma per evitare questo, bastava consentire all'Anvur di alzare essa stessa l'asticella, come giustamente vorrebbe fare tra mille opposizioni indebite, e soprattutto dare un chiaro segnale di impegno a lasciare a casa gli abilitati non chiamati da alcun ateneo. Invece di dare questo segnale, il perverso buonismo ministeriale (come si fa poi a dir di no a chi è meno capace?) prevede una nuova procedura apparentemente sensata, ma soggetta al forte rischio di ributtare il sistema nel mare degli abusi che fino ad ora ha conosciuto. Il ministro vorrebbe che prima le università scegliessero chi chiamare in base al loro budget e che poi, a scelte fatte, l'Anvur certificasse la loro bontà, con tagli ai finanziamenti degli atenei di cui l'Anvur ritenesse inadeguate le chiamate. Apparentemente sembra un sistema ragionevole, ispirato al principio giusto secondo cui se un dipartimento sopporta le conseguenze dell'assunzione di un incapace, non sono necessari vincoli formali ex ante. Quando il c.t. della Nazionale Maldini (padre) scelse, nella sua autonomia, Maldini (figlio) tra i difensori titolari della squadra per i Mondiali, nessuno protestò perché era ovvio a tutti che quel giocatore fosse il migliore a disposizione per quel ruolo. E tutti sapevano che, senza bisogno di concorsi e controlli, Maldini (padre) aveva incentivi fortissimi a non fare scelte sbagliate: milioni di occhi in tutto il mondo lo avrebbero giudicato. Questo tipo di incentivi sorregge il buon funzionamento dei metodi di reclutamento nei sistemi universitari di altri Paesi in cui gli atenei sono liberi di scegliere come e chi assumere, sapendo però che dovranno sopportare le conseguenze delle loro scelte, le quali saranno valutate dal mercato (ad esempio in Usa) o da un'agenzia di valutazione centralizzata (ad esempio in Gran Bretagna). Ma il diavolo, come sempre, è nei dettagli, e la nuova proposta ne ha almeno due che preoccupano. In primo luogo, poiché il ministro conosce i suoi polli, non lascia liberi i dipartimenti di scegliere i candidati con la procedura che preferiscono. Impone loro di ricorrere a commissioni di 5 docenti di cui 2 scelti dal dipartimento e tre sorteggiati entro liste predisposte dall'Anvur, tra cui un docente di università estera. Commissioni come queste sono per loro natura costituite da soggetti che non sopporteranno le conseguenze delle loro scelte. Non saranno infatti questi commissari a subire il taglio del finanziamento pubblico previsto dal ministro per l'ateneo in caso di scelta inadeguata. La legge Gelmini prevedeva il ricorso ad esterni per raccogliere pareri motivati sui candidati. Questo va benissimo e accade in tutto il mondo. Ma la scelta ultima deve ricadere su chi dovrà fare i conti con i suoi effetti e proprio per questo ha gli incentivi giusti per scegliere bene. In secondo luogo, la certificazione ex post oltre ad essere molto onerosa per l'Anvur, che dovrebbe ricontrollare l'operato di ogni commissione locale, ripetendo un lavoro già fatto, sarà fortemente soggetta a pressioni per evitare dinieghi. Se è così difficile non assumere gli abilitati rifiutati dagli atenei, pensa davvero il ministro che sia più facile considerare inadeguati i professori già nominati come vincitori dalle nuove commissioni concorsuali? Imboccare una nuova strada serve davvero o è cambiare tutto affinché nulla cambi? La capacità del Governo di impedire che questo accada è determinante per la crescita perché essa si fonda anche sulla qualità del sistema universitario. andrea.ichino@unibo.it ________________________________________________ Corriere della Sera 24 Giugno ‘12 ERASMUS L'EUROPA INCOMPIUTA Formare i nuovi cittadini: il sogno non si è realizzato di GIUSEPPE SARCINA È stato bello viaggiare. È stato bello anche sognare un'Europa senza confini, costruita piano piano da giovani liberi da pregiudizi, intelligenti, istruiti. È stato bello e forse anche ingenuo, 25 anni fa, scommettere sull'energia rivoluzionaria degli studenti universitari. Almeno per cominciare. Nel 1987 l'Europa era in piena fase costituente. Il presidente della Commissione europea era il francese Jacques Delors, un nome che ancora oggi evoca, a torto o a ragione, l'età dell'oro, l'epoca più creativa dell'integrazione europea. Il Parlamento europeo era ancora pervaso dallo spirito federalista di Altiero Spinelli (morto nel maggio 1986). Il presidente dei francesi era François Mitterrand. In Italia: premier Bettino Craxi, ministro degli Esteri Giulio Andreotti. Silvio Berlusconi? «Solo» proprietario di tre canali tv e fresco patron del Milan lanciato all'inseguimento del Napoli di Diego Armando Maradona. Il primo gennaio del 1986 Spagna e Portogallo avevano aderito a quella che ancora si chiamava Cee, Comunità economica europea. Dodici Paesi e un progetto centrato tutto sulla dimensione economica dei rapporti internazionali, lungo la linea tracciata dai francesi Jean Monnet e Robert Schuman. Un teorema semplice e che aveva dato risultati soddisfacenti: se il contenzioso tra gli Stati nasce da ragioni economiche (che si chiamino carbone, acciaio o prodotti agricoli); ebbene, mettiamo in comune e gestiamo insieme queste risorse e avremo commerci, prosperità e pace assicurati. In un certo senso fu dunque sovversiva l'idea di affiancare il libero scambio di studenti a quello dei laminati, delle manifatture, delle patate. Così l'Europa istituzionale e burocratica (nel senso migliore del termine), che fin lì aveva vissuto soprattutto di «maratone agricole» e di «piani per la siderurgia», lanciava «Erasmus», l'European region action scheme for the mobility of university students (Progetto di azione regionale europea per la mobilità degli studenti universitari). La primogenitura dell'idea è tuttora controversa, ma è indubbio che una forte spinta arrivò dall'associazione Aegee-Europe, guidata da Franck Biancheri, un ventiseienne di Nizza che mise insieme una rete di 12 mila universitari in 70 città europee e che a un certo punto ottenne l'appoggio determinante di Mitterrand. Il programma prevedeva (ed è ancora così) una borsa finanziata da Bruxelles per coprire le spese di un soggiorno-studio che può variare tra i tre e i dodici mesi in un'università di un altro Paese (con la possibilità di sostenere regolarmente gli esami). In quel primo anno 3.224 studenti si affacciarono nel cortile dei vicini: a sorpresa 925 provenivano dalla diffidente Gran Bretagna; 895 dalla Francia, 649 dalla Germania Ovest (il muro di Berlino era ancora in piedi), 220 dall'Italia. Nel 2010 (ultimi dati disponibili forniti da Eurostat) gli «erasmiani» erano diventati 213.266. Il numero totale (1987-2010) ha raggiunto quota 2.278.414. A prima vista sembrano i numeri di una storia di successo e con proiezioni ancora ambiziose. Oggi, si legge nell'ultimo documento della Commissione europea, i Paesi coinvolti sono 33 (oltre dunque il perimetro dei 27 associati nella Ue). La Spagna è in testa alla classifica della mobilità, con 31.158 studenti, seguita da Francia, Germania, Italia e Polonia, mentre «le destinazioni più popolari tra gli studenti sono ancora una volta la Spagna, che ha accolto 35.386 giovani, seguita da Francia, Regno Unito e Germania». Inoltre la Commissione di Bruxelles segnala che la partecipazione sta crescendo al ritmo del 7,4 per cento all'anno e, se continuerà così, alla fine della stagione 2012-2013 si toccherà la soglia di 3 milioni di studenti. Tre milioni di studenti in 25 anni. Sono tanti? Ogni anno, in media, «gli erasmiani» rappresentano una percentuale che va dall'1 al 3 per cento sul totale degli iscritti e tra il 7 e il 10 dei laureati. Sempre considerando il 2010, nella Spagna primatista la quota è stata pari, rispettivamente, all'1,73 per cento e al 10,4 per cento. In Italia all'1,3 per cento degli universitari e al 9,3 dei nuovi laureati. Nel frattempo il padre dell'utopia Franck Biancheri si arrabatta nella terra di nessuno dei movimenti e dei partiti federalisti franco-europei e la sua creatura, Erasmus, è diventata un venticinquenne che forse non sfiorirà precocemente (come pure si potrebbe pensare), ma che comunque non ha mantenuto le grandi aspettative suscitate 10-15 anni fa. D'accordo, la partenza era stata già di per sé squilibrata, come spesso accade nella storia dell'Unione Europea: un grande slancio ideale cosmopolita (al limite della retorica) accompagnato da un'imbarazzante penuria di mezzi. Testimonial azzeccato, però: Erasmo da Rotterdam, il filosofo giramondo dell'umanesimo del Quattro-Cinquecento, conosciuto da tutti per il suo lieve e profondo Elogio della Follia, dunque inquilino ideale dell'Appartamento spagnolo, il film cult degli erasmiani, girato nel 2002 a Barcellona dal regista francese Cédric Klapisch. Ma c'è stato un momento, all'inizio degli anni Duemila, in cui davvero si è pensato che gli studi senza frontiere potessero diventare il migliore veicolo di un'integrazione sociale orizzontale: la condizione per accelerare l'avvicinamento politico tra i vertici dei Paesi Ue. L'inizio di una nuova geografia culturale, il bozzolo di una nascente e coinvolgente «opinione pubblica europea» su cui poggiare, finalmente, l'architettura dell'Unione. D'altra parte a chi se non a un ideale «cittadino erasmiano» si rivolge la bozza della Costituzione europea messa a punto nel 2003? Lasciamo perdere il groviglio giuridico del funzionamento delle istituzioni comunitarie; soffermiamoci, invece, sulle prime pagine, leggiamo l'articolo sugli «Obiettivi dell'Unione». Sono i più avanzati del mondo, su questo non ci sono dubbi; più degli «Emendamenti» americani, più della «Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo». Perché i costituenti non si limitano a fissare tutele, ma chiamano i cittadini a «promuovere» anche i diritti degli altri. Comma 3 dell'articolo 3: «L'Unione promuove la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli Stati membri». Il comma 4 dello stesso articolo sembra scritto da John Lennon: «L'Unione contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all'eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani..». Neanche dieci anni fa. Incredibile. Oggi eccoci qua, con i nostri Paesi lacerati. Il furore tedesco contro gli Stati mediterranei è solo una delle forze distruttive in campo. Chi sono, dove sono, che fanno i giovani europei? Cinque milioni e mezzo di coloro che hanno meno di 25 anni sono disoccupati: il 22,4 per cento in media, con punte del 50 in Spagna e Grecia. Sette milioni e mezzo non studiano e non hanno un impiego. Aspettano, come paralizzati. A centinaia di migliaia, intanto, votano per partiti xenofobi, antieuropei e persino nazistoidi. Dall'Olanda all'Austria; dalla Germania alla Francia, alla Grecia. Evidentemente qualcosa è andato storto se al posto di Erasmo da Rotterdam ci ritroviamo con le svastiche ai comizi. Sandro Gozi, 44 anni, è il testimone più adatto per l'occasione. Oggi è deputato del Pd e vicepresidente del Movimento europeo, la sezione italiana del Movimento federalista ispirato ad Altiero Spinelli. È stato uno dei collaboratori più stretti di Romano Prodi a Bruxelles, ma soprattutto, per quel che qui ci interessa, uno dei primi italiani a partire con Erasmus: «Era il 1988, andai per un anno alla Sorbona di Parigi e quando arrivai dovetti spiegare al professore di Diritto commerciale internazionale che cosa facessi lì. Erasmus è lo specchio delle contraddizioni europee. È una storia di successo lasciata a metà: i governi non ci hanno creduto fino in fondo». In effetti c'è un problema di finanziamento. Il bilancio europeo da sempre destina circa il 40 per cento delle risorse totali (circa 100 miliardi) all'agricoltura e il 30 al sostegno delle aree più arretrate. Tutte le altre voci si dividono gli avanzi. La dotazione di Erasmus è pari a 407 milioni, lo 0,7 per cento del budget comunitario. Come ricorda giustamente Gozi, la proposta della Commissione Prodi di aumentarlo del 400 per cento fu bocciata dal Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. Risultato: le borse di studio sono sempre più esigue. Oggi la media del finanziamento è pari a 254 euro per studente. È chiaro che solo chi è appoggiato da una famiglia con un buon reddito può permettersi di mantenere la figlia o il figlio fuori dai confini. È un investimento economico, anche perché, come segnala un'indagine condotta da Eurochambres (l'Associazione europea delle camere di commercio e dell'industria) nel 2020 il 35 per cento dei posti offerti dal mercato europeo richiederà un alto livello di qualificazione (in salita rispetto al 29 del 2010); gli impieghi con competenze medie saranno pari al 50 per cento (stabili), mentre scenderanno al 15 (dal 20 attuale) i lavori associati al più basso grado di specializzazione. Un'altra ricerca, sviluppata dall'Ufficio studi Bachelor, segnala che nelle aziende italiane (campione di 150 realtà) il 78 per cento dei capi del personale preferisce assumere un candidato con un'esperienza Erasmus nel curriculum. A questo punto siamo arrivati. A poco a poco il programma bandiera dell'integrazione si è trasformato in un utilissimo e dignitoso strumento al servizio della carriera universitaria e professionale sostanzialmente degli studenti del ceto medio-alto. In parallelo il dibattito europeo è sceso dalle vette dei princìpi ideali della Costituzione (per altro declassata a Trattato di Lisbona nel 2007) per misurarsi con il «fiscal compact» e il «fondo salva Stati». La grande crisi ci ha già cambiati. Forse, noi europei, continueremo a stare insieme più per necessità e per tante altre solide ragioni che per il folle, erasmiano piacere di vivere in una terra senza confini. _________________________________________________ Italia Oggi 19 Giugno ‘12 TASSE UNIVERSITARIE FUORILEGGE IN 36 ATENEI SU 61 Tasse universitarie fuori legge in 36 atenei su 61. Nel corso del 2011 la contribuzione richiesta agli studenti da oltre la metà delle università della Penisola è stata superiore a quella fissata dalla legge. L'allarme è stato lanciato dal sindacato studentesco "Unione degli universitari" all'interno dell'inchiesta annuale sulle tasse studentesche, partendo dai dati forniti dal MIUR sui bilanci di tutti gli atenei. «La legge parla chiaro», hanno spiegato dall'associazione studentesca. «Il Dpr 306 del 1997 prevede che la sommatoria di tutta la contribuzione studentesca di un ateneo non debba superare il 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario che quell'ateneo riceve dallo Stato. Nei fatti un'università non può chiedere ai propri studenti più del 20% dei soldi che riceve dallo Stato per gestire il proprio ateneo. Ma il 55% delle università italiane non rispettano la legge. E il dato dell'ultimo anno è addirittura peggiore di quello del 2010». Come emerge chiaramente dai dati elaborati dal sindacato degli studenti, gli importi richiesti illecitamente dagli atenei ai propri iscritti, due anni fa, si attestava a 214 milioni gli euro. Che sembrerebbero essere lievitati nel 2011 al di sopra dei 250 milioni di euro. «Nonostante il ricorso al TAR vinto dall'UDU Pavia a novembre 2011, che ha condannato l'ateneo pavese a restituire quasi 2 milioni di euro a tutti gli studenti per tasse "fuori legge", le università italiane hanno continuato ad aumentare le tasse studentesche oltre il limite previsto dalla legge», si legge nel rapporto presentato dal sindacato degli studenti. «Dai bilanci preventivi degli atenei, con i dati del MIUR stesso, si evidenzia infatti come nel 2011 lo sforamento riguarderà più del 50% degli atenei, per una cifra totale "illegale" richiesta agli studenti di quasi 250 milioni di euro, ben 36 milioni in più rispetto all'anno scorso». E questo, nonostante il numero degli iscritti totali italiani sia diminuito di circa 20.000 unità in un Paese che detiene il terzo record negativo in Europa per incidenza delle tasse universitarie. «In un momento di forte crisi si sta facendo pagare agli universitari e alle proprie famiglie i tagli all'istruzione pubblica», hanno avvertito dall'Unione degli Universitari confermando la volontà di appellarsi ai TAR in ogni ateneo per garantire il rispetto della legge. Tancredi Cerne _________________________________________________ Il Manifesto 21 Giugno ‘12 NOI FILOSOFI POLITICI SEGNALIAMO I RISCHI DELLA VALUTAZIONE I membri della Società Italiana di Filosofia Politica hanno deciso di render pubblico il proprio giudizio sulle scelte che si annunciano nei documenti e nelle linee di intervento dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). I filosofi politici dichiarano che non intendono affatto sottrarsi a rigorosi processi di valutazione. Sin dagli esordi della Filosofia Politica come mate-ria autonoma nel sistema universitario italiano, i docenti della disciplina hanno riconosciuto criteri obiettivi e trasparenti di valutazione. Ciononostante, i filosofi politici italiani sono favorevoli a un arricchimento dei processi di valutazione, che sia coerente con la natura e i metodi della ricerca. Rifiutano però che la questione della valutazione sia ridotta a una artificiale quantificazione della produzione scientifica, condotta in base a criteri estranei alla disciplina e peraltro già riconosciuti come non adeguati nel dibattito internazionale sulla valutazione. L'Anvur ha individuato due metodi da impiegare in maniera combinata per la valutazione della qualità della ricerca: l'analisi bibliometrica e la peer-review. Riconoscendo poi che il primo strumento, «per il momento», può difficilmente applicarsi alle discipline umanistiche, l'ha sostituito con quello della rilevanza editoriale delle riviste. L'Anvur, in questo caso, propone di vincolare la classifica alla logica dei percentili, per la quale si stabilisce a priori che solo una certa percentuale di riviste possa essere collocata nelle fasce più alte. Una simile scelta appare viziata da un alto grado di arbitrarietà e da possibili conflitti di interesse. Classifiche di questo tipo, se per un verso appaiono inadeguate a giudicare la qualità di un articolo, che non può certo essere automaticamente desunta dal rango della rivista che lo ospita, per altro verso condizionano fortemente il modo di fare ricerca, soprattutto nell'ambito delle scienze umane. Come già è stato notato da molti, le scelte dei ricercatori finiranno per essere condizionate da fattori casuali, quali la collocazione in fascia A della rivista che coltiva uno specifico tema di studio; con quali conseguenze per la libertà di ricerca, si può immaginare. Per il modo in cui è stato congegnato dall'Anvur, inoltre, questo sistema penalizza le riviste, interdisciplinari — e di conseguenza, gli approcci spesso più innovativi e originali alla ricerca - e quelle on line ad accesso aperto, favorendo indebitamente (in un momento in cui perfino l'università di Harvard li sta mettendo in discussione) gli editori commerciali, operanti spesso in condizioni di oligopolio. Allo stesso modo, l'ostinazione nel voler attribuire un privilegio alle pubblicazioni in lingua inglese, oltre a mostrare il solito, vecchio prorenza fra la conoscenza della lingua veicolare e la capacità di intervenire nel dibattito scientifico internazionale: allo studioso si dovrebbe richiedere non tanto di scrivere nella lingua conosciuta dai più, ma di saper pubblicare nella lingua che è propria del campo di studi nel quale è impegnato, che può di volta in volta essere il francese, il tedesco, l'inglese, lo spagnolo, così come altre lingue non europee, e perfino l'italiano. E non bisogna dimenticare che nostra lingua ha il pregio di renderci leggibili al contribuente che finanzia la nostra ricerca. I filosofi politici italiani chiedono pubblicamente che la definizione di metodologie di valutazione consone alla propria identità scientifica sia affidata agli studiosi stessi della materia e non si risolva nella imposizione autoritaria di stereotipi estranei e obsoleti, idonei soltanto a creare una burocratica parvenza di rigore, utile forse per fini pubblicitari ma non certo per il progresso della scienza e della ricerca in Italia. Osservano inoltre che il senso di responsabilità, che non può andare disgiunto da qualsiasi iniziativa di riforma, impone di affrontare e risolvere la questione della valutazione con chiarezza e urgenza. Già da troppo tempo l'Università italiana soffre per i ritardi giustificati dai grandi progetti di riforma, che sinora hanno più che altro indotto una effettiva stasi nella vita universitaria e un pericoloso arresto nei processi di reclutamento di giovani ricercatori. Non si possono nutrire dubbi sul fatto che in questo modo un'intera generazione dí studiosi ha visto mortificate e forse definitivamente deluse le proprie aspettative di veder riconosciuti l'impegno nella ricerca e della produzione scientifica. Con il proclamato scopo di svecchiare l'Università e di sottrarla al dominio dei "baroni", si è in effetti ritardata la carriera di molti giovani meritevoli e si è in realtà accresciuto il potere di controllo dei professori più anziani, in assenza di una fascia intermedia di studiosi strutturati capaci di incidere sulle decisioni collettive. (...) È sulla base di queste considerazioni che i filosofi politici hanno sentito il dovere di manifestare pubblicamente il proprio dissenso e di invitare tutti coloro che condividono la loro critica a unirsi alla discussione per difendere, contro ogni uso strumentale, il progresso e la libertà della ricerca, come garantiti dall'art. 33 della Costituzione. (Società italiana di Filosofia politica) ________________________________________________ Corriere della Sera 17 Giugno ‘12 SE LA LODE ALLA MATURITÀ DIVENTA UN SOGNO IMPOSSIBILE La novità: media del 9, voto minimo 8 da tre anni ROMA — Non basterà la supplica a San Girolamo — uno dei quattro patroni accreditati come protettori degli studenti — per prendere un 100 e lode. Per aggiudicarsi il top del punteggio, i 459.474 ragazzi impegnati quest'anno nell'esame di maturità — prima prova mercoledì 20, lo scritto di italiano — dovranno molto più concretamente aver studiato parecchio e poter vantare il massimo dei crediti, 25 in tutto, nell'ultimo triennio. Con questa maturità 2012 infatti entra a regime il decreto del 2009 dell'allora ministro Gelmini. «Per poter aspirare alla lode, il candidato dovrà avere ottenuto, rispettivamente, 8 punti al terzo anno, 8 al quarto e 9 punti al quinto, concessi all'unanimità», spiega Giovanni Biondi, direttore generale del ministero dell'Istruzione,università e ricerca. Per rendere la conquista ancora più difficile, il decreto prevede che «in ogni caso, per tutte e tre le annate, l'alunno dovrà aver riportato, negli scrutini finali, la media dei voti superiore a 9, con nessun voto inferiore a 8». Che nel caso dovrà essere per forza compensato con un 10. Fa media anche la condotta. Finita qui? No. Il potenziale diplomato cum laude dovrà poi prendere il voto migliore sia alle prove scritte che alle orali. Arrivare già ai 100/100. Nessun bonus extra verrà concesso, insomma. E anche qui, il premio andrà assegnato all'unanimità della commissione esaminatrice. Insomma, un'impresa che sembrerebbe riservata quasi ai geni. Eppure nel 2010 ci furono 4.396 lodi in tutta Italia, 661 solo in Puglia (23 nello stesso istituto «perché è la scuola migliore che c'è», spiegò il preside), che ripetè l'exploit nel 2011 con ben 605 superdiplomati. «Il criterio è soggettivo, affidato alla discrezionalità dei commissari, sarebbe più giusto introdurre una prova unica, uguale per tutti, come gli ingiustamente criticati test Invalsi», conclude Biondi. Vantaggi accademici non ce ne sono, con il 100 e lode, non è titolo preferenziale nei concorsi. Però dà diritto a un premio di 650 euro, un tempo erano 1.000. Come nelle precedenti edizioni, la maturità 2011/12 («un momento fondamentale di crescita» secondo il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo), la prima senza più buste sigillate con le tracce ufficiali, inviate telematicamente alle scuole di tutta Italia, comprende tre prove scritte e un colloquio. Secondo un sondaggio di Skuola.net è proprio questo il più temuto da oltre il 54% degli intervistati. Un'altra indagine, stavolta di Studenti.it, svela che il 44% dei 1.826 intervistati dichiara che farà affidamento soltanto sulla propria preparazione. Il 23% conta sui compagni, il 17 si aspetta l'aiutino del prof. Nonostante le regole rigide e il divieto di usare il cellulare, pena l'esclusione dalla prova, il 45% dei maturandi confessa che intende usarlo lo stesso per copiare. Potrà tornare utile sapere che, in caso, gli altri tre santi a cui chiedere la grazia della promozione sono Luigi Gonzaga, Espedito di Melitene e Giuseppe da Copertino che, beato lui, ebbe il dono della scienza infusa. Giovanna Cavalli _________________________________________________ Corriere della Sera 22 Giugno ‘12 SE LA CRISI TRAVOLGE I SUPERLAUREATI «Se nemmeno chi esce dalle migliori università Usa ha più la certezza di trovare un impiego, che futuro c'è per l'America?» si chiede, sconcertato, il New York Times davanti ai dati della disoccupazione che cresce, sia pure meno che nel resto del mercato del lavoro, anche tra i laureati delle prestigiose accademie della Ivy League. Può apparire curiosa la preoccupazione del giornale progressista per il destino dei figli dei ricchi — massicciamente rappresentati negli atenei d'élite, da Harvard a Yale, da Princeton alla Columbia University — in un Paese nel quale milioni di persone hanno perso la loro casa mentre anni di rapido impoverimento hanno letteralmente spazzato via il ceto medio. Ma uno dei termometri del cambiamento del clima economico è proprio quello delle top academy: il vanto dell'America, la sua macchina «acchiappacervelli». Un tempo gli studenti all'ultimo anno avevano già diverse offerte di lavoro e durante le vacanze estive si sprecavano le proposte di stage, spesso ben retribuiti. Adesso il posto di lavoro è diventato una conquista faticosa anche per questi superlaureati e l'apprendistato estivo, senza paga, è una corsa a ostacoli nella quale devi rispondere a esami e questionari dettagliatissimi, manco ti stesse assumendo la Cia. Una realtà ben nota anche ai ragazzi italiani venuti a studiare negli States. La crisi sta, però, avendo anche il benefico effetto di smuovere l'immobilismo di queste accademie blasonate, spesso imbalsamate dal loro stesso successo: istituti nei quali ogni anno l'unica cosa che cambiava erano le rette, ormai attivate a livelli stellari. Ora la scarsità di sbocchi di lavoro e l'incalzare della rivoluzione digitale costringono i grandi atenei a cercare vie nuove. La novità forse più significativa viene dalle scuole di business administration: un master preso qui è da molti anni l'obiettivo di tanti ragazzi ambiziosi, anche nel nostro Paese, ma il crack di Wall Street e il drastico ridimensionamento del settore finanziario hanno chiuso molti canali agli alunni dei mitici «Mba». Che, però, ora, stanno trovando nuovi, eccitanti sbocchi in settori diversi dalla finanza e dalla consulenza aziendale. Basta con Morgan Stanley, Ubs o Deutsche Bank: adesso con l'Mba si va a lavorare per Google o per le corazzate dei videogiochi come Electronic Arts o Zynga, che coi social game FarmVille e CityVille ha conquistato decine di milioni di utenti di Facebook. Le nuove destinazioni sono, insomma, nella Silicon Valley tra le start up divenute aziende adulte, ma anche nella «Silicon Alley» di New York, il nuovo distretto tecnologico di Manhattan, a un miglio dai grattacieli di Wall Street. Studiavi per fare il portfolio manager a Londra e invece ti ritrovi a Seattle, a occuparti di commercio elettronico per Amazon. Anche questa è una nuova realtà (e non delle peggiori) del mercato del lavoro globale. massimo.gaggi@rcsnewyork.com _________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Giugno ‘12 GLI ANIMALISTI: COSÌ MANGIARE CARNE INQUINA LA TERRA Il dossier sui costi del ciclo di produzione. «Per due etti utilizzati 25 litri di acqua» 56 miliardi Sono i capi di bestiame che ogni anno finiscono sulle tavole di tutto il pianeta secondo i dati raccolti dalla Fao diffusi ieri dalla Lav (Lega antivivisezione) insieme al rapporto sui costi reali di produzione 12,6% di gas È la percentuale del totale dei gas calcolata dal dossier presentato ieri a Roma, si tratterebbe soprattutto di ammoniaca, fonte indiretta di anidride carbonica 25 litri di acqua Sarebbe il quantitativo necessario alla produzione di due etti di carne. Tra le conseguenze dell'iter industriale, secondo i vegetariani, ci sarebbe anche la creazione di ammoniaca che contribuisce alla acidificazione degli ecosistemi ROMA — Al summit mondiale sull'ambiente di Rio discutono di inquinamento industriale e da trasporto. A Roma, davanti al Pantheon, un tendone protegge dal caldo un buffet a base di verdure e carboidrati per richiamare l'attenzione su quella che viene indicata come la terza responsabile dei danni al pianeta: la carne. La denuncia è corredata stavolta da un dettagliato rapporto sui costi reali del suo ciclo di produzione curato da Lav, la Lega antivivisezione. Il presidente Gianluca Felicetti l'ha consegnato al ministro Corrado Clini prima che partisse per il Brasile. Alimentazione vegetariana e rinuncia alle proteine nobili, dunque. Fare a meno di quei 56 miliardi di capi di bestiame ogni anno nel mondo (secondo la Fao) significa, sostengono gli ambientalisti, dare un importante contributo alla salute della terra dove abitiamo. Lo slogan «i vegetariani vivono più a lungo se non li mangi prima» che campeggia sotto il simpatico muso di una mucca è sottoscritto da Michela Brambilla. L'ex ministro del Turismo, presidente della Federazione delle associazioni animaliste e ambientaliste, non assaggia polpette e fettine dall'età di 12 anni, da quando ha capito che fine facevano i maialini della fattoria vicino casa: «Tutti dobbiamo impegnarci. E possiamo farlo cominciando dalle piccole cose, dalla vita quotidiana. Purtroppo è ancora troppo scarsa nel nostro Paese la consapevolezza di quante ferite creano gli allevamenti intensivi per la quantità di emissioni di gas serra nell'atmosfera e per le risorse di acqua che vengono dissipate. Se non cambiamo i nostri stili di vita e scegliamo tecnologie pulite rischiamo di dover affrontare danni irreversibili del pianeta». Il rapporto piazza al terzo posto la carne (in ordine di pericolosità bovina, pollame e suina) come fonte indiretta di CO2, ossia di anidride carbonica. Gli allevamenti sono responsabili del 12,6% di gas totali. Soprattutto di ammoniaca che contribuisce alle piogge acide e all'acidificazione degli ecosistemi. Per due etti di carne verrebbero utilizzati 25 litri d'acqua. «Una sintesi dei peggiori luoghi comuni, priva di basi scientifiche seria — replica François Tomei, direttore generale di Assocarni —. Si fa confusione tra carni bovine, avicole e suine che hanno logiche completamente diverse. Il patrimonio bovino è in diminuzione da anni. Le emissioni aumentano». Alla manifestazione del Pantheon ha partecipato come simpatizzante Marco Melosi, leader dei veterinari italiani (Anmvi): «Senza arrivare ad eccessi bisogna puntare alla riduzione dell'impatto sull'ambiente adeguando la produzione alla domanda. Eliminare dalla tavola le proteine nobili? Non esageriamo. Il nutrizionista Giorgio Calabrese cerca l'equilibrio: «Tutti criticano la carne. Se non la mangiassimo avremmo problemi metabolici derivanti dalla carenza di ferro e vitamina B12. Poca, ma buona e magra». Margherita De Bac mdebac@corriere.it _________________________________________________ Corriere della Sera 17 Giugno ‘12 Modello inglese per le informazioni online Ma solo il 6,7% dei Comuni è passato al web se LA TRASPARENZA SULLE SPESE COMINCIA (IN RITARDO) CON UN CLIC di SERGIO RIZZO «How your money is spent»: come spendiamo i vostri soldi. Da anni ormai nel sito del governo britannico si trova un pulsante che apre uno sterminato foglio Excel nel quale si trova elencata ogni spesa di importo superiore a 25 mila sterline fatta con i denari pubblici. C'è scritto chi ha pagato, quanto ha pagato, dove ha comprato, quando ha acquistato e perché l'ha fatto. Nella stessa pagina c'è un blog nel quale chiunque può lasciare un commento. Tanto i privati cittadini quanto i dipendenti pubblici. Qualcuno si lamenta perché il dipartimento della Salute spende troppo per far viaggiare i suoi funzionari, altri contestano il livello a loro dire troppo alto delle fatture per l'informatica della Corona, c'è perfino chi ipotizza che l'obiettivo di tanta abbondanza di dati informatici sia in realtà quello di confondere le acque. Tutto accessibile, tutto online. Ne abbiamo impiegato, del tempo, per capire che la full disclosure britannica, la trasparenza assoluta dei conti e degli atti amministrativi, è l'unica vera strada per combattere sprechi e corruzione. Anche se, diciamo la verità, è fortissimo il sospetto che fra il dire e il fare ci sia ancora di mezzo un bel po' di mare. Benissimo, dunque, la decisione di imporre a tutte le amministrazioni di mettere online tutte le spese superiori a mille euro. Ancora meglio se quest'obbligo costringerà gli enti locali non soltanto a rendere pubblici e accessibili i loro atti ma anche a fare un salto tecnologico. Perché si fa presto a dire trasparenza in un Paese come l'Italia, dove la Pubblica amministrazione e Internet si guardano ancora in cagnesco. Secondo un rapporto della Confartigianato, nel 2009 i Comuni in grado di consentire ai propri cittadini di fare qualunque pratica senza recarsi materialmente a uno sportello del municipio erano appena 541 su circa 8.100. Cioé il 6,7 per cento del totale. Ma ancora meno erano quelli che potevano fornire esclusivamente per via telematica servizi alle imprese: appena 112. Dice ancora il rapporto dell'organizzazione degli artigiani che sempre in quel 2009 c'erano in Italia ancora 1.191 Comuni che non adottavano «alcuna informatizzazione» per il Patrimonio, 818 che gestivano senza computer il personale, 227 i pagamenti, 194 le tasse e 49 che facevano ancora la contabilità a mano. Ancora. Per lo sportello unico delle imprese previsto dalla legge i municipi che hanno dichiarato di essere in grado di pensarci autonomamente sono 4.717. Quelli che hanno deciso di utilizzare il sistema standardizzato delle Camere di commercio gestito da Infocamere sono invece 2.585. Ed è già da considerarsi un grande successo. Degli altri ottocento, nessuna notizia. Il resto viene di conseguenza. Non è un caso che nel 2011 le imprese italiane che sistematicamente utilizzavano Internet per dialogare con la Pubblica amministrazione fossero appena il 39 per cento, livello inferiore di 30 punti alla media europea (69 per cento) e paragonabile a quello della Romania. Unico Paese europeo, questo, che fa peggio di noi nell'uso quotidiano della rete per i rapporti con la burocrazia. Gli italiani di età compresa fra 16 e 74 anni che utilizzano questo strumento sono il 39 per cento del totale, contro il 56 per cento della media europea e il 16 per cento dei rumeni. Di più. Sostiene l'Istat che fra coloro, già pochini, i quali dialogano con la Pubblica amministrazione via web, meno del 13 per cento ha assolto obblighi burocratici con l'invio di moduli compilati. La maggioranza si è limitata a chiedere informazioni (35,1 per cento) e a scaricare fac simili (25,4). Per quanto riguarda quel 39 per cento di imprenditori che si ostinano a usare il computer, quasi un quarto di loro denuncia che le procedure elettroniche per inviare documenti alla Pubblica amministrazione prevedono anche la spedizione di moduli cartacei. E torniamo ai rumeni. Perché se sono azzeccate le statistiche delle istituzioni specializzate, la Romania ci surclassa per velocità di download della rete: 6,8 megabyte al secondo, contro i nostri miseri 3 megabyte. Decisamente è anche un serio problema di infrastrutture, come purtroppo abbiamo verificato in molte occasioni. Spie di questa preoccupante situazione si sono accese ripetutamente. In modo anche vistoso. È accaduto pure lo scorso autunno quando chi provò il primo giorno a compilare sul web il questionario del censimento Istat sperimentò un imbarazzante blocco del sistema. E qui si tocca con mano tutta la nostra arretratezza causata da una clamorosa carenza di visione politica. Sarebbe sufficiente ricordare il penoso destino del piano, ripetutamente annunciato, per la banda larga. E la mancanza di visione politica fa il paio con la paurosa assenza di cultura della trasparenza. Che premia un sistema opaco e autoreferenziale. Un esempio? Lo Stato non è in condizione di conoscere con un clic, come sarebbe naturale, quanto guadagnano davvero i suoi altissimi dirigenti che cumulano più incarichi. Il ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, lo ha ammesso pubblicamente. E nel decreto che stabilisce l'applicazione del famoso tetto dello stipendio del presidente di Cassazione per le retribuzioni pubbliche ha dovuto inserire una norma in base alla quale devono essere i dirigenti a comunicare ogni anno allo Stato quanto lo Stato li paga. Ancor prima di far mettere online pagamenti oltre 1.000 euro andava prescritto per tutte le amministrazioni centrali, le Regioni, le Province e i Comuni l'obbligo di pubblicare sui propri siti Internet semplicemente tutti i bilanci. Ma chiari, leggibili e soprattutto confrontabili. Non come adesso: tutti diversi e oscuri. Quando si trovano. _________________________________________________ Corriere della Sera 24 Giugno ‘12 SCRIVERE CON LA PENNA DALLE NOSTRE VITE QUEL GESTO USCITO di PAOLO DI STEFANO Le vecchie biro impugnate solo per qualche scarabocchio L'ultima volta che hai preso in mano una penna per scrivere? Non un'ora fa, non due ore fa, non ieri, nemmeno l'altro ieri e nemmeno cinque giorni fa. Ma, se ricordo bene...: sei settimane fa. Un mese e mezzo fa!? Proprio così hanno risposto, in media, gli adulti del Regno Unito a un sondaggio pubblicato dal quotidiano Mail online. Si sapeva che la scrittura a mano era in declino, ma non fino a questo punto. Si parla, ovviamente, di adulti, perché per il momento i ragazzi in età scolastica la penna la usano, non certo la stilografica ma la biro, però la usano: almeno finché non disporranno di un portatile in classe o non potranno dettare i loro componimenti su Dragon. Dei duemila intervistati, i due terzi hanno confessato che, se utilizzano la penna, è solo per fare scarabocchi veloci, segnare rapidi promemoria, prendere appunti a uso immediato che però non sarebbero in grado decifrare dopo qualche ora, tali e tante sono le abbreviazioni e i segni in codice. Hai passato anni a svenarti regalando stilografiche ai tuoi nipoti per la Cresima o per i compleanni che contano, sicuro di fargliene un omaggio a futura memoria, una specie di immarcescibile atto di fiducia, di promessa per la vita, perché intuivi che attraverso la scrittura intesa come calligrafia passava tutto, il carattere del ragazzino, le sue ambizioni, la sua cultura. Ma è stato inutile, chissà in che angolo di scrivania o in quale scatolone dimenticato in cantina saranno finite: eppure erano oggetti bellissimi, neri, lucidi, in resina, in lacca di Cina, pennino a vista o coperto, finiture cromate. Parker, Waterman, Aurona, Omas, Pelikan, Montblanc, Cartier delicatamente adagiate sul velluto e fermate da un elastico... Nomi eleganti che, impressi sull'astuccio, facevano il tuo status symbol di generoso donatore e insieme promettevano — al figlio di tuo fratello, di tua sorella o di un amico — maturità, carriera, prestigio, futuro. Nomi che chiedevano, a chi impugnava quelle stilografiche, di dimostrarsi all'altezza del carisma riposto nel marchio. E la prima prova per il ragazzino era la firma, che in genere imitava quella autorevole di papà: per esteso, inclinata e piena di svolazzi improbabili. Usare la penna, esibirla, aveva a che fare con l'orgoglio: oggi, ci informa Mail online, una persona su sette ammette di provare vergogna della propria calligrafia, persino del proprio autografo. Già, la firma. Nemmeno una firma nelle ultime sei settimane? Possibile? Non un accordo da sottoscrivere? Non una carta di credito? Un segno di riconoscimento vergato su un modulo? Tutto digitale? Avanti così e tra un paio d'anni prenderai la penna in mano ogni sei mesi e magari a rovescio. Avremo case senza mozziconi di matita nei vasetti di cucina e senza penne bic accanto al telefono (già, nel frattempo è scomparso anche il telefono!). I tuoi figli disegneranno con il ditino sul touch screen e per sillabare useranno solo la tastiera: non per niente si chiamano nativi digitali. Nella loro pagella la vecchia materia «Disegno e bella scrittura» sarà sostituita dalla voce «Design, mouse e abilità nel cliccare». Ti piacerebbe che tuo figlio non sapesse scrivere a mano? Pensa a un bambino che a scuola impari solo a digitare e non sappia tracciare un segno di matita su un foglio. Lo sai che l'anno scorso un'équipe di neurofisiologi francesi e norvegesi ha dimostrato che la scrittura a mano accende molte più aree cerebrali rispetto al semplice digitare su una tastiera? Perché usando la penna su un foglio «vediamo» e «sentiamo» il formarsi delle lettere sotto i nostro occhi e le nostre dita, dunque sviluppiamo notevoli abilità visive, motorie e costruttive. In fondo poi la grafia è sempre stata considerata un'espressione inconfondibile del carattere, anche se la grafologia non ha mai avuto dignità di scienza esatta, però dovresti sapere che le perizie calligrafiche servono ancora oggi, persino in sede giudiziaria, a riconoscere la paternità dello scrivente: ti sembra poco? E dove finirà il carattere di un bambino quando la sua grafia sarà sostituita da quella del computer? Sì, d'accordo, è vero che anche il computer ha i suoi caratteri, Times Helvetica Arial Bodoni..., ma il temperamento individuale è un'altra cosa. Dunque, prendi il coraggio a due mani, non dico di pretendere dai tuoi nipoti che vadano in cantina a riesumare i tuoi nobilissimi regali d'antan, ma affronta senza paura e senza vergogna il rischio di venire accusato di moralismo, disfattismo, catastrofismo apocalittico e luddismo antitecnologico, e ogni tanto fatti vedere da tuo figlio con in mano una bic. Ci sono cambiamenti a cui bisogna resistere o dobbiamo accogliere tutte le novità a braccia aperte, sottoscrivendo incondizionatamente le magnifiche sorti tecnologiche e progressive senza neanche l'orgoglio di impugnare una penna ma solo con un banalissimo clic? ____________________________________________________ Corriere della Sera 24 Giugno ‘12 I SEGRETI DEI TAMBURI CHE PARLANO di SANDRO MODEO Le lingue dei popoli africani e Wikipedia, il telegrafo e la macchina di Turing Così ogni nuovo mezzo di comunicazione ha trasformato l'informazione S iamo nel 1730, tra i fiumi e le foreste di mangrovie del Gambia: un esploratore al servizio di mercanti di schiavi inglesi, Francis Moore, è impressionato da certi tamburi di legno intagliato, la cui percussione può cadenzare la danza o contattare i villaggi alleati in caso di imminente aggressione nemica. Il potere incantatorio di quel «flusso monodimensionale di suoni puri» (che trasmette messaggi, di villaggio in villaggio, fino a 100 miglia di distanza in un'ora) suggestionerà tanti viaggiatori nell'Africa subsahariana, ma verrà decifrato solo due secoli dopo da un missionario, John F. Carrington, capace di ricondurlo alle lingue locali, in cui variazioni tonali sulle sillabe producono variazioni semantiche: lisaka con tre sillabe in tono basso è una «pozzanghera», con le ultime due in tono alto un «veleno», con la sola ultima una «promessa». Da questo ventaglio tonale, i tamburi elaborano formule figurali di matrice arcaico-epica: non dicono «torna a casa» o «non aver paura», ma «fa' che i tuoi piedi tornino sulla strada che hanno percorso» o «riporta il tuo cuore giù dalla tua bocca». Formule tutt'altro che esornative, che sarebbero oggi — nel gergo informatico — «bit aggiuntivi per la disambiguazione», ridondanza per eliminare ambiguità. La lunga, complessa sequenza dei «tamburi parlanti» connota già dall'intro il nuovo libro del fisico-divulgatore James Gleick (L'informazione, Feltrinelli) come un intarsio trascinante di narrazioni e snodi concettuali, con una folla di protagonisti, comprimari e comparse — matematici e biologi, fisici e filosofi — accomunati da un'unica passione-ossessione: quella — come ha scritto Claude Shannon, matematico- ingegnere americano padre della moderna «teoria dell'informazione» — di «riprodurre in un punto, esattamente o in modo approssimato, un messaggio selezionato in un altro punto». È una definizione da acquisire come stella polare per tutto il libro, per non finire travolti da una fantasmagoria estesa dai segni cuneiformi a Wikipedia, dagli stessi «tamburi parlanti» ai qubit quantistici. Il nucleo radiale del percorso di Gleick, fatalmente, si concentra proprio nell'America di Shannon tra gli anni 50 e 60, specie tra i laboratori Bell e quelli della Western Electric Company. Il luogo e il tempo in cui operano, tra gli altri — spesso in sinergia — Ralph Hartley, le cui equazioni stabiliscono come «la quantità di informazione trasmissibile» sia «proporzionale alla banda di frequenza trasmessa e al tempo di trasmissione»; il fondatore della cibernetica Norbert Wiener, convinto che l'informazione consista nella costruzione di «isole arbitrarie di ordine e sistematicità» nell'entropia (il disordine) che ci circonda; e soprattutto Alan Turing, il matematico che sulla spoglia struttura di una macchina da scrivere (un nastro e dei simboli) concepisce il primo vero computer, unificando logica ed elettronica, impostando il sistema binario (0-1) e introducendo termini (scansione, configurazioni) a noi familiari. Ma forse il fascino più insinuante emana dai pionieri e dagli «antefatti» di quella golden age. Da figure dell'Inghilterra vittoriana come Charles Babbage, il genio multiforme le cui mastodontiche macchine a ingranaggi sono già avviate su una strada archeo-informatica (messaggi, codifica, elaborazione) o come la sua «musa» Ada Lovelace (figlia di Byron), folgorata dal telaio Jacquard, in cui le figure da tracciare sui tessuti sono codificate da fori in schede di cartone. E da antefatti come la lunga epopea dei telegrafi, da quelli ottici dei fratelli Chappe (che tappezzano la Francia napoleonica di altissime pertiche con braccia semovibili, mandando segnali cifrati da Tolone a Parigi in 12 minuti — 700 chilometri coperti da 120 «stazioni») a quello elettrico di Morse e Vail, col codice trasmesso per rilascio e interruzione di corrente. Colpisce, in questa successione, la staffetta di prefigurazioni: il telegrafo era già tutto in una visione di Babbage (le città con pilastri e campanili collegati da cavi, sui quali far correre contenitori di stagno coi messaggi); mentre il piccolo Shannon trova l'innesco della propria passione alzando gli occhi alla ragnatela di fili telegrafici distesi sulle campagne di Gaylord, nel Michigan. Intento più a giustapporre tesi e controtesi sulla natura dell'informazione che a formularne una propria, Gleick lascia però distendere nelle profondità del libro due lunghe ombre di ambiguità, che forse è meglio fugare. La prima riguarda l'analogia tra biologia e informatica. Pur spiegando bene la genesi biologico-evolutiva dell'informazione (la comparsa, insieme casuale e legata a vincoli biochimici, di molecole abbastanza complesse da replicare se stesse, forse in cristalli di arenaria), Gleick non sembra cogliere in pieno le differenze tra «replicatori di informazione» nei sistemi viventi (Rna e Dna) e in quelli artificiali (copiare un file), tra la memoria-apprendimento nel cervello umano e nel computer; in ultimo, tra un modello «selezionistico» e uno «istruzionistico». La biologia è plastica e attiva: il brulichìo molecolare di un vivente anticipa gli stimoli ambientali con un ventaglio di proposte (di forme e strutture) selezionate a posteriori in rapporto alla loro utilità adattativa. L'informatica è rigida e passiva: il computer è un deposito di informazioni e istruzioni che eseguono operazioni in un sistema «chiuso». I paragoni agli albori dell'«età elettrica» tra rete telegrafica e «sistema nervoso della Terra» o quello di Schrodinger tra programma genetico e codice Morse, oggi non sono più percorribili; e se la premessa teorico-metodologica di Shannon (trattare l'informazione a prescindere dal «significato») è ineccepibile — in fondo tutto si riduce a trasmettere e ricevere, codificare e decodificare — un gene e un pc non lo fanno allo stesso modo. L'informazione non è «indifferente» al substrato che la veicola. La seconda ombra è un'emanazione della prima: se — come credeva Babbage — è possibile «astrarre l'informazione dal suo substrato fisico», può venire naturale assimilarla agli oggetti matematici e attribuirle l'immaterialità spettrale delle entità platoniche. In effetti, è la posizione di fisici autorevoli come Archibald Wheeler (scopritore dei buchi neri), che negli ultimi anni di vita ripeteva il mantra «It from Bit», l'informazione precede tutto, anche la materia e l'energia. Anche qui, Gleick getta le premesse per sciogliere l'equivoco, ricordando che l'immane quantità di informazione della Rete e le infinite praterie della «Nuvola» sono solo la conseguenza della comprimibilità algoritmica, e che tutto è monitorato nella «pesantezza» delle server farm, grandi edifici senza finestre, in cui scorrono chilometri di generatori diesel, torri di raffreddamento, ventilatori di un metro di diametro. Eppure, la tentazione strisciante del platonismo non lo abbandona. Che l'informazione sia separabile dall'energia e dalla materia è un (auto) inganno a cui siamo predisposti, uno dei più tenaci. In fondo, abbiamo bisogno di credere ai fantasmi. _________________________________________________ Corriere della Sera 24 Giugno ‘12 LO SCOIATTOLO CHE HA MESSO KO LA NOSTRA CONNESSIONE ONLINE di FABIO CHIUSI I nternet non è un paesaggio della mente o un luogo virtuale. La «Rete delle reti» è fatta di macchine, cavi, fibra ottica, luce. Ha una realtà fisica e una geografia ben precisa. Di cui, tuttavia, non ci curiamo. E che non conosciamo. Per Andrew Blum, giornalista di «Wired» e autore del volume Tubes appena edito negli Stati Uniti, è colpa di una concettualizzazione del web viziata da troppi anni di contrapposizione frontale tra il virtuale, il cyberspazio, e il mondo che ci circonda. E di un lessico ambiguo, che perpetua l'equivoco. Si prenda la parola «nuvola» (cloud), che identifica il trasferimento dei nostri dati dagli hard disk di casa ai server in Rete: «È un termine così poco chiaro, non sappiamo dove sia», dice Blum. «Ma più deleghiamo il controllo alla "nuvola", più è importante sapere dove sono le cose che la compongono, e come sono connesse». Blum ne scopre le concretissime conseguenze in un pomeriggio d'inverno, quando la Rete smette di funzionare nella sua casa di Brooklyn: è bastato che il rosicchiare di uno scoiattolo tranciasse un cavo. È lo spunto per chiudere il pc e intraprendere un «viaggio al centro di Internet», tentando di rispondere alla domanda: ma a cosa siamo realmente connessi? E come? L'autore, come un Marco Polo del digitale, esplora per due anni i luoghi inesplorati della geografia del web. Vola a Los Angeles per vedere la macchina che ha trasmesso il primo segnale sulla rete Arpanet, l'antenato di Internet, e a The Dalles, Oregon, sede della «Kathmandu dei data center»: i «magazzini della nostra anima digitale». A Palo Alto visita uno dei principali snodi della connessione globale, il Paix (Palo Alto Internet exchange) e annota: «Queste connessioni sono sempre fisiche e sociali, fatte di cavi e relazioni. Dipendono dalla rete umana tra ingegneri di Rete». Il giornalista scopre così che in un centro di smistamento del traffico internet (Internet Exchange Point) «vengono trasferiti in media intorno agli 1,2-1,3 terabit al secondo»: che equivale a circa 700 enciclopedie da 15 mila pagine al secondo. «Pensiamo che quando i dati viaggiano attraverso Internet sia un processo istantaneo e automatico — aggiunge durante una conversazione su Skype — invece può accadere solo perché un piccolo gruppo di ingegneri ha costruito la Rete con le proprie mani». Le strutture dipendono dalla geografia. Per un data center serve un luogo senza rischi sismici e asciutto — perfetto per rinfrescare gli hard disk con l'aria fresca. E conta la disponibilità di quantità enormi di energia elettrica (consumano il 2% di quella del pianeta). Alla sicurezza degli scanner biometrici e della videosorveglianza, si aggiunge la segretezza: «La prima regola dei data center è non parlare dei data center», scrive l'autore, come servisse un fight club per proteggere i nostri dati. Poi ci sono i cavi sottomarini che mettono in Rete i continenti. I percorsi dei bit seguono quelli della storia, facendo scalo in porti secolari: Hong Kong, Singapore, New York, Mumbai, Cipro. Navi specializzate conducono ricognizioni sul fondo dell'oceano, disegnando attentamente i percorsi su cui stendere i cavi, evitando le linee solcate dalle imbarcazioni e minimizzando il rischio di danni. Un errore può essere fatale: quando nel 2006 un terremoto a sud di Taiwan causò un movimento del fondale marino recidendo in più punti sette dei nove cavi che innervano la regione asiatica, Cina, Hong Kong e lo stesso Taiwan andarono offline. E ci vollero due mesi per ristabilire la normalità. Per Blum i limiti fisici di Internet non sono un ostacolo al suo sviluppo. Semmai, «ciò che ho compreso una volta tornato a casa è che Internet non è un mondo fisico o virtuale, ma è un mondo umano». A farlo funzionare, due figure. Gli ingegneri di Rete («nerd estremi») e chi lavora alla posa dei cavi sottomarini: «Hanno tutti 42 anni», dice Blum sorridendo. «Sono grossi, perché trascorrono un sacco di tempo in bar per marinai. E hanno quest'attitudine da James Bond, da cittadini del mondo a loro agio ovunque». Figure dimenticate da una storia di Internet che, come nota la scrittrice Christine Smallwood, è, soprattutto, «una storia di metafore su Internet». @fabiochiusi ========================================================= _________________________________________________ L’Unione Sarda 22 Giugno ‘12 OTORINO: L’INTERVENTO SEGUITO IN DIRETTA DAI MEDICI A MOSCA UN’OPERAZIONE ESEGUITA NELLA CLINICA OTORINO DA ROBERTO PUXEDDU BISTURI-LASER IN GOLA E IN TV L’intervento seguito in diretta dai medici a Mosca «It’s amazing», è incredibile. Il commento arriva in diretta da Mosca: in una sala dell’università una ventina di medici russi, impegnati in un corso di aggiornamento, osserva in tempo reale il bisturi-laser che il professor Roberto Puxeddu maneggia nella gola di un paziente colpito da un tumore alle corde vocali. Operazione di routine: con questa tecnica dal ’96 nella clinica otorinolaringoiatria del San Giovanni di Dio, ne sono stati portati a termine tremila. Ma ieri mattina è diventata d’eccezione: un complicato sistema di telecamere allestito in sala operatoria ha permesso di farla vedere sui teleschermi collegati via Internet. La prima volta in Sardegna, pare. Di sicuro non è scena di tutti i giorni vedere una cabina-regia con monitor, tecnici video e audio armeggiare nell’anticamera di una sala operatoria. Con commenti e scambi di informazioni: da una parte via Ospedale, dall’altra la Russia. LEZIONE Una telecamera, inserita nel microscopio, proiettava le immagini del laser che rimuoveva il tessuto malato. Da un microfono incollato sotto la mascherina il chirurgo illustrava in inglese, fase per fase, la procedura. Ogni tanto arrivava da Mosca qualche richiesta di chiarimento. Una lezione a distanza, durata quasi due ore: il tempo per operare due pazienti, affetti da neoplasia laringea. Un tumore alle corse vocali, regalo in entrambi i casi delle troppe sigarette (uno ne ha fumato 40 al giorno per vent’anni). Interventi riusciti, come da prassi nella clinica universitaria. TECNICA «Il laser», spiega il direttore Roberto Puxeddu, «nei tumori alla laringe permette di ottenere eccellenti risultati. Mentre fino a 15 anni fa gli stessi chirurghi proponevano la radioterapia o chirurgia per via esterna, al momento attuale la chirurgia laser è diventato il trattamento più richiesto dagli stessi pazienti». Motivo: il decorso post-operatorio è brevissimo, i disturbi sono modesti e non c’è necessità di doversi sottoporre a cicli di radioterapia intensiva. A Mosca ne volevano sapere di più. E ieri mattina la giornaliera seduta operatoria al San Giovanni di Dio si è collegata in diretta. Qui era mezzogiorno, le 14 nella capitale russa. Il primo intervento è durato un’oretta, una decina di minuti in più del solito. Idem il secondo. DIDATTICA Tutto è filato liscio: nel tavolo operatorio e sui teleschermi, attrezzati con la collaborazione del dipartimento di ingegneria del software diretto da Andrea Casanova e il supporto tecnico di due aziende (Sanifar e Zonvideo). «Che ringraziano, assieme al direttore dell’Azienda ospedaliera, Ennio Filigheddu». Oggi i due pazienti, protagonisti dell’intervento-live, ritorneranno a casa. Antonio Martis _________________________________________________ L’Unione Sarda 20 Giugno ‘12 VELLUTI,MALECI E MACCIOTTA DAVANTI AL GUP I DUE DOCENTI ACCUSATI DI TRUFFA Sarà il Gup del Tribunale di Cagliari, Cristina Ornano, a decidere se dovrà essere celebrato un processo nei confronti dei medici Antonio Macciotta, Claudio Velluti e Alberto Maleci, indagati dalla Procura per concorso in truffa ai danni di Università e Asl. LA VICENDA Secondo la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal sostituto procuratore Andrea Massida, che ha coordinato una complessa inchiesta del Nucleo antisofisticazioni dei Carabinieri, due docenti universitari avrebbero lavorato anche per una casa di cura privata quartese, violando così una norma che vieterebbe loro le prestazioni per altre aziende convenzionate col sistema sanitario nazionale. IL DANNO Secondo la Procura il danno per le casse pubbliche sarebbe ingente. A finire nel registro degli indagati erano stati Antonio Macciotta, 44 anni, amministratore unico e legale rappresentante della casa di cura policlinico Città di Quartu; ma anche Claudio Velluti, 73 anni, docente in pensione di Ortopedia ed ex direttore della clinica ortopedica all'ospedale Marino; così come Alberto Maleci, 57 anni, ordinario di Neurochirurgia dell'Ateneo cagliaritano. All'esame dei Nas ci sarebbero degli interventi effettuati dai due chirurghi nella struttura privata. L'udienza preliminare davanti al Gup Ornano è fissata per il 21 novembre prossimo, mentre i tre indagati saranno difesi dai legali Francesco Atzori e Mariano Delogu. Francesco Pinna _________________________________________________ La Nuova Sardegna 21 Giugno ‘12 IL MICROCITEMICO DIVENTA PEDIATRICO E SARÀ AMPLIATO CAGLIARI La prospettiva è di un ospedale unico, dove confluiranno tutte le specialità mediche che riguardano la salute dei bambini ora divise in almeno quattro ospedali diversi e distanti. L’immagine che anima il progetto è quella del piccolo paziente in pantofoline e pigiama, flebo al braccio, spesso mascherina sul viso, che deve viaggiare come un pacco tra reparti, coi genitori appresso, verso strutture che hanno regole diverse per la presenza dei familiari, i ricoveri, i pasti e tutto quello che comunque costituisce il contorno del soggiorno in ospedale di bambini piccoli e piccolissimi. Nell’area vasta di Cagliari ci sono specialità mediche assolutamente connesse distanti chilometri. Tutto questo si sa, la scelta è stata di mettere in moto la progettazione di un ospedale pediatrico unico, il Microcitemico è apparso il luogo migliore perché già tarato sui bambini e perché, soprattutto, è un edificio che può crescere per accogliere le moltissime specialità che al Microcitemico non ci sono. Per evitare traumi all’apparato in un primo tempo si era deciso di creare un dipartimento interaziendale e quindi di tenere le strutture dove sono ma con un coordinamento unico e una programmazione dell’attività unitaria. L’irrisolvibile difetto di questa scelta era che i bambini sarebbero rimasti pazienti in pantofoline destinati al viaggio tra reparti sempre distanti. Alla fine la decisione è stata presa: tranne la neonatologia che resterà incollata alla clinica di Ostetricia e Ginecologia nell’azienda mista a Monserrato, tutto il resto sarà portato nel nuovo ampliato ospedale Microcitemico, compresi il reparto di pediatria del Brotzu, la pediatria e la neuropsichiatria infantile dell’azienda mista. L’operazione non riguarda soltanto l’Asl 8 che in qualche modo la sta governando: non si tratta di riunire i reparti pediatrici dell’Asl che già gestisce il Microcitemico, ma di trasferire qui tutto quello che riguarda la salute del bambino e trasformare la nuova entità in un punto di riferimento unico e regionale. L’operazione, non è un mistero, ha creato resistenze in praticamente tutti i reparti pediatrici cagliaritani sia ospedalieri che universitari compresi quelli del Microcitemico che si sono chiesti quale sarà il loro ruolo perché ciascuno dovrà perdere una fetta di potere nella gestione. Ma è la strada che alla fine ha faticosamente prevalso e l’assessore regionale alla Sanità De Francisci due giorni fa al convegno sulle linee d’azione nella sanità ha confermato che l’ospedale si fa, il progetto è pronto, nell’ambito dell’accordo quadro saranno reperiti i fondi per ampliare il Microcitemico, tutto quello che si può verrà trasferito subito. Il progetto arriverà in Regione in un mese, già da ottobre si comincerà a trasferire i reparti ora alla clinica Macciotta e verrà aperta la rianimazione pediatrica che intanto colma una inqualificabile carenza della rete sanitaria sarda. (a.s.) _________________________________________________ L’Unione Sarda 22 Giugno ‘12 SULLA SANITÀ DALLA GIUNTA SOLTANTO SLOGAN Solo «slogan» e «operazioni di facciata», sulla sanità come sul resto della politica regionale: è l'atto di accusa rivolto alla Giunta Cappellacci da parte del segretario del Pd Silvio Lai, all'indomani del convegno sul «Nuovo sistema sanitario per la Sardegna» organizzato alla Fiera di Cagliari, e derubricato dal leader democratico a mero «evento pubblicitario». «CONFUSIONE» In una nota diffusa ieri, Lai dice di vedere, sulle politiche per la salute dei sardi, «un cantiere in piena confusione». Il disavanzo sanitario, sottolinea, «ha superato il 12% del fabbisogno programmato, a fronte di una progressiva caduta dei livelli della qualità del servizio. Basterebbe questo dato per spiegare il fallimento delle politiche sanitarie». E senza piano sanitario «si moltiplicano le duplicazioni, le mancate razionalizzazioni e le nomine illegittime». Secondo il leader del Pd, «operare senza un progetto non è solo inutile ma può essere pericoloso». E quello emerso alla Fiera è «un attivismo di facciata, rivelatore dell'inefficienza degli interventi e della vaghezza d'intenti». INCUBO TICKET «I danni dell'assenza di programmazione, di una visione strategica, si potranno quantificare compiutamente nei prossimi mesi e anni», scrive Lai ipotizzando anche l'aumento dei ticket per colmare il deficit: «Oggi si cerca di celare con scenografie e verbalismi di maniera il disastro compiuto dall'esecutivo di centrodestra». E i piani di riordino e le varie proposte della Giunta, conclude il segretario, «non hanno mai raggiunto l'aula consiliare per i veti incrociati in maggioranza e le palesi illegittimità normative. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. È ora di voltare pagina». _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 20 Giugno ‘12 AGENAS: PRIMI EFFETTI DELLA TERAPIA ANTISPRECHI CAGLIARI Con franchezza romagnola il presidente dell’Agenas Giovanni Bissoni ha detto che il servizio sanitario è una delle poche cose che in Italia tiene, «il vero segreto è che ora bisogna fare quello che ci siamo raccontati negli ultimi anni,la crisi la possiamo subire e quindi limitare la qualità dell’assistenza oppure la utilizziamo per introdurre i cambiamenti che c’è la fretta di fare». Il nemico, adesso, è la lentezza del cambiamento, l’assessore regionale alla Sanità, Simona De Francisci, ieri al convegno nazionale sulle azioni strategiche per il prossimo triennio ha lanciato un appello al Consiglio delle automie locali perché esprima finalmente il parere sulla delibera di riorganizzazione della rete ospedaliera varata già un anno fa e ha illustrato la delibera del 24 aprile sul contenimento della spesa farmaceutica (la Sardegna era al primo posto in Italia), già calata tra il 2010 e il 2011 dello 0,3 per cento (dal 22 al 21,7) sul totale della spesa sanitaria. I piccoli ospedali non saranno chiusi, ma diventeranno il punto di partenza del percorso di cura. Case della salute, hospice e residenze sanitarie assistite sono una delle risposte alla domanda «come migliorare i servizi alla persona spendendo meno», De Francisci ha ricordato che la Regione ci ha investito sopra 25 milioni di euro e sta per ricevere 40 milioni di euro in premio per aver cominciato a raggiungere i primi obbiettivi di miglioramento nell’assistenza domiciliare integrata. L’elisoccorso regionale, altro perno nel ripensamento della funzione dei piccoli ospedali, sarà operativo entro l’estate 2013, il piano per le liste d’attesa comincia a produrre effetti con le liste on line in alcune Asl (Carbonia e Oristano) e altre (come Cagliari) che lo faranno presto. Il sistema informatico regionale (Sisar) non è ancora operativo, l’impegno dell’assessore è riuscirci entro l’anno, si tratta di una vera leva strategica per il governo della spesa sanitaria, come ha spiegato Rossana Ugenti del ministero della Salute: «Con i flussi di dati che copriranno l’85 per cento di attività del sistema sanitario i decisori potranno individuare subito dove migliorare i servizi». Una miniriforma del sistema sanitario è in gestazione nellacommissione consiliare alla sanità in attesa di un nuovo piano sanitario, ieri l’assessore ha annunciato che sul polo pediatrico di Cagliari il lavoro di tre direzioni generali ha prodotto un progetto che verrà presentato presto in una conferenza pubblica.Infine, il ministro della Salute RenatoBalduzzi: non è venuto ma ha inviato un videomessaggio sul sostegno alla riforma sanitaria nell’isola. _________________________________________________ La Nuova Sardegna 20 Giugno ‘12 AGENAS: LA SFIDA: TAGLIARE I COSTI SENZA PEGGIORARE L’ASSISTENZA» CAGLIARI L’Agenas è l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, da quest’osservatorio il suo presidente Giovanni Bissoni ha dato due notizie, una buona e una cattiva: non è vero che la spesa sanitaria nazionale è fuori controllo, anzi, la Corte dei Conti ha riconosciuto che la Sanità si è messa in casa la capacità di governare l’espansione della spesa, è vero invece che la crisi ha reso necessaria una manovra da 17 miliardi in un triennio che la sanità italiana non aveva mai conosciuto. La sfida è che i livelli essenziali di assistenza non diventino livelli minimi di assistenza, nessun controllo dei costi è stabile se non si mette mano all’organizzazione. Dialogando col capo di gabinetto dell’assessorato, Tonino Dessì: «Non vogliamo che i medici facciano i ragionieri – ha detto Bissoni –, ma chiediamo ai medici che rispettino il nostro sforzo di riorganizzare; gli operatori sanitari non perdono la loro competenza, ma, per dare salute, le loro competenze hanno bisogno anche di altre competenze». La forza di un servizio sanitario universalistico si misura non sulla capacità di trattenere i più deboli, ma i più forti, i più informati. L’impegno finanziario maggiore è per i pazienti cronici e si punta all’integrazione con la rete sociale. Coi piccoli ospedali si pongono problemi di efficienza e di sicurezza della prestazione (poche, non garantiscono qualità da parte di chi la eroga). E ci sono problemi di consenso legati alla necessaria, riorganizzazione. _________________________________________________ Corriere della Sera 24 Giugno ‘12 LA MEDICINA È SERVIZIO di UMBERTO CURI La società ha ribaltato il senso del termine terapia: non più «prendersi cura», ma «curare» «Servizio» — è questo il significato originario del termine greco therapeía. E dunque è letteralmente «servitore», colui che svolga la funzione del therápon. Nell'Iliade, Patroclo, Automedonte, Alcimo sono presentati come therápontes rispetto ad Achille, perché sono appunto al suo «servizio», perché lo «assistono», agendo quali attendenti del grande guerriero. Di qui anche il comportamento al quale essi dovranno attenersi. In quattro luoghi distinti del poema, riferendosi specificamente a Patroclo, Omero impiega la stessa formula: phílo epepeítheth' etaíro — «obbedì all'amico». La therapeía implica l'obbedienza. Non si può assolvere ai compiti previsti per il therápon, se non ponendosi totalmente al servizio del proprio «assistito» e dunque prestandogli obbedienza. Un contesto di significati molto simile si ritrova anche in relazione al termine latino che corrisponde quasi letteralmente alla parola greca therapeía. Difatti, cura sta a indicare anzitutto la «sollecitudine», la «premura», l'«interesse» per qualcuno o (più raramente) per qualcosa, senza che necessariamente questa disposizione affettiva e/o emotiva debba necessariamente concretizzarsi in qualche atto definito. Avere cura nei confronti di qualcuno vuol dire per prima cosa «stare in pensiero», essere «preoccupati» per lui. Una traccia non irrilevante di questa accezione originaria si ritrova peraltro anche in alcune lingue moderne. In inglese, to care for vuol dire «prendersi cura», senza riguardo ai possibili modi concreti nei quali può tradursi questo atteggiamento, come è confermato dall'uso prevalentemente intransitivo e «assoluto» dell'espressione I care («mi interessa», «mi riguarda», «mi sta a cuore»). Ancora più interessante è il termine tedesco Sorge (abitualmente tradotto con l'italiano «cura»), soprattutto se ci si riferisce al significato col quale compare in particolare in Essere e tempo di Martin Heidegger, dove esso sta a indicare la determinazione ontologica fondamentale dell'Esserci, vale a dire il fatto che l'Esserci è sempre «proteso verso qualcosa» ed è in quanto tale espressione del «movimento» che è proprio della vita umana. Per quanto inevitabilmente cursoria, questa ricognizione etimologico- linguistica lascia emergere con chiarezza un punto. Alle origini della tradizione culturale dell'Occidente — pensiamo a quanto la Grecia resta importante — le parole che designano la «cura» alludono a una condizione soggettiva — quella di chi «si preoccupa» e dunque si pone al «servizio» — e non a un contenuto determinato nel quale si oggettiverebbe tale «preoccupazione». Anche quando il soggetto di cui si parla assume una configurazione in qualche modo tecnica, come avviene nel caso del medico, ciò che i termini antichi sottolineano in lui non è la messa in campo di atti specifici, bensì la presenza di una «preoccupazione» per colui che egli dovrebbe assistere. Patroclo è genuinamente therápon di Achille non perché faccia concretamente delle cose per lui, ma perché è in pensiero per l'amico, perché lo ascolta (obbedire — ob-audire — vuol dire «mettersi all'ascolto»). Analogamente, per essere fedele al mandato di Asclepio, il medico ippocratico dovrà essere mosso da premura e sollecitudine nei confronti di colui che gli è stato affidato, indipendentemente dal fatto che questa attitudine debba tradursi nella somministrazione di farmaci o in altre pratiche terapeutiche. Con il passare dei secoli, si assiste a una trasformazione radicale nel significato dei termini, quale riflesso di un altrettanto profondo mutamento di ciò a cui questi termini si riferiscono, in direzione di una spiccata tecnicizzazione. Da un lato, infatti, titolare pressoché esclusivo della «cura» diventa il medico, unica figura legittimata a svolgere il ruolo del therápon. Io posso bensì «essere in pensiero» per il mio amico o il mio familiare; ma se voglio «curarlo» devo affidare questo compito al medico. Dall'altro lato, e in connessione con questa «professionalizzazione», la «cura» perde ogni connotazione «affettiva» e viene piuttosto a indicare un complesso di pratiche che hanno quale loro oggetto il paziente. Curare non è più — come in precedenza — un verbo che allude allo stato d'animo del terapeuta verso il suo assistito, ma segnala la molteplicità di azioni che il primo svolge sul secondo. Da verbo intransitivo diventa un verbo transitivo che riguarda gli atti concreti effettuati su colui che sia «oggetto» della cura. Il culmine di questo processo si raggiunge in concomitanza con la produzione industriale di massa e poi in maniera sempre più accentuata nel corso degli ultimi decenni. La «cura» non ha più alcun rapporto con la disposizione d'animo del terapeuta. Al contrario, questi scarica sulla cura — i farmaci e ogni altro intervento di manipolazione del paziente — ogni sua residua «preoccupazione». Materialmente impossibilitato a stare in pensiero contemporaneamente per molte centinaia di individui, il medico trasferisce e oggettiva la sua sollecitudine in una pluralità di atti concreti, inevitabilmente «neutri» dal punto di vista sentimentale, la cui efficacia dipende dunque esclusivamente da un'incidenza «misurabile» in termini quantitativi. Si verifica dunque un vero e proprio capovolgimento. Il terapeuta — non importa se del corpo (quale è il medico generico) o dell'«anima» (come vorrebbe essere lo psicologo) — non è colui che, mosso da premura, «obbedisce» al suo assistito ma, all'opposto, è colui che a questi impone di assoggettarsi a una «cura», ormai totalmente spersonalizzata e tradotta nei costituenti chimici di un farmaco. E tanto più valente sarà quel terapeuta che saprà svolgere la sua funzione tecnica nella forma più a-patica, evitando quel coinvolgimento emotivo/affettivo che potrebbe offuscare o compromettere la sua capacità di «curare». Fino al paradosso del medico perfetto — immune da ogni coinvolgimento personale, ignaro dell'identità e della «storia» del paziente, e proprio per questo in grado di «curarlo» secondo protocolli astratti universalmente convalidati, e dunque di principio «efficaci» per qualunque paziente, a prescindere da peculiarità individuali. Non è nota l'origine del termine greco therápon. Si sa, tuttavia, che il suo significato richiama il latino comes — «colui che accorre accanto», «che sta vicino», «che assiste», magari senza «fare» nulla di preciso. Al culmine di un lungo percorso storico-concettuale, il rovesciamento è totale. E la terapia potrà perfino consistere nel dettare al telefono o nel trasmettere per via informatica i nomi impronunciabili di alcuni farmaci. _________________________________________________ Corriere della Sera 24 Giugno ‘12 NO, LA MEDICINA È SCIENZA di GIUSEPPE REMUZZI Una carezza aiuta a stare meglio, ma non guarisce Anche Veronesi qui sbaglia Chi stabilisce cosa è meglio per l'ammalato? In altre parole chi ti «cura»? Il dottore, chi se no? E il dottore di un tempo era come quello di Lev Tolstoj ne La morte di Ivan Ilic? «"Vedete, questo indica che nei vostri visceri accade qualcosa, ma se l'esame della tale e tal altra cosa non lo confermasse, bisognerebbe supporre allora questo e quest'altro. E se si suppone questo e quest'altro, in tal caso si potrà fare così...". A Ivan Ilic importava una sola cosa: il suo stato era grave sì o no? "Ditemi, dottore, in generale questa malattia è grave oppure no?". Il medico lo fissò severamente, attraverso gli occhiali, come a voler dire: accusato, se non state al vostro posto, sarò costretto a farvi allontanare dall'aula. "Vi ho già detto, signore, tutto quello che ritenevo utile e ragionevole che sapeste"». Oggi è diverso, tanti ammalati vanno dal dottore dopo aver passato ore in Internet, sanno già molto della loro malattia e dei centri migliori e delle terapie più moderne. Sbagliato? Niente affatto. Più un ammalato è informato, più è facile curarlo ed è specialmente vero quando non ci sono abbastanza dati per sapere qual è la cosa giusta da fare. Ma «curare non è più un verbo che allude allo stato d'animo del terapeuta verso il suo assistito, segnala la molteplicità di azioni che il primo svolge sul secondo» scrive Umberto Curi e poi «curare» o «prendersi cura»? Importa poco, il rapporto dell'ammalato con il suo medico va ben al di là del curare o prendersi cura, è tutt'altra cosa. La lettera della mamma di un ragazzo di 18 anni ci aiuta a scoprirlo: «Mio figlio ha avuto una diagnosi di ipertensione polmonare e soffre di reni. Ho letto tanto e mi pare di aver capito che ci potrebbe essere un legame tra queste due malattie. Lo hanno curato con un beta bloccante, warfarina e l-arginina, la pressione nell'arteria polmonare è tornata normale. È stato fortunato, perché mi pare, da quello che ho letto, che una risposta così favorevole a questi farmaci sia insolita. Adesso però sta di nuovo male, fatica un po' a respirare. So che ci sono farmaci nuovi. Lei pensa si possa usare la prostaciclina per bocca? L'ultima spiaggia per il mio ragazzo potrebbe essere un antagonista di tipo A del recettore dell'endotelina. Pensa che possa servire al mio ragazzo o farà male? Sono anche preoccupata per mia figlia, ha 16 anni, studia a Oxford. Se prendesse la pillola, si ammalerebbe anche lei? E se decidesse di avere una gravidanza, potrebbe avere l'ipertensione polmonare? Forse potremmo incontrarci e parlarne». Quello che il «New England Journal of Medicine» nell'ultimo numero chiama «The changing task of medicine», la sfida della medicina che cambia, è tutto qua, in questo «potremmo trovarci e parlarne». Per quelli che lo sanno fare — si capisce — visto che all'università a parlare con gli ammalati non te lo insegna nessuno. E un bravo medico deve anche saper ascoltare per poi suggerire le soluzioni e i vantaggi e i rischi. E se una cosa non la sa fare lui, ti manda dalla persona giusta (questo un po' è prendersi cura) senza connotazioni affettive o caritatevoli però, perché oggi è l'ammalato l'artefice vero del suo guarire. Un po' come dal barbiere — irriverente se volete, ma rende l'idea — quasi nessuno di quelli che ci vanno dice «faccia lei». I più vogliono i capelli così, la messa in piega cosà, il barbiere consiglia, ma si decide insieme. Quando poi si ha a che fare con una mamma come quella della lettera — e oggi di malati così o quasi così ce ne sono — servono conoscenze anche molto sofisticate. Di medicina? Non solo, «serve curare lo spirito oltre che il corpo» scrive il professor Veronesi, che è anche autore di un bellissimo libro: Una carezza per guarire. Ma si può guarire con una carezza? Forse no, ma certo si sta meglio. Entro certi limiti però: se uno ha un'emorragia cerebrale quello di cui c'è bisogno è un neurochirurgo con la pratica giusta (la téchne per dirla anch'io coi greci), uno che sappia operarti bene insomma. Per Matteo è stato proprio così. Lui non ha nemmeno 50 anni, ha avuto bisogno della dialisi per più di 10 anni, poi finalmente un trapianto gli ha ridato la vita. Moglie e due bambine e un bel lavoro come avrebbe sempre voluto. Una sera non si sente bene, lo portano al pronto soccorso. Sulle prime non sembra niente, gli esami del sangue sono normali, fanno un elettrocardiogramma: normale, anche l'ecografia del cuore è normale. Ma il cardiologo del pronto soccorso non si accontenta, fa un'altra ecografia con una sonda che passa attraverso l'esofago. C'è una fessura nell'aorta. È una cosa grave, non c'è un minuto da perdere, con quella lesione il più delle volte si muore. Dopo 10 minuti Matteo è in sala operatoria, niente Tac: non c'è tempo, il cardiochirurgo di guardia quella sera è uno di quelli bravi. Cominciano a operare alle 10 di sera e finiscono alle 7 del mattino dopo. Matteo dopo pochi giorni lascia l'ospedale. Chissà, forse non si è nemmeno reso conto di essere stato così vicino alla morte. Le carezze per Matteo adesso sono quelle delle sue bambine che possono ancora giocare con lui. Quel cardiologo e quel chirurgo non li incontrerà nemmeno più. Saranno stati «in pensiero» per lui? Non lo so, e non è nemmeno tanto importante. Certo che «contrapporre la scienza all'attenzione per la persona è un vecchio trucco retorico: è la crescita delle conoscenze che ci rende più umani» (Alessandro Pagnini, «Il Sole 24 Ore», 21 luglio 2010). Tanto più che oggi al letto dell'ammalato si incontrano genetica, biologia, evoluzione, dati degli studi che servono per guarirti e poi, psicologia sperimentale e persino neuroscienze. Dov'è finita quella che chiamavano clinica? Non c'è quasi più e sta scomparendo anche chi curava o si prendeva cura. Resta una mole impressionante di conoscenze che cresce ogni giorno e che consente di curare — e guarire certe volte — malattie che fino a ieri erano senza speranza. Ricordo che Edoardo Boncinelli in un suo scritto si chiedeva che senso avesse contrapporre la scienza all'«umanesimo». C'è niente di più umano che studiare come è fatto l'uomo? E come funzionano il suo corpo e la sua mente? E come essere d'aiuto se qualcosa si inceppa? _________________________________________________ Corriere della Sera 17 Giugno ‘12 L'ASSEDIO LEGALE A MEDICI E PAZIENTI «Sicuro che ti abbiano curato bene?» Chi si arricchisce sulla malasanità Le pubblicità terroristiche degli studi legali e la leggenda dei 90 morti al giorno Attenzione: «bomba sexy» pronta a esplodere. Il senso dell'assalto contro il pianeta dei medici è tutto in un manifesto affisso per rastrellare clienti: il seno d'una donna coi fili di un ordigno al tritolo, un orologio e una scritta: «Protesi cancerogene e difettose». Ma val la pena di dare la «caccia al medico»? Parliamoci chiaro: ci sono medici che se le vanno a cercare, le denunce per certe sciatterie, certe superficialità, certe negligenze, per non dire di peggio, che causano ai pazienti danni a volte irrimediabili. Le cronache raccontano storie assurde. Le quali confermano che anche tra i medici, come in tutti i mestieri, esistono i mediocri, gli incapaci, gli Schettino. E anche qualche delinquente, come quelli che in questi giorni in certe cliniche impiantavano su anziani protesi infette perché tanto «hanno aspettativa di vita breve». Vanno bastonati senza pietà, quei medici che per propria colpa (non per errore: per colpa) provocano dolori, menomazioni permanenti e lutti. Vanno colpiti penalmente, anche con il carcere, e nel portafoglio. Anche se nessuna cifra potrà restituire ad Alfonso Scutellà, per fare un solo esempio, suo figlio Flavio, che dopo essere caduto da una giostra morì nel 2007 in Calabria, come scrisse Panorama, «dopo una carambola di ospedali che rifiutavano il ricovero, ambulanze che non si trovavano, elicotteri dell'elisoccorso che non volevano saperne di alzarsi in volo dopo il tramonto». Uno strazio seguito da un nuovo strazio: un processo interminabile segnato da rinvii, scaricabarile, rimpalli di competenze. Detto questo, il modo in cui certi studi professionali e certe «associazioni» che si avvalgono della consulenza di studi professionali vanno a caccia di pazienti traditi nella loro fiducia mal riposta nei confronti di un cardiologo o di un ortopedico ma spesso più semplicemente decisi a farla pagare a chi secondo loro ha sbagliato o peggio ancora furbetti che provano a fare un po' di soldi, è inaccettabile. Avete presente «Non per soldi ma per denaro» dove Jack Lemmon si lascia convincere da Walter Matthau, un avvocaticchio di pochi scrupoli, a fingere dopo un incidente di essere semiparalizzato per fregare l'assicurazione? Beh, diciamolo: a leggere certi annunci online o vedere certe pubblicità sui muri è difficile non andare con la memoria a quel film di Billy Wilder. Le pubblicità Che senso ha affiggere sui muri spropositati manifesti con la radiografia di un torace dove spicca in mezzo ai polmoni (ai polmoni!) una gigantesca forbice con la scritta «sei proprio sicuro che ti abbiano curato bene?» e la pubblicità di una «rete in franchising leader in Italia nell'assistenza al risarcimento danni»? In franchising! L'Ordine, così tignoso nella difesa del tariffario minimo e di certi privilegi della categoria, non ha nulla da dire sullo spaccio di messaggi tipo «ci prenderemo cura di te e avrai zero spese anticipate»? È giusto sparare nell'home page di un sito web (dirittidelmalato.com) il titolone «Malasanità» affiancata parte per parte da due figuri con la cuffietta e la mascherina da dottore e la scritta «Il killer silenzioso»? E adescare clienti elencando decine e decine di possibili danni (dalle ipossie neonatali alla «mancata diagnosi di tumori», dalla «prescrizione della terapia anticoncezionale» alle «patologie con esordio subdolo che vengono dimesse») parlando sempre di «errori» medici tra virgolette col sottinteso che non di errori si tratta ma di probabili mascalzonate o come minimo di casi di «malpractice», cioè negligenza dei medici o della struttura ospedaliera, tra i quali si fa spesso (forse volutamente) confusione? La dice lunga, accusa il chirurgo Maurizio Maggiorotti, presidente dell'Amami (Associazione medici accusati di malpractice ingiustamente) «il modo in cui si è diffusa la balla dei 90 morti al giorno». Era il 2004 e all'ospedale di Niguarda, in una conferenza stampa, «saltò fuori una cosa teorizzata in Internet e cioè che se fossero stati veri certi dati americani allora proporzionalmente in Italia ci sarebbero una novantina di vittime al giorno dovuti a qualche errore medico o al degrado di certi ospedali o alla cattiva organizzazione di alcuni servizi. Ammesso che il dato fosse verosimile, tutto da dimostrare perché dal 2002 chiediamo inutilmente un "Osservatorio sul contenzioso e sugli errori medici" proprio per spazzare via le chiacchiere, si parlava genericamente di vittime: dal morto alla signora che si lagna perché si aspettava di più dall'operazione all'alluce valgo». Dati forzati Ci fu chi scrisse, sottolineando la cosa col condizionale, che poiché secondo gli anestesisti dell'Aaroi c'erano 14 mila morti l'anno e secondo gli assicuratori di Assinform 50 mila «il 50% evitabili se soltanto ci fosse da parte dei pazienti una maggiore attenzione agli esami di controllo e alla prevenzione» (traduzione: troppi pazienti trascurano la prevenzione e gli avvertimenti degli esami) «ogni giorno morirebbero "per errore" da un minimo di 40 persone a un massimo di 140: la media è di 90 malati che perdono la vita "per sbaglio"». «Sc-sc-sc- scientifico», direbbe il Vittorio Gassman de «I soliti ignoti». Da allora, attribuendo il dato all'oncologo Enrico Bajetta («Io? Mai detto una stupidaggine simile. Qualcuno capì o volle capire male e non c'è più stato verso di correggere la cosa») la leggenda metropolitana è diventata sul web una verità conclamata. Provate a inserire in Google le parole «errori medici 90 morti giorno»: escono oltre 400 mila link. Dove ogni formula prudentemente dubitativa è sparita per dare spazio a frasi copia-incolla: «La malasanità uccide più degli incidenti stradali. Ogni giorno 90 persone…». Dice l'indagine della commissione d'inchiesta parlamentare sugli errori sanitari presieduta allora da Leoluca Orlando (non proprio un pompiere) che dalla fine di aprile del 2009 al 30 settembre 2011 i morti per malasanità segnalati sono stati 329. Cioè una vittima ogni 2,6 giorni. Allora come la mettiamo? Di più: la stessa commissione, come ha scritto «La Stampa», avrebbe accertato che «su oltre 50 mila procedimenti per lesioni colpose il 98,8% si conclude con l'archiviazione». Fatto sta che sull'onda della caccia al medico scatenata dalla caccia al cliente da parte di tanti aspiranti vendicatori, scrive l'avvocato Vania Cirese sulla rivista «Gynecologo», «secondo i più recenti dati dell'Ania in un anno solare sono ben oltre 34 mila le denunce dei cittadini per danni subiti nelle strutture sanitarie. L'aumento dal 2008 al 2009 è stato addirittura del 15%». Polizze in corsia Conseguenza? Decine di studi legali specializzati, migliaia di medici denunciati (molti giustamente, tutti gli altri a capocchia), assicurazioni che disdicono i contratti e sono sempre più riottose a fornire polizze (sempre più care, anche 14 mila euro l'anno) a chirurghi, ortopedici o addetti al pronto soccorso… Il nostro Paese, sostiene Umberto Genovese, medico legale della Statale di Milano, «è tra quelli ove si registra il più alto numero di medici soggetti a procedimenti per colpa professionale, nonché la nazione europea con il più alto numero di sanitari sottoposti a procedimenti penali: da qui il sorgere della così detta "medicina difensiva", vale a dire di quelle pratiche caratterizzate o da una maggior richiesta di indagini e accertamenti, anche superflui dal punto di vista diagnostico- terapeutico, ma molto pregnanti per ciò che concerne la dimostrazione di prudenza, diligenza e perizia del medico in un futuro contenzioso». Alla Scuola superiore universitaria Iuss di Pavia hanno chiesto a 1.392 medici di diverse specialità se avessero mai ricorso alla «medicina difensiva». Ha risposto sì il 90,5%. Ovvio: i dottori che hanno già ricevuto o mettono in conto di ricevere un avviso di garanzia sono circa l'80%. Risultato: secondo un'indagine dell'Università Federico II l'iper- prescrizione di farmaci, visite e analisi costa 12,6 miliardi l'anno, cioè l'11,8% dell'intera spesa sanitaria. «O il Parlamento si fa carico del problema sbloccando finalmente la legge 50 che fissa nuove regole assicurative e si è impantanata per le resistenze degli assicuratori o va a finire male», accusa Marco D'Imporzano, ortopedico, già primario al Gaetano Pini, presidente dei chirurghi italiani: «I ragazzi non si iscrivono più alle specializzazioni troppo rischiose, colleghi bravissimi costretti a farsi carico da soli di polizze sempre più care non vanno più in sala operatoria o in sala parto, altri sono spinti a rifiutare gli interventi più difficili perché l'assicurazione minaccia di non coprirli, macchinari di ultimissima generazione costati un occhio della testa non vengono usati perché magari il primario è lì solo in quanto leghista o ciellino e non ci capisce niente senza l'iper-specialista che però non può assumersi certe responsabilità. Se va avanti così finiremo come in America. Dove il gioco della caccia al cliente per far causa al medico ha portato al risultato che in sala operatoria, per gli interventi più difficili, ci vanno solo chirurghi pachistani che quando hanno accumulato troppe cause giudiziarie tornano in Pakistan e addio…». Gian Antonio Stella _________________________________________________ Corriere della Sera 17 Giugno ‘12 NEGLI OSPEDALI ITALIANI TANTI «INCIDENTI» EVITABILI Complicazioni in sala operatoria, cadute, infezioni, reazioni allergiche a farmaci: incidenti inattesi, non sempre dovuti a errori medici, che si verificano in ospedale e possono mettere a rischio la salute dei pazienti. Nel nostro Paese, in media cinque ricoverati su cento sono vittime di «eventi avversi», che in più della metà dei casi potrebbero essere evitati. Le conseguenze? Il prolungamento della degenza, una disabilità al momento della dimissione e, in un caso su dieci, il decesso del paziente. Sono i principali risultati di uno studio italiano finanziato dal ministero della salute e coordinato dal Centro gestione rischio clinico della Regione Toscana che si è avvalso della supervisione di un gruppo di ricercatori internazionali. Gli autori dello studio, che sarà pubblicato sulla rivista internazionale «Epidemiologia e prevenzione», hanno esaminato un campione di più di 7 mila cartelle cliniche di 5 ospedali italiani: Niguarda di Milano, Careggi di Firenze, San Filippo Neri di Roma, Azienda ospedaliera-universitaria di Pisa e Policlinico di Bari. L'obiettivo? Individuare con criteri scientifici, riconosciuti a livello internazionale, la frequenza di eventi avversi durante i ricoveri, capire se è possibile prevenirli e quali conseguenze provocano in termini di danni al paziente. «Finora il nostro Paese era uno dei pochi a non disporre a livello nazionale di studi sugli eventi avversi, cioè incidenti inattesi e indesiderati, non attribuibili alla malattia del paziente ma alla gestione sanitaria — chiarisce uno degli autori dello studio, Riccardo Tartaglia, coordinatore nazionale del Comitato tecnico delle Regioni per la sicurezza delle cure — . I dati italiani sono in linea con quelli di altri Paesi europei, come l'Olanda o la Francia, o addirittura migliori di quelli internazionali, che fanno registrare in media una percentuale di circa il 9 per cento di eventi avversi. Si tratta comunque di "numeri" importanti». Per intenderci, se questo tasso di incidenza si estendesse al numero di ricoverati nel 2010, circa 11 milioni, significherebbe che si verificano circa 550 mila eventi avversi l'anno, di cui più della metà prevenibili. «Contrariamente ad altri studi — precisa Tartaglia — il nostro evidenzia che il maggior numero di eventi avversi avviene in area medica e non in quella chirurgica, che però segue a breve distanza. Altre aree maggiormente interessate sono il pronto soccorso e l'ostetricia». Chirurghi italiani, dunque, più bravi dei colleghi stranieri? «Operare secondo protocolli scientifici e adottare check-list per la sicurezza dei pazienti in sala operatoria sono buone prassi che aiutano a ridurre eventi avversi ed errori» commenta Marco d'Imporzano, presidente del Collegio italiano dei chirurghi e della Società italiana di ortopedia e traumatologia. Eppure, secondo uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, le richieste di indennizzo da parte di pazienti che intraprendono azioni giudiziarie nei confronti dei medici per presunti errori vedono ai primi posti proprio la chirurgia, in particolare quella cardiovascolare, ortopedica e, negli Stati Uniti, la neurochirurgia. La ricerca evidenzia che in media più di sette medici su cento ricevono una richiesta di risarcimento, riconosciuta però dai giudici soltanto nell'1,6% dei casi. «Alcuni interventi chirurgici sono ad altissimo rischio clinico e l'aumento vertiginoso del contenzioso giudiziario per casi di presunta malpractice sta spingendo soprattutto i chirurghi più giovani a evitare queste procedure, per timore di azioni legali — sottolinea d'Imporzano — . Inoltre, diventa ogni giorno più difficile stipulare polizze assicurative, che vengono disdette dalle compagnie alla prima segnalazione di sinistro medico-legale». Lo studio italiano, comunque, puntava a individuare eventi avversi al fine di prevenirli. «Rispetto ad altri Paesi, da noi risulta più alta la stima di incidenti che potrebbero essere evitati: il 56,7% contro il 43% registrato all'estero — puntualizza Tartaglia —. È la conferma che occorre insistere sulle misure di prevenzione per contenere il numero di eventi avversi ed errori, migliorando la qualità delle cure. Il ministero della salute e l'Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali hanno reso disponibili, sui rispettivi siti web, raccomandazioni e buone pratiche per la sicurezza del paziente, basate su evidenze scientifiche: possono permettere di ridurre su larga scala gli eventi avversi prevenibili». Maria Giovanna Faiella _________________________________________________ Corriere della Sera 16 Giugno ‘12 VIA FARMACI E ANALISI MEDICHE INUTILI ECCO L'ETICA ANTI SPRECHI NELLA SANITÀ «Niente tagli automatici, vogliamo intervenire con equilibrio» ha dichiarato il ministro Balduzzi. E Howard Brody, che è professore di medicina nel Texas, una ricetta ce l'ha. Se si evitassero tutti i test diagnostici e tutti gli interventi che non portano alcun beneficio agli ammalati si potrebbe dare a tutti quello di cui hanno bisogno. L'articolo è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine, gli hanno messo un titolo bellissimo «Dall'etica dei tagli all'etica di evitare gli sprechi». I medici sono stanchi di «incombenze di carattere economico, il loro compito è fare tutto per l'ammalato che hanno davanti» (Corriere Salute, 3 giugno). Si spende troppo? Pazienza. «No — scrive Brody — questo ragionamento non sta in piedi, se per dare tutto a tutti dovessimo esaurire le risorse, non ci sarà più niente per nessuno». Ci sono tanti interventi che non portano a nulla e insieme fanno il 30 percento delle spese. Ma allora l'etica di evitare gli sprechi dev'essere un imperativo morale per i medici che non incrina il rapporto con l'ammalato, se mai lo esalta. E non dimentichiamo che quello che non serve può far male (un esame del sangue fatto per niente genera altri esami e raggi e Tac, tutto questo può portare a complicazioni che poi generano altri accertamenti e altre spese). Brody fa notare che negli Stati Uniti se si facesse solo quello che serve agli ammalati si finirebbe per mettere in ginocchio l'industria biomedica che fattura due miliardi e mezzo di dollari e allora lo si deve fare ma gradualmente. Noi il problema non l'abbiamo perché importiamo tutto (o quasi). Approfittiamo della spending review per riformare la sanità partendo dall'etica di evitare gli sprechi. Proprio come stanno facendo in India a Bangalore con la chirurgia del cuore (Corriere, 7 giugno): quei medici lì hanno gli stessi risultati che abbiamo noi, ma spendono dieci volte di meno. Giuseppe Remuzzi _________________________________________________ Corriere della Sera 10 Giugno ‘12 LE LISTE DI ATTESA ANCORA NON SI ACCORCIANO Tac, risonanze magnetiche o mammografie sempre più spesso effettuate in strutture private. Secondo una recente indagine del Censis, negli ultimi sei anni è triplicata la quota di italiani (quasi 1 su 5) che ha pagato di tasca propria per eseguire accertamenti diagnostici. Il motivo principale? Nelle strutture pubbliche le liste d'attesa sono troppo lunghe. Dati, questi, che trovano una conferma indiretta nelle segnalazioni fatte al Pit Salute del Tribunale dei diritti del malato- Cittadinanzattiva dai pazienti: per esempio, un anno di attesa per una mammografia, più di sei mesi per un intervento alla carotide ostruita al 70%, più di un anno per un intervento all'anca dopo aver fatto la visita anestesiologica 9 mesi fa. Norme che dovrebbero assicurare il diritto a cure appropriate in tempi certi esistono. Solo sulla carta, forse? «I tempi d'attesa non sono diminuiti — fa notare Francesca Moccia, coordinatrice nazionale del Tribunale per i diritti del malato- Cittadinanzattiva, che presenterà in autunno il nuovo rapporto —. Gli assistiti continuano a segnalare liste "chiuse", con la conseguente impossibilità di prenotare; pagando, invece, ottengono la stessa prestazione in tempi adeguati. Esiste, poi, un "federalismo delle attese" con sistemi di prenotazione, tempi massimi previsti e ticket diversi». Eppure lasciava ben sperare il Piano nazionale di governo delle liste di attesa 2010-2012 (varato nel novembre 2010). Oltre a stabilire tempi massimi d'attesa, i codici di "priorità temporale" (che affida il giudizio di "urgenza" delle prestazione ai medici di famiglia, vedi infografica) e corsie preferenziali per chi ha malattie oncologiche e cardiovascolari, ha introdotto un'importante novità: in caso di mancato rispetto del Piano per contenere le attese, alle Regioni inadempienti possono essere sospesi i finanziamenti integrativi, nell'ambito del riparto del Fondo sanitario nazionale. Il documento doveva essere recepito dalle Regioni con propri piani e poi dalle Aziende sanitarie con programmi attuativi (in caso contrario, comunque, si applicano i tempi fissati dal Piano nazionale). Ma com'è andata? «Lazio e Campania non hanno recepito con Piani regionali quello nazionale, anche se hanno adottato azioni propedeutiche al Piano e al monitoraggio — riferisce Alessandro Ghirardini della Direzione generale programmazione sanitaria del Ministero della Salute —. Ciò non significa però che nelle altre Regioni che hanno un proprio Piano, a volte identico a quello nazionale, i tempi di attesa siano rispettati. Inoltre, i percorsi diagnostico-terapeutici per l'area oncologica e cardiovascolare hanno una diffusione a macchia di leopardo». Gli esperti del Ministero della Salute, dell'Agenas (Agenzia servizi sanitari regionali) e delle Regioni sono già al lavoro per stilare il nuovo Piano nazionale di contenimento delle attese per il prossimo triennio. «Stiamo studiando un sistema che permetta a tutte le Regioni di accorciare realmente le attese — anticipa Ghirardini —. Indicazioni utili arrivano anche dal "Programma Nazionale Esiti" gestito da Agenas per conto del Ministero: mette in evidenza un problema presente in molte Regioni, cioè la frammentazione eccessiva delle richieste di prestazioni, che impedisce di concentrare risorse a favore dell'appropriatezza delle cure, genera un non "governo" della domanda e di conseguenza un aumento delle liste d'attesa». Osserva Costantino Troise, segretario nazionale del sindacato dei medici ospedalieri Anaao Assomed: «Serve un modello di reti integrate tra ospedali e tra ospedale e territorio, con strumenti in grado di rilevare la domanda reale di prestazioni, che non potrà calare perché la popolazione invecchia e le patologie aumentano. Si potranno però ridurre, per esempio, gli esami inutili attraverso protocolli condivisi con i medici di famiglia». Maria Giovanna Faiella _________________________________________________ Corriere della Sera 4 Giugno ‘12 PICCOLI OSPEDALI, SFIDA INFINITA PERCHÉ NON SI RIESCE A CHIUDERLI Le Regioni ci provano per salvare i bilanci, i Tar li riaprono ROMA — La partita impossibile dei piccoli ospedali. Le Regioni cercano di chiuderli per risanare i bilanci, ma poi i Tribunali amministrativi ne ordinano la riapertura. E tutto torna come prima. Sono numerosi i casi, da Nord a Sud. Il più recente: Padre Pio di Bracciano, 80 posti letto. Secondo i piani di risparmio della Regione Lazio, impantanata in un deficit sanitario miliardario, doveva essere trasformato in struttura territoriale. Gli abitanti della zona hanno protestato, sono scesi in piazza insieme a sei sindaci per difendere i «loro» reparti. E la scorsa settimana il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso, inizialmente rigettato dal Tar. Secondo i giudici amministrativi non c'erano i presupposti per privare i cittadini del «loro nosocomio» in assenza di strutture vicine che fossero raggiungibili entro la cosiddetta golden hour (45 minuti). È stato spesso un fallimento il tentativo di tagliare (ma il termine corretto è «riconvertire») i piccoli nosocomi, quelli con meno di 120 posti letto, specie da parte di quelle Regioni «sotto piano di rientro», cioè vincolate a un accordo col governo per recuperare i disavanzi economici. Per tutelare i cittadini è nato il Comitato nazionale «Articolo 32» la cui finalità è la tutela della salute da attuare anche attraverso «l'opposizione alle iniziative dei commissari ad acta» nominati nelle Regioni in rosso. «L'effetto di queste scelte combinato alla mancanza di una seria organizzazione territoriale è deleterio», denuncia l'avvocato Simone Dal Pozzo che ha censito una buona parte delle controversie locali di Abruzzo, Molise, Lazio, Campania e Calabria. Ecco alcuni degli ultimi casi. Maggio 2011 il Tar Abruzzo annulla il programma del commissario Chiodi nella parte in cui viene programmato il taglio di 5 ospedali: Casoli, Gissi, Pescina, Tagliacozzo e Guardiagrele. È in corso una questione di legittimità costituzionale presso la Consulta. Poi il Molise. Con varie ordinanze il Tribunale amministrativo a partire dal maggio 2011 ha sospeso il progetti di ridimensionamento degli ospedali di Agnone, Venafro e Larino. In quest'ultimo caso la sentenza è stata confermata dal Consiglio di Stato. Nel Lazio il commissario ad acta non è riuscito ad attuare il programma di chiusura dell'ospedale di Frascati (sentenza Tar gennaio 2012). Bloccato nel 2011 il provvedimento che riguardava Anagni. Poi la recentissima decisione del Consiglio di Stato su Bracciano. Sempre nel Lazio restano in sospeso il destino di Pontecorvo e Subiaco. In Calabria, al contrario, la giustizia amministrativa in tutti i casi segnalati ha sempre dato ragione ai commissari motivando il no ai ricorsi con «la necessità di accordare prevalenza all'interesse pubblico di risanare i conti». Verranno dunque trasformati in altri servizi gli ospedali di Trebisacce, Praia a Mare, Cariati e Acri. In Campania non vengono segnalate situazioni di criticità. L'unico precedente, a memoria del senatore Raffaele Calabrò, consigliere per la sanità del presidente della Regione, Stefano Caldoro, è quello di Bisaccia, provincia di Avellino. Anche lì, un ricorso. Ma quella volta i giudici hanno dato via libera allo stop. E oggi l'ospedale sta per essere riconvertito in residenza per lungodegenti. M. D. B. mdebac@corriere.it _________________________________________________ Corriere della Sera 17 Giugno ‘12 PERCHÉ IL DOTTORE COMMETTE L'ERRORE? Spesso per il lavoro eccessivo e lo stress Formazione inadeguata, mancata adozione di linee guida e di protocolli clinici basati su evidenze scientifiche, carenza di comunicazione tra operatori sanitari e mancanza di un sistema per registrare gli incidenti. Sono le principali cause di eventi avversi ed errori, evidenziate da una ricerca pubblicata a marzo sulla rivista scientifica British Medical Journal. Fattori di rischio confermati anche dai medici italiani, che però individuano nell'eccessivo carico di lavoro e nello stress i principali responsabili di incidenti. Lo afferma quasi un dottore su due, in base a uno studio — pubblicato sulla rivista Quality & Safety Health Care edita dal British Medical Journal — che ha coinvolto tra il 2006 e il 2007 un campione di circa un migliaio di professionisti in 18 ospedali italiani. «Anche se la maggioranza degli operatori sanitari ritiene utile il cosiddetto Reporting and Learning System, cioè il sistema di registrazione degli incidenti per imparare da ciò che non ha funzionato, meno della metà lo utilizza segnalando l'evento avverso» spiega Riccardo Tartaglia, del Centro gestione rischio clinico-Regione Toscana, che ha partecipato allo studio. I motivi? «Manca nel nostro Paese una cultura della segnalazione degli eventi avversi — sottolinea l'esperto —. Non è ancora una priorità analizzare e discutere l'evento per capire i motivi per cui si è verificato. Non si tratta, ritengo, di timori legati alle possibili conseguenze giudiziarie, quanto di remore psicologiche, come la paura di perdere la reputazione tra i colleghi». Eppure, ricorda Sharon Kleefield, docente all'Harvard Medical School: «Errare è umano e si può sbagliare, non solo nel mondo dellasanità, ma è fondamentale imparare dagli errori. Certo, sono più a rischio aree critiche come la medicina di emergenza, la terapia intensiva, la chirurgia; un altro momento pericoloso per i malati è il cambio di turno tra gli operatori. Diversi studi scientifici hanno dimostrato che a minacciare la sicurezza dei pazienti in sala operatoria è anche lo scarso lavoro di squadra». M. G. F. _________________________________________________ Corriere della Sera 7 Giugno ‘12 LA CHIRURGIA LOW COST DELL'INDIA METTE IN GIOCO IL MODELLO OCCIDENTALE Sanità in controtendenza: mentre in tutto il mondo i costi delle cure mediche aumentano a dismisura, in India, a Bangalore, il dottor Devi Shetty riesce a praticare una chirurgia low cost, operando a cuore aperto per duemila dollari, invece dei ventimila degli Stati Uniti o dell'Europa. La ricetta? Un mix di metodo Ford, Toyota e Wal Mart. L'industria automobilistica americana ha inventato la catena di montaggio: all'ospedale Narayana Hrudayalaya, ognuno ha il suo compito, a partire dagli infermieri fino ai chirurghi, che si specializzano in due o tre tipi di intervento, per eseguirli nel minore tempo possibile. Il modello delle auto giapponesi Toyota insegna, invece, a «fare di più con meno»: aumentando il volume delle operazioni, si accresce la qualità e si riducono i costi. E per ridurre ancora di più questi ultimi, si può copiare la grande distribuzione di Wal Mart che sa, innanzitutto, comperare bene: farmaci e dispositivi medici possono essere acquistati a prezzo scontato. La gestione dell'ospedale di Bangalore è da imitare. Già la insegnano alla Harvard Business School di Boston e la nuova idea del dottor Shetty di reinventare l'ospedale a costi bassissimi (copiando la Tata che ha costruito l'auto più economica del mondo) interessa non solo i Paesi poveri, ma anche la Gran Bretagna (che vantava fino a poco tempo fa uno dei sistemi sanitari pubblici migliori del mondo): è costruito su un solo piano per risparmiare sugli ascensori e non ha aria condizionata, ma un sistema di ventilazione naturale. L'esempio indiano, poi, fa riflettere soprattutto in Italia dove gli sprechi in Sanità sono all'ordine del giorno (come denuncia la Corte dei Conti nella sua relazione sulla finanza pubblica del 2011, inviata ieri alle Camere), dove certi piccoli ospedali non riescono a raggiungere quella massa critica di interventi che ne garantiscono la qualità, dove la Sanità rischia di diventare sempre più di élite e sempre meno democratica (a differenza dell'India che rimane, nonostante tutto, la più grande democrazia del mondo). Adriana Bazzi _________________________________________________ Corriere della Sera 4 Giugno ‘12 «SANITÀ, TAGLI MIRATI E NON AL PERSONALE» Balduzzi: interventi sui 7 miliardi di spesa in beni e servizi. Strutture minori, niente automatismi ROMA — «Sarà un lavoro di cesello. Niente tagli lineari e automatici. Il principio è quello di salvaguardare la qualità dei servizi». Conferma la sua strategia il ministro della Salute Renato Balduzzi: «La revisione della spesa verrà eseguita con ponderazione e ragionevolezza. Spending review non significa tagliare ma riqualificare. Non ci interessa portare a casa il risultato in fretta. Vogliamo intervenire con equilibrio. Il nostro sistema sanitario pubblico è un bene che ci viene invidiato e molti Paesi ci prendono a modello», chiarisce. I tecnici del ministero sono al lavoro. La sanità dovrà infatti dare un contributo sostanzioso al programma di risparmi previsti dal governo entro il 2012 per scongiurare l'aumento dell'Iva. È vero che il supercommissario Enrico Bondi, incaricato dal governo di trovare risorse pari a circa 4 miliardi, ha calcolato per la sanità un sacrificio di circa 1 miliardo e 200 mila euro almeno? «Finora non c'è stata nessuna indicazione precisa. Le ipotesi nascono dalla circostanza che la spesa generale rivedibile è stata fissata a 390- 397 miliardi e di questa quasi un quarto riguarda la sanità. Certo faremo la nostra parte ma senza creare danni ai cittadini e rischiare di compromettere il loro diritto alla salute». Lei ha dichiarato che finora sono stati censiti 7 miliardi di spesa della sanità indagabili, cioè da rivedere. Da dove arriveranno i risparmi? «Sette miliardi sono l'ammontare della spesa per l'acquisto di beni, servizi e dispositivi medici finora censiti. La stiamo riconsiderando da parecchi mesi sulla base della manovra dello scorso anno che già prevedeva un intervento in questo settore. Non è facile trovare il prezzo medio di riferimento, cioè quello che dovrà essere applicato uniformemente in ogni Regione italiana, nell'ambito di una tipologia di prodotti così diversificata. Un esempio. Se in una Asl una siringa costa 5 volte di più rispetto a un'altra Asl non c'è scampo. Quello è uno spreco e va colpito». Dunque niente sforbiciate alla cieca? «Il lavoro è solo l'inizio e non è detto che i risparmi verranno tutti da qui anche se non c'è molto altro da tagliare. La spesa della sanitàè assorbita per un terzo dal personale e in quel settore tutto ciò che potevamo fare è stato fatto, pensiamo soltanto al blocco delturnover. Certo non arriveremo a bloccare gli stipendi e licenziare, come in Grecia». La farmaceutica è stata sempre utilizzata dai governi come bancomat, un settore da cui prelevare risorse. Sono previsti tagli anche qui? «La farmaceutica è già oggetto di revisione dallo scorso luglio a prescindere dalla revisione straordinaria della spesa. Il comparto dei farmaci è già sotto la lente. I margini di risparmio non sono infiniti ma ci sono». Diversi tribunali amministrativi e il Consiglio di Stato hanno bloccato provvedimenti di chiusura di piccoli ospedali da parte di Regioni in deficit. Che ne pensa, è una contraddizione rispetto alla necessità di recuperare il disavanzo? «Non è automatico che un piccolo ospedale debba essere chiuso. Questo può succedere se attorno viene disegnata una adeguata rete di servizi territoriali. Quando è così diventa difficile che un organismo giurisdizionale riesca a intervenire e a bloccare dichiarandole illegittime le iniziative della Regione. Ogni azione pubblica deve essere portata avanti secondo criteri di ragionevolezza e imparzialità. Quando il taglio di posti letto è basato su un piano di riorganizzazione meditato è meno esposto a ricorsi e sollecitazioni giurisdizionali che vanno in senso opposto». Ma i piccoli ospedali con meno di 120 posti letto non sono stati giudicati insicuri e costosi e dunque da chiudere e trasformare? «Si tratta di una regola con eccezioni che dipendono dal contesto in cui si trovano e dallo stato economico della Regione. Non conta il numero dei posti letto ma cosa c'è prima e dopo l'ospedale che, se è circondato da una rete assistenziale sul territorio, dovrebbe servire solo per il ricovero di pazienti in fase acuta». Dunque se manca una strategia d'insieme è inevitabile che gli atti delle Regioni vengano contestati? «L'obiettivo non dovrebbe essere di ripianare i debiti e di uscire dalla gabbia dei cosiddetti piani di rientro, cioè gli accordi presi dalle Regioni con lo Stato per raggiungere il pareggio di bilancio. L'obiettivo è rendere virtuoso ed efficiente il sistema riorganizzandolo». Invece la tentazione di alcune Regioni è tagliare senza ragionevolezza? «Chi ha questa tentazione potrà anche uscire dai piani di rientro col rischio che debba rientrarci subito dopo. Servono operazioni strutturali, ad esempio avere il coraggio di ridurre un numero esagerato di reparti che nel raggio di pochi chilometri appartengono alla stessa disciplina. Oppure il coraggio di tagliare alcuni primariati. Eliminare i doppioni e la duplicazione di servizi inutili e costosi. Non è difficile scoprire quanti e dove sono». Nel 2014 i ticket così come sono stati previsti dalla legge finanziaria dello scorso luglio diventeranno insostenibili per i cittadini. Lei ha lanciato l'ipotesi di una franchigia in base al reddito sulle prestazioni sanitarie. Va avanti lungo questa strada malgrado le critiche? «Il sistema attuale è già insostenibile, opaco e non sempre equo. Le franchigie, accompagnate da altri strumenti di compartecipazione, introdurrebbero equità. Si pagherebbe in base alla disponibilità economica e al bisogno. Chi critica la proposta non mi sembra ne abbia lanciate di migliori. È una soluzione diversa da quelle classiche ma ancora da definire». Margherita De Bac mdebac@corriere.it _________________________________________________ La Nuova Sardegna 23 Giugno ‘12 LA SANITÀ CHE VORREI: VISITE MEDICHE VELOCI E SERVIZI DI QUALITÀ di Gianfranco Nurra wCARBONIA Una sanità che offre servizi, anche di qualità, ma che è caratterizzata da una condizione di precarietà sotto il profilo organizzativo. Ci sono troppi doppioni, tra gli ospedali di Carbonia e Iglesias, e questo non si traduce in un miglioramento del servizio ma anzi in un abbassamento delle prestazioni, anche a causa della carenza diffusa di organici. Un esempio fra tutti. I due reparti di ostetricia di Carbonai e Iglesias hanno ognuno otto medici a disposizione, quasi appena sufficienti a coprire le emergenze e l’assistenza. Un unico reparto, metterebbe insieme un organico di quindici medici, con un aumento consistente della qualità dei servizi erogati. E’ uno dei problemi sollevati a Bacu Abis, nel corso della assemblea popolare, organizzata dai componenti della commissione sanità del Consiglio comunale, che ha deciso di studiare la situazione e, soprattutto, di farsi portavoce delle esigenze del territorio per un miglioramento dei servizi. Un tema difficile, visto che ogni intervento sulla sanità viene spesso letto in maniera campanilista, di volta in volta, dalle popolazioni del Sulcis, e dell’Iglesiente, a seconda che i progetti parlino di ridimensionamento di un servizio in un’area o nell’altra. «Il problema – ha spiegato il presidente della Commissione Orlando Meloni – è che alla fine non si riesce a dare agli utenti le risposte di cui hanno bisogno. E questo si traduce in un rifiuto della sanità sulcitana e in un vero e proprio esodo verso altre strutture, anche per specialità esistenti e per le quali la qualità dei servizi è altissima». Il danno appare consistente anche in termini finanziari. La “mobilità passiva”, ossia il rivolgersi ad altre Asl e a strutture esterne costa circa venti milioni di euro all’anno. Un vero fiume di quattrini che impoverisce la sanità sulcitana e arricchisce altrove, rischiando di aumentare il gap esistente. Ci sono poi alcuni aspetti che appaiono almeno incomprensibili. Proprio nei giorni scorsi il primario di radiologia del Sirai, Nazareno Pacifico, ha chiesto al direttore generale di avviare un inchiesta per accertare come mai le prenotazioni per le prestazioni non sembrerebbero seguire le reali disponibilità. I medici sono liberi ma i pazienti non arrivano. Poi si scopre che magari le visite specialistiche sono prenotabili a tempi di mesi. E ci sarebbero addirittura servizi che sembrano scomparire e sarebbero dati come inesistenti. Una situazione che sembrerebbe mostrare ampi margini di miglioramento e di crescita, a condizione di cambiare alcune condizioni. Forse o magari non con il grande investimento per un nuovo grande e unico ospedale territoriale, quanto con un ridisegno complessivo che, anche nelle condizioni attuali, consenta di accorpare i doppioni in una unica struttura ospedaliera. Missione difficile, ma forse non impossibile con il coinvolgimento dei territorio interessati al problema. _________________________________________________ L’Unione Sarda 20 Giugno ‘12 SANITÀ, IN ARRIVO OLTRE 300 MILIONI Ma tra gli esperti è allarme: troppi tagli, assistenza a rischio La Regione riduce la spesa farmaceutica portandola, nel primo trimestre 2012, dal 22 al 21,7% della spesa sanitaria totale. Ed ha anche qualche prospettiva interessante visto che a breve - sempre che il Consiglio regionale approvi il disegno di legge su “Disposizioni urgenti in materia di sanità” - dovrebbe incassare 256 milioni di euro previsti nell'accordo di programma quadro siglato con il Governo e 40 milioni che arriveranno dal ministero per il raggiungimento degli obiettivi prefissati sull'assistenza domiciliare integrata. Ma ci sono ancora molte criticità - tra cui il Sisar, il Sistema informativo sanitario integrato regionale - molti sprechi (soprattutto sulla spesa farmaceutica), troppi ospedali dove non servono, seri problemi di personale, il fatto che l'87 per cento degli ospedali sardi non sia accreditabile. E con la spending review sono in arrivo ulteriori tagli ai trasferimenti statali e si ipotizza l'introduzione di ticket modulati per reddito. IL MINISTRO NON C'È Su questi e altri argomenti i circa mille tra medici e altri professionisti della salute che ieri mattina hanno partecipato al convegno “Il nuovo sistema sanitario per la Sardegna. Azioni strategiche per il prossimo triennio”, organizzato dall'assessorato regionale alla sanità, avrebbero voluto chiedere chiarimenti al ministro Renato Balduzzi. Ma l'esponente del governo Monti ha disertato l'appuntamento limitandosi ad inviare un videomessaggio in cui, con toni cortesi, ha annunciato altri tagli e ricordato alla regione di rispettare il piano di rientro dai debiti. PROTESI CINESI Non che mancassero altri relatori eccellenti: dal presidente e il direttore generale di Agenas, Giovanni Bissoni e Fulvio Moirano, a Rossana Ugenti (Ministero Salute). «Ci sono le protesi cinesi, che costano 300 euro e la cui affidabilità è bassa e quelle prodotte in altri paesi, più affidabili perché testate e scelte dai medici dopo ampi confronti, che non si acquistano a meno di 2500. Spero che la spending review non arrivi a costringerci a risparmiare su queste cose come si risparmia sulla carta per i fotocopiatori», ha detto Bissoni, stimato esperto di Sanità e per 15 anni assessore in Emilia Romagna, fiore all'occhiello del sistema sanitario nazionale. «Diciassette miliardi di tagli alla sanità in tre anni è una prova mai affrontata dalla sanità», ha aggiunto Bissoni: «C'è il rischio di default del sistema e che i livelli essenziali di assistenza diventino livelli minimi di assistenza». L'ASSESSORE Una delle azioni necessarie è ridurre i piccoli ospedali e aumentare i servizi nel territorio. Simona De Francisci ha messo in evidenza che la Regione «ha già investito 25 milioni di euro per dotare anche aree periferiche di una rete capillare: case della salute, hospice e residenze sanitarie assistite. Il motto», ha spiegato l'assessore, è «meno ospedale, più territorio, senza per questo chiudere le piccole strutture ma semmai riconvertendole». APPELLO AL CAL Vero è che il Piano di riorganizzazione della rete ospedaliera, approvato un anno fa dall'esecutivo regionale, è da allora in attesa del parere del Consiglio delle autonomie locali, a cui l'assessore ha lanciato un appello affinché «dia il via libera al più presto». Anche perché poi deve arrivare in Consiglio regionale dove non si prevede un iter lungo per via degli interessi territoriali e politici che da anni impediscono di tagliare gli ospedali inutili. «In Emilia la chiusura di un ospedale ha causato un cambio di maggioranza in un Comune», ha rimarcato Bissoni per confermare quanto toccare la sanità significhi, quasi sempre, toccare un centro di potere. Fabio Manca _________________________________________________ Italia Oggi 19 Giugno ‘12 LA COCAINA PROVOCA DANNI IRREVERSIBILI AL CERVELLO I suoi consumatori, invecchiando, perdono le cellule nervose DI ETTORE BIANCHI La cocaina fa atrofizzare il cervello. I consumatori abituali di questa sostanza stupefacente perdono le loro cellule nervose, durante l'invecchiamento, a un ritmo doppio rispetto alle altre persone. A sostenerlo è una ricerca pubblicata sulla rivista Molecular Psychiatry (psichia- tria molecolare). Lo studio è stato condotto su 120 soggetti, di cui metà era costituita da cocainomani di età compresa fra 18 e 50 anni, dipendenti dalla droga da diversi anni. La quantità di cellule nervose nel cervello è stata misurata attraverso la risonanza magnetica. Le regioni prefrontali e temporali del cervello sono particolarmente interessate da questo fenomeno: esse sono importanti per la me- moria, l'attenzione e l'assunzione di decisioni. Tutte funzioni molto disturbate tra chi assume regolarmente cocaina. L'origine di questo effetto non è ancora conosciuta. Tuttavia, secondo l'équipe di studiosi diretta da Karen Erschen, potrebbe derivare da un incremento dello stress ossidante a livello delle cellule nervose, già osservato negli animali. Il nuovo pericolo va ad aggiungersi alla lunga lista dei danni provocati dalla droga: problemi cardiovascolari, polmonari e psichiatrici. La cocaina, inducendo il rilascio in grande quantità di dopamina, noradrenalina e serotonina nel sistema nervoso, genera euforia e sentimenti di potenza ma anche ipertensione e vasocostrizione di tutti i vasi che, a sua volta, blocca l'ossigenazione dei tessuti. Gli esperti francesi, intanto, lanciano un nuovo allarme: il consumo di cocaina si sta diffondendo in maniera inquietante in tutti gli ambienti sociali e a tutte le età: l'anno scorso, in Francia, il 3% dei diciassettenni aveva già provato questa potente droga. Non tutti i consumatori regolari, tuttavia, si trasformano in dipendenti: ciò avviene nel 5% dei casi durante il primo anno di consumo e nel 20% dei casi a lungo termine. Si tratta probabilmente della droga più insidiosa. Essa è alla radice del numero maggiore di suicidi e di pesanti conseguenze per la salute, mentre il suo consumo è facile da nascondere. Quanto ai danni a livello cerebrale, essi sono irreversibili. L'arresto del consumo di droga può ristabilire il funzionamento normale del cervello, ma non è in grado di recuperare quanto perso fino a quel momento. _________________________________________________ Il Giornale 22 Giugno ‘12 CONTINUA L’INNOVAZIONE NELLE TECNOLOGIE MEDICALI Il settore delle tecnologie per uso medicale non conosce pause in merito allo sviluppo di innovazioni e nuove apparecchiature. Tendenza, questa, che continuerà ancora negli anni a venire. L'esperienza di Tiziana Fantoni Emanuela Caruso L’invecchiamento della popolazione continuerà a rappresentare uno dei cambiamenti sociali e strutturali più significativi dei prossimi anni. Alcune ricerche portate avanti dall'Onu hanno stimato che intorno al 2050 il numero di ultrasessantenni toccherà circa i due miliardi. A fronte di un tale progressivo fenomeno di invecchiamento degli essere umani sono stati individuati tre importanti fattori che giocheranno un ruolo di primo piano negli anni a venire: l'inevitabile incremento delle malattie legate alla vecchiaia; la crescita dell'attività dell'industria farmaceutica; e l'espansione del settore delle tecnologie medicali. Quest'ultimo, in particolare, trarrà ulteriori vantaggi anche dall'aumento del benessere e dalla crescita economica dei nuovi paesi emergenti. Nello specifico settore delle tecnologie medicali si colloca la ATS, Applicazioni Tecnologie Speciali, di Torre de' Roveri, in provincia di Bergamo. «Da trent'anni — commenta Tiziana Fantoni, presidente della società — produciamo e commercializziamo, sia in Italia che all'estero, apparecchiature elettroniche, elettriche e meccaniche per uso medicale. Tra quelle più richieste al momento figurano i sistemi di diagnostica per immagini e le tecnologie radiologiche mobili da utilizzare durante interventi in tempo reale». Dal 1981, anno di inizio della vostra attività, ad o L4 *, il progresso tecnologico ha rivoluzionato ogni ambito produttivo. In tal senso, quali sono state le principali evoluzioni cui la ATS ha assistito e preso parte nello sviluppo produttivo e applicativo di speciali tecnologie per uso medicale? «Il progresso tecnologico di questi ultimi tre decenni ha presentato al settore e al mercato davvero tante novità e innovazioni, Tra le evoluzioni più importanti possiamo citare l'uso sistematico delle tecnologie digitali sia con microprocessori che con architetture Pc, la trasmissione di immagini con tecnologie wireless, e la trasmissione, l'archiviazione e la consultazione delle immagini diagnostiche attraverso l'impiego di sistemi informatici e di comunicazione chiamati Pacs. Molto rilevante è stata anche l'introduzione di tecnologie di immagine composte da amplificatori di brillanza e da telecamere digitali per diagnostiche a raggi X a bassa dose; e di sistemi di immagine formati da detettori matticiali, i cosiddetti Flat Panel, per diagnostiche completamente digitali filmless». Qual è l'ultima novità progettata e prodotta da ATS e come funziona? «L'innovazione a cui stiamo lavorando è un nuovo concetto di radiodiagnostica digitale per impiego in pronto soccorso e diagnostica ad alta intensità di lavoro. L'idea principale consiste nel riunire insieme tutte le tecnologie più avanzate del design meccanico, elettronico e informatico per rendere l'esame radiologico più rapido, sicuro, diagnosticamene efficace e, perché no, più confortevole sia per il paziente che per gli operatori. Uergonomia applicata a tutti i momenti e agli spazi dove si svolge l'esame radio diagnostico condiziona il progetto della macchina a porre la massima "Attenzione" all'uomo. Il risultato di questo sforzo sarà un prodotto sintesi di tanti anni di ricerca applicata, un prodotto altamente automatizzato di facile uso in comunicazione per dati e immagini in tempo reale con tutto il mondo medicale e speriamo anche bello». Quali sono i principali interlocutori commerciali della vostra azienda? «Sin dall'inizio abbiamo distribuito i nostri prodotti a società nazionali e internazionali interessate a integrare il proprio catalogo con le apparecchiature ATS e a venderle in tutto il mondo; a società controllate o partecipate estere che svolgono in prevalenza l'attività di vendita e di assistenza tecnica post-vendita nei paesi stranieri; e a vari ospedali e cliniche private dislocati su tutto il territorio nazionale». Attraverso quali strategie operative è possibile seguire il progresso degli ambiti medicali specialistici cui la produzione ATS è rivolta? «Le idee per nuovi prodotti e per le loro caratteristiche provengono dalla continua ricerca di innovazione e dalla partecipazione a congressi internazionali di radiologia, come ad esempio rEct europeo, il Jfr francese, l'Rsna americano e il Sirm italiano, e a svariate fiere medicali. Interessanti input derivano anche dalle partnership strette con le aziende produttrici di componenti strategici ad altissima tecnologia e con gli ospedali universitari, quali il Civili di Brescia e il Trusseau di Parigi». _________________________________________________ Corriere della Sera 17 Giugno ‘12 RESILIENZA PIÙ FORTI DI PRIMA DOPO LA MALATTIA Una «riserva interiore» consente una nuova vita. Migliore Il filosofo Epitteto; i 700 neonati hawaiani dell'isola di Kauai, classe 1955; i 100 bambini curati nell'Oncoematologia pediatrica dell'ospedale San Gerardo di Monza, che hanno scritto in un libro la storia della loro vittoria sulla leucemia: c'è un filo rosso che li lega. Si chiama resilienza. Un concetto che nasce dalla fisica e indica la capacità di un materiale di resistere a deformazioni e urti senza spezzarsi, anzi tornando alla sua forma iniziale. Col tempo, la parola ha ampliato il suo campo di applicazione e sta vivendo un grande successo internazionale. Così si parla anche di resilienza tessile, cioè la capacità dei tessuti di riprendere la loro forma originaria. C'è la resilienza ecologica e quella biologica, ovvero la capacità di ecosistemi e organismi di ripristinare le proprie condizioni di equilibrio dopo un intervento esterno. C'è una resilienza informatica e persino una resilienza geriatrica. Ma soprattutto la resilienza è oggetto di studio della psicologia che, sul fronte clinico, l'ha declinata come capacità del malato di assorbire un «urto» come la malattia, senza però «frantumarsi» ma addirittura migliorando. La psicologa Anna Oliverio Ferraris la definisce «forza d'animo» e spiega come sia il filosofo greco Epitteto sia l'imperatore filosofo romano Marco Aurelio, esponenti dello stoicismo, «insistono sul ruolo salvifico della forza interiore, di quella preziosa risorsa che ognuno deve cercare in se stesso e coltivare lungo tutto l'arco della propria vita». È questa la resilienza? Cerchiamo di capirlo meglio attraverso un altro elemento del nostro fil rouge allora, partendo dai ragazzi guariti di Monza. «I nostri ragazzi ci hanno insegnato che la crescita positiva dopo il trauma della malattia esiste veramente — spiega Giuseppe Masera, pioniere dell'approccio psicologico nel campo dell'ematologia infantile e a lungo direttore della Clinica pediatrica del San Gerardo di Monza —: per loro è stato come rinascere una seconda volta. Lo trovo affascinante. I pazienti ci dicono che la malattia ha insegnato loro a dare un valore diverso alle cose e all'esperienza della vita». Per questo Masera, con il grande oncologo di Philadelphia Giulio D'Angio, lancerà una proposta su una rivista scientifica internazionale: «Dobbiamo sensibilizzare gli oncologi a conoscere e promuovere un nuovo paradigma: dalla terapia globale e dalla prevenzione dei danni anche psicologici, alla promozione della crescita positiva. È poi necessario considerare la ricerca su questo tema: conoscere da un lato quali sono le caratteristiche individuali, dall'altro gli interventi più opportuni — a partire dalla diagnosi, durante la terapia, e negli anni successivi — che possano favorire la resilienza». Il punto di partenza e anche la sfida sta proprio qui. Possiamo imparare qualcosa da chi riesce a riprendere un nuovo sviluppo di buona qualità dopo un trauma, come sostiene lo psichiatra Michael Rutter, «padre» della psicologia infantile? E riprendendo un pensiero di Boris Cyrulnik (etologo e psicologo francese, tra i massimi studiosi di resilienza), «in quali condizioni interne ed esterne queste riprese di nuovo sviluppo sono possibili»? Se lo sono chiesti gli esperti riuniti lo scorso fine settimana a Parigi per il primo Congresso mondiale sulla resilienza. «Si tratta di una questione molto affascinante, ma parecchio complessa. La resilienza è un processo, multidimensionale e multifattoriale» sottolinea Elena Malaguti, una delle prime studiose che ha introdotto in Italia le ricerche sulla resilienza e docente di Pedagogia speciale all'Università di Bologna, componente dell'Osservatorio internazionale sulla Resilienza di Parigi, presieduto dallo stesso Cyrulnik con il quale lavora da dieci anni. «La resilienza nasce dalle ricerche della psicologa Emmy Werner che per prima fece uno studio longitudinale alle Hawaii» racconta Elena Malaguti. Emmy Werner esaminò 698 neonati, l'intera leva del 1955, nell'arco di 40 anni. Il risultato più significativo fu che, a dispetto dell'esposizione a fattori di rischio legati alla nascita o all'ambiente, circa un terzo dei bambini considerati ad alto rischio erano diventati adulti premurosi, competenti e affidabili. In condizioni normali, ognuno è solo potenzialmente resiliente: «All'interno delle definizione di resilienza — spiega Antonella Delle Fave, docente di Psicologia all'Università Statale di Milano-Ospedale Sacco — è implicito il fatto che ci sia una cosiddetta "condizione estenuante o estrema" di grave pressione per cui allora si manifesta la resilienza. Ci sono cioè delle risorse che possono essere utilizzate nel momento della necessità e che si traducono in resilienza. Se però viene a mancare questa situazione estrema, non possiamo più identificare tali risorse come strumentali alla resilienza». Resilienza come forza di reazione e di adattamento dunque. Innata, forse, o raggiungibile? «Non credo esista il gene della resilienza — riflette Elena Malaguti —. In generale, sarebbe opportuno parlare di "resilienza naturale" e di "resilienza assistita", ovvero degli indicatori, dei progetti e dei percorsi che possono essere intenzionalmente avviati ad esempio da genitori, educatori, soccorritori, infermieri, insegnanti. In presenza di un evento traumatico è opportuno individuare le strategie di coping, cioè la capacità di far fronte a un evento; i processi diempowerment, ovvero l'accrescimento e l'acquisizione di competenze, e il processo di resilienza, vale a dire la ripresa evolutiva. È come se fosse una scala». In fondo, assicurano gli esperti, basta imparare a salirci. «COSÌ SIAMO DIVENTATI PORTATORI SANI DI SPERANZA» L a vita è una ruota che gira. Marco Carloni e Alessio Sala lo sanno benissimo. Apprezzano la metafora, perché la ruota, intesa come bicicletta, è la passione che oggi li accomuna e li ha fatti incontrare. Per scoprire, poi, che la ruota della vita li ha anche destinati a un nuovo ruolo: diventare «portatori sani» di speranza e testimoni di resilienza. Alessio, 42 anni da Bresso (Milano), e Marco, 28 anni da Merone (Como), sono la prova che ai colpi di malattie gravi si può resistere. Anzi, grazie a quei colpi, si può diventare anche più forti. Si sono conosciuti alla «Gara di ciclisti coraggiosi», organizzata a Marostica dalla Fondazione Monza e Brianza per il Bambino e la sua Mamma (MBBM). La sfida ha visto come protagonisti 30 ragazzi malati di tumore, guariti o in via di guarigione, provenienti dai principali Centri oncologici europei nell'ambito del progetto europeo PanCare SurfUp (vedi box a sinistra). Alessio ha dato filo da torcere sulla sua handbike. Già: corre spinto dalle braccia su una bici a tre ruote Alessio, curato all'Istituto dei tumori di Milano di cui è diventato anche «testimonial». A 18 anni, un osteosarcoma ha reso necessaria l'amputazione della gamba destra sotto il ginocchio, bloccando anche la sua carriera da sottufficiale dell'Esercito. Ma il suo calvario non è finito lì. Dopo due anni è venuta fuori una metastasi di 9 centimetri al polmone destro. Operata. Altri tre anni ed è toccato al polmone sinistro, dove si erano sviluppate altre metastasi. Poi ancora, nel '98, ha dovuto farsi «bombardare» una vertebra con 60 cobaltoterapie per un presunto nuovo osteosarcoma. Quelle tappe, Alessio, se l'è fatte tatuare sulla pelle. «Per non dimenticare — spiega — . Altrimenti cominci a lamentarti che il telefonino non ha campo o la batteria non dura neanche un giorno. Mi sono accorto che questa è un'esperienza che ti deve far vivere un mondo diverso dentro e dal mio punto di vista migliore». Tre anni fa, la svolta. Gli oncologi della Pediatria dell'Istituto gli suggeriscono di provare con l'handbike. «Mi hanno invitato a provare con lo sport perché poteva diventare importante per me, per loro, per i bambini ammalati e le loro famiglie». Così è andata. E per Alessio è cominciata una nuova vita: «Faccio gare. A novembre sarò alla maratona di New York, seguito dall'Università di Pavia che metterà delle centraline sulla bici per uno studio. Quando esco per allenarmi, e a ogni uscita faccio 50 chilometri, ho 12 gambe e 20 polmoni. Sto bene. Quando la gente mi chiede qualcosa sulla malattia, faccio capire che c'è sempre un margine. Con un po' di impegno si può diventare portatori sani di speranza di vita. Questo ci vuole, la speranza». Parole condivise da Marco Carloni, fresco di nozze. Per lui, la speranza è stata lo sport. Marco ha fatto ciclismo agonistico per 14 anni, iniziando a 6, ed era stato ingaggiato da una squadra. Tra una stagione e l'altra, però, ha cominciato a provare una sensazione di stanchezza strana, accompagnata da febbre, che lo faceva addormentare sul treno mentre andava a scuola. Dopo una serie di esami, all'ospedale San Gerardo di Monza gli hanno diagnosticato una leucemia linfoblastica acuta. «La mattina dopo mi ricordo ancora la figura del dottor Jankovic che si avvicina e mi chiede se c'era qualcosa che io temevo — dice —. Avevo perso tre parenti di cui mio zio e due nonni per un tumore e gli ho risposto: tumore. Non mi hanno illuso e hanno saputo spiegarmi la serietà della situazione». Il vero impatto con la realtà è arrivato però una volta tornato a casa dopo una settimana di chemioterapia. «Io che facevo sempre le scale di corsa, appena ho messo il piede sui primi gradini sono finito per terra». Marco non ha mollato e la speranza di poter ricominciare a correre gli ha dato una marcia in più. In effetti, dopo essere entrato nella fase di mantenimento della malattia, anche se sconsigliato dai medici, ha ripreso la bici. «All'inizio è stato un dramma. Pur di non mollare finivo collassato in ambulanza». Dopo due anni ha comunque dovuto rinunciare all'agonismo, ma non ha ancora appeso la bici al chiodo. La malattia ora è un ricordo: «È stata un'esperienza di vita che sicuramente non auguro a nessuno, ma non posso dire neanche negativa perché non lo è stata. Mi ha dato una visione diversa della sofferenza». _________________________________________________ Corriere della Sera 17 Giugno ‘12 PER L'ATTIVITÀ FISICA MEGLIO UN FRUTTO DI UNO «SPORT DRINK» Se la frutta è un alimento importante per tutti, lo è ancora di più per gli sportivi. Lo confermano due recenti studi americani. Nel primo (pubblicato da Applied Physiology, Nutrition, and Metabolism) ricercatori dell'Appalachian State University hanno studiato gli effetti dei mirtilli, noti per le loro proprietà antiossidanti, in un gruppo di sportivi. Confrontando atleti che prima di una corsa di due ore e mezzo avevano consumato mirtilli (250 grammi al giorno per sei settimane, più altri 375 grammi un'ora prima della prestazione), con altri che non li avevano mangiati, i ricercatori hanno visto che nei primi erano più favorevoli alcuni parametri associati alle difese immunitarie, oltre che allo stress ossidativo e all'infiammazione, effetti secondari dell'attività fisica impegnativa. In un altro studio, condotto nella stessa università, pubblicato da PLoS ONE, si è voluto verificare se la banana potesse rappresentare, durante esercizi prolungati, una fonte energetica valida quanto le comuni bevande per lo sport. In due giornate, 14 ciclisti hanno completato una corsa di 75 km durante la quale hanno assunto, ogni 15 minuti, mezza banana, oppure una tazza di uno sport drink contenente la stessa quantità di zuccheri. Alla fine dell'esperimento non si sono osservate differenze sugli indici di stress ossidativo e sui parametri dell'infiammazione, rilevati attraverso test ematici effettuati prima e dopo l'esercizio. «La banana però — commenta Amelia Fiorilli, professore di Scienze tecniche dietetiche alla Facoltà di Scienze motorie dell'università degli Studi di Milano — non fornisce solo zuccheri semplici e carboidrati complessi, ma è anche una buona fonte di potassio, la cui carenza provoca, tra l'altro, debolezza della muscolatura volontaria, quella che sostiene l'attività fisica. In estate, o quando si suda di più, può essere utile aggiungere alla dieta una buona fonte di potassio, sotto forma non solo di banane, ma anche di albicocche, ciliegie, ribes e, ancora, di zucchine, pomodori e verdura in generale. Inoltre, la banana ha una buona capacità antiossidante che, sebbene sia inferiore a quella dei mirtilli, è comunque doppia, per esempio, rispetto a quella di kiwi e peperoni. Il messaggio che emerge da questi studi è: sebbene in certe situazioni sia più comodo procurarsi la quantità opportuna di zuccheri bevendo da una bottiglietta che mangiando frutta, i prodotti freschi dovrebbero sempre rappresentare la prima fonte da cui attingere nutrienti e sostanze protettive». C. F. _________________________________________________ Corriere della Sera 17 Giugno ‘12 DONAZIONI DI SANGUE IN CRESCITA MA ANCORA POCHE DAI GIOVANI Aumentano le donazioni di sangue in Italia: +1,5% nel 2011 rispetto al 2010, anche se a donare meno sono i giovani, che sono circa il 28% del totale dei donatori. La situazione del comparto sangue è stata illustrata al ministero della Salute dal direttore del Centro nazionale sangue, Giuliano Grazzini, in occasione della Giornata mondiale del donatore. Nel 2011 in Italia i donatori sono stati 1.733.398 (il 69,9% maschi) di cui il 35,5% sono donatori frequenti. Circa 700 mila persone lo fanno una volta all'anno, mentre la media è di 1,9 donazioni per ogni donatore l'anno, in linea con i livelli Ue. Il numero di donazioni totali è stato invece pari a 3,3 milioni e i pazienti trasfusi nel 2011 hanno raggiunto quota 685.419. «I donatori — ha precisato il direttore del Centro nazionale sangue — sono stati in continuo incremento dal 2001 al 2011. Il picco si registra nella fascia d'età 36-45 anni. Il problema è però che rimane una carenza di donatori giovani». Aspetto fondamentale per il ricambio nei prossimi anni. _________________________________________________ Corriere della Sera 24 Giugno ‘12 SÌ ALLO SPAZZOLINO DOPO I PASTI MA È MEGLIO ASPETTARE UN PO' L'ossessione dello spazzolino può giocare brutti scherzi ai denti. Chi non riesce ad aspettare neanche un minuto a fine pasto e corre in bagno cedendo al richiamo del dentifricio, forse sta commettendo un errore. Per proteggere le superfici dei denti devono trascorrere almeno 30 minuti dall'attacco erosivo degli acidi presenti in cibi e bevande. Lo dicono i dentisti dell'Academy of General Dentistry, la seconda più grande associazione odontoiatrica degli Stati Uniti. Il «contrordine» si basa sui risultati di una ricerca, che dimostra come passare subito dalla forchetta allo spazzolino possa creare danni seri perché gli acidi «bruciano» lo smalto dei denti e lo strato sottostante di dentina. Strofinare troppo presto con le setole dello spazzolino può quindi guidare questi acidi ancora più in profondità accelerando il processo di corrosione. Uno studio ha indicato proprio che i denti si intaccano più velocemente se vengono strofinati entro 20-30 minuti dal pasto o dopo aver bevuto il caffè o un soft drink acido, che praticamente li «spoglia» dello strato superficiale, demineralizzandoli. _________________________________________________ Corriere della Sera 24 Giugno ‘12 A TAVOLA FATE IL PIENO DI MAGNESIO PER PROTEGGERE IL CUORE Non è una delle «star» dell'alimentazione, come il calcio, eppure il magnesio (presente in quasi tutti gli alimenti, oltre che nell'acqua, seppure in quantità molto diverse) è un nutriente attualmente molto studiato per il potenziale ruolo protettivo nei confronti delle patologie cardiovascolari e del diabete. Un gruppo di ricercatori dell'Università di Osaka, in Giappone, ha recentemente pubblicato, su Atherosclerosis, un lavoro condotto esaminando i consumi alimentari di 58 mila adulti (età dai 40 ai 79 anni) seguiti per 15 anni. Mettendo a confronto le donne con i consumi di magnesio più elevati (274 mg al giorno) con quelle con i consumi più bassi (174 mg), i ricercatori hanno osservato che nelle prime il rischio di mortalità cardiovascolare era più basso del 36%. Negli uomini, invece, un elevato consumo di magnesio, è risultato inversamente associato solo con il rischio di emorragia cerebrale. «Il magnesio — commenta Domenico Sommariva, vicepresidente della sezione lombarda della Società italiana per lo Studio dell'arteriosclerosi — è un elemento essenziale per molte funzioni dell'organismo. È stato documentato il suo ruolo nel controllo della pressione arteriosa, nella riduzione delle aritmie cardiache e dell'infiammazione che è alla base dell'aterosclerosi. E già questi elementi spiegano un possibile effetto protettivo nei confronti delle malattie cardiovascolari. Non va comunque dimenticato che gli alimenti che sono buone fonti di magnesio, come le verdure a foglia verde, apportano anche altri elementi, come il potassio, al quale pure viene attribuito un ruolo positivo nei confronti del sistema cardiovascolare e non è facile separare gli effetti dell'uno da quelli dell'altro». «In ogni caso, il magnesio merita più attenzione — aggiunge Mario Barbagallo, professore di geriatria all'Università degli studi di Palermo — perché è coinvolto sia nella produzione di energia nei mitocondri, sia nella difesa dell'organismo dai radicali liberi, collegati all'insorgere di molte malattie dell'invecchiamento, tra cui aterosclerosi e ipertensione arteriosa. Peccato che il 70% degli anziani ne assuma troppo poco». Ma quanto magnesio dovremmo assumere con la dieta? «Le raccomandazione americane, un po' più aggiornate delle nostre, suggeriscono 400 mg al giorno per uomini di 19-30 anni e 420 mg dai 31 anni in su; per le donne rispettivamente 310 e 320 mg. Ma i valori andranno rivisti, soprattutto per quanto riguarda gli anziani» conclude Barbagallo. C. F. _________________________________________________ Le Scienze 24 Giugno ‘12 VIRUS DELL'AVIARIA, PUBBLICATO LO STUDIO DELLE POLEMICHE Bloccare l'attacco dell'HIV Modificando geneticamente il virus in modo da renderlo più facilmente trasmissibile ai mammiferi, i ricercatori sono riusciti a scoprire cinque mutazioni che, tutte insieme, consentono al virus H5N1 di acquisire la capacità di trasmettersi per via aerea. Dato che due di esse si riscontrano in natura, indicando che per mutare i virus influenzali non hanno bisogno di mescolare i loro genomi con un altro virus all'interno di un ospite animale intermedio , gli esperti ne hanno concluso che la trasmissibilità aerea di Lo studio sulla produzione di virus H5N1 mutati che alcuni mesi fa aveva scatenato roventi polemiche e la richiesta di bloccarne la pubblicazioneè ora apparso su “Science”. Il direttore della rivista, Bruce Alberts, osserva che la pubblicazione dei nuovi dati sulla potenziale trasformazione di H5N1 in una forma che può essere trasmessa per via aerea tra furetti spingerà politici e scienziati a lavorare per ridurre la probabilità che il virus evolva in modo da causare una pandemia. Lo studio - a prima firma Sander Herfst - è pubblicato nel quadro di uno “speciale” della rivista dedicato all’influenza aviaria, in cui compare anche un altro articolo a prima firma Colin Russell, in cui viene approfondito il problema del rischio che mutazioni come quelle descritte da Hefst e colleghi possano verificarsi spontaneamente in natura. Nella ricerca all'origine delle polemiche, Herfst e colleghi hanno anzitutto modificato geneticamente il virus, cambiando in particolare tre amminoacidi per aumentarne l'affinità verso ospiti mammiferi. Hanno quindi infettato dei furetti (che mostrano sintomi di influenza simili agli esseri umani) inoculando direttamente il virus, e monitorandone poi l’evoluzione con il prelievo di campioni di mucosa nasale. Durante gli esperimenti sono apparse varie nuove mutazioni che sembrano dare ai virus caratteristiche che favoriscono la replicazione nella cavità oronasale, e quindi una potenziale tramissibilità per via aerea. I ricercatori hanno quindi testato i virus mutanti selezionati per controllare se potessero essere trasmessi da furetto a furetto attraverso l'aria, veicolati da goccioline respiratorie. La maggior parte dei furetti sani posti in gabbie vicine a quelle con animali infetti è stato effettivamente contagiato, tuttavia in modo non fatale. I virus mutanti sono stati fatali sono per i furetti in cui erano stati inoculati direttamente in gola e a dosi molto elevate. Quattro delle cinque mutazioni identificate sono a carico dell'emoagglutinina. ( © E.M. Pasieka/Science Photo Library/Corbis) Sequenziando i virus, i ricercatori hanno così scoperto cinque mutazioni che, se presenti tutte insieme, conferiscono la capacità di trasmissione per via aerea: le tre introdotte inizialmente e due che si sono presentate successivamente. Quattro dei cambiamenti erano a carico dell’emoagglutinina, la proteina sulla superficie del virus che lo aiuta a penetrare nelle cellule ospiti. Il quinto riguardava la polimerasi 2, che aiuta il virus replicare il proprio genoma. Queste mutazioni erano state tutte osservate - singolarmente, o in combinazione parziale - in virus trovati in natura. Si pensava che, per innescare una pandemia, i virus influenzali dovessero prima mescolare i loro genomi con un altro virus all'interno di un ospite animale. Lo studio mostra però che un simile "riassortimento" non è necessario perché il virus mutante cambi le caratteristiche di trasmissibilità. Nello studio di Russell si osserva che diversi ceppi circolanti dell'influenza aviaria H5N1 hanno già due delle mutazioni note per rendere sperimentali i ceppi del virus trasmissibile tra i mammiferi attraverso le goccioline respiratorie. Questi virus potrebbero quindi bisogno di solo tre mutazioni per assomigliare al virus dello studio di Herfst e colleghi, o appena di due per somigliare a quello di un'altra recente ricerca, pubblicata da Masaki Imai e colleghi su “Nature”. Nella seconda parte dello studio, Russell e colleghi hanno identificato sei fattori che potrebbero rendere più probabile l’evoluzione dell'intera serie di mutazioni, e due fattori che la rendono meno probabile. E’ attualmente impossibile stimare con precisione la probabilità che questi virus si evolvano naturalmente – osservano i ricercatori - ma i risultati suggeriscono che le mutazioni rimanenti potrebbe evolversi all'interno di un singolo ospite mammifero. Di conseguenza, la trasmissibilità aerea del virus H5N1, in continua evoluzione in natura, rappresenta "potenzialmente una seria minaccia".