RASSEGNA STAMPA 11 MARZO 2012 ALMALAUREA: LO SPORCO LAVORO SUI CAMPUS LA LEGA UNIVERSITARIA DELLE LAUREE TAROCCHE UN MESTO SPARTITO PER ATENEI A BASSA QUALITÀ IL MANTRA INDISCUSSO DI POCHI LAUREATI IN. ITALIA ATENEI, CON IL BILANCIO UNICO: ARRIVA LA PROGRAMMAZIONE UNIVERSITÀ, ARRIVA L'«ACCREDITO» PIÙ RISORSE E FONDI COMPETITIVI PER UN'UNIVERSITÀ MIGLIORE NICOLAIS: IL PRECARIATO AZZOPPA LA RICERCA LA RICERCA CLINICA RALLENTA LA RETORICA DELL'INGLESE PER TUTTI INGLESE OBBLIGATORIO, VANTAGGIO PER L'ITALIA UNICA: PALAZZINA PER I PROFESSORI STRANIERI UNICA: CONFERMATO IL NUOVO STATUTO DELL’UNIVERSITÀ UNICA: LA FABBRICA DI CERVELLI (INDORMATICA D'ESPORTAZIONE) UNISS: PREMIATA DAL MINISTERO APPLICARE LA RIFORMA, MA SENZA PASTICCI INSEGNARE E APPRENDERE ANCHE SENZA TECNOLOGIA LA LINGUA NELLA TRAPPOLA DI POWERPOINT IULM, ANCORA TAGLI ALL' UNIVERSITÀ PRIVATA TELEMATICA, CON SARDEGNA.IT REGIONE PADRONA IL «FUSILLO» CHE MOLTIPLICA I CANALI LO SCIENZIATO PRECARIO CHE HA RIVOLUZIONATO IL WI-FI ANCHE L' EDUCAZIONE METTE LA TESTA TRA LE NUVOLE PAOLO SAVONA AD ALUNNI E DOCENTI DEL MARTINI: L’IMMAGINE DELLA SINDONE FRUTTO DI UNA RADIAZIONE" BRAND ITALIA: COME CI VENDIAMO ALL'ESTERO LA TECNOLOGIA CHE FA PROGREDIRE VIA AL COLLAUDO DEL RADIOTELESCOPIO DELLA SARDEGNA RSU PUBBLICO IMPIEGO, VINCE LA CISL ========================================================= AOUCA: MONTI CHIUDE IL SAN GIOVANNI AOUCA IL GRAN TRASLOCO ENTRO L’ESTATE AOUCA: SCREENING PER BATTERE IL TUMORE AOUCA: AL SGD LA MAMMOGRAFIA AL PIANO TERRA ASL, I MANAGER CHE SFORANO I BUDGET SARANNO LICENZIATI NEL CORSO INFERMIERI A NUORO POSSIBILI SOLO TRENTA ISCRIZIONI UNICA: A NUORO APRIAMO UN CENTRO DI SUPPORTO DIDATTICO SANITÀ TAGLIATA NELLE REGIONI IN ROSSO IN TOSCANA VALORIZZATI GLI INFERMIERI SANITÀ, ARRIVANO I MAC ADDIO AI DAY HOSPITAL LA NUOVA SANITÀ SECONDO VERONESI IN OSPEDALE CALANO I RICOVERI ORA LA RIFORMA DEL TERRITORIO UNA FOLLIA CURARE LE DONNE CON I FARMACI DEGLI UOMINI» IN EUROPA SONO IN CALO LE VITTIME DI TUMORI: LA CARRIERA DEL PRIMARIO CHE OPERAVA I MANICHINI G.FAA: TUMORI, BRILLA LA SARDEGNA RICERCA SULLE PROTEINE LISTER: IL METODO PER BLOCCARE I BATTERI IL CROMOSOMA MASCHILE È SALVO L' AGENZIA DEI TRAPIANTI AFFIDATA A UN DENTISTA I «FAGIOLI» IN MOVIMENTO CHE CONSERVANO I RICORDI QUANDO È GOOGLE E NON IL MEDICO A RIVELARCI SE LA MALATTIA È GRAVE IN PALESTRA BISOGNA SAPERE QUANDO PRENDERE FIATO COME L'ESERCIZIO MODIFICA IL DNA DEI MUSCOLI MANGIARE SENZA INGRASSARE? MENO ENDOCANNABINOIDI ÖTZI, PIÙ SARDO CHE MITTELEUROPEO PERCHÉ LA MARIJUANA PEGGIORA LA MEMORIA ========================================================= ____________________________________________ Il Manifesto 07 mar. ’12 ALMALAUREA: LO SPORCO LAVORO SUI CAMPUS Benedetto Vecchi Presentato a Roma il XIV rapporto di AlmaLaurea. Aumenta la disoccupazione intellettuale e la, precarietà tra i laureati. E diminuiscono vistosamente le iscrizioni e i salari per chi entra nel mercato del lavoro Generazioni senza futuro. Così è il destino pronosticato per i giovani con un'età compresa tra i 15 e i 24 anni. Diverso, ma non migliore, è invece il caso dei loro fratelli maggiori. Per loro il futuro è l'eterna ripetizione di un...presente marchiato a fuoco dalla precarietà. È questa la prima radiografia che emerge dal XIV rapporto sulla «condizione occupazionale dei laureati» condotto dal AlmaLaurea presentato ieri a Roma. Mai come quest'anno il cauto ottimismo che ha da sempre caratterizzato AlmaLaurea è messo così a dura prova. Se negli anni scorsi il consorzio interuniversitario ha sempre sottolineato i lenti progressi della modernizzazione della formazione universitaria avviata nel 2001 dal «Processo di Bologna», il nuovo rapporto non nasconde la crisi difficoltà di una realtà, quella università, che rischia di implodere per l'assenza di un progetto di ampio respiro che faccia della cultura e della ricerca il perno per risollevare le Sorti di un «sistema paese» in difficoltà, anche se sarebbe più opportuno parlare del suo declino. I dati diffusi ieri a Roma nella sede della conferenza dei rettori - il rapporto sarà discusso sempre a Roma, l'8 marza in un seminario nell'aula magna dell'Università La Sapienza, a partire dalle 10 - sono relativi agli sbocchi occupazionali, un osservatorio tuttavia importante per comprendere non solo il rapporto tra università e mercato del lavoro, ma anche della percezione dell',università come strumento di una mobilità sociale. Sul primo aspetto emerge una realtà dove la laurea non è da considerare il titolo di studio che automaticamente consente un ingresso nel mercato del lavoro adeguato alla formazione acquisita negli atenei. Allo stesso tempo, l'università non garantisce più la mobilità sociale, a partire dai salari o dai redditi percepiti e dalle mansioni effettivamente svolte. Cervelli, in libertà AlmaLaurea si sofferma sull'aumento della disoccupazione «giovanile», che ha avuto un'impennata dopo dopo il 2008, arrivando a toccare la percentuale record del 17,4 per cento nei paesi dell'Ocse per la fascia d'età dai 15 ai 24 anni (è del 7 per cento per la popolazione con più di venticinque anni). In Italia le percentuali sono di gran lunga superiori - un dato che emerge dai dati Istat parla del 31 per cento di disoccupati giovani , al punto che la cosiddetta «fuga dei cervelli» sta diventando una delle poche opportunità per i laureati di trovare un'occupazione adeguata al titolo di studio. Sia ben chiaro, rispetto ai laureati italiani, la percentuale di «cervelli in fuga» non ha subito un'impennata, ma quello che sta il rapporto mette in evidenza è la poca capacità attrattiva dell'Italia di «cervelli in libertà» di altri paesi. Il cosiddetto brain drain è in effetti molto al di sotto dei laureati italiani che scelgono di spostarsi in un altro paese. E viene altresì smentito anche il luogo comune del giovane italiano «mammone». Gran parte dei 400mila laureati, disseminati in 57 università, coinvolti nell'inchiesta affermano infatti che sono disposti a trasferirsi in altre città diverse da quelle di nascita. Altro dato che il rapporto mette in rilievo è che in Europa la crescita delle occupazioni «qualificate» crescono, mentre in Italia diminuiscono significativamente. E questo vale sia per le lauree triennali, che quelle specialistiche che quelle specialistiche a ciclo unico (medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza, tra le altre). Nell'ultimo anno, la quota di disoccupati con queste lauree passa dal 16,5 al 19 per cento. Altro elemento che emerge è la diffusione a macchia d'olio dei contratti di lavoro «non standard» tra i laureati. Il tempo indeterminato riguarda infatti il 42,5 per cento dei laureati, 4 punti in meno rispetto i dati del 2010. Le forme emergenti del lavoro «non standard» non sono molto diverse da quelle dominanti l'attuale mercato del lavoro made in Italy. a progetto, consulenza, collaborazione coordinata e continuativa, autonomo. Allo stesso tempo, AlmaLaurea non ha dubbi: la deregolamentazione del mercato del lavoro ha come conseguenza una riduzione vistosa dei salari. il vecchio, e logoro, luogo comune che la laurea sia sinonimo di alti salari viene radicalmente smentito dai dati del rapporto. Per chi entra nel mercato del lavoro, il salario medio è poco più di 1000 euro. E anche le lauree specialistiche non aiutano. La soglia dei 1100 euro viene superata da pochi laureati. Poco meglio vanno alcuni lavori - infermieri, ad esempio - dove è forte la domanda: qui i salari sono poco superiori a quelli di un avvocato o di un medico. A coronario del rapporto, i dati sulle differenze tra Nord e Sud, che non si discostano dalle statistiche riguardanti altre sfere della vita associata (consumi, etc...). E di quelle tra uomini e donne. Allo stesso tempo, AlrnaLaurea ricorda sommessamente, ma con forza che l'Italia è il paese dove gli investimenti pubblici nell'Università sono in caduta libera (1,26 per cento del prodotto interno lordo), mentre i fondi delle imprese per la ricerca e sviluppo sono risibili. Il rapporto di AlmaLaurea - da qui a pochi giorni disponibile nelle libreria per i tipi de 11 Mulino - definisce un affresco fosco dell'univer4à italiana Certo ci sono sempre riferimenti alle punte di eccellenza della formazione universitaria; così come sono confermati i giudizi cautamente ottimisti su come ha funzionato la riforma del cosiddetto «3+2», ma a differenza degli scorsi anni, il focus dell'analisi è posto su come nell'università italiana siano all'opera tendenza presenti al di fuori degli atenei. Da una parte, l'immagine di un paese in declino Parola mai usata dagli estensori del rapporto, ma che si fa strada tra la mole dei dati che il rapporto offre. Dall'altra il legame spezzato tra università e mobilità sociale. La formazione universitaria non garantisce più nessuna ascesa nella gerarchia sociale. Da qui una contrazione delle immatricolazioni, altro dato inquietante emergente dal rapportò di AlmaLaurea Questo non significa che l'iscrizione dell'iscrizione all'università riflette la divisione in classe della società. Semmai, emerge il fatto che i giovani che si iscrivono negli atenei sono spinti da un desiderio/volontà di accedere e partecipare alla produzione di quel «comune» chiamato conoscenza, sapendo benissimo che la laurea non è sinonimo di lavoro garantito e ben remunerato. Altro elemento che questo rapporto restituisce come nodo politico è il rapporto, tra università e mondo della produzione. Il Bric universitario L'obiettivo del «processo di Bologna», è noto, era di costruire le condizioni per ima società della conoscenza, cioè una forma di produzione della ricchezza dove la conoscenza, il sapere erano fattori indispensabili, per ogni paese europeo, di operare in un mondo fortemente competitivo. Quel progetto si è infranto sulla crisi economica, che sta ridisegnando le mappe del potere economico globale. Non è un caso che nella nota classifica delle università stilata a livello globale, le università europee, statunitensi devono vedersela con 1' appeal che sempre più hanno i campus cinesi, indiani, brasiliani Allo stesso tempo, i cosiddetti paesi del Bric (Brasile, Russia, India e Cina) stanno investendo moltissimo nella formazione universitaria, mentre le imprese, in questo caso indiane e cinesi, stanno da anni conducendo una campagna di acquisizione di knowhow, attraverso l'acquisto di imprese europee e statunitensi. Sono questi pochi accenni per segnalare che nella realtà italiana l'effetto congiunto della dismissione degli investimenti pubblici e il disinteresse delle imprese private mettono l'Italia ai margini di quel fenomeno comunemente chiamato delle global university e della circolazione dei cervelli. Nel primo caso, gli atenei diventano nodi centrali nella economia della conoscenza - produzione di sapere, sua codificazione in brevetti e copyright e commercio dei medesimi -, e di attrarre ricercatori, docenti e studenti in «fuga» dalla miseria della propria condizione - lavorativa e di studenti - nei paesi d'origine. Da questo punto di vista, il rapporto di AlmaLaurea è davvero specchio della realtà italiana en generai. Allo stesso tempo, mette infatti in evidenzia che è ormai riduttivo parlare dell'università come «mondo a parte». Le facoltà e gli atenei sono non solo luoghi di produzione della conoscenza, ma anche nodi di una rete produttiva che vede affiancati poli universitari, imprese e organismi statali. Ed è per questo che la realtà interessata da questo rapporto - i laureati - possono essere considerati come parte integrante della cooperazione sociale produttiva. Ed è per questo che in tempi passati, ma anche recenti abbiamo manifestato la loro indisponibilità ad essere ridotti a oggetti passivi. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 29 Feb. ’12 LA LEGA UNIVERSITARIA DELLE LAUREE TAROCCHE Dal «Valvola» al «Trota», nessuno quanto i lumbard esibisce tanti diplomi fantasma C hi va con lo zoppo, dice l' adagio, impara a zoppicare. Non può dunque stupire la storia delle lauree-fantasma del tesoriere leghista Francesco Belsito nella scia di un diploma taroccato preso a Frattamaggiore, Napoli, nella scuola «Pianma Fejevi» chiusa dopo un' inchiesta (restò coinvolto anche l' ex calciatore Franco Causio) sulla vendita di centinaia di attestati di maturità falsi. Prima dell' «uomo dei soldi in Tanzania», infatti, la storia del Carroccio era già stata segnata da «dottori», diciamo così, curiosi. Sia chiaro, vale anche per altri. Basti ricordare la «laurea ad honorem» che il pd «Mirello» Crisafulli scrisse sulla Navicella parlamentare d' avere ottenuto alla «Constantinian University» di Vattelapesca o quella del senatore Mauro Cutrufo, che si vanta di avere una «laurea honoris causa in Scienze Politiche presso la University of Berkley», sottomarca farlocca (non c' è solo una «e» di differenza) della vera Berkeley. Per non dire dell' ex ministro Mario Baccini, che dice d' essere «professore emerito di Relazioni internazionali all' Università Cattolica dell' Honduras Nostra Signora Regina della Pace». Nessun partito quanto la Lega, però, negli ultimi anni, ha fatto registrare tante carriere universitarie «eccentriche». Come quella di Claudio Regis, l' ex-senatore detto «Valvola» per i trascorsi di elettricista, piazzato dal Carroccio ai vertici dell' Enea: diceva di essere ingegnere elettronico e si firmava «Ing. Regis» e si vantava di avere studiato alla École Polytechnique di Friburgo. Si mise nei guai dando del somaro al premio Nobel Carlo Rubbia fino ad essere smascherato e infine condannato a un anno e nove mesi per «sostituzione di persona e truffa». Non meno divertente è la vicenda della leghista bresciana Monica Rizzi, che era assessore regionale lombarda ai Giovani e allo Sport e tale è rimasta, incredibile ma vero, anche dopo l' apertura di un' inchiesta giudiziaria per «abuso di titolo» dato che la signora, protagonista di una fuga indimenticabile davanti alle telecamere delle Iene, non aveva affatto la laurea in psicoterapia infantile che avrebbe esibito nel suo curriculum al Pirellone. E come dimenticare la carriera scolastica di Renzo «Trota» Bossi, bocciato e ribocciato e ribocciato ancora all' esame di maturità? In un' indimenticabile intervista a Vanity Fair nella quale se la tirava un po' da intellettuale dicendo di vedere la storia come «una sinusoide, una curva che si ripete», rivelò: «Sono iscritto all' università, a Economia. Non dico dove, ma non in Italia, perché non voglio trovarmi i giornalisti in aula quando faccio gli esami». Resta un mistero: dov' è ' sta misteriosa università? E la maturità dove l' ha presa se al ministero non risulterebbe? In ogni caso, stia tranquillo: i suoi elettori son di bocca buona. Anche il papà, che non ha fatto una piega per il diploma taroccato di Belsito, è riuscito a diventare ministro dopo essere stato immortalato in un' intervista a Sette di sua sorella Angela: «L' Umberto! Le ha mangiate le mie bistecche! Oh! Stiamo parlando di uno che ha organizzato tre feste di laurea senza essersi mai laureato!». RIPRODUZIONE RISERVATA Stella Gian Antonio ____________________________________________ Il Manifesto 07 mar. ’12 UN MESTO SPARTITO PER ATENEI A BASSA QUALITÀ Roberto Ciccarelli Quello che è diventata l'università è sotto gli occhi di tutti: un'organizzazione burocratica, sempre più specialistica e compartimentata, che non solo non intende creare un campo della trasformazione nella trasmissione delle culture o nella formulazione dei saperi, ma annulla ogni forma di libertà di pensiero al suo stato nascente. Con una parodia del linguaggio importato nella strutturazione dei corsi, o nella valutazione bibliometrica della ricerca, possiamo dire che il «format» del prodotto accademico mira a rinsaldare la filiera del lavoro padronale, sottopagato, servile. Come sempre, l'università è lo specchio della società in cui vive, e affonda. Diamo un supporto informativo a queste considerazioni che, sempre più spesso si ascoltano tra chi lavora nell'università con un minimo spirito critico. Leggiamo il libro che Francesco Coniglione, docente di storia della filosofia a Catania, uno degli animatori del sito-rivista Roars.it, irrinunciabile lettura quotidiana per chi vuole sul serio riformare l'università italiana. In Maledetta università (Di Giro-- 1am°, pp. 155, euro 9,90) Coniglio- ne dimostra con accuratezza statistica e pazienza metodologica, come l'università dí massa incentrata sul concetto di istruzione pubblica sia stata trasformata in un ente formativo-professionalizzante, che mira a scalzare la vecchia idea della «formazione professionale» o dell'«apprendistato» di un mestiere con il linguaggio chic del management professorale al governo (ogni riferimento alla «riforma» Fomero è puramente casuale). Questa analisi impietosa contempla anche un paradosso tutto italiano: le riforme che dal 1989 ad oggi, cioè dalla legge «Ruberti» alla «Gelmini», hanno ridotto L’università ad uno spartito per commercialisti sono state accompagnate da un progressivo e inarrestabile taglio di fondi all'intero settore della formazione, della conoscenza e della ricerca. I fondi investiti dal Miur sono infatti il 19,3% di quello che negli Stati Uniti riceve la sola università di Harvard. La scuola, invece, riceve meno risorse rispetto a tutti gli altri paesi Ocse. Leggere per credere. Il combinato disposto tra i tagli, e l'implosione di un sistema che è ultimo nella speciale classifica dei laureati, e perde 43 mila iscritti all'anno dal 2003, ha creato una "crisi cognitiva" che si riflette perfettamente nel «dibattito» (si fa per dire) sul mercato del lavoro. Al termine all'agonia della «società della conoscenza», quella presente nelle retoriche dominanti, non quella che vive nel capitalismo informazionale che ci governa, destra e sinistra hanno perso ogni considerazione sull'importanza, e la civiltà, della formazione complessiva delle intelligenze. Questo avviene perché l'istruzione, e soprattutto l'auto-formazione, è da sempre servita a difendersi dal ricatto del «mercato del lavoro», oltre che dalla violenza sociale diffusa. Se la scuola e l'università moderne hanno avuto un senso, è stato questo. Da vent'anni provano a distruggerlo, offenderlo, occultarlo. Forse non è ancora troppo tardi per dire che quel filo può essere ripreso. Ci sarebbe da augurarselo, con l'autore di questo libro, ma l'università non è più il luogo della resistenza, e tanto meno dell'innovazione sociale Ammesso che lo sia mai stato, oggi è giunto il momento di guardare altrove. ____________________________________________ Italia Oggi 07 mar. ’12 IL MANTRA INDISCUSSO DI POCHI LAUREATI IN. ITALIA Nel commentare i dati di Almalaurea che dicono che la disoccupazione dei giovani laureati è in aumento, il direttore dell'istituto, Andrea Cammelli, si è lasciato 'andare alla stessa solfa. Ha infatti detto che «Italia è l'unico paese in controtendenza perché ha una percentuale di laureati modesta rispetto alla media Ocse». Questo può essere statisticamente vero, ma è anche fattualmente fuorviante. Non è perché gli altri sono incamminati su una brutta china che noi dobbiamo seguirli. Cammelli prosegue dicendo che si deve «affrontare in modo deciso la valorizzazione del capitale umano, non facendosi carico di quanti, anche al termine di lunghi e faticosi processi formativi, affrontano crescenti difficoltà a progettare il proprio futuro» Cammelli non tiene conto della nuova fase nella quale, per motivi di bilancio, la pubblica amministrazione non può più permettersi di assorbire à gogo i laureati (non importa in che cosa). I laureati debbono essere utili. Non c'è più spazio per le decine di migliaia di laureati in sociologia che, non trovando alcun sbocco, riuscirono nell'obbrobrio dell'equiparazione, ai fini del pubblico impiego, della loro laurea a quella in giurisprudenza. E poi che significa contare i laureati senza andare a vedere in che cosa e come? Siamo sicuri che siano occupabili decine di migliaia di laureati in scienze della comunicazione, per esempio? E se non trovano un posto alla «fine di faticosi processi formativi» è colpa del sistema o è colpa loro e degli insegnanti che li hanno illusi avendo loro, sì, garantito un posto ben retribuito? In Italia si sono sviliti gli istituti tecnici (con i preziosissimi ragionieri, geometri, periti industriali). Oggi, un diplomato si sente uno spostato: se non fa almeno una laurea triennale si sente out. E, conseguita questa, perché non fare anche il successivo biennio? Ma, dopo questo, per emergere, ci vuole almeno un master biennale. In tal modo, si sprecano sui banchi gli anni più produttivi, in un delirio da metastasi universitaria. Su questo numero, a pag. 16, è riportata la vicenda della scuola per operatori della calzatura voluta, a sue spese, da Enrico Bracalente, il patron di Nero Giardini. Alla fine dei due anni è garantito il posto sicuro per chi avrà superato il corso. E il presidente della Camera di commercio di Piacenza, l'ing. Seppe Parenti, ha dovuto impuntarsi per riuscire a finanziare, nella Food valley padana, una scuola per norcini altamente specializzati e sommamente richiesti. Altri puntavano sul master dei futuri disoccupati. Il master non garantisce l'occupazione ma fa molto più fino. Vuoi mettere? _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Mar. ’12 UNIVERSITÀ, ARRIVA L'«ACCREDITO» Istruzione. In vista valutazione di sedi e corsi per migliorare qualità ed efficienza dell'offerta: parola all'Anvur Parametri in 120 giorni: entro un mese prima bozza per la consultazione Gianni Trovati MILANO Entro un mese la diffusione della bozza con i parametri per l'accreditamento dei corsi di laurea, per avviare una consultazione allargata a tutto il mondo accademico e arrivare entro sei mesi ai criteri definitivi. È il piano di lavoro dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario per far partire la macchina dell'accreditamento, il nuovo sistema disciplinato dal Dlgs 19/2012, attuativo della riforma Gelmini e pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 57 di giovedì. Per poter attivare l'offerta formativa, gli atenei dovranno ottenere per ogni sede e per ogni corso di laurea il «patentino» iniziale, basato sull'analisi delle strutture (aule, laboratori, biblioteche) e delle dotazioni organizzative (per esempio numero di docenti di ruolo e, in linea con i «requisiti necessari» ideati qualche anno fa, la trasparenza sull'offerta formativa e gli sbocchi occupazionali). Il «via libera», però, non sarà per sempre, ma dovrà essere rinnovato ogni cinque anni con l'accreditamento «periodico». Questo secondo «movimento» arricchisce il panel di parametri di valutazione, perché si dovrà concentrare anche sul grado di raggiungimento degli obiettivi nella didattica, nella ricerca, e nell'organizzazione, mettendo sotto esame anche le «performance individuali» dei singoli docenti. Il decreto pubblicato in «Gazzetta» fissa i binari della valutazione, prevedendo per esempio che gli indicatori seguano le linee guida fissate dall'Associazione europea per la qualità del sistema universitario (Ehea), ma l'architettura va ora riempita di contenuti. «È un lavoro complesso – riflette Sergio Fantoni, presidente dell'Anvur – che abbiamo avviato e che proprio per la sua ampiezza va prima condiviso con il mondo accademico, come abbiamo fatto recentemente per i criteri di valutazione della ricerca». È di poche settimane fa, infatti, l'avvio ufficiale del nuovo programma Vqr, destinato a passare al setaccio nei prossimi mesi 200mila prodotti di ricerca che saranno analizzati da 450 revisori, distribuiti in 14 commissioni tematiche, per rinnovare il panorama disegnato dall'ultima valutazione risalente al 2001-2003. Il meccanismo dell'accreditamento previsto dal decreto attuativo della riforma Gelmini, come accennato, opera su più piani, e non si rivolge solo al futuro perché l'ok va ottenuto anche dalle sedi e dai corsi di laurea già esistenti. A definire il calendario della valutazione del mondo accademico già attivo sarà sempre l'Anvur, entro 120 giorni. Per le nuove sedi e i nuovi corsi, invece, sarà l'ateneo a fare richiesta, ottenendo risposta nei successivi 120 giorni. Il meccanismo prevede una «dialettica» tra ministero e Anvur, perché il Governo potrà "contestare" le decisioni dell'Agenzia e chiedere una rivalutazione della risposta (positiva o negativa): il secondo parere, che deve arrivare entro un mese dall'istanza ministeriale, è però definitivo. Il tratto più innovativo del meccanismo messo in campo dal decreto è la sua continuità, che con gli accreditamenti periodici intende mettere sotto esame costante l'intera offerta formativa degli atenei. «Questa attività – sottolinea Fantoni – procederà su un doppio livello: essenziale sarà l'autovalutazione degli atenei, che ogni anno dovranno esaminare i vari elementi che saranno previsti dai criteri di valutazione, ma a questo si affiancheranno le visite in loco da parte dell'Agenzia. Il programma farà in modo che ogni cinque anni le visite tocchino tutte le università italiane». Per questa ragione, anche i nuclei di valutazione interna saranno coinvolti nella fase preliminare di consultazione, per condividere le metodologie e i dati su cui fondare i controlli annuali. Nel processo, in prospettiva, andranno coinvolti anche gli studenti, in due modi: con le «commissioni paritetiche», incaricate di avanzare proposte per il miglioramento dell'efficienza, e con la rilevazione dei risultati della didattica. gianni.trovati@ilsole24ore.com Le novità in dettaglio 01|IL PROVVEDIMENTO Con il decreto legislativo 19/2012, al fine di incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario, si introducono un sistema di accreditamento delle sedi e dei corsi di studio e uno di valutazione della qualità, dell'efficienza e dell'efficacia della didattica e della ricerca. Inoltre viene potenziato il meccanismo di autovalutazione della qualità e dell'efficacia delle attività didattiche e della ricerca 02|AMBITO I nuovi strumenti si applicano alle istituzioni universitarie italiane, statali e non, inclusi gli atenei a ordinamento speciale e le università telematiche. Sono applicate solo alle università statali, però, le disposizioni relative ai risultati conseguiti. È previsto, infatti, che ogni anno una percentuale del Fondo di finanziamento ordinario delle università sia ripartita tra gli atenei in relazione ai risultati conseguiti nella didattica e nella ricerca 03|ACCREDITAMENTO Il sistema di accreditamento periodico riguarda le sedi e i corsi di studio e punta a verificare i requisiti di qualità, efficienza ed efficacia delle attività svolte. L'accreditamento ha periodicità almeno quinquennale per le sedi e almeno triennale per i corsi di studio e si basa su indicatori messi a punto dall'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). Tali indicatori dovranno essere definiti in coerenza con gli standard e le linee guida stabiliti dall'Associazione europea per l'assicurazione della qualità del sistema universitario. Saranno pubblicati sui siti internet del ministero dell'Istruzione, dell'Anvur e dei singoli atenei e dovranno essere aggiornati con cadenza almeno quinquennale (sedi) o triennale (corsi) 04|VALUTAZIONE PERIODICA L'Anvur definirà anche criteri e indicatori per la valutazione periodica dell'efficienza, della sostenibilità economico-finanziaria delle attività e dei risultati conseguiti dalle singole università nell'ambito della didattica e della ricerca e per l'assicurazione della qualità degli atenei. Criteri e indicatori, elaborati in coerenza con le indicazioni dell'Associazione europea per l'assicurazione della qualità del sistema universitario, devono tenere conto di alcuni aspetti, tra cui l'applicabilità su tutto il territorio, la capacità di riflettere le attuali tendenze di aggregazione dei corsi e delle strutture. I parametri saranno revisionati ogni tre anni. L'attività di monitoraggio sarà effettuata dall'Anvur secondo modalità stabilite dalla stessa agenzia 05|AUTOVALUTAZIONE I nuclei di valutazione interna delle università effettuano un controllo annuale sull'applicazione dei criteri e degli indicatori di valutazione periodica ____________________________________________ Il Sole 24Ore 09 mar. ’12 ATENEI, CON IL BILANCIO UNICO: ARRIVA LA PROGRAMMAZIONE di Tommaso Agasisti e Giuseppe Catalano Dopo un processo durato più di un anno, il decreto delegato 18/2012 che introduce la contabilità economico-patrimoniale e il bilancio unico nel sistema universitario è stato , pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale. Vent'anni dopo la riforma del, sistema di finanziamento degli atenei (che sancì la loro autonomia finanziaria), questo provvedimento può portare un'ulteriore, importante innovazione. Aldilà degli aspetti puramente tecnici, il decreto (che attua una disposizione della legge Gelmini) prevede due cambiamenti radicali, che saranno introdotti entro ili °gennaio 2014: il passaggio dalla contabilità finanziaria di tipo pubblico a una economico-patrimoniale (Cep) di tipo civilistico e l'adozione del bilancio unico in luogo dei molteplici bilanci autonomi dei dipartimenti e degli altri centri autonomi. La modalità di definizione delle nuove regole è stata innovativa e partecipata: il decreto ed i successivi provvedimenti attuativi sono stati definiti dal Governo a partire dal lavoro di un gruppo di esperti, rappresentanti dei ministeri dell'Università e dell'Economia e funzionari e dirigenti di diverse università statali e non. Alcune di esse, come la Bocconi e la Cattolica di Milano, già utilizzano da tempo la Cep. Il vantaggio di tale tipologia di contabilità è che è in linea con quella adottata negli ultimi anni in più ambiti del comparto pubblico di diversi Paesi europei, sotto la spinta del New public management. Si può così valutare l'impatto economico e patrimoniale degli eventi gestionali in un'ottica pluriennale e non solo nell'anno corrente (come avviene oggi). Una buona notizia, ora che la valutazione dell'efficienza e dell'efficacia della spesa pubblica è irrinunciabile. Inoltre, regole contabili e schemi di bilancio comuni faciliteranno la comparazione tra proventi e costi delle diverse università, migliorando nettamente la trasparenza del sistema. E importante ricordare che dagli anni Novanta le università hanno goduto di un'autonomia contabile che si è tra dotta in procedure del tutto eterogenee: una vera babele. D'ora in poi, l'autonomia degli atenei resterà solo sulle scelte gestionali La Cep consentirà di conoscere e valutare il patrimonio e potrà favorire un suo migliore e utilizzo nelle attività didattiche e di ricerca. Risultati già ottenuti da alcune università statali, come quelle di Trento e di Camerino, oltre che dal Politecnico di Torino. Il più significativo cambiamento, comunque, è legato all'adozione del bilancio unico. Oggi, il bilancio di un ateneo è ìl risultato di una sommatoria di bilanci, tra loro indipendenti, realizzati dai singoli dipartimenti. Le conseguenze di tale frammentazione sono diverse: dall'ingovernabilità della gestione contabile (che si articola in numerose procedure difformi tra loro, secondo le scelte contabili dei dipartimenti) all'impossibilità di monitorare l'insieme dei conti dell'ateneo, se non ad esercizio finanziario terminato e dopo, lunghe e complicate procedure di consolidamento interno. Ma, soprattutto, il processo di programmazione e oggi frammentato. E, in ogni caso, non gestito dalla amministrazione di ciascun ateneo. Il passaggio a un , bilancio unico d'ateneo è destinato a modificare questa situazione. Infatti, pur salvaguardando l'autonomia dei dipartimenti (condizione indispensabile per il buon funzionamento delle organizzazioni universitarie), il processo di programmazione sarà governato complessivamente. Le strategie dell'ateneo saranno definite unitariamente e ogni dipartimento riceverà un budget delle risorse pubbli7 che potrà gestire con ampi margini di autonomia insieme alle risorse derivanti dalla propria capacita di autofinanziamento. In questo modo, i rettori e i consigli di amministrazione potranno assicurare una gestione unitaria e trasparente di tutte le risorse economiche, finanziarie e patrimoniali che sono a disposizione della propria organizzazione. Insomma, questo provvedimento di natura molto tecnica potrà avere, auspicabilmente, un effetto positivo sulla governance delle risorse degli atenei. Di conseguenza, potrà contribuire al miglioramento dei risultati della gestione. *Politecnico di Milano **Università La Sapienza _____________________________________________________________ SardiNews 29 Feb. ’12 PIÙ RISORSE E FONDI COMPETITIVI PER UN'UNIVERSITÀ MIGLIORE di Sergio Paba I migliori sistemi universitari del mondo sono caratterizzati da una grande varietà di istituzioni accademiche, che rispondono a una domanda di formazione variegata e in continua evoluzione e a diverse esigenze in termini di ricerca. Corsi di laurea, di master, di dottorato, alto apprendistato, corsi per la formazione continua (lifelong learning) si rivolgono a diverse tipologie di studenti e di domanda del mercato del lavoro. La ricerca di base, altamente competitiva e che opera su scala internazionale, è distinta dalla ricerca funzionale allo sviluppo economico e sociale delle regioni di riferimento degli atenei. Il trasferimento tecnologico non ha la stessa rilevanza in tutti i contesti locali. La missione dei singoli atenei non è ovunque la stessa. In Italia si continua spesso a ragionare come se tutti gli atenei debbano essere eguali, tutti ugualmente vocati alla ricerca e alla didattica a tutti i livelli, dai corsi di laurea alle scuole di dottorato, dalla ricerca di base al trasferimento tecnologico. Questo crea inevitabilmente dispersione delle risorse umane e finanziarie, ostacola la formazione di veri centri di eccellenza e con una adeguata massa critica di ricercatori, disincentiva la mobilità degli studenti e dei docenti, che dovrebbero in teoria distribuirsi, in base alle loro attitudini e capacità, nelle istituzioni che meglio possono valorizzare le loro caratteristiche. La mancata differenziazione degli atenei fa in modo che tutti tendano a fare un po’ di tutto, in maniera spesso mediocre e senza guadagnare un vero vantaggio competitivo in alcun settore di attività universitaria. A livello nazionale, il risultato più evidente di questa impostazione è la difficoltà a fare emergere chiaramente un gruppo di atenei che possano competere ad armi pari sullo scenario europeo e internazionale. Per fare un esempio, nell’ultima survey annuale delle migliori università mondiali curata dalla Shanghai Jiao Tong University (ARWU 2011), tra i primi 200 atenei al mondo figurano 19 università britanniche, 14 tedesche, 8 francesi e solo 4 italiane, nessuna delle quali tra le prime cento. Come fare emergere università competitive a livello mondiale? Volgendo lo sguardo ai principali Paesi europei, almeno due sono le strade possibili. La Germania ha varato nel 2005 il German Excellence Initiative, con l’obiettivo di promuovere le migliori istituzioni universitarie e della ricerca. Il piano è stato finanziato con 1,9 miliardi di euro in 5 anni. Dopo un attento processo di valutazione, sono state premiate 9 università, 39 scuole di dottorato, 37 reti di eccellenza nella ricerca. Il programma è stato recentemente rifinanziato con 2,7 miliardi fino al 2015. In maniera simile, il governo Sarkozy ha varato di recente un programma ambizioso, l’Initiative d’Excellence, che mira a creare una Ivy League francese di non più di cinque-sette università di livello mondiale con un investimento ingente: 7,7 miliardi di euro. Entrambe queste esperienze prevedono un processo di selezione fortemente dirigista: il lavoro è svolto da un apposito comitato di valutazione internazionale nominato centralmente dal governo. Un’altra strada è quella seguita dalla Gran Bretagna. In questo caso l’emersione di un gruppo di atenei di eccellenza è stata facilitata da un processo di allocazione delle risorse fortemente concorrenziale. La distribuzione del fondo annuale di finanziamento delle università, l’analogo del nostro Ffo (Fonfi finanziamento ordinario), prevede infatti che una quota pari a circa il 23-25 per cento del totale venga distribuita sulla base della valutazione della ricerca operata periodicamente da una agenzia pubblica e indipendente, il Rae (Research Assessment Excercise). L’esito è una distribuzione dei finanziamenti fortemente asimmetrica: le università con i migliori gruppi di ricerca ottengono grandi finanziamenti, e questo a sua volta le mette in grado di concorrere con successo per i fondi messi a disposizione da agenzie nazionali di ricerca pubbliche e private e dalle istituzioni europee. In generale, ben tre quarti dei finanziamenti alla ricerca disponibili in Gran Bretagna vengono allocati attraverso bandi aperti e competitivi, un processo che favorisce la competizione tra gli atenei e consente ad un gruppo ristretto di istituzioni universitarie di affermarsi con successo in campo internazionale. Come è la situazione in Italia? La legge 1/2009 ha introdotto per la prima volta una quota premiale nella distribuzione dei fondi Ffo non inferiore al 7 per cento del totale. I premi vengono distribuiti sulla base di alcuni indicatori calcolati dal Ministero e relativi alla qualità della ricerca e della didattica e ai risultati dei processi formativi. Sono stati distribuiti circa 500 milioni di euro nel 2009 (7,4 del Ffo), 720 milioni nel 2010 (10,8), 830 milioni nel 2011 (12,8 per cento). Tre riflessioni su questa esperienza. Primo, il processo di valutazione è ancora basato su indicatori troppo approssimativi. La recente istituzione dell’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione dell’università, dovrebbe tuttavia ovviare in futuro a questo problema con l’avvio di un sistema di valutazione condotto secondo standard internazionali di peer-review. Secondo, l’ammontare delle risorse in gioco è decisamente troppo basso per avere un effetto incentivo rilevante all’interno degli atenei e per spingerli a politiche di reclutamento e distribuzione delle risorse maggiormente orientate al merito e alla qualità. Terzo, non è possibile avviare un processo di selezione virtuoso se nel frattempo si comprimono i bilanci degli atenei. Le risorse finora allocate, infatti, non sono aggiuntive al Ffo ma sono sottratte all’ammontare complessivo e redistribuite tra gli atenei. Questo meccanismo è aggravato dal fatto che l’intera operazione è partita in un quadro di consistenti tagli generalizzati al Ffo operati dal precedente governo (rispetto al 2008, il Ffo del 2011 è minore dell’8 per cento in termini nominali). Più in generale, l’ammontare di risorse a disposizione per la ricerca universitaria è troppo limitato e i bandi aperti e competitivi sono in Italia estremamente ridotti. Secondo alcune stime, questi ultimi riguardano non più di un quarto dei finanziamenti complessivi alla ricerca diversi dal Ffo contro i due terzi della Gran Bretagna. Nel finanziamento della ricerca, prevalgono troppo spesso logiche locali di distribuzione dei fondi o pressioni di gruppi d interesse, con scarsa attenzione alla qualità dei progetti. In conclusione, il futuro della ricerca italiana è anche legato a una chiara articolazione del sistema universitario. Per fare emergere un insieme ristretto di atenei di livello internazionale è difficile che si possa seguire una politica dirigista, come in Francia e Germania. Date le inevitabili pressioni politiche e istituzionali a livello locale e regionale, nessun governo si assumerebbe la responsabilità di individuare a tavolino un insieme di atenei di eccellenza. Rimane la strada più indiretta, ma anche più lenta nei suoi effetti, dell’articolazione nel tempo del sistema universitario attraverso un chiaro processo di allocazione competitiva delle risorse, soprattutto quelle destinate alla ricerca. Da questo punto di vista, il recente bando di finanziamento dei progetti Prin e Firb promosso dal ministro Profumo costituisce un passo indietro sulla strada della libera competizione e del merito, introducendo un meccanismo di allocazione che ricorda le precedenti distribuzioni “a pioggia” dei fondi di ricerca. In ogni caso, per incidere davvero occorrono adeguati finanziamenti aggiuntivi destinati al sistema universitario. Il governo Monti ha bloccato la stagione dei tagli al FFO e ha varato un piano per il reclutamento degli associati: è un buon segnale, ma occorre andare avanti. Date le condizioni del bilancio pubblico e la crisi economica, è un momento difficile per porre il tema delle risorse sul tappeto. Ma parlare di politiche di crescita significa parlare anche di ricerca e università. E’ un pro-memoria, se non per questo, per il governo futuro. ____________________________________________ L’Unità 09 mar. ’12 NICOLAIS: IL PRECARIATO AZZOPPA LA RICERCA Il neo presidente del Cnr avverte: senza soldi, laboratori, stipendi sicuri non si può fare nulla. «Un Paese come l'Italia, basato sulla piccola e media industria, ha bisogno dell'innovazione sperimentata negli enti pubblici» CRISTIANA PULCINELLI cristiana.pulcinelli@gmail.com Il Cnr è nato molti anni fa come un ente in cui si svolgeva ricerca di base e applicata. E questo è ancora il suo ruolo. Oggi rappresenta una grande opportunità per il Paese perché vi lavorano 8000 persone, di cui oltre 4000 sono ricercatori e tecnologi. Insieme formano una massa critica interessante che opera in vari settori. L'importante è che interagisca di più con l'università, con l'impresa e con altri enti pubblici». È un Cnr legato al passato ma proiettato al futuro quello che immagina Luigi Nicolais, ingegnere chimico nominato meno di un mese fa presidente del più grande ente di ricerca del nostro paese al posto del ministro Profumo. Fresco di nomina, lei ha affermato: «Darò il mio contributo per ridurre la burocrazia, aumentare l'efficienza e consolidare la fiducia». Concretamente cosa pensa di fare? «Prima di tutto bisogna dematerializzare. Evitare, cioè, che i ricercatori debbano usare il loro tempo per scrivere carte che servono solo a fini burocratici. I controlli vanno fatti, ma si deve rendere più snello il sistema. Un'altra cosa che voglio fare è costruire una biblioteca virtuale centralizzata in cui ogni ricercatore possa avere accesso immediato a qualsiasi rivista. In questo modo i singoli istituti non dovrebbero più abbonarsi alle riviste scientifiche, si eviterebbero doppioni e si ridurrebbero i costi. Non tutti sanno che un abbonamento a una rivista scientifica costa anche migliaia di curo all'anno». Lei parla di incentivare le relazioni con le imprese. Qual sono oggi queste relazioni? «In alcuni settori sono già buone. Credo però che vadano incentivate sia perché non ci sono fondi pubblici a sufficienza per poter fare ricerca basandosi solo su quelli, sia perché il trasferimento della ricerca sviluppata nei laboratori sarebbe utile a tutti». Non le sembra che l'industria italiana sia poco interessata alla ricerca? «Questo dipende dalla dimensioni delle nostre imprese. In Italia ci sono per lo più piccole e medie imprese che non possono fare ricerca come le grandi, ma possono assorbire le conoscenze dagli enti di ricerca per fare innovazione. Qui gioca un ruolo importante il Cnr. Solo finanziando la ricerca pubblica sviluppata nei nostri laboratori e valorizzando i risultati potremo offrire alle imprese reali possibilità di innovazione e competitività». Cosa pensa del bando Prin 2010 e del fatto che vi possono accedere solo le università e non gli enti di ricerca? «Abbiamo fatto da poco una riunione con il ministro proprio su questi temi. Il fatto è che gli enti di ricerca devono interagire di più con le università e lo devono fare alla pari. Le norme esistenti non prevedono questa osmosi, per ottenerla dobbiamo cambiare le regole. Credo che sarebbe un bene per tutti. Gli enti di ricerca avrebbero il vantaggio di entrare in contatto con i giovani delle università che sono una spinta importante alla ricerca; l'università avrebbe accesso a grandi laboratori con apparecchiature moderne e molti ricercatori». Abbiamo parlato dei rapporti con l'impresa e con l'università. E con la politica? «Uno dei problemi del nostro Paese è che noi ricercatori non abbiamo molto curato la nostra immagine nella società. Per anni abbiamo pensato che dovevamo fare le nostre ricerche senza confonderci con chi non sapesse di scienza. Invece, oggi abbiamo capito quanto sia importante avere credibilità nella società. La politica è lo specchio della società: se i cittadini si convincono che la ricerca è centrale, il politico si deciderà a finanziarla. Dobbiamo scendere dalla torre d'avorio e interagire con i cittadini e con i politici. Naturalmente però la politica non deve né condizionare né orientare la ricerca, che deve essere sempre autonoma, indipendente, libera. Discutere su quello che lo scienziato può o non può fare è un errore: non si può limitare l'attività creativa del ricercatore, ma solo l'uso dei risultati». E la valutazione all'interno della comunità scientifica? «È essenziale. Noi siamo abituati ad essere valutati: il ricercatore che pubblica su riviste internazionali è continuamente sottoposto a giudizio, ma quando la valutazione diventa sistema ci preoccupa. Forse perché in Italia, da un punto di vista culturale, la valutazione è vista come punizione. Nel mondo anglosassone valutazione significa possibilità di crescita. Quando insegnavo negli Usa, tutti gli anni venivo valutato dai miei studenti ed ero contento perché mi aiutava a migliorare. Bisogna cambiare la mentalità. Del resto, senza valutazione non c'è autonomia ma solo caos». Come si scelgono i settori strategici su cui investire? «Il programma Horizon 2020 già ci dà indicazioni sulle strategie del sistema Europa. Noi dobbiamo capire in quali aree siamo maggiormente attrattivi e competitivi. E lo siamo sicuramente, per esempio, nelle biotecnologie e nella meccanica di precisione: in questi settori possiamo continuare a lavorare. Ma non possiamo inventarci oggi delle competenze dal nulla o ripescarle da un passato dismesso. Ad esempio, la ricerca sul nucleare è stata abbandonata dal nostro Paese anni orsono, tornarci oggi non sarebbe adeguato. Ma bisogna stare attenti perché se ci muovessimo solo nella direzione indicata dalle strategie europee e non lasciassimo anche spazi alla ricerca spinta dalla curiosità, rischieremmo di essere pronti sul breve ma non sul medio lungo periodo. Una parte dei finanziamenti va assicurata a giovani che vogliono fare ricerche al di fuori dei settori strategici». A proposito di giovani, come possiamo far loro ritrovare la voglia di scegliere la scienza come lavoro? «Altri Paesi come la Finlandia o il Canada hanno cominciato dalla scuola primaria: insegnare la bellezza di trovare qualcosa di nuovo, far sviluppare la curiosità, sono essenziali per il ricercatore. Lo scienziato è uno che riesce a pensare l'inimmaginabile. Va quindi sviluppata l'attività creativa. Ma non basta: bisogna creare una filiera attenta alla ricerca, dalla scuola primaria all'impresa». Eppure nelle imprese del nostro Paese, dice l'indagine europea sull'innovazione pubblicata recentemente, ci sono pochi laureati. Come mai? «Il problema è sempre la dimensione: la percentuale di laureati nelle grandi imprese è più alta, diminuisce invece in quelle medie e piccole. In generale, vale la regola che in un Paese più laureati ci sono, meglio è. Quindi va sicuramente incentivato l'ingresso nelle università. Di conseguenza vanno incentivate e favorite le attrazioni e gli insediamenti di grandi imprese a forte base di conoscenza capaci di assorbirli adeguatamente nei loro organici e garantire loro un successo professionale ed umano. Come del resto hanno fatto e stanno facendo i Paesi emergenti, India, Singapore, Corea del Sud, Brasile e Cina». Lei ha scritto che oggi creatività e vocazione non bastano più per fare scienza. Cos'altro ci vuole? «Ci vogliono condizioni al contorno adeguate. Senza soldi, laboratori, stipendi sicuri non si può fare nulla. Perché tutti sono pronti ad accettare un periodo di precariato, ma dire che in queste condizioni si produce meglio non è vero».• _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 9 Mar. ’12 LA RICERCA CLINICA RALLENTA Università e ricerca. Crisi ed eccesso di burocrazia ostacolano soprattutto le iniziative no profit Servono regole omogenee per valutare studi e finanziamenti Sara Todaro Cresce la qualità delle sperimentazioni farmaceutiche cliniche realizzate in Italia, ma la crisi taglia le gambe agli studi. E c'è il rischio che a rimetterci sia l'attività realizzata da ricercatori indipendenti o da strutture sanitarie, ospedaliere, universitarie o singoli professionisti, soprattutto nei settori trascurati dalla ricerca d'impresa: tra il 2010 e il 2009 gli studi del settore no profit sono diminuiti del 26%, passando dai 309 del 2009 ai 229 dell'anno seguente. A lanciare l'allarme, sollecitando interventi rapidi a sostegno di un settore «fuori dalle logiche di mercato» è stata la Società scientifica di medicina interna Fadoi, nel corso di un convegno concluso ieri a Roma. Sotto la lente degli esperti, i dati del X Rapporto nazionale 2011, pubblicato dall'Osservatorio sulla sperimentazione clinica dei medicinali dell'Aifa. Il report analizza gli ultimi cinque anni di attività segnalando per il 2010 una ulteriore flessione del 12,2% di tutti gli studi realizzati in Italia, analogamente a quanto accaduto nel resto d'Europa: su un totale di 4.193 trials, l'Italia ha contribuito con 660 studi clinici pari al 15,7% e con un 21,8% di pazienti arruolati (contro il 17,9% del 2006). Uno stato di sofferenza che sembra interessare di più la ricerca promossa da istituzioni no profit: in Italia gli studi non sostenuti da interessi commerciali sono uno su tre, in Europa uno su cinque. Secondo gli esperti, la nuova impasse è un campanello d'allarme che non può essere trascurato: «La ricerca indipendente svolge un ruolo importantissimo sul fronte della sanità pubblica perché mira al miglioramento della pratica clinica dell'assistenza sanitaria», ha spiegato il presidente Fadoi, Carlo Nozzoli. Gli esperti hanno ribadito la loro ricetta anticrisi: regole omogenee per i comitati etici nella valutazione di studi e finanziamenti; copertura assicurativa proporzionata ai rischi delle sperimentazioni; più collaborazione tra istituzioni pubbliche e promotori di ricerca per favorire la disponibilità dei farmaci per gli studi indipendenti; nuove regole per alcune tipologie di studio orfane da un punto di vista normativo. In proposito, gli occhi restano puntati su un Ddl da tempo all'esame del Senato: se siamo quinti come mercato e ventiquattresimi per sperimentazioni, la responsabilità – secondo gli addetti ai lavori – è soprattutto del l'eccesso di burocrazia che contribuisce a rallentare anche le iniziative più meritevoli. «Bisogna intervenire in fretta con nuove procedure: siamo agli ultimi posti come capacità di attrarre le sperimentazioni delle grandi aziende, se non corriamo ai ripari diventeremo marginali», ha confermato il responsabile dell'Osservatorio Aifa, Carlo Tomino. Mentre Silvio Garattini (Mario Negri) ha sottolineato la necessità di «aumentare la qualità degli studi, troppo spesso non rispondenti alle esigenze dei pazienti». Un impegno a tutto campo è stato garantito dal ministro della Salute, Renato Balduzzi: ha assicurato un monitoraggio sull'attività dei comitati etici e l'adeguamento delle norme di tutela della privacy per i soggetti coinvolti negli studi. E ha lanciato come ipotesi di lavoro il passaggio dallo schema risarcitorio al meccanismo dell'indennizzo per ammorbidire lo scoglio delle polizze per i pazienti coinvolti. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 Mar. ’12 LA RETORICA DELL'INGLESE PER TUTTI Imporlo non ci fa più moderni, né più «produttivi»di TULLIO GREGORY M entre la conoscenza e la pratica della lingua italiana regredisce nelle nostre scuole medie e la capacità di comprendere un testo scritto è sempre più ridotta negli adulti, si apre il miraggio dell'inglese come lingua comune dalle scuole alberghiere all'università: tutti dovranno parlare inglese, i portieri d'albergo come i professori, almeno per i dottorati di ricerca. Questo lo strumento essenziale per modernizzare e internazionalizzare le nostre malconce università, secondo le magnifiche sorti progressive prospettate dal ministro Profumo, raccogliendo ampi consensi soprattutto nei luoghi dedicati all'insegnamento politecnico e manageriale. Proprio perché da questi ambienti viene la proposta di lasciare la lingua italiana per l'inglese (povera lingua, ridotta a un modesto basic), l'auspicata modernizzazione e l'internazionalizzazione sono finalizzate al rapporto con le imprese che, del progetto (addirittura definito «progetto Paese»), è «l'aspetto più importante». In quella stessa prospettiva si pone l'Anvur, l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario della ricerca, che propone i parametri per valutare quello che, significativamente, è definito «prodotto», termine usato per indicare il risultato della ricerca scientifica. Prodotto perché quantitativamente valutabile in base a criteri bibliometrici, cioè al «successo», identificato con il numero di citazioni nel giro di pochi anni. Dunque università, prodotto, impresa: questo il circolo «virtuoso» che si pensa di promuovere con la mediazione dell'inglese, come se il valore della ricerca e dell'insegnamento dipendesse dalla lingua in cui si esprime. Purtroppo gli alfieri della modernizzazione e dell'internazionalizzazione esclusivamente legate all'uso dell'inglese (nessun cenno alla qualità dell'insegnamento) non si limitano ai loro rispettabili campi disciplinari, ma sembrano offrire la loro ricetta come panacea universale da applicare anche a quelle forme di insegnamento e di studio che non forniscono «prodotti» per le imprese, ma cultura come sapere disinteressato capace di formare l'uomo libero, collocandolo fuori dall'angoscia del successo economico e del profitto immediato. Cultura che se è tale non «produce» beni di consumo (o comunque ne prescinde), ma vuole promuovere l'educazione della persona e del cittadino, renderlo capace di godere di beni immateriali, una poesia, un quadro, uno spettacolo (invece il Miur, fissando norme per i progetti di ricerca 2011-2013, nell'unico rapido accenno al patrimonio culturale, si preoccupa di precisare che esso deve essere studiato per la sua «valorizzazione come generatore di attività economiche»). In realtà, anche in termini di sviluppo economico, la cultura «disinteressata» nel tempo lungo apre ben più positive prospettive rispetto al «prodotto» di pronto uso e si afferma come essenziale motore di creatività e di crescita in ogni settore del Paese. E poiché si è parlato — come segno di internazionalizzazione — della crescente presenza di studenti cinesi nelle nostre università, andrà ricordato che sin qui la maggiore attrattiva della cultura italiana e il maggior contributo del nostro Paese allo sviluppo della Repubblica Popolare Cinese è costituito dall'importanza paradigmatica dei nostri studi di diritto romano, assunti come modello per il processo di codificazione avviato in quel Paese con la traduzione in cinese di tutto il Corpus iuris, compresi i fragmenta: non sono un «prodotto», ma la testimonianza del valore della nostra cultura classica e giuridica e del suo prestigio internazionale; fra l'altro agli studenti dell'Estremo Oriente non insegniamo l'inglese — che conoscono benissimo — ma il latino. La verità è che gli studi umanistici, classici, letterari, filologici, storici — nei quali l'Italia occupa ancora un posto di primo piano — sono del tutto fuori dagli orizzonti di coloro che da decenni hanno governato e governano la nostra scuola e i nostri enti di ricerca. Le prove sono infinite: non solo è significativo che parlando di eccellenza nella ricerca non vengano mai ricordati gli studi umanistici (pure nel Cnr essi sono al vertice della valutazione da parte di un'apposita commissione internazionale), ma nella scuola media si è proceduto alla sistematica riduzione del numero di ore dedicate al loro insegnamento, con una totale insensibilità per la caduta nella conoscenza della lingua italiana (ne è ultimo esito il miserabile stile di gran parte delle tesi di laurea) e l'accantonamento del problema dell'analfabetismo di ritorno. Si dimentica che, senza una scuola efficiente, dotata di laboratori e biblioteche (non bastano l'iPad e l'ebook signor ministro), con professori adeguatamente retribuiti (almeno come i commessi della Camera), con forti processi selettivi e incentivi che assicurino la mobilità sociale, non vi è riforma universitaria che regga, anzi non vi sono cultura e vita civile. È in questo settore che vanno indirizzati gli investimenti e non v'è internazionalizzazione se il nostro Paese resta ai livelli più bassi nelle spese per l'istruzione e per la ricerca senza un impegno prioritario per la scuola preuniversitaria, struttura portante di un Paese moderno. Cerchiamo di formare cittadini colti attraverso percorsi scolastici rigorosi: saranno anche migliori i «prodotti» per le imprese. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Mar. ’12 INGLESE OBBLIGATORIO, VANTAGGIO PER L'ITALIA di GIOVANNI AZZONE C aro direttore, in un articolo apparso il 7 marzo sul Corriere della Sera, Tullio Gregory affronta il tema dell'internazionalizzazione della formazione universitaria e in particolare della lingua di erogazione dei corsi. Gregory si schiera in difesa della lingua nazionale rispetto alla scelta «anglofona» del Ministero che ha raccolto il consenso «nei luoghi dedicati all'insegnamento politecnico e manageriale». Trovo l'argomento trattato di estremo interesse, ma il dibattito a mio parere deve partire dalla definizione dell'obiettivo a cui vuole rispondere la formazione universitaria. La lingua non deve infatti essere vista come un fine, ma come un mezzo per formare non solo professionisti in grado di trovare occupazioni soddisfacenti ma, soprattutto, persone che possano svolgere un ruolo attivo nella società. La scelta della lingua deve cioè essere funzionale a fornire opportunità di crescita umana e professionale a chi nell'università spende una parte importante della propria vita. In questo senso, credo che oggi sia necessario accompagnare alla formazione specialistica di qualità, tradizionale punto di forza della nostra università, lo sviluppo di altre competenze: tra queste, in particolare, è essenziale la capacità di operare in un ambiente «globale», di interagire con persone di culture differenti, con valori, atteggiamenti, modi di pensiero profondamente diversi dalla tradizione italiana ed europea. La formazione universitaria è uno strumento potenzialmente formidabile per sviluppare questa apertura culturale, purché essa si svolga in contesti in cui vivono e lavorano studenti e docenti di tutto il mondo. Se questo obiettivo è condiviso, la scelta dell'inglese come mezzo di comunicazione all'interno delle nostre università, almeno ai livelli di formazione più alti (laurea magistrale e dottorato di ricerca), diventa obbligata. L'uso dell'italiano rappresenta infatti una barriera all'accesso per gli studenti di altri Paesi, limitando la nostra capacità di intercettare i giovani di tutto il mondo che, ogni giorno di più, cercano il luogo «migliore» dove formarsi. Se riusciremo a superare questa barriera, rendendo accessibili i nostri Atenei anche a chi non conosce l'italiano, ma solo quella «lingua internazionale» che è diventato l'inglese, il nostro Paese, con la sua cultura e il suo modo di vivere, sarà in grado di manifestare tutta la propria capacità di attrazione. Non è un caso se il Politecnico di Milano, dal momento in cui ha introdotto nelle lauree magistrali insegnamenti in inglese, ha visto crescere il numero dei propri studenti stranieri fino agli attuali 4.200, provenienti da 110 Paesi diversi. Altri atenei (Bocconi, Bologna, Trento, Politecnico di Torino, per limitarsi ad alcuni dei più attivi internazionalmente) hanno avuto dinamiche analoghe. Mi sia consentita una riflessione finale. Oggi, sempre più ragazzi italiani considerano la possibilità di formarsi all'estero. Se il sistema universitario nazionale non fosse quindi in grado di offrire un contesto formativo «globale», rischierebbe non solo di non attrarre studenti stranieri, ma anche di perdere gli studenti italiani più motivati e aperti al mondo. Questo, il Paese non se lo può proprio permettere. Rettore del Politecnico di Milano _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 04 Mar. ’12 UNICA: PALAZZINA RISTRUTTURATA PER I PROFESSORI STRANIERI IN ARRIVO ALL’UNIVERSITÀ Le prime 18 stanze pronte a giugno nell’ex clinica Aresu L’ateneo esamina un progetto per altri diciotto vani CAGLIARI. Diciotto camere con bagno saranno l’esordio della foresteria per i professori stranieri che verranno a rinforzare la preparazione degli studenti dell’università di Cagliari. Ma l’ateneo ha intenzione di fare un ulteriore sforzo: il 15 marzo, il dirigente del settore opere pubbliche e infrastrutture, Ninni Pillai, porterà al consiglio di amministrazione il progetto per un altro piano con altrettante stanze. Ed è probabile che il rettore faccia un passo in più ingrandendo la foresteria. L’ipotesi che il rettore Giovanni Melis sta prendendo in considerazione è quella di cancellare la separazione fra il terzo piano quasi finito e il primo che sarà pronto entro novembre: al secondo infatti funzionano gli uffici della direzione per la ricerca scientifica. Trovare un’altra sistemazione per l’attività del settore è ormai necessario. Qui infatti si può ricavare un altro piano da destinare ai visiting professor, nuova e crescente risorsa dell’università internazionalizzata. La foresteria ricavata nel primo edificio del complesso dell’ex clinica Aresu (dove per qualche anno c’è stato l’ufficio del preside della facoltà di Medicina) nelle intenzioni del rettore deve diventare un edificio a se stante, riconoscibile, confortevole. Come in tante altre università del mondo. I lavori per le prime diciotto stanze hanno subìto un rallentamento perché a novembre è saltato fuori che il pavimento un tempo usato per una terrazza non aveva superato le prove di carico e quindi è stato necessario progettare il consolidamento (che il cda ha approvato) e realizzarlo. L’ingegnere che dirige il settore (Pillai) spiega che in venti giorni si finisce poi si tornerà alle stanze. Giugno è il termine massimo per la conclusione dei lavori, non è un eccesso di ottimismo pensare che a settembre i locali saranno accessibili agli ospiti e che per Natale potrà essere pronto anche il secondo stock di stanze. Con la foresteria l’università di Cagliari comincia ad allinearsi allo standard di servizi offerti da altri atenei e crea le condizioni per diventare un punto di riferimento tra le università mediterranee. L’orizzonte è chiaro: senza un tessuto economico alle spalle che sostenga un centro di eccellenza di studi e ricerca l’unico futuro prestigioso possibile è quello di aprirsi ad altre realtà in crescita culturale e quindi promuovere alleanze. L’ateneo cagliaritano l’ha capito e si sta organizzando per questo. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 04 Mar. ’12 UNICA: CONFERMATO IL NUOVO STATUTO DELL’UNIVERSITÀ Dopo le critiche il blitz del rettore a Roma per sbloccare la situazione BETTINA CAMEDDA Cagliari. Confermata l’intera impostazione «funzionale ed organizzativa» del nuovo statuto universitario. La notizia arriva dopo l’incontro di venerdì mattina a Roma tra il Rettore dell’Università di Cagliari Giovanni Melis e il segretario della commissione del Ministero dell’Istruzione, università e ricerca. Un incontro programmato da tempo per chiarire le osservazioni espresse dalla commissione riguardo allo statuto. In particolare le osservazioni riguardavano una parte del regolamento dell’ateneo che interessa il ruolo degli studenti. Da qui la preoccupazione di questa componente dell’università. «Quello avuto al ministero è stato un confronto più che positivo. L’intera impostazione dello Statuto resta confermata così come sarà inalterata la nostra autonomia e l’impostazione funzionale - spiega il rettore Giovanni Melis - ci sono spazi per il miglioramento ma ci sono le condizioni perché nel prossimo senato accademico e nel prossimo consiglio d’amministrazione vengano approvate delle modifiche marginali che già avevamo intenzione di fare su alcune forzature». Nei prossimi giorni il responsabile dell’ateneo informerà i componenti del senato accademico. Al momento sono già stati attivati i nuovi dipartimenti. Ma solo con la conclusione dell’iter dell’intero statuto verranno nominati i nuovi direttori dei dipartimenti e i consigli di facoltà. Ma il processo di approvazione delle singole parti del documento che disegna le regole dell’università del capoluogo si concluderà solo con la pubblicazione del testo nella Gazzetta Ufficiale. «Noi crediamo sia uno dei modelli più avanzati che meglio riesce a gestire una complessità nuova tra facoltà, dipartimenti e corsi di laurea - afferma il rettore Melis - si sarebbe potuto lavorare meglio se alcune categorie avessero capito che lo statuto è un atto amministrativo e non un documento per fare attività politica, ma sono soddisfatto del lavoro svolto». Nel testo accolto dalla commissione resterebbe dunque invariato il ruolo degli studenti all’interno degli organi decisionali dell’ateneo. Ma i diretti interessati non sono del tutto d’accordo e mantenono una serie di perplessità. «Gli studenti non sono mai stati esclusi - conclude Melis - hanno chiesto, hanno ottenuto e poi hanno purtroppo deciso di votare contro. A mio avviso ci sono tutte le condizioni affinché questa componente dell’ateneo abbia un ruolo superiore anche rispetto a prima per quanto riguarda il loro rapporto sulla didattica». Ma la pace tra rettore e componente studentesca non è del tutto fatta. Questi ultimi chiedono più garanzie. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Feb. ’12 UNICA: LA FABBRICA DI CERVELLI (D'ESPORTAZIONE) UNIVERSITÀ. Il corso di Informatica è al vertice in Italia ma i laureati son costretti a emigrare È un'eccellenza dell'università. Il corso di laurea in Informatica della facoltà di Scienze, presieduto dal professor Gianni Fenu, ha numeri che lo collocano tra i primi in Italia. Su 125 iscritti alla laurea triennale ogni anno si laureano 100 ragazzi, mentre per quella magistrale su 30 iscritti i laureati sono 20. Inoltre «tutti i ragazzi trovano lavoro entro 18 mesi dal conseguimento del titolo», spiega Fenu. Una velocità d'ingresso nel mercato del lavoro seconda solo alle professioni sanitarie. Con un problema: molti informatici debbano abbandonare l'Isola. LA FORMAZIONE Come si spiega questo successo? I motivi sono diversi. Innanzitutto, al termine del triennio i giovani hanno già acquisito una professionalità che consente loro di entrare in azienda. Poi il numero chiuso, che screma i candidati in entrata e dà l'accesso ai più motivati e meglio preparati. Ancora, un ottimo rapporto tra numero di universitari e docenti. Durante i corsi (sia triennale che magistrale) è inoltre previsto l'obbligo di frequenza, che consente «ai ragazzi di affrontare gli esami senza problemi di preparazione». Ma la ragione principale va ricercata nell'inserimento, all'interno del comitato di indirizzo del corso, di Confindustria, degli ordini professionali e degli enti locali. Ciò facilita la formazione secondo le necessità di mercati e, dunque, l'inserimento dei ragazzi nelle aziende. Anche perché prima della laurea, gli studenti svolgono un tirocinio obbligatorio di 3-4 mesi. E non solo in imprese locali. «Anche in Ibm, Microsoft, Cisco», ricorda soddisfatto Fenu. Tanto che oggi universitari cagliaritani sono a Vancouver, Berlino, Londra, solo per fare qualche esempio. «Mettiamo a disposizione delle aziende professionalità quasi compiute», spiega il docente, «tanto che quasi sempre, dopo il titolo, vengono assunti». LA FLESSIBILITÀ La laurea in informatica, oltre a fornire le fondamenta della disciplina, dunque, si adatta alle esigenze di un mercato «che cambia e si innova molto rapidamente, ogni 12-18 mesi», puntualizza Fenu. Una flessibilità raggiunta anche con l'utilizzo di visiting professor , cioè docenti stranieri che trascorrono nell'ateneo cagliaritano da qualche settimana a diversi mesi, nel corso dei quali tengono seminari specifici dedicati agli studenti. «Tutto ciò è reso possibile grazie ai fondi della Regione, che ha indicato l'informatica, assieme all'energetica, all'ambiente e alla biotecnologia, uno dei settori trainanti dello sviluppo economico isolano». LA RICHIESTA Nonostante gli aspetti positivi, qualche falla nel sistema c'è. Non tanto nella formazione, quanto nel mercato del lavoro. «I nostri ragazzi sono ambiti dalle aziende: ogni due, tre mesi, arrivano fino a dieci richieste, tanto che non sempre riusciamo a coprirle». Peccato che spesso a chiedere i laureati sardi siano aziende di altre regioni o straniere. «La capacità del tessuto produttivo sardo di assorbire informatici non è alta». Ad essere scelta è, ovviamente, la proposta migliore, che nella maggior parte dei casi arriva da oltre Tirreno. L'Isola spende soldi pubblici per formare i suoi cervelli, che poi emigrano altrove. Master and go . Mario Gottardi _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 Mar. ’12 UNISS: PREMIATA DAL MINISTERO L'Università di Sassari, grazie ai buoni risultati fatti registrare nel campo delle mobilità internazionali, ha ottenuto dal ministero dell'Istruzione università e ricerca (Miur) il contributo più consistente fra tutti gli atenei italiani per l'Erasmus placement in uscita, cioè per i tirocini che saranno svolti in altri Paesi europei dagli studenti iscritti all'università sassarese. Il finanziamento assegnato è di 203.560 euro. È la prima volta che il Ministero finanzia, in modo specifico anche le mobilità studentesche a fini di tirocinio. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 Mar. ’12 APPLICARE LA RIFORMA, MA SENZA PASTICCI La riforma universitaria sta correndo a rotta di collo a Sassari - e non è detto che sia un bene - nel 380º anno dalla nascita dell’Università. L’antico sistema - che, comunque, con tutte le sue distorsioni e difetti, ha prodotto cultura ed eccellenze - non c’è più. Al posto delle Facoltà, ci saranno i nuovi Dipartimenti, responsabili dell’intera filiera formativa: in essi, infatti, si riunificherà la gestione della ricerca e della didattica, finora divisa - secondo una caratteristica tutta italiana - tra Facoltà e Dipartimenti. Al posto del vecchio Senato, composto dai Presidi, un nuovo Senato, che sarà composto di nuove figure, tra cui i rappresentanti delle diverse “fasce” e i direttori dei Dipartimenti, che dovranno essere “multitasking” e imparare a non pensare solo da direttori di un dipartimento, ma a rappresentare le istanze della ricerca e della formazione di tutti i dipartimenti dell’area elettorale che non sono direttamente rappresentati. Infine, un nuovo Consiglio d’amministrazione - in via di formazione a Sassari - con una quota consistente di membri esterni. Di per sé la riforma dovrebbe avviare un processo di modernizzazione, migliorare la qualità della formazione e della didattica, far crescere la capacità di quest’antico ateneo - che fin dalla sua nascita ha potuto contare sul fortissimo sostegno della municipalità e delle istituzioni locali - di aprirsi verso l’esterno, di diventare un polo di attrazione culturale e scientifico. Molto - quasi tutto, anzi - dipenderà dall’assetto di governo, cioè dalla “governance”, che rappresenta lo snodo cruciale, la vera chiave di volta per far funzionare la riforma. C’è da augurarsi che non si creino le condizioni, nei fatti, di un “bicameralismo”, Senato accademico e Consiglio d’amministrazione, e che siano ben chiariti i rispettivi ambiti di responsabilità e di ruoli: d’indirizzo e controllo il primo, di gestione il secondo, che dovrebbe rappresentare il vertice strategico. Di qui la delicatezza della scelta dei membri di quell’organo di governo che, si spera, sarà basata sulle qualità individuali e non sulla rappresentatività d’interessi costituiti (anche se legittimi). Soltanto se tutto cambierà davvero in meglio, potremo riferirci all’Università del passato come ad un “ancien régime”, nell’accezione usata dai rivoluzionari francesi per indicare la società e il regime che essi avevano contrastato e abbattuto in nome di un nuovo ordine. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Mar. ’12 TABLETS E TOUCH SCREEN A SCUOLA INSEGNARE E APPRENDERE ANCHE SENZA TECNOLOGIA di Giaime Marongiu, Docente di Chimica Università di Cagliari Un recente articolo del New York Times allegato a La Repubblica richiamava l’attenzione dei lettori sull’uso delle tecnologie nelle scuole. Tra le citazioni riportate nell’articolo, una è attribuita a una conversazione tra Walter Isaacson (il biografo di Jobs) e lo stesso Steve Jobs e Bill Gates. I due “concordano che il computer sinora ha sorprendentemente avuto scarso impatto sulle scuole”. Paul Thomas, professore associato della Furnam University, asserisce: “La tecnologia è una distrazione quando si richiedono conoscenze letterarie, matematiche e capacità critiche”. Rudy Crew, “Chancellor” ovvero sovraintendente alle scuole di New York, afferma: “Certamente vi sono opportunità che possono essere acquisite con la tecnologia, ma al centro del processo educativo va messo il rapporto docente-studente”. Il senso generale dello scritto è piuttosto critico sull’eccessivo uso di strumenti tecnologici nella didattica di ogni ordine di scuole, argomento spesso oggetto di discussione negli Stati Uniti. La mia esperienza di molti decenni di insegnamento universitario di discipline chimiche, iniziato con i tradizionali lavagna e gesso, passato poi alla proiezione di diapositive sostituite dalla lavagna luminosa e nell’ultimo decennio da power-point e proiettore, mi permette di affermare che l’uso “corretto” di strumenti audiovisivi migliora la qualità dell’esposizione se utilizzati con competenza. Il vantaggio di poter rappresentare con immagini e simulazioni fenomeni chimico-fisici si scontra spesso con i tempi con i quali si fanno scorrere i testi. I tempi devono essere adeguati alle capacità dello studente di seguire: paradossalmente questi sono quelli di gesso e lavagna. Inoltre non si può dare per scontato che una “perfetta” rappresentazione di un processo porti alla comprensione e apprendimento dello stesso, e soprattutto alla capacità di saperlo eseguire sperimentalmente (sapere e saper fare). Sfido chiunque non abbia mai trafficato tra i fornelli, come il sottoscritto, a ottenere risultati soddisfacenti dopo aver seguito, registrato e rivisto una lezione di cucina svolta in televisione dal più autorevole dei cuochi. Ma tralasciando la discussione su quanto un uso diffuso degli strumenti tecnologici possa portare a un deciso miglioramento delle capacità didattiche dei docenti e conseguentemente al progresso delle conoscenze dei discenti, la domanda che mi pongo e che pongo all’attenzione dei lettori è se un investimento in Sardegna di 30 (trenta) milioni di euro per dotare le aule scolastiche di lavagne touch screen e gli studenti di tablets sia prioritario. La notizia della approvazione di questo progetto, apparsa nelle pagine dell’Unione Sarda di qualche settimana fa, coincideva casualmente con una indagine realizzata sul sistema scolastico italiano apparso sul quotidiano La Repubblica dove, tra l’altro, veniva messo in evidenza il contributo finanziario delle famiglie (oltre le tasse) per il funzionamento di due prestigiosi licei cittadini. Pertanto in una scuola carente di docenti di ruolo e di sostegno (peraltro spesso retribuiti in ritardo e con nessuna incentivazione all’aggiornamento), con edifici spesso non a norma, dove manca il gesso per le lavagne e la carta igienica nei bagni, un investimento della portata annunciata, dopo il fallimento di un recente massiccio intervento nei mezzi informatici, richiama alla mente le valutazioni di Maria Antonietta sulle manifestazioni dei cittadini francesi a Versailles. Grosso modo suonavano così: «Quale è il problema? Se manca il pane vengano distribuite brioches». Fu l’inizio della rivoluzione francese... _____________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Mar. ’12 LA LINGUA NELLA TRAPPOLA DI POWERPOINT di GUIDO VITIELLO Il programma delle slide colorate ha trasformato (e banalizzato) la lingua F atte salve le cinque W del giornalista provetto (Who, What, Where, When, Why) e le tre V del buon cristiano (Via, Veritas, Vita), qualunque dottrina che si proponga sotto forma di una trafila di iniziali è in odore di truffa. La campagna elettorale del 2001, con il duello a distanza tra Berlusconi e Rutelli, offre un buon banco di prova. Un signore anziano, che a stento sapeva pronunciare la parola Google senza farla suonare come il nome di uno scrittore russo, ripeteva tutto raggiante il ritornello delle tre I: «I come inglese, I come informatica, I come impresa». Gli faceva eco l'altro signore, più giovane stando all'anagrafe, con una triade a densità semantica zero che neppure il genio di Arnaldo Forlani avrebbe saputo concepire: «I come Italia, I come identità, I come innovazione». Era il bipolarismo di PowerPoint. È da quel focolaio informatico che ha preso a dilagare la perniciosa mania degli elenchi puntati facili da memorizzare, da quel programma Microsoft che consente di creare presentazioni fatte di slide colorate con scritte, grafici e fotografie. O almeno è quanto sostiene Franck Frommer, giornalista francese esperto di comunicazione d'impresa, in Il pensiero PowerPoint. Ormai PowerPoint è sul viale del tramonto, il mondo del marketing lo sta rapidamente dismettendo, ma ancora non c'è modo di scampare al diluvio delle slide: le si trova nelle riunioni di lavoro e nei meeting pubblicitari, nelle accademie e nelle scuole, nelle aule di tribunale e nella pubblica amministrazione, nei briefing militari o perfino nelle chiese, a illustrazione dei sermoni (che è poi l'uso che certi predicatori secenteschi facevano della lanterna magica: in fondo, PowerPoint è figlio della Controriforma). In un reportage sul «New Yorker» del 2001, «Absolute PowerPoint», Ian Parker citava il caso della madre che, per conquistare l'attenzione delle figlie e convincerle a pulire le loro camerette, dovette allestire una presentazione multimediale. Obbedirono di corsa, nel terrore di nuove slide. Questo circolo vizioso infernale, di strumento anti-noia che produce di fatto un mero upgrade della noia, aiuta a spiegare perché siano le aziende l'habitat naturale di PowerPoint, che vanta sì una lunga genealogia — dalle lavagne luminose ai lucidi — ma che ebbe il suo vero debutto in società solo nel febbraio del 1992, quando in un hotel parigino il suo creatore Robert Gaskins lanciò la versione 3.0, già simile a quella che conosciamo oggi. Non è un caso, suggerisce Frommer: sono gli anni in cui l'impresa abbandona il vecchio modello manageriale burocratico-gerarchico per strutturarsi intorno a vaporose parole-totem come cooperazione, creatività, innovazione. Nonché, ça va sans dire, comunicazione. Soprattutto, sono gli anni in cui al centro della vita aziendale s'impianta un ferale strumento di tortura: la riunione, continuamente convocata, aggiornata e poi riconvocata. La vita dell'impiegato nella società del terziario avanzato si avvicina sempre più a una perenne «loya jirga», il consiglio afgano dei capi tribù, e si capisce bene che l'unica strategia adattativa, di sopravvivenza elementare, sia l'esibizione di qualcosa di luminoso e colorato. Ma neppure basta, e le riunioni continueranno a essere quel che sono almeno fino alla legalizzazione degli allucinogeni. Frommer ha provato a puntellare con dati e argomenti l'esclamazione esasperata di un generale dei marines, James N. Mattis, preoccupato dall'uso delle slide nell'esposizione delle strategie militari: «PowerPoint ci rende stupidi!». Il software, dice il giornalista, ha creato «un sistema retorico globale che assorbe e trasforma tutte le tecniche classiche di argomentazione». Ed è un sistema che ha per imperativo la semplificazione, un rasoio di Ockham brandito come una mannaia: ogni ragionamento è spolpato ed essiccato fino a cavarne una lista di pochi punti con un titolo in cima. Certo, il software consente usi più complessi, ma troppa complessità fa male agli occhi. È ormai leggendaria la reazione del generale Stanley A. McChrystal, ex comandante delle truppe Nato in Afghanistan, quando vide a Kabul il diagramma in PowerPoint che illustrava la strategia americana, un'indistricabile matassa di linee e freccette che avrebbe fatto la gioia di un gatto giocherellone: «Quando avremo capito quella slide, avremo vinto la guerra». Anche le aziende conducono le loro campagne — con tutto un gergo militaresco fatto di tattiche, posizionamenti, riconquiste, tabelle di marcia — ma almeno hanno capito che lo strumento si presta a una sintassi più essenziale. Frommer, sulla scorta di un saggio di Edward Tufte del 2003, The Cognitive Style of PowerPoint, ne ha descritto i tratti. Preferenza per le frasi nominali: «Il mercato è volatile», che suona un po' naïf e ornitologico, prende tutt'altra autorevolezza se diventa «Volatilità dei mercati». Verbi all'infinito che danno al discorso i crismi di un'autorità impersonale, come provenisse dall'antro di una Sibilla. Eufemismi di ogni sorta: guai ad avere problemi, si hanno solo «criticità». A regnare è l'asindeto, la liberazione del discorso da lacci e lacciuoli: via le copule, via le congiunzioni di tempo, via l'ossatura logica dell'argomentazione, i vari «dunque» e «perché». Quel che resta, alla fine della fiera, è una sequela di bullet points, elenchi con un pallino accanto. Una logica che riporta agli usi più arcaici della scrittura, come sanno bene gli antropologi, ma anche ai più moderni, come sanno altrettanto bene gli studiosi della letteratura dal simbolismo in giù. Nella foga polemica, Frommer sembra a volte dimenticare che le slide non sono un'argomentazione, ma il supporto di un'argomentazione, e che sta all'oratore esplicitare i nessi invisibili, i perché e i percome: An Inconvenient Truth, il film di Al Gore sul riscaldamento globale, è per gran parte una presentazione multimediale con bonimenteur incorporato. PowerPoint agonizza e muore, ma il suo spirito sopravvive e si è ormai impossessato delle menti. Un buon esempio locale è «Vieni via con me», la trasmissione di Fazio e Saviano: lunghi monologhi assistiti da foto, filmati e citazioni alle spalle dell'oratore; ma soprattutto, la «vertigine della lista», o della sacra litania, eretta a criterio supremo. E così, dieci anni dopo la battaglia delle tre I contro le tre I, ci toccò assistere a due altri signori, stavolta Bersani e Fini, che elencavano per punti cosa vuol dire esser di destra o di sinistra. Fu un tormento bipartisan, ma non era solo colpa loro. Frommer ha ragione quando sostiene che PowerPoint ha la tendenza a dare a ogni discorso una sfumatura epidittica, quel genere della retorica classica che punta non tanto a persuadere o a dimostrare quanto a elogiare ciò di cui si parla. Altro modo per dire che, sotto forma di slide, tutto assume un retrogusto pubblicitario. Lo si avverte in modo più stridente che mai quando PowerPoint entra nell'accademia. C'è sempre, nell'animo di ogni professore, l'attimo abissale in cui, illustrando le sue slide su Platone o sul sonetto elisabettiano avverte, con un brivido, di essersi trasformato in un banditore da televendita. E ne conclude che magari PowerPoint non ci rende stupidi, ma accidenti se ci fa sembrare tali. Twitter @guidotweet _____________________________________________________________ Corriere della Sera 07 Mar. ’12 IULM, ANCORA TAGLI ALL' UNIVERSITÀ PRIVATA L' ALLARME L' EX PREMIER ALL' INAUGURAZIONE DELL' ANNO ACCADEMICO Amato: puntiamo ai fondi Ue Il rettore Puglisi «I fondi ministeriali per noi sono passati da nove a cinque milioni» «I fondi ministeriali per le università private nell' ultimo triennio sono scesi da 138 a 66 milioni, in particolare noi da nove milioni siamo passati a cinque», il dato lo riferisce il rettore Giovanni Puglisi al termine della cerimonia di inaugurazione dell' anno accademico della Libera università di Lingue e comunicazione. Completa così il quadro tracciato nel discorso appena concluso in Aula Magna, prima dell' intervento dell' onorevole ed ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, davanti a una platea di professori in toga e di studenti. La difficile situazione economico-finanziaria è al centro degli interventi. «Ha investito in pieno il sistema universitario lasciandolo senza ombrelli», dice Puglisi. E poi sottolinea: «i fondi ministeriali Iulm deve dividerli anche con le università telematiche». Mentre Giuliano Amato, nel ' 93 fautore dell' autonomia finanziaria degli atenei, spiega con efficacia («sono professore da 52 anni») la storia dell' autonomia (virtuosa) degli atenei e del centralismo, un brillante intervento a lungo applaudito che conclude con la dichiarazione: «la situazione non è critica come sembra». La strategia suggerita da Amato, per la crisi finanziaria delle università, è la competizione europea, è anche «concorrere all' assegnazione delle risorse a livello sovranazionale, visto che il prossimo anno la comunità europea avrà a disposizione 80 miliardi per istruzione e cultura». «Non sono pentito di aver dato l' avvio all' autonomia finanziaria delle università - ha precisato Amato nel suo discorso - ma sono conscio che tale autonomia, per funzionare, ha bisogno di una cultura a essa corrispondente». Secondo il rettore Puglisi occorre arrivare alla definizione di nuovi parametri per il «riconoscimento e la valutazione degli atenei fissando un limite minimo per il primo e graduando in modo crescente le risorse in relazione alle performance della seconda: questa scelta politica darebbe finalmente un taglio netto alla dualità pubblico-privato, anzi statale-non statale che ammorba ancora adesso il sistema universitario». Il risultato di tale passo sarebbe l' azzeramento di molte «vergognose» università non statali e telematiche e la «sterilizzazione» del valore legale del titolo di studio, sostiene il rettore dello Iulm. Alla cerimonia di inaugurazione dell' anno accademico ha preso la parola anche il rappresentante degli studenti Alessandro Giorgio Zocca, che ha ricordato la dichiarazione della cantante Nina Zilli, ex studentessa Iulm poi querelata dall' ateneo: «In un' intervista ha usato parole offensive sulla nostra università. La risposta di noi studenti sta nei dati di placement dei nostri laureati e nelle cariche da loro ricoperte». Al termine della cerimonia l' annuncio sui lavori in corso al campus Iulm: l' anno accademico 2013 verrà inaugurato nel nuovo edificio che ospita il centro Ktc, «sarà consegnato per maggio 2013». Federica _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 27 Feb. ’12 TELEMATICA, CON SARDEGNA.IT REGIONE PADRONA Tutti i sistemi informatici accorpati nella società «Sardegna It» ALFREDO FRANCHINI CAGLIARI. Nella battaglia della legge Finanziaria regionale è passata la riforma delle reti telematiche le cui competenze sono state attribuite alla presidenza della giunta che le ha poi «delegate» a «Sardegna It», società in house della stessa Regione. Si occuperà dei sistemi di tutte le direzione generali dell’amministrazione, del sistema informativo sanitario, della telefonia. Le leggi finanziarie, nonostante i cambiamenti degli ultimi anni, restano inalterate nell’impianto che prevede, esaurita la discussione generale, una volta passati agli articoli, l’ingresso in una sorta di suq, un autentico mercato degli emendamenti, concordati spesso a fatica in estenuanti trattative notturne dove prevale chi la dura di più. La questione delle reti telematiche è sicuramente strategica sia per l’efficienza dell’amministrazione, sia per gli opportuni tagli alla spesa pubblica. A cominciare dalla sanità. A questo proposito, un esempio viene dalla Regione Lombardia che ha introdotto la carta sanitaria con chip: il cittadino la presenta in farmacia e in automatico viene emesso lo scontrino. Un modo per monitorare la spesa farmaceutica che, in realtà, ha proprio in Sardegna (e non in Lombardia) una delle percentuali più alte d’Italia. La riforma delle reti telematiche è dunque necessaria ma è stata approvata a maggioranza: l’emendamento è stato presentato dal gruppo del Psd’Az, il Centrosinistra si è astenuto chiedendo più chiarezza. Le fasi in aula sono state, infatti, molto concitate: «Il Consiglio regionale discute di cose importanti nella totale confusione», ha affermato Renato Soru, «si è cambiata in maniera radicale l’organizzazine della Regione dopo che l’argomento era stato oggetto di un confronto ampio e articolato». Nello specifico si sono accavallati gli emendamenti orali, con Giulio Steri, capogruppo dell’Udc, che proponeva l’inserimento anche del progetto scuola digitale - uno dei due illustrati dalla Giunta al governo Monti per ottenerne i finanziamenti, il secondo è Sardegna Co2 - e l’assessore La Spisa che chiedeva il trasferimento alla presidenza della Regione «anche della funzione di controllo della società in house». Come poi è stato. Paolo Maninchedda, presentatore dell’emendamento sulle reti telematiche, spiega: «È una norma che serve a mettere ordine e risparmiare nella selva delle gestione e dei contratti del settore per riuscire a far funzionare Sisar e Sibar. Senza una gestione efficiente delle reti non è possibile monitorare giorno per giorno la spesa sanitaria, né rendere utile ed efficiente la trasparenza dei processi attuativi di tante disposizioni normative». Sardegna It nasce da una costola del Crs4, il Centro di calcolo matematico che fu presieduto dal Nobel Carlo Rubbia, all’interno del Parco scientifico e tecnologico, ed è la società che la Regione ha messo al centro del sistema informativo. Ad amministrarla un Consiglio composto da tre persone: Franco Magi, presidente; Marcello Barone, amministratore delegato, e Natale Ditel, consigliere. La società è articolata in direzioni per la gestione e l’organizzazione dei progetti. Per la ricerca scientifica, o meglio per la gestione del Parco scientifico e tecnologico, sono stanziati nella finanziaria sedici milioni di euro. La Sardegna aveva puntato sulla ricerca già alla fine deli anni Ottanta, con la costituzione del Consorzio Ventuno, ma negli anni, a causa dei bilanci sempre più stretti, si sono ridotti gli stanziamenti sino ad arrivare allo 0,52 per cento del Pil. Il valore è inferiore anche alla media nazionale, peraltro abbastanza bassa, e risulta in costante diminuzione. Purtroppo si accentua nel campo della ricerca la distanza dai Paesi leader in Europa che spendono percentuali doppie. E purtroppo un ulteriore fattore per il processo innovativo, cioè la diffusione delle tecnologie tra la popolazione, non premia i sardi. Per la Sardegna - secondo un Rapporto effettuato dal Crenos, il centro di ricerca delle Università di Cagliari e Sassari - ogni tre individui uno dichiara di non aver mai utilizzato un computer. Un divario da colmare. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 06 Mar. ’12 IL «FUSILLO» CHE MOLTIPLICA I CANALI Costi abbattuti per i tablet Una scoperta scientifica, quella dell' astrofisico Fabrizio Tamburini, destinata a rivoluzionare i sistemi di telecomunicazioni. Perché grazie ai suoi studi sarà possibile moltiplicare di almeno dieci volte i canali trasmissivi di una singola frequenza. Con grandi benefici per le trasmissioni di segnali radio, programmi tivù e sistemi di connessione wi-fi. Non solo. L' uso di una singola frequenza soddisferebbe all' enorme richiesta di banda per smartphone, tablet e dispositivi wireless. Ecco come spiega Tamburini la sua scoperta: «Le onde elettromagnetiche, quelle di tipo hertziano, non solo vengono individuate da una specifica frequenza e da uno stato di polarizzazione, ma sono dotate di una nuova proprietà, la vorticità». Dunque le onde, oscillando nel tempo e nello spazio, si attorcigliano: «A forma di fusillo attorno alla loro direzione di propagazione». Questo consente di identificarle con elaborate equazioni matematiche che a loro volta definiscono i nuovi canali trasmissivi. A questi risultati lo scienziato veneto che in ambito internazionale viene chiamato col nomignolo di «signore della luce», è arrivato studiando la rotazione dei buchi neri. Grazie ai diversi gradi di vorticità è come se avessimo ulteriori canali sui quali ricevere e trasmettere informazioni, utilizzando però solo una frequenza di trasmissione. «Nel caso delle telecomunicazioni il fattore moltiplicativo dei canali è 10, ma per le trasmissioni ottiche si arriva a 600 volte». Pensiamo infatti a cosa accadrà agli operatori che adesso pagano cifre a sette zeri per assicurarsi frequenze su cui veicolare contenuti digitali. «Sfruttando la vorticità delle onde diminuiranno i costi degli apparati di trasmissione e aumenteranno le informazioni trasmesse per ogni singola frequenza». Incredibile pensare che il «signore della luce» sia assunto dall' università di Padova con un contratto da precario a 1380 euro al mese. Così conclude: «Sto pensando, mio malgrado, di accettare una delle proposte ricevute dalle università di Vienna e Glasgow». Un doppio danno per il Belpaese. Di immagine per la perdita di uno scienziato che ci invidiano nel mondo. E poi economico, perché ci lasciamo scappare i brevetti che Tamburini ha nel cassetto. Umberto Torelli Corriere@UmbertoTorelli.com _____________________________________________________________ Corriere della Sera 06 Mar. ’12 TECNOLOGIA LE ONDE ELETTROMAGNETICHE TRASMESSE CON VORTICE LO SCIENZIATO PRECARIO CHE HA RIVOLUZIONATO IL WI-FI Tamburini celebrato come il «nuovo Marconi» «Lo abbiamo dimostrato e scritto: adesso i segnali radio o televisivi si possono trasmettere in modo diverso rispetto a quanto si è fatto finora, moltiplicando i canali all' infinito, se vogliamo». Fabrizio Tamburini, ricercatore precario all' università di Padova racconta i suoi risultati pubblicati ora sul New Journal of Physics come una semplice ricetta di cucina. Sorride se viene chiamato il «nuovo Marconi». «Non esageriamo - dice - però può essere una rivoluzione: dipende da quanto si vuole investire per mettere tutto in pratica. Che funzioni, ormai, non ci sono dubbi». La sostanza nel cambiamento sta nel fatto che le onde elettromagnetiche, con il loro sistema, vengono lanciate attorcigliate in un vortice «come fossero dei fusilli. In questo modo - precisa - invece di trasmettere per ogni banda di frequenza al massimo cinque canali come succede adesso, possiamo inviarne migliaia e migliaia». E l' affollamento delle frequenze che fa litigare i pretendenti diventerebbe subito una discussione archeologica. Radio, tv, wi-fi, segnali ottici e d' ogni genere non avrebbero più limiti. I primi studi sulla vorticità delle onde risalgono addirittura al 1909 e anche il fisico siciliano Ettore Majorana negli anni Trenta aveva dato un suo contributo prima di scomparire nel mistero. «Ma come si poteva sfruttare una proprietà fisica che era rimasta soltanto teorica? Questa sfida mi ha coinvolto e appassionato fino a portarla nella realtà». Per arrivarci Tamburini è partito addirittura dalle stelle. «Veneziano d' origine e de cor - dice - frequentavo i frati francescani vicino a casa che spiegavano ai ragazzi le meraviglie del cielo. Così dopo il liceo mi iscrissi ad astronomia all' università di Padova». Però veniva travolto da una passione, le corse con le automobili, al punto da interrompere gli studi. Finché il richiamo degli astri non lo riportava nella città del Santo. Dopo la laurea vola in Gran Bretagna per il dottorato lavorando per quattro anni con un mito dell' astrofisica, Dennis Sciama. «Cercavo di capire che cosa raccontassero le onde trasmesse dalle stelle - ricorda - rendendomi conto che di quelle onde si consideravano solo alcuni aspetti trascurandone la maggior parte. E con l' aiuto della fisica quantistica siamo arrivati al risultato di oggi che è duplice: avendo capito come si trasmettono questi fusilli d' onde oltre alle tante applicazioni che si materializzano sappiamo pure interpretare in modo più ricco i segnali inviati dalle stelle». Intanto l' università di Padova dove come precario guadagna 1.380 euro al mese ha già brevettato in Europa il risultato, ora richiesto anche negli Stati Uniti. Con Tamburini lavorano quattro altri giovani ricercatori e Bo Thidé dell' Istituto di fisica spaziale svedese. L' estate scorsa a Venezia lo scienziato allestiva in piazza San Marco una dimostrazione pubblica, «soprattutto per convincere - nota - potenziali industriali interessati». Infatti sono arrivati dall' Italia e da altri Paesi europei, ma i nomi sono segreti. Nel frattempo aveva stabilito contatti con la Darpa, l' agenzia di ricerca del Pentagono. «Ci dissero che il lavoro era interessante ma si tennero il tutto e non ci fu seguito. Ora sappiamo che la Darpa ha assegnato un finanziamento di 20 milioni dollari al Mit di Boston per sviluppare la tecnologia. Noi abbiamo dimostrato che funziona spendendo duemila euro. Però bisogna andare oltre». E subito rispunta l' astronomo. «Con le nuove conoscenze abbiamo anche scoperto come ruota un buco nero: meraviglioso». Giovanni Caprara twitter: @giovannicaprara *** Chi è Ricercatore Fabrizio Tamburini ( nella foto in basso ), 48 anni, è un astrofisico che lavora all' università di Padova con uno stipendio di 1.380 euro al mese La consacrazioneI risultati dei suoi esperimenti sono stati pubblicati sul New Journal of Physics . È stato paragonato a Guglielmo Marconi ( nel tondo ) _____________________________________________________________ Corriere della Sera 05 Mar. ’12 ANCHE L' EDUCAZIONE METTE LA TESTA TRA LE NUVOLE Appunti, tesine, slide di lezioni e lavori di gruppo. Per 165 mila studenti dell' Università La Sapienza (compresi i laureati degli ultimi due anni) questo materiale si potrà trovare in Internet, nel sistema cloud di Google, grazie a un accordo tra l' ateneo e l' azienda di Mountain View. E così, la più grande comunità di studenti in Europa avrà a disposizione, attraverso la suite di applicazioni «Google Apps for education», email accessibili da qualsiasi dispositivo e servizi per la condivisione online di ogni documento a supporto dello studio. Compresi video e immagini. Non meno importante è la possibilità per gli utenti di lavorare insieme a uno stesso progetto, da tenere e salvare sulla nuvola. «Gli studenti di oggi sono abituati a interagire e condividere informazioni sul web - spiega Luigi Frati, rettore della Sapienza -. Le università devono quindi dimostrarsi recettive nei confronti di questa realtà, offrendo agli studenti ciò che fa già parte della loro quotidianità». La tecnologia del cloud computing è utilizzata in molte università in tutto il mondo. Negli Stati Uniti è attiva in 66 dei 100 atenei più prestigiosi, come Harvard e Berkley. Al momento è pensata per laureandi e laureati della Sapienza, chiamati a sperimentarla, ma l' idea è di estenderla presto al corpo docente. P. CAR. _____________________________________________________________ SardiNews 29 Feb. ’12 PAOLO SAVONA AD ALUNNI E DOCENTI DEL MARTINI: Studiate la Logica, impadronitevi del Metodo Successo per la preside Angela Testone, parlano anche gli studenti per i 150 anni dell'Istituto di Lorenzo Manunza La preside del Martini Angela Testone con l'economista Paolo Savona. Sotto una studentessa interviene con una domanda al presidente del Fondo interbancario di garanzia. (foto Luciano Atzori) Il lavoro maschile falcidiato, quello femminile rivitalizzato, ma soprattutto nelle attività meno qualificate; una scolarizzazione sempre drammaticamente bassa che convive con la difficoltà crescente di trovare lavoro quasi a prescindere dal titolo di studio; ancora, le specificità di un’isola che forse è davvero “un continente”, nel senso che racchiude delle caratteristiche peculiari che appaiono non ancora ben comprese e – soprattutto- non ancora veramente prese in considerazione dalla politica. Il Rapporto 2011 sul mercato del lavoro in Sardegna, realizzato come sempre dal Centro Studi relazioni industriali e curato da Maria Letizia Pruna, vuole in qualche modo anche fare il punto su questi ultimi tre anni di crisi, fermo restando che anche quest’anno si annuncia difficile. Il volume raccoglie i contributi della Pruna, di Fabrizio Carmignani, Riccardo Chessa, Clementina Casula, Antonello Podda, Tiziana Putzolu, Sabrina Perra. Uno dei problemi immediatamente messi in luce, oltre che la sostanza, pare riguardi anche la forma, ovvero la corretta interpretazione dei numeri e il modo di veicolare questo tipo di informazioni. Si pensi ad esempio all’entusiasmo con cui taluni accolgono gli aumenti “stagionali” dell’occupazione in Sardegna (l’ultimo in ordine cronologico risale al 3° trimestre del 2011, cioè ai mesi di luglio, agosto e settembre) e che mostra un aumento dell’occupazione di 12.000 unità rispetto al trimestre precedente e di 22.000 unità rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. L’aumento dell’occupazione, è bene ricordarlo, è solo l’ultimo in una serie di oscillazioni particolarmente ampie che si registrano in Sardegna proprio dal 2008, dall’inizio della crisi. Tra il 1° e il 2° trimestre del 2009, l’occupazione è aumentata di 52.000 unità, per poi crollare di 58.000 unità nell’arco dei due trimestri successivi. Così anche tra il 1° e il 2° trimestre del 2010 l’occupazione è aumentata di 37.000 unità per poi ridursi di 24.000 nei tre mesi successivi: questo spiega perché non è opportuno interpretare questi numeri come segni di un miglioramento strutturale, semmai, forse, come conferma di una peculiare situazione dell’isola. Il “ciclo di vita” dell’occupazione in Sardegna segue di anno in anno, da molto tempo, le stesse fasi e più o meno con la stessa intensità: l’occupazione aumenta a partire da aprile-maggio, cresce ancora a luglio- agosto, crolla a novembre-dicembre. Nell’ultimo anno, però, il picco più elevato dell’occupazione, che generalmente si posiziona nel 2° trimestre, si è spostato nel 3° trimestre: la spiegazione sta nel fatto che 2011 l’occupazione legata alla stagionalità estiva è stata limitata molto più del solito al periodo centrale (soprattutto luglio, agosto), in cui quindi si individua il picco dell’occupazione, mentre negli anni precedenti l’aumento stagionale dell’occupazione legata alle attività estive (turistiche e non solo) cominciava nel trimestre precedente (aprile, maggio, giugno). Alle varie forme di stagionalità delle attività economiche si somma l’articolazione dei rapporti di lavoro, che negli ultimi anni si è tradotta in una esplosione della frammentazione del lavoro. Dal gennaio del 2008 è stata introdotta in Italia una novità importante: il sistema di trasmissione telematica delle comunicazioni obbligatorie che i datori di lavoro pubblici e privati devono inviare al ministero del Lavoro e agli enti previdenziali (Inail e Inps) in caso di assunzione, proroga, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro. Maria Letizia Pruna e Riccardo Chessa hanno curato una analisi preliminare dei dati sugli avviamenti e le cessazioni dei rapporti di lavoro tra il secondo trimestre 2009 e il secondo trimestre 2011: sono numeri comunque superiori a quello dei lavoratori. Questo perché una persona può avere più contratti di lavoro, cioè più flessibilità, cioè, in definitiva, erosione del lavoro cosiddetto stabile. Il quale non è che se la passi meglio: in 33 mesi (dal 4° trimestre 2008 al 2° trimestre 2011) in Sardegna si sono avuti 13.000 contratti stabili avviati in media in ogni trimestre, per un totale di 140.000, e 14.000 contratti stabili cessati in media in ogni trimestre, per un totale di 154.000. Tre anni di crisi, una perdita netta: sono spariti 22.277 contratti stabili maschili e si sono aggiunti 13.067 contratti stabili femminili. Il saldo totale è negativo: 9.207 contratti di lavoro stabile in meno. Il lavoro a termine, invece, si è intensificato: 25 mila contratti in più. L’erosione del lavoro è anche una riduzione del tempo: in totale più di 76.000 occupati (donne) lavorano al massimo per 20 ore alla settimana. L’analisi è utile per capire come e quanto l’altra faccia delle opportunità stagionali sia rappresentata anche dalla disoccupazione. È diventato, di nuovo, il problema più grave in assoluto, soprattutto in territori come le province di Carbonia-Iglesias e Sassari, dove il fenomeno si accompagna a “interstizi occupazionali” riservati alle donne, perlopiù adulte. Le giovani, infatti, viaggiano su un altro quasi incredibile binario: fra i 15 e 24 anni, nella provincia di Carbonia- Iglesias, il 76 per cento di loro risulta disoccupato: il valore mai raggiunto prima in Italia. Il lavoro maschile falcidiato, quello femminile rivitalizzato, ma soprattutto nelle attività meno qualificate; una scolarizzazione sempre drammaticamente bassa che convive con la difficoltà crescente di trovare lavoro quasi a prescindere dal titolo di studio; ancora, le specificità di un’isola che forse è davvero “un continente”, nel senso che racchiude delle caratteristiche peculiari che appaiono non ancora ben comprese e – soprattutto- non ancora veramente prese in considerazione dalla politica. Il Rapporto 2011 sul mercato del lavoro in Sardegna, realizzato come sempre dal Centro Studi relazioni industriali e curato da Maria Letizia Pruna, vuole in qualche modo anche fare il punto su questi ultimi tre anni di crisi, fermo restando che anche quest’anno si annuncia difficile. Il volume raccoglie i contributi della Pruna, di Fabrizio Carmignani, Riccardo Chessa, Clementina Casula, Antonello Podda, Tiziana Putzolu, Sabrina Perra. Uno dei problemi immediatamente messi in luce, oltre che la sostanza, pare riguardi anche la forma, ovvero la corretta interpretazione dei numeri e il modo di veicolare questo tipo di informazioni. Si pensi ad esempio all’entusiasmo con cui taluni accolgono gli aumenti “stagionali” dell’occupazione in Sardegna (l’ultimo in ordine cronologico risale al 3° trimestre del 2011, cioè ai mesi di luglio, agosto e settembre) e che mostra un aumento dell’occupazione di 12.000 unità rispetto al trimestre precedente e di 22.000 unità rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. L’aumento dell’occupazione, è bene ricordarlo, è solo l’ultimo in una serie di oscillazioni particolarmente ampie che si registrano in Sardegna proprio dal 2008, dall’inizio della crisi. Tra il 1° e il 2° trimestre del 2009, l’occupazione è aumentata di 52.000 unità, per poi crollare di 58.000 unità nell’arco dei due trimestri successivi. Così anche tra il 1° e il 2° trimestre del 2010 l’occupazione è aumentata di 37.000 unità per poi ridursi di 24.000 nei tre mesi successivi: questo spiega perché non è opportuno interpretare questi numeri come segni di un miglioramento strutturale, semmai, forse, come conferma di una peculiare situazione dell’isola. Il “ciclo di vita” dell’occupazione in Sardegna segue di anno in anno, da molto tempo, le stesse fasi e più o meno con la stessa intensità: l’occupazione aumenta a partire da aprile-maggio, cresce ancora a luglio- agosto, crolla a novembre-dicembre. Nell’ultimo anno, però, il picco più elevato dell’occupazione, che generalmente si posiziona nel 2° trimestre, si è spostato nel 3° trimestre: la spiegazione sta nel fatto che 2011 l’occupazione legata alla stagionalità estiva è stata limitata molto più del solito al periodo centrale (soprattutto luglio, agosto), in cui quindi si individua il picco dell’occupazione, mentre negli anni precedenti l’aumento stagionale dell’occupazione legata alle attività estive (turistiche e non solo) cominciava nel trimestre precedente (aprile, maggio, giugno). Alle varie forme di stagionalità delle attività economiche si somma l’articolazione dei rapporti di lavoro, che negli ultimi anni si è tradotta in una esplosione della frammentazione del lavoro. Dal gennaio del 2008 è stata introdotta in Italia una novità importante: il sistema di trasmissione telematica delle comunicazioni obbligatorie che i datori di lavoro pubblici e privati devono inviare al ministero del Lavoro e agli enti previdenziali (Inail e Inps) in caso di assunzione, proroga, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro. Maria Letizia Pruna e Riccardo Chessa hanno curato una analisi preliminare dei dati sugli avviamenti e le cessazioni dei rapporti di lavoro tra il secondo trimestre 2009 e il secondo trimestre 2011: sono numeri comunque superiori a quello dei lavoratori. Questo perché una persona può avere più contratti di lavoro, cioè più flessibilità, cioè, in definitiva, erosione del lavoro cosiddetto stabile. Il quale non è che se la passi meglio: in 33 mesi (dal 4° trimestre 2008 al 2° trimestre 2011) in Sardegna si sono avuti 13.000 contratti stabili avviati in media in ogni trimestre, per un totale di 140.000, e 14.000 contratti stabili cessati in media in ogni trimestre, per un totale di 154.000. Tre anni di crisi, una perdita netta: sono spariti 22.277 contratti stabili maschili e si sono aggiunti 13.067 contratti stabili femminili. Il saldo totale è negativo: 9.207 contratti di lavoro stabile in meno. Il lavoro a termine, invece, si è intensificato: 25 mila contratti in più. L’erosione del lavoro è anche una riduzione del tempo: in totale più di 76.000 occupati (donne) lavorano al massimo per 20 ore alla settimana. L’analisi è utile per capire come e quanto l’altra faccia delle opportunità stagionali sia rappresentata anche dalla disoccupazione. È diventato, di nuovo, il problema più grave in assoluto, soprattutto in territori come le province di Carbonia-Iglesias e Sassari, dove il fenomeno si accompagna a “interstizi occupazionali” riservati alle donne, perlopiù adulte. Le giovani, infatti, viaggiano su un altro quasi incredibile binario: fra i 15 e 24 anni, nella provincia di Carbonia- Iglesias, il 76 per cento di loro risulta disoccupato: il valore mai raggiunto prima in Italia. È importante sottolineare chla disoccupazione in Sardegna è costituita per quasi l’80 per cento da persone che hanno alle spalle una o più esperienze di lavoro, contro una media del 65 per cento nel resto del Mezzogiorno, in cui è ben più elevata la quota di persone in cerca del primo lavoro. Appena un anno dopo l’Unità, nacque a Cagliari il primo (e per lungo tempo anche l’unico) istituto tecnico della Sardegna. Era il 1862, a governare la città c’era Giovanni Meloni Baille e quella scuola, fondata per decreto del re Vittorio Emanuele II, prendeva il nome di “Istituto regio tecnico commerciale governativo”. Quattro gli iscritti al primo anno scolastico: due frequentanti e due uditori. Futuri e immaturi ragionieri che certo non pensavano di essere gli apripista di una fucina di talenti e professionalità. Nel 1862, quella scuola non aveva neppure il nome con cui sarebbe entrata nella storia cagliaritana: solo alcuni decenni dopo a qualcuno sarebbe venuto in mente di intitolarla a uno storico appassionato e intellettuale casteddaio finissimo come Pietro Martini. Fin da subito, però, si avvertiva l’importanza per la città e per l’Isola tutta di un laboratorio pronto a forgiare cittadini e lavoratori nuovi. C’era, dal primo istante, l’idea di uno sguardo rivolto al futuro che si respira ancora oggi, a 150 anni dalla fondazione, nei locali di via Sant’Eusebio. È lo stesso sguardo che, a quasi sessant’anni dal diploma, agita gli occhi di uno degli allievi (e docenti) più illustri del Martini, l’economista-ex ministro-riserva della Repubblica Paolo Savona, richiamato a Cagliari dalla preside Angela Testone per dare il via ai festeggiamenti del centocinquantenario (1862-2012) della nascita dell’istituto. Una ricorrenza alta, prestigiosa, che in una mattinata soleggiata di febbraio ha riunito nell’aula A della facoltà di Scienze politiche ed Economia, in viale Fra Ignazio, gli allievi illustri di ieri – oltre a Savona, seduta al banco dei relatori c’era anche la padrona di casa, la preside di Economia Ernestina Giudici – gli studenti di oggi, semplici cittadini e tante autorità, tra cui il sindaco Massimo Zedda e gli assessori alla Pubblica istruzione di Comune e Provincia, Enrica Puggioni e Franco Mele. Il piatto forte della festa, nei programmi degli organizzatori, era una lectio magistralis di Savona dal titolo tanto lungo quanto impegnativo: “La Sardegna nei nuovi equilibri geopolitici e geoeconomici. Il ruolo della cultura e dell’istruzione”. Subito, però, le cose hanno preso un’altra piega. “Sapete, sono nato nel 1936 ma in fondo resto un ragazzo come voi, nonostante la corazza esterna un po’ appesantita – ha scherzato Savona con gli studenti –. So bene che in una mattina di sole come quella che bacia questo incontro vorremmo tutti essere a passeggio per la città e non rinchiusi dentro un’aula. E allora lasciamo perdere la traccia che mi ero preparato con la diligenza che da sempre mi perseguita e proviamo a chiacchierare di alcune cose che penso vi potranno interessare”. Messo così in chiaro lo spirito, il professore ha quindi abbandonato la lectio magistralis a favore di una dissertazione agile e brillante su tutti i temi che animano il dibattito politico contemporaneo. Il futuro della Sardegna, dell’Italia, dell’Europa, i rapporti di forza tra le potenze mondiali, il mercato globale, le strategie per innovare, le qualità da possedere “per prendersi in mano il proprio futuro”: tutto racchiuso in una serie di pennellate tratteggiate da Savona per i ragazzi del Martini in un susseguirsi di pensieri globali e intimi, universali e particolari. Il professore parla con grande cognizione di causa del “fallimento della costruzione politica dell’Europa, delle opportunità e dei rischi per i paesi occidentali davanti al mercato senza confini creato dalla globalizzazione, della grave inadeguatezza delle istituzioni internazionali nell’affrontare il ritorno degli spiriti animali del capitalismo”. Tesse un elogio dell’ex sovrintendente del Teatro lirico Mauro Meli. Oggi al Regio di Parma (“i sardi sono specialisti nel privarsi delle vere competenze, era capace e dava fastidio”). Ma le parole più pesanti e incisive sono forse quelle dedicate al futuro dei ragazzi che oggi frequentano il Martini così come qualsiasi altra scuola del mondo. “Lasciate perdere il modello che dipinge la giovinezza spensierata e la maturità seria e assennata: è vero semmai il contrario – li ammonisce Savona –. Proprio voi ragazzi dovete avere fame, capire ora le vostre passioni e concentrarvi sui vostri obiettivi. Non fate mai l’errore di aspettare passivamente che la scuola via dia qualcosa, sia essa una singola nozione o un pomposo titolo: senza il vostro contributo, nessun docente vi darà mai nulla. E non illudetevi che le singole materie siano l’unica cosa da studiare o la più importante. Gli insegnanti giusti, prima delle nozioni, vi trasmetteranno il metodo: l’approccio logico che noi economisti, rimproverati per l’uso troppo frequente della lingua inglese, chiamiamounderstanding and problem solving: capire i problemi per risolverli, senza ricette precostituite”. Niente dogmi, quindi, ma solide basi costruite con animo critico. “Una volta, quando lavoravo alla Banca d’Italia accanto a Guido Carli – racconta l’ex ministro – grazie alle basi di contabilità apprese al Martini, mi accorsi che il dirigente e futuro amministratore delegato di Mediobanca, Vincenzo Maranghi, aveva redatto un modello contabile sbagliato. Carli, a cui dissi della mia scoperta, mi mandò subito da Enrico Cuccia, capo indiscusso di Mediobanca, che convocò Maranghi e gli fece una bella lavata di capo. Morale: il metodo è fondamentale, ma le basi occorre averle e bisogna anche che siano robuste”. Gli studenti, non paghi degli aneddoti, approfittano della disponibilità del professore e fanno tante domande, spaziando dalla micro alla macroeconomia. Giovanni Pani, per esempio, chiede a Savona cosa ne pensi del signoraggio bancario e di Giulio Tremonti (“una persona che stimo, ma alcune cose che dice ora poteva farle quand’era ministro”); Matteo Wu, invece, lo interroga sui tagli alla pubblica istruzione (“nonostante tutto si può fare ancora buona scuola e poi bisogna smettere di temere il contributo dei privati”); Federica Cossu domanda come sia possibile sviluppare l’artigianato sardo (“puntando sulla qualità e su un’efficace rete di distribuzione”); Alessia Pinna, invece, chiede un parere sull’abolizione del valore legale dei titoli di studio (“da fare subito, siamo già in ritardo”). La questione che richiede la risposta più lunga, alla fine, è quella sullo sviluppo della Sardegna nei prossimi decenni, un processo che secondo Savona passa per alcune parole d’ordine legate ad altrettanti settori in cui l’Isola “se la può giocare: le nanotecnologie, l’energia, la chimica finissima e, ultimo ma non per importanza, un turismo di alta qualità che intercetti i viaggiatori benestanti provenienti dai paesi emergenti (Brasile, Russia, India, Cina) e si integri alla perfezione con le produzioni dell’agro-pastorizia, rimasta troppo a lungo priva di una vera e capillare rete di distribuzione”. Così, tra domande e risposte, tra il villaggio globale e il piccolo paesello sardo, il Martini di oggi e quello di ieri, l’incontro scivola via veloce. Savona, peraltro, non è l’unico relatore ad avere racconti e buoni consigli per i ragazzi del pubblico. “Gli anni in via Sant’Eusebio sotto la presidenza del mitico professor Remo Fadda sono stati straordinari e io anch’io li ricordo ancora con affetto – racconta la preside di Economia, Ernestina Giudici –. Allora era fortissimo il senso di appartenenza a una comunità didattica che doveva essere impeccabile: Fadda teneva a questo più di ogni altra cosa e trasmetteva la sua passione a tutti. A quei tempi, le varie componenti marciavano come un corpo solo e l’autorevolezza del preside era cruciale. Non è un caso che quando poi sono tornata al Martini per la mia prima supplenza, varcando il portone, provassi ancora un certo timore reverenziale”. Anche ora che dirige la facoltà di Economia, il legame con la cara, vecchia scuola (che fra tre anni si chiamerà “Istituto tecnico economico”) continua, seppure sotto forma diversa. “Tanti ragazzi del Martini proseguono i loro studi da noi in viale Fra Ignazio – spiega la Giudici – e noi riscontriamo in loro una buona preparazione: si vede che la scuola guarda avanti, molto oltre la semplice ragioneria e non è casuale che per festeggiare i 150 anni dell’istituto si sia scelta proprio un’aula del polo giuridico- economico-politico dell’università di Cagliari. C’è un filo rosso, un percorso comune che mira a formare giovani svegli, preparati, determinati ad affrontare le sfide del mondo e del mercato del lavoro anche in questa congiuntura economica che certo non è una delle più favorevoli degli ultimi anni. È proprio per questo che si richiede a tutti uno sforzo in più”. La preside del Martini conferma: “A 150 anni dalla sua fondazione, l’istituto con i suoi 650 alunni e 60 docenti è ormai una realtà forte e al passo con i tempi”. Nell’offerta formativa attuale si possono pescare corsi in cui tradizione e innovazione si mischiano e per accorgersene basta guardare i titoli: si spazia dall’amministrazione, finanza e marketing alle relazioni internazionali per il marketing, dal turismo ai sistemi informativi aziendali, con un’attenzione particolare alle abilità informatiche e alla conoscenza delle lingue straniere (non solo l’inglese). “Noi guardiamo con orgoglio al passato e i festeggiamenti per il centocinquantenario lo dimostrano – spiega Angela Testone–. La nostra è una storia di cui andare fieri e l’anno prossimo, quando renderemo consultabile al pubblico l’archivio completo del Martini, tutti se ne potranno rendere conto. Gli occhi, però, sono rivolti al domani, per cercare di trovare un modo sempre nuovo di far crescere, anche grazie a un contatto continuo con l’università, cittadini e professionisti capaci di reggere l’urto dei tempi”. Una volta, la qualifica di ragioniere era sinonimo di posto fisso e rispettabilità sociale, oggi invece per conquistare l’uno e l’altra serve molto di più. Forse per i docenti la sfida è proprio questa, a un secolo e mezzo dalla fondazione: interpretare il mondo che cambia per dare ai ragazzi del 2012 le stesse armi che hanno permesso di affermarsi agli studenti illustri del passato. “L’approccio è quello che tanti anni fa portò Remo Fadda a far entrate il mondo del lavoro a scuola con l’esperimento del banco modello – assicura Testone–. Il problema è che nel frattempo è cambiato tutto e quindi ora gli sforzi da fare con l’università e il mondo delle imprese sono assai più duri, peraltro in un contesto di continui tagli alla scuola pubblica. L’impegno da parte nostra, però, non verrà mai meno. Lo dobbiamo ai nostri ragazzi e anche a questi 150 anni. Se siamo arrivati fin qui, una ragione c’è. Non dobbiamo dimenticarlo mai”. ___________________________________________ La Stampa 11 mar. ’12 L’IMMAGINE DELLA SINDONE FRUTTO DI UNA RADIAZIONE" Studio di un esperto padovano pubblicato in Usa: è l'ipotesi più attendibile a Sindone di Torino, il lenzuolo di lino che secondo la tradizione avrebbe avvolto il corpo di Gesù e che porta impressa la figura di un uomo crocifisso in un modo corrispondente al racconto dei vangeli, rimane un mistero. Uno studio appena pubblicato conclude che l'ipotesi altamente più probabile all'origine dell'immagine sindonica sia quella di una radiazione, in particolare dell'«effetto corona». Lo scrive Giulio Fanti, professore di Misure meccaniche e termiche al Dipartimento di Ingegneria industriale dell'Università di Padova, che da molti anni porta avanti una ricerca sulla Sindone. Lo studioso ha presentato i risultati del suo lavoro in un articolo appena pubblicato sulla rivista scientifica americana «Journal of Imaging Science and Technology» (www. dim.unipd.it/fanti/Sindone.htm). «Fin dal 1898, quando il fotografo Secondo Pia ottenne le prime riproduzioni fotografiche della Sindone, molti ricercatori hanno avanzato ipotesi di formazione dell'immagine», spiega Fanti a La Stampa. «Fino ad oggi sono state esaminate molte ipotesi interessanti, ma nessuna di queste può spiegare completamente la misteriosa immagine. Nessuna delle riproduzioni effettuate, nessuna delle copie fabbricate riesce a offrire caratteristiche simili a quelle del telo sindonico». L'articolo esamina in modo scientifico tutte le più importanti ipotesi, confrontandole con 24 caratteristiche peculiari dell'immagine scelte come le più significative fra le più di cento pubblicate anche recentemente su riviste scientifiche internazionali. Vengono passate in rassegna e vagliate le prime ipotesi formulate dai ricercatori che hanno analizzato le prime fotografie della Sindone agli inizi del '900, come quelle che attribuivano la formazione della figura al gesso o all'ammoniaca, all'effetto di un fulmine o a un calco con polvere di zinco. «Ho quindi preso in esame - spiega il professore - le ipotesi più sofisticate come quelle relative alla diffusione di gas o al contatto con il cadavere avvolto in un telo impregnato di aromi e sostanze varie». «Nella mia ricerca - continua Fanti - ho anche considerato la possibilità della compresenza di più meccanismi, riportando le idee di coloro che, dalla seconda metà del secolo scorso, hanno iniziato a dubitare sull'autenticità della Sindone e hanno quindi proposto tecniche di riproduzione in uso tra gli artisti medievali». Fra le ipotesi «artistiche» citate nell'articolo, vengono considerate anche quelle di Delfino Pesce e Garlaschelli. «Ho evidenziato - spiega lo studioso - quanto siano distanti i risultati sperimentali ottenibili perfino nel XXI secolo, dalle caratteristiche estremamente particolari della Sindone. Molti studiosi hanno infatti proposto copie artistiche ottime dal punto di vista macroscopico, ma che purtroppo sono molto carenti nel riprodurre molte particolarità microscopiche e che rendono quindi vano il risultato». Diversa è invece la conclusione per quanto riguarda la possibilità che all'origine vi sia stata una radiazione. Fanti cita le ipotesi di altri studiosi, e descrive i risultati del gruppo dell'Eriga che ha recentemente utilizzato laser eccimeri. «L'ipotesi della radiazione - osserva il professore - permette di avvicinarsi maggiormente alle particolari caratteristiche dell'immagine sindonica, ma presenta ancora un notevole problema: si possono solo riprodurre piccole parti di immagine dell'ordine del centimetro quadrato di tessuto, perche altrimenti sarebbero necessarie energie non ancora disponibili in laboratorio». Gli esperimenti eseguiti a Padova da Fanti in collaborazione con il professor Giancarlo Pesavento hanno richiesto «tensioni elettriche dell'ordine di circa 500.000 volt per ottenere immagini simil-sindoniche di pochi centimetri di lunghezza». I risultati dell'analisi scientifica condotta da Fanti sono riassunti in due tabelle che dimostrano come una sorgente di radiazione rappresenti l'ipotesi più attendibile. E fra le ipotesi di radiazione, «solo quella che si basa sull'effetto corona (particolare scarica elettrica) soddisfa tutte le caratteristiche peculiari dell'immagine corporea della Sindone», anche se per ottenere una figura così grande come quella presente nel telo torinese, conclude l'autore, «sarebbero necessarie tensioni fino a decine di milioni di volt. Oppure, uscendo dal campo scientifico, un fenomeno legato alla resurrezione». DUBBI «Nessun esperimento finora è riuscito a fornire prove certe» LE ANALISI «L'effetto corona, speciale scarica elettrica, sembra corrispondere all'originale» _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Mar. ’12 BRAND ITALIA: COME CI VENDIAMO ALL'ESTERO Arte, bellezza, storia e lingua: sono questi i tratti caratteristici dell'italianità che attribuiscono attrattività ai prodotti industriali del nostro Paese Investiamo sull'unico capitale che non andrà in default: quello umano. Aderisco al "Manifesto". Dario Cavazzuti Gli Istituti culturali potrebbero giocare un ruolo più incisivo, complementare a quello di Ice, Enit e Camere di commercio Riccardo Viale L'appello del Sole 24 Ore sul ruolo della cultura per lo sviluppo sottintende alcuni aspetti simbolici, spesso lasciati in ombra in passato. La cultura come dimensione di "civicness", come stimolo al pensiero critico e all'atteggiamento socratico, come emancipazione dalla schiavitù della immediatezza compulsiva della soddisfazione materiale. Tutti questi effetti simbolici hanno un ruolo profondo nella costruzione delle premesse per uno sviluppo economico solido, stabile e legittimato nel nostro Paese. Vi è poi un altro aspetto di tipo simbolico che collega la cultura al prodotto e quindi allo sviluppo. Recentemente si è cercato di capire, con alcuni studi, che ruolo possa avere il "nation-branding" sull'attrattività dei prodotti industriali. L'immagine di un Paese può essere analizzata attraverso varie caratteristiche che possono essere categorizzate principalmente in rappresentazioni mentali di tipo razionale, emozionale e sensoriale. È dimostrato, inoltre, che l'immagine di un Paese influenza in qualche aspetto la rappresentazione che viene fatta del prodotto industriale. Può, ad esempio, essere efficace nella valutazione del design o della affidabilità o del prezzo di un bene di consumo eccetera. Orbene da alcuni studi empirici si evidenzia come, a differenza degli altri Paesi, le principali variabili del brand Italia siano arte, cultura, bellezza, storia e lingua. E come queste caratteristiche ci mettano al primo posto nel mondo per quanto riguarda la valutazione dei consumatori sul design, lo stile e le rifiniture (solo secondi dietro la Francia) di un prodotto. Se questi dati sono corretti allora la forza del nostro export industriale deve molto anche a come riusciamo a rafforzare questa immagine culturale all'estero. Nell'era di internet non sono solo più i media tradizionali, carta stampata, televisione e cinema a essere il canale esclusivo di comunicazione a distanza. Così come sempre più sono rilevanti i rapporti diretti che i potenziali consumatori riescono ad avere con la cultura italiana soprattutto, ma non solo, come turisti del nostro Paese. Non solo, perché un rapporto diretto con la cultura avviene anche attraverso le molte occasioni di incontro culturale che imprese e istituzioni del nostro Paese riescono a promuovere a livello internazionale. In questo contesto si situa il ruolo della politica di promozione della cultura italiana all'estero e, in modo specifico, della rete degli Istituti italiani di cultura. Come dovrebbero operare gli istituti? Partiamo dal problema dei contenuti. In vari Paesi e soprattutto nelle più importanti capitali del mondo varie istituzioni culturali promuovono la cultura italiana in modo ottimale. Si pensi al Metropolitan Museum o al Metropolitan Opera di New York per fare un esempio. In genere la promozione avviene relativamente ad aree e periodi molto conosciuti, come l'arte del '500 o la musica lirica. Spesso mancano, però, interi periodi storici e sono assenti discipline e aree culturali. Poco diffuso ad esempio in molti Paesi il cinema contemporaneo, la letteratura contemporanea e la lirica contemporanea, per non parlare della musica sinfonica e il teatro. Assente quasi sempre il design e la cultura scientifica e industriale. Su queste defaillance della presenza della cultura italiana all'estero deve innestarsi il ruolo della nostra diplomazia culturale. Attraverso quali strumenti? A mio parere la rete dei Consolati offre un importantissimo luogo di circuitazione diffusa di iniziative di origine locale, nella comunità italiana, ma anche derivanti da offerte e proposte provenienti dal nostro Paese. Da questo punto di vista un rafforzamento della missione, del numero e della qualità degli addetti culturali e scientifici nei consolati produrrebbe un effetto moltiplicatore della nostra immagine all'estero. In un'ottica di sistema Paese gli addetti consolari sarebbero, inoltre, dei preziosi consiglieri per rafforzare il contenuto culturale delle iniziative commerciali di Ice, Enit e Camere di Commercio. Cosa rimane allora agli Istituti italiani di cultura? Una funzione principale e una secondaria. La principale è quella di cercare di esprimere la leadership della cultura italiana nell'ambiente dove operano. Ciò può avvenire solo se essi siano portatori di un reale valore aggiunto di temi, originalità, creatività e interlocutori di qualità rispetto all'offerta culturale del loro territorio. L'istituto deve quindi diventare una vera e propria impresa culturale competitiva, capace di far emergere l'eccellenza italiana in settori scarsamente conosciuti, insufficientemente valorizzati o d'avanguardia. La funzione secondaria è che l'istituto possa diventare il pivot e supervisore strategico della politica culturale dei consolati presenti nel suo territorio di giurisdizione. L'istituto dovrebbe perseguire l'obiettivo di economie di scala e di scopo caratterizzate, però, da una logica di coerenza e da una soglia minima di qualità culturale. Come potere raggiungere questi obiettivi in un'era di restrizioni economiche della finanza pubblica? Innanzitutto, se è vero che la cultura porta valore aggiunto al prodotto italiano e quindi alla crescita del nostro Paese, come lo fanno altri settori strategici come l'istruzione e la ricerca, allora anche le scelte di finanza pubblica dovrebbero essere conseguenti. Privilegiare investimenti per la crescita e tagliare quelli non strategici. E la stessa lungimiranza dovrebbe essere dimostrata dal settore privato. In secondo luogo gli istituti dovrebbero essere orientati in modo chiaro e determinato a diventare quasi-aziende culturali, incentivate nella loro libertà a trovare risorse esterne (ad esempio con lo strumento dei "matching fund"), premiate per la qualità dell'offerta culturale, stimolate a diventare il centro della vita culturale locale. Troppo spesso gli istituti sono stati dipinti come un luogo di «anime morte», con un personale senza motivazioni e responsabilità, avente l'obiettivo di sbarcare il lunario. Se questa raffigurazione è scorretta per una parte dei nostri istituti, il Paese oggi non si più permettere di sostenere la restante parte. Dal personale apicale, selezionato e allocato nelle varie sedi con criteri di primato professionale (culturale e manageriale) e di coerenza geografica a quello tecnico e di concetto, sottoposto periodicamente a valutazioni serie, sanzionatorie o premiali a livello economico e di carriera, gli istituti devono potenziare la loro efficacia e operatività per diventare delle agili e agguerrite "portaerei" del primato culturale dell'Italia nel mondo. riccardo.viale@fondazionerosselli.it © RIPRODUZIONE RISERVATA online Una suggestione a prescindere Non è importante che la produzione sia italiana, e neppure che il prodotto sia stato progettato in Italia: basta richiamarsi genericamente all'italianità perché la suggestione si inneschi. È qu qanto spiega Riccardo Viale in una conferenza per qla Columbia University, qil cui testo è disponibile in versione italiana sul sito del Sole. Ed è un dato allarmante, che mostra la precarietà qdi indicatori rassicuranti come quelli qche attribuirebbero al Belpaese, in termini qdi percezione a livello internazionale q, qun primato per l e q sfer e q dello stile e del design (dove risulteremmo qin testa alla classifica) , nonché per le rifiniture (dove saremmo secondi alla Francia). Oltre a scontare alcune valutazioni in sé negative (risultiamo qdebolissimi quanto a tecnologia, resistenza, affidabilità ), il fatto che il made in Italy si trovi a essere svincolato dalla dimensione territoriale nelle sue varie fasi di concezione e creazione, fa si che chiunque possa facilmente appropriarsene. Così se è vero che possiamo permetterci di vendere capi d'abbigliamento con l'etichetta "made in China", purché la griffe sia italiana, basta pure dare un nome italiano a un prodotto enogastronomico straniero perché questo venga scambiato, e suggestioni, come italiano. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Mar. ’12 LA TECNOLOGIA CHE FA PROGREDIRE Il genio collettivo uscito dal web L'inventore solitario? Un retaggio del passato Michael Nielsen spiega come la condivisione della conoscenza favorita da internet stia rivoluzionando il modo di fare scienza La carriera va in secondo piano Database e ricerche devono circolare liberamente per accelerare le scoperte con spirito di indipendenza Claudio Bartocci Nel 1999 Garry Kasparov, campione del mondo di scacchi, giocò una strana e agguerrita partita contro un avversario particolare, non un essere umano e nemmeno un computer, come nelle famose sfide contro Deep Blue: giocò contro "il Mondo". Una società di giochi online nell'orbita della Microsoft aveva allestito un sito web per la partita, nel quale chiunque era libero di entrare e di votare per la mossa successiva. Sebbene vi fosse un forum di discussione supervisionato da quattro consiglieri ufficiali – giovani giocatori di grande talento – e benché non mancassero gli autorevoli pareri di scacchisti accreditati a livello internazionale, le mosse eseguite dal World Team (una ogni 24 ore) erano sempre e soltanto quelle che ricevevano il maggior numero di voti. In media votarono, per ogni singola mossa, più di cinquemila internauti e all'intera partita presero parte oltre 50mila persone di 75 Paesi diversi. L'esito poteva apparire scontato in partenza: il più forte giocatore di scacchi del pianeta (e di tutti i tempi) contrapposto a una squadra a dir poco eterogenea, che si trovava costretta, per le regole stesse, a ridiscutere la propria strategia mossa dopo mossa e per di più a renderla nota al suo strapotente avversario. Ma le cose andarono in modo inaspettato. La decima mossa – suggerita da Irina Krush, una scacchista di appena quindici anni, la più inventiva dei quattro consiglieri e la più efficace a coordinare le discussioni spesso caotiche del forum – sorprende Kasparov e lo mette in seria difficoltà. Soltanto alla sessantaduesima mossa, dopo quattro mesi di gioco, quest'ultimo riuscirà ad avere la meglio sul World Team. Questa vicenda serve bene a introdurre uno dei temi portanti del primo, lucidissimo e provocatorio, libro di Michael Nielsen – fisico teorico di formazione e specialista di computazione quantistica – che scandaglia, come recita il titolo, Le nuove vie della scoperta scientifica. Quando gruppi numerosi di persone si trovano a interagire con gli strumenti resi disponibili dal web possono riuscire a risolvere problemi o a realizzare compiti che sono anche molto al di sopra delle capacità di ogni singolo individuo del gruppo. Nessuno dei giocatori del World Team sarebbe stato in grado di dare del filo da torcere all'allora imbattibile campione del mondo; ma grazie allo scambio fruttuoso di idee e intuizioni, alla sapiente opera di moderatrice svolta dalla Krush e all'opportunità di unire le forze per analizzare i possibili sviluppi di ogni mossa si giunse a un confronto ad armi pari – «la più importante partita mai giocata», come ebbe a dichiarare lo stesso Kasparov. Ammesso e non concesso che internet ci renda individualmente stupidi (come ha sostenuto Nicholas Carr in un saggio recente), le modalità di interazione online possono – la sottolineatura è doverosa – anche renderci collettivamente molto più intelligenti. Il libro di Nielsen non si propone di illustrare il fenomeno dell'"intelligenza collettiva" (secondo l'espressione coniata dal filosofo Pierre Lévy) dal punto di vista della sociologia, dell'antropologia o della psicologia, anche se abbonda di illuminanti osservazioni pertinenti a ciascuno di questi ambiti disciplinari. Piuttosto, l'intento dell'autore è di «capire come gli strumenti online possano amplificare attivamente l'intelligenza collettiva», e di indagare se e in che modo sia possibile progettare nuovi mezzi per incrementarla radicalmente. Attraverso una serie di case studies ben scelti – dalla creazione del sistema open source Linux, al progetto Polymath lanciato dal matematico inglese Tim Gowers; dal sito web Galaxy Zoo che arruola volontari per classificare immagini di galassie, al serissimo videogioco Foldit mediante il quale si può manipolare la forma tridimensionale delle proteine – Nielsen arriva a mettere a fuoco alcuni requisiti indispensabili a innescare un tale processo di amplificazione. In breve, è necessario che: 1) vi sia un insieme di regole e di ragionamenti di base condivisi e riconosciuti validi da tutti i partecipanti; 2) si renda la collaborazione il più possibile focalizzata, dinamica e modulare, in modo da valorizzare le microcompetenze specifiche; 3) si riesca a "pianificare la serendipità" – quel l'imprevedibile pizzico di fortuito che caratterizza un gran numero di scoperte scientifiche – lasciando campo libero anche alle idee in apparenza più strampalate; 4) si raggiunga una certa massa critica, sia nella massa di dati, sia nelle risorse umane. Anche se sarebbe da ingenui considerarla la "panacea del problem- solving", è fuor di dubbio che l'"intelligenza collettiva" derivante dalle potenzialità della rete, congiuntamente alle sterminate ricchezze delle banche dati, ha modificato profondamente il modo di "fare scienza", e che ancora più radicali saranno i cambiamenti che è plausibile prevedere nei prossimi due o tre decenni. In campi disparati come la biologia, la chimica, l'astronomia e perfino la matematica, un numero sempre maggiore di traguardi sarà raggiunto non grazie all'intuizione solitaria e geniale di un singolo scienziato ma attraverso la cooperazione creativa di gruppi di individui, ognuno con le sue competenze, per modeste che siano. Ma per realizzare l'obiettivo di "reinventare la scoperta" (così il titolo originale) – sottolinea con forza Nielsen – è tanto urgente quanto necessario cambiare le pratiche di gestione e di condivisione della conoscenza, e ridefinire l'etica stessa della ricerca scientifica. Occorre che i giganteschi database in cui sono ammassate le informazioni scientifiche – dalla medicina alla fisica – diventino accessibili a tutti, che l'open source sia la norma e non l'eccezione, che venga data libera circolazione a preprint, report e articoli di ricerca. Soprattutto, gli scienziati, intesi come comunità, devono liberarsi dall'ossessione del "publish or perish" e si sforzino di riallineare l'interesse personale (e perfettamente legittimo) di fare carriera con l'interesse collettivo. Solo così sarà possibile arrivare una "citizen science" aperta, non elitaria, indipendente. Una scienza dei cittadini e per i cittadini. © RIPRODUZIONE RISERVATA Michael Nielsen, Le nuove vie della scoperta scientifica, Giulio Einaudi, Torino, pagg. 280, € 28,00 _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Mar. ’12 VIA AL COLLAUDO DEL RADIOTELESCOPIO DELLA SARDEGNA A Prano Sanguni, 35 chilometri da Cagliari, sono terminati i lavori per la realizzazione del Sardinia Radio Telescope. Il 15 febbraio è stato chiuso il cantiere e inizia ora la fase di collaudo dello strumento. «Quel che resta da fare sono tutte le tarature e le calibrazioni del “motore” di questa macchina», spiega Andrea Possenti, direttore dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Cagliari. «Motore ovviamente in senso lato, giacché parliamo di un’antenna pensata per raccogliere radioonde provenienti dal Cosmo. Alla fine delle attività di calibrazione arriveremo finalmente al momento più emozionante: catturare la prima onda proveniente da un corpo celeste». Lo strumento è stato realizzato per applicazioni che vanno dalla radioastronomia, alla geodinamica alle scienze dello Spazio, ed è in grado di ricevere le onde radio con frequenza compresa tra 0,3 e 100 gigahertz. Finanziato principalmente dal ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, dall’Agenzia spaziale italiana e dalla Regione, consiste in una parabola di 64 metri di diametro, la seconda più grande al mondo “attiva”, cioè in grado di mantenere la sua forma annullando le sollecitazioni dovute alla forza di gravità e al vento. «Grazie alla sua capacità di captare le sorgenti radio più deboli, darà un significativo impulso nelle ricerche su quasar, pulsar, nuclei galattici attivi e radiogalassie», sottolinea Luigina Feretti, direttrice dell’INAF-Istituto di Radioastronomia e presidente del Board di gestione di SRT. «E, come già avviene per le antenne INAF di Medicina e Noto, sarà inserito nella rete europea e mondiale per osservazioni radioastronomiche congiunte nota come VLBI (Very Long Baseline Interferometry)». (G. R.) _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Mar. ’12 RSU PUBBLICO IMPIEGO, VINCE LA CISL La Cisl-Funzione pubblica ha rivendicato la vittoria nelle elezioni per le Rsu, confermandosi primo sindacato nel pubblico impiego. «È questo il risultato che viene fuori con la scrutinio dei voti - dice il segretario di categoria Davide Paderi - il risultato è omogeneo su tutti i territori e dimostra il successo delle liste e dei candidati della Cisl nei vari comparti e settori». Secondo le prime analisi la Cisl avrebbe ottenuto voti maggiori rispetto agli iscritti, consolidando il primato della precedente tornata elettorale, datata 2007: «Nei prossimi giorni faremo un’analisi nel dettaglio delle singole realtà. Prosegue, dopo questo risultato, con maggiore convinzione e responsabilità, il percorso della Cisl - continua Paderi - un cammino talvolta controcorrente rispetto alle proposte impercorribili o alle proteste senza proposta». ========================================================= _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 Mar. ’12 AOUCA: MONTI CHIUDE IL SAN GIOVANNI "Il Civile non è più a norma" l decreto Milleproroghe di fatto sentenzia la chiusura dell'Ospedale Civile. Filigheddu annuncia il trasferimento entro l'autunno di Ginecologia e pediatria al Policlinico. LEGGI L'ARTICOLO COMPLETO SU L'UNIONE SARDA La visita dei Vigili del fuoco è attesa ad aprile. Da allora inizierà il conto alla rovescia per lo sgombero del San Giovanni di Dio. Il vecchio Ospedale civile, senza alcun dubbio, non sarà in grado di rispettare le nuove norme del decreto ministerialeMilleproroghe che impone l'accreditamento definitivo di tutti gli ospedali italiani entro una data improrogabile: il primo gennaio 2013. E se per il Brotzu, il Marino, il Santissima Trinità, il Binaghi, il Businco e il Microcitemico ottenere il nulla osta ministeriale non è particolarmente complicato, discorso inverso per l'edificio costruito nel 1844 su progetto dell'architetto Gaetano Cima. Per adeguarlo alle norme servono milioni di euro. Soldi buttati, visto che il trasferimento dei reparti al Policlinico universitario di Monserrato è dato come imminente. SAN GIOVANNI DI DIO. Ennio Filigheddu: «In autunno trasloco al Policlinico» Il Civile a rischio inagibilità Nell'ospedale impianti vecchi e allarme sicurezza VEDI TUTTE LE 2 FOTO La visita dei Vigili del fuoco è attesa ad aprile. Da allora inizierà il conto alla rovescia per lo sgombero del San Giovanni di Dio. Il vecchio Ospedale civile, senza alcun dubbio, non sarà in grado di rispettare le nuove norme del decreto ministeriale Milleproroghe che impone l'accreditamento definitivo di tutti gli ospedali italiani entro una data improrogabile: il primo gennaio 2013. E se per il Brotzu, il Marino, il Santissima Trinità, il Binaghi, il Businco e il Microcitemico ottenere il nulla osta ministeriale non è particolarmente complicato, discorso inverso per l'edificio costruito nel 1844 su progetto dell'architetto Gaetano Cima. Per adeguarlo alle norme servono milioni di euro. Soldi buttati, visto che il trasferimento dei reparti al Policlinico universitario di Monserrato è dato come imminente. IL CONTO ALLA ROVESCIA Il decreto Milleproroghe non sembra lasciare vie di scampo. Sarà una sentenza inappellabile per l'ospedale che per sopravvivere dovrà essere sottoposto a interventi radicali di sistemazione. A verificare che lo stato e le condizioni delle strutture rispettino le norme provvederanno i Vigili del fuoco. I tecnici di viale Marconi hanno già stilato la tabella di marcia delle ispezioni cagliaritane. Tra poco più di un mese scatteranno i controlli al San Giovanni di Dio. Al termine verranno rilasciate le inevitabili prescrizioni che dovranno essere messe in atto entro la fine dell'anno. Altrimenti non ci sarà alternativa alla chiusura. Per il vecchio Ospedale Civile non c'è alternativa alla dismissione. I soldi necessari per la messa a norma sarebbero sprecati, non solo perché la struttura è ormai un monumento tutelato dalla Sovrintendenza - che potrebbe non concedere le autorizzazioni per i lavori - ma soprattutto per l'annunciato trasloco a Monserrato. La struttura dell'Azienda mista (Università-Regione), è chiamata a una corsa contro il tempo per completare i lavori al Policlinico e dare il via al trasloco dei reparti. LOTTA CONTRO IL TEMPO Ennio Filigheddu è il direttore generale dell'Azienda mista. Quanto costa mettere a norma il San Giovanni di Dio? «Abbiamo stimato che per eseguire le opere minime servono almeno 16 milioni di euro». Una cifra enorme che da sola non basta per mettere in evidenza tutti i limiti dell'Ospedale civile. «Con le nuove norme ogni ricoverato dovrà avere a disposizione più metri quadri. Un fatto che ci impone di ridurre i posti letto e non rientrare così nei parametri». Sette anni fa il Comitato tecnico regionale aveva approvato uno studio, mai messo in opera, ma pagato profumatamente ai progettisti, da 8 milioni di euro. «Abbiamo a disposizione poco più di due milioni per alcune opere di ristrutturazione compresi gli ascensori. Soldi virtuali - afferma Filigheddu - fermi in attesa che vengano prese le decisioni politiche sul futuro del San Giovanni di Dio». TRASFERIMENTO IN AUTUNNO Filigheddu non vede l'ora di trasferire il San Giovanni di Dio e la Clinica Macciotta al Policlinico. Trasloco annunciato decine di volte. «I lavori per il Blocco Q, riservato alla Ginecologia e alla Pediatria, sono in dirittura d'arrivo. Abbiamo bisogno ancora di 200 mila euro per completare alcuni dettagli, ormai mancano solo le rifiniture e il certificato di prevenzione incendi per gli altri cinque blocchi. Le procedure per gli arredi, le sale parto e le Terapie intensive neonatali sono in corso. Apriremo - conclude Filigheddu - entro l'autunno». Di quest'anno? «Sì». Andrea Artizzu _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 06 Mar. ’12 AOUCA IL GRAN TRASLOCO ENTRO L’ESTATE Ginecologia e parte della «Macciotta» al policlinico CAGLIARI. Il blocco Q del policlinico di Monserrato sarà finito entro maggio perché così prevede l’appalto, se non ci saranno ritardi nella gara per comprare letti, comodini ecc. il trasloco di Ginecologia e Ostetricia con puericultura e terapia intensiva della clinica Macciotta non andrà oltre l’autunno 2012. E il San Giovanni? Resta ospedale, per qualche anno. La crescita del policlinico universitario è disordinata e il vecchio ospedale resterà funzionante per alcuni reparti ancora senza sede a Monserrato. L’edificio chiamato blocco Q deve essere finito ma questi ultimi spezzoni di lavori non sono stati appaltati assieme. Con una gara viene costruita una sala operatoria assieme alla terapia intensiva, con un’altra le sale parto. Una volta finiti i lavori, a Monserrato si trasferirà una parte della clinica Macciotta, quella che deve stare accanto a un’ostetricia, vale a dire la puericultura e la terapia intensiva neonatale. Il resto della Macciotta, che sono la pediatria e la neuropsichiatria infantile, è possibile che vada nel grande polo pediatrico in allestimento all’ospedale Microcitemico il quale assorbirà anche la pediatria del Brotzu, progetto a cui lavora l’Asl 8, lo stesso Brotzu e l’università come ha annunciato di recente il rettore Giovanni Melis. Tornando al San Giovanni e al policlinico: il primo e il secondo piano dove ora ci sono le degenze verranno svuotati. E’ urgente perché l’edificio ha 200 anni che pesano sull’efficienza delle strutture, in questi giorni l’unico ascensore è guasto e la corsa a ripararlo sembra comunque troppo lenta. La vecchia idea entrata in un accordo con la Regione che poi è stato cancellato di reinventare la vita del San Giovanni e trasformarlo in un museo o in una foresteria universitaria è tramontata: non perché priva di suggestione ma perché se anche l’accordo fosse tuttora in piedi ci sono tre reparti più un servizio che al policlinico non hanno un alloggio neppure immaginato. Entro il 2013 si progetta di trasferire dal San Giovanni a Monserrato Cardiologia, Chirurgia, pronto soccorso e laboratori ma, appunto, non c’è ancora sede per Dermatologia, Oculistica, Radiologia (appena ristrutturata) e per un servizio di Farmacologia. Dunque, come spiega il direttore generale Ennio Filigheddu, il San Giovanni ancora per qualche anno deve restare ospedale. «Sarà comunque molto utile - spiega il manager - perché contiamo di portare qui una serie di uffici amministrativi ora sparsi tra il centro e Monserrato. Il traguardo, naturalmente, deve essere che l’intera azienda universitaria trovi posto a Monserrato, ma per ora si ritiene che per esempio un reparto di Radiologia che ha un apparecchio Tac piuttosto recente in un reparto ristrutturato nel 2007 debba restare qui ed evitare traslochi che possono danneggiare la macchina». Insomma il San Giovanni sarà un contenitore sanitario in attesa che la cittadella universitaria sia finita. Una svolta potrebbe arrivare con lo stanziamento del Cipe di 40 milioni di euro sollecitato dalla Regione per finire il policlinico e radunare a Monserrato anche le cliniche sparse in città (Urologia, Ortopedia). Sulle proprietà: il San Giovanni è dell’azienda mista, la palazzina della «Macciotta» svuotata tornerà nella disponibilità dell’università padrona di casa. Infine: entro il 2012 deve essere inaugurata la fermata del metrò al policlinico. (a.s) _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Feb. ’12 AOUCA: SCREENING PER BATTERE IL TUMORE Il cancro del colon retto fa paura ma la prevenzione può essere decisiva La malattia, causata dalla degenerazione di un polipo, si batte rimuovendo la neoformazione I trattamenti migliorano ma il tumore del colon retto fa ancora paura: la sopravvivenza a 5 anni non supera il 58%. Numeri preoccupanti soprattutto perché è una malattia ad alta incidenza. Orientativamente, dicono le statistiche, sei individui su cento sviluppano un cancro colo-rettale: non a caso, è la seconda causa di morte per tumore e tra le prime in assoluto nei paesi industrializzati. «Nella grande maggioranza dei casi - spiega Giuseppe Casula, ordinario di chirurgia generale dell'Azienda ospedaliero-universitaria - lo sviluppo della neoplasia maligna, il carcinoma, avviene per la degenerazione, nel tempo, di una neoformazione benigna, il polipo adenomatoso. Per questa caratteristica il cancro colo- rettale può essere considerato uno delle più prevenibili forme tumorali: basta interrompere, con l'asportazione del polipo, la sequenza polipo- cancro per impedirne l'insorgenza». I programmi di screening si basano sulla ricerca, nella popolazione dai 50 anni in su, del sangue occulto nelle feci. I soggetti positivi vengono sottoposti a esame endoscopico del colon, per rivelare la presenza di eventuali lesioni tumorali che, se di aspetto benigno e asportabili, vengono rimosse nel corso dell'esame, se con caratteristiche di malignità avviate al trattamento più idoneo. Trattare il carcinoma precocemente aumenta le possibilità di sopravvivenza. In Sardegna la ricerca evidenzia 1.159 nuovi casi e 478 decessi all'anno. Indipensabile la prevenzione: i risultati degli esami endoscopici, eseguiti a Monserrato confermano la validità dello screening: «Nei primi 74 soggetti esaminati, tutti asintomatici, sono stati identificati (e asportati) polipi nel 48,6% dei casi, mentre nel 6,75% è stato diagnosticato un carcinoma, poi rimosso chirurgicamente», dice Casula. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Feb. ’12 AOUCA: AL SGD LA MAMMOGRAFIA AL PIANO TERRA San giovanni di dio L'Azienda ospedaliero-universitaria prosegue sulla strada della riorganizzazione interna. Nei giorni scorsi la mammografia del San Giovanni di Dio è stata spostata al piano terra, nei locali che un tempo erano riservati alla farmacia interna. Per accedervi non sarà più necessario passare dall'androne principale, ma si entrerà dal secondo ingresso. Novità anche per i prelievi, che sono stati trasferiti nei locali dell'ex direzione medica, sempre al primo piano ma in prossimità dell'uscita laterale. I locali sono più grandi e confortevoli e i pazienti non saranno più costretti a sostare nel corridoio. Nella sala d'attesa saranno sistemati nei prossimi giorni anche dei televisori al plasma. «Si tratta di piccole modifiche ma sostanziali», dicono Roberto Sequi, direttore sanitario e il direttore amministrativo Piero Tamponi. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 09 Mar. ’12 ASL, I MANAGER CHE SFORANO I BUDGET SARANNO LICENZIATI Previste sanzioni ai manager che sforano il budget delle Asl CAGLIARI. Sanità a pezzi e il Consiglio regionale cerca di correre ai ripari. Con l’ultima legge finanziaria sono stati posti due paletti importanti: 1) il divieto di finanziare il deficit del servizio sanitario regionale; 2) la risoluzione del contratto per i manager delle varie Asl che non rispettassero il budget loro assegnato. Non è la soluzione dei mali ma è un primo passo: sinora è mancato il controllo e non era stata prevista alcuna misura sanzionatoria da parte della Regione. Basterà a invertire la rotta? Il problema è capire chi controllerà i controllori. Le misure introdotte nella Finanziaria sono state ampiamente condivise: «Ogni Asl ha un bilancio proprio», ha affermato il capogruppo del Pd, Giampaolo Diana, «ed è quantomeno giusto che sia rispettato il budget». I controllori non possono che essere l’assessore alla Sanità e il Consiglio: «Un’amministrazione rigorosa dovrebbe prevedere controlli semestrali e non scaricare tutto sul bilancio della Regione». In realtà il buco della sanità ha origini lontane: la Regione - ha certificato la Corte dei conti - non ha conseguito gli obiettivi del piano triennale (2007-2010) di rientro dal deficit già concordato con lo Stato. E per questo motivo la Sardegna ha perso 14 milioni di euro di finanziamenti statali. Poi il buco nero della spesa: nel 2010 sono usciti dalle casse regionali tre miliardi e 647 milioni per via di una parte dell’accordo Stato-Regione sulle entrate. Era solo una parte, quella in cui la Regione si assumeva l’onere della sanità, l’altra, inattuata, prevedeva che lo Stato versasse all’isola ottocento milioni di euro. Al di là dei numeri manca nell’isola un piano sanitario e la sensazione è che gli stessi manager debbano navigare a vista. «È da rivedere la rete ospedaliera, valutare costi e benefici sui territori», afferma Giampaolo Diana. L’assessore Simona De Francisci ritiene che si debba investire sull’alta specializzazione: «La Giunta ha investito sull’alta specializzazione e l’ammodernamento tecnologico. Un primo passo nell’ottica della collaborazione sinergica con Università e in particolare con la facoltà di Medicina: L’obiettivo è di offrire servizi di eccellenza e garantire un prendersi cura della persona più solidale». Se ne parlerà il 17 aprile quando il ministro della salute, Renato Balduzzi verrà in Sardegna per fare una ricognizione sulle emergenze sanitarie. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Mar. ’12 NEL CORSO INFERMIERI A NUORO POSSIBILI SOLO TRENTA ISCRIZIONI Il corso di laurea in Scienze infermieristiche a Nuoro non può raddoppiare gli iscritti. Lo ha ribadito ieri a Cagliari il rettore dell’Università Giovanni Melis incontrando Caterina Loi, commissario del Consorzio universitario. A dimostrare l’attenzione dell’ateneo per il Nuorese, all’incontro hanno partecipato anche i presidi delle facoltà di Medicina Mario Piga e Scienze politiche Paola Piras. Attenzione che non può superare però la normativa nazionale e i tagli della Riforma Gelmini che, si legge in una nota diramata dall’Università, «non consentono ulteriori ampliamenti dei corsi di laurea presenti a Nuoro. La forte contrazione degli organici e i più stringenti requisiti sulla docenza minima hanno imposto in tutti gli atenei un significativo processo di razionalizzazione dei corsi». Caterina Loi ha chiesto il raddoppio da 30 a 60 di Scienze infermieristiche. Ma - come si legge nel comunicato - l’Università di Cagliari ha potuto solo «confermare gli impegni assunti». Gli stessi numeri inoltre non sembrerebbero puntellare la richiesta di potenziamento. Dei 30 aspiranti infermieri iscritti al primo anno, sono 11 risiedono nella provincia di Nuoro (appena 3 in città). Paradossalmente quindi l’Università di Cagliari fa concorrenza a se stessa tra la sede centrale e quella barbaricina. Negli ultimi tre anni poi, sono 37 su 289 gli infermieri del Nuorese che si sono laureati globalmente nei corsi di Cagliari e Nuoro. Durante l’incontro il rettore Melis ha ricordato che sono iscritti all’Università di Cagliari più di quattromila residenti nel Nuorese e nell’Ogliastra, sollecitando la collaborazione del Consorzio per allestire, almeno a Nuoro, un centro di supporto per sostenere la didattica e lo studio, in cui realizzare - con l’impiego di qualificato personale locale - funzioni di tutoraggio e raccordo didattico con la sede centrale, rivolto in particolare agli studenti pendolari e ai lavoratori. Tale struttura - in cui far convergere con appositi strumenti tecnologici corsi di riallineamento, prove di idoneità e gli insegnamenti in modalità e-learning delle più importanti discipline dei primi anni dei corsi di laurea. «Ci auguriamo - è il commento del professor Giovanni Melis - che la disponibilità alla collaborazione a sostegno dei giovani universitari nuoresi possa costituire la base comune per concorrere con l’Ateneo a sostenere lo sviluppo del territorio». _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 09 Mar. ’12 UNICA: A NUORO APRIAMO UN CENTRO DI SUPPORTO DIDATTICO L’offerta del rettore dell’università di Cagliari al commissario del consorzio NUORO. Un centro di supporto alla didattica, che sostenga i quattromila residenti delle province di Nuoro e Ogliastra che studiano all’università di Cagliari. Questa l’«offerta» che ieri mattina una delegazione dell’Ateneo cagliaritano, guidata dal rettore Giovanni Melis, ha messo sul tavolo durante un incontro con il commissario del consorzio per la promozione degli studi universitari. Chiarendo: «nessun ampliamento dei corsi è possibile». «Durante la riunione - sottolinea una nota dell’università - sono stati ribaditi gli impegni che l’ateneo ha assunto ed è stato precisato che la normativa nazionale e i tagli della riforma Gelmini non consentono ulteriori ampliamenti dei corsi di laurea presenti a Nuoro. La forte contrazione degli organici della docenza e i più stringenti requisiti sulla docenza minima necessaria per l’apertura di un corso di laurea richiesti dal Ministero a partire dall’anno accademico 2009/2010 hanno imposto un significativo processo di razionalizzazione dei corsi attivati in tutti gli Atenei». «L’Ateneo - ricordando che sono attualmente iscritti all’università di Cagliari più di 4mila studenti residenti nel Nuorese e nell’Ogliastra - continua la nota - ha sollecitato la collaborazione del Consorzio per allestire a Nuoro un centro di supporto per sostenere la didattica e lo studio degli universitari, in cui realizzare - con l’impiego di qualificato personale locale - funzioni di tutoraggio e raccordo didattico con la sede centrale, rivolto in particolare a pendolari e lavoratori. Tale struttura - in cui far convergere con appositi strumenti tecnologici corsi di riallineamento, prove di idoneità e gli insegnamenti in modalità e-learning delle più importanti discipline dei primi anni dei corsi - rafforzerebbe il sistema universitario regionale e costituirebbe un polo culturale a servizio della comunità senza oneri finanziari significativi per il Consorzio». (g.bua) _____________________________________________________________ Corriere della Sera 27 Feb. ’12 SANITÀ TAGLIATA NELLE REGIONI IN ROSSO Meno assunzioni e posti letto, il pareggio spesso è a scapito dell' assistenza ROMA - È scritta nelle relazioni periodiche sui piani di rientro dal deficit delle Regioni la verità sui molti disastri sanitari. Basta scorrere le conclusioni dei vari tavoli tecnici tra Regioni ed esperti del Ministro della Salute per scoprire un quadro spesso drammatico, caratterizzato da sprechi e cattiva organizzazione. I documenti che attestano lo sfacelo sono nelle mani delle sanità locali. Analizzando l' andamento dei disavanzi delle Regioni, obbligate a risanare i conti, si comprendono le cause di una sofferenza molto più profonda di quella culminata negli episodi drammatici delle ultime settimane a Roma. L' impressione è che il peggio debba ancora arrivare. E che quanti elogiano il sistema sanitario italiano come il migliore del mondo dovrebbero ricredersi. Non si dovrebbe più parlare di equità. Esistono 21 sistemi. Alcuni virtuosi e affidabili come Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia Romagna e Marche che tendono al pareggio. Altri che invece sperperano. La sintesi del 25 gennaio sui primi tre trimestri del 2011 contiene giudizi che tendono al brutto. Le strategie di contenimento delle 8 indisciplinate in rosso hanno portato qualche risultato. Per i cittadini però solo dolori, a tagli e chiusure non sono seguite azioni di riqualificazione. C' è ancora molto da fare. Lo sblocco dei fondi trattenuti dal governo (il 10% del budget complessivo) è stato riconosciuto solo a Calabria e Puglia, niente soldi a Lazio, Campania, Abruzzo, Molise, Piemonte, Sicilia che però ha attuato un piano molto efficace. Le azioni economicamente più efficaci sono state ovunque il blocco del turnover con conseguente stop alle assunzioni incontrollate, centralizzazione dei bandi per l' acquisto di beni e servizi, taglio dei posti letto non compensati però da altre forme di assistenza. I cittadini la stanno pagando cara. «Stiamo lavorando con le Regioni per migliorare la rete di ambulatori e strutture alternative all' ospedale ed entro aprile sarà pronto un piano per i pronto soccorso», dice il ministro della Salute, Renato Balduzzi. Respinge il voto negativo Renata Polverini, governatore del Lazio: «Il tavolo di dicembre non si è concluso e le conclusioni ci sorprendono. Stiamo lavorando bene specie nel settore degli acquisti. Su 10 gare abbiamo risparmiato 350 milioni in 3 anni e da questi interventi ci aspettiamo molto». L' obiettivo è ridurre il disavanzo a 840 milioni nel 2011 e 650 quest' anno: «Ce la faremo. La qualità dei servizi? Il processo di rientro dal debito è più lento della riorganizzazione delle cure». Luciano Bresciani, assessore della «virtuosa» Sanità Lombarda contesta il meccanismo dei piani: «Non funziona, sono una scusa. Per noi mantenere il pareggio sarà sempre più dura. L' unica via è agire sulle cure inappropriate, dove abbiamo già fatto moltissimo». Margherita De Bac mdebac@corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA **** Asl, dai bandi singoli alla centralizzazione Piemonte Nessuna spettanza sulla base della sintesi relativa ai primi 9 mesi del 2011 e all' analisi dell' andamento dei piani di rientro viene riconosciuta al Piemonte perché la verifica degli adempimenti per il 2010 presenta ancora molte criticità mentre per il 2011 i provvedimenti sono insufficienti per provare l' attuazione di quanto previsto dal Piano. Secondo gli esperti degli organismi di verifica «emerge un disavanzo non coperto di 60 milioni». Le manovre più pesanti sui costi interessano personale, convenzioni col privato, compresa l' assistenza legata all' uso di protesi e le procedure per l' acquisto di beni e servizi. L' accordo col Piemonte, unica Regione del Nord che ha pattuito i suoi impegni col governo, è stato siglato nel 2010. La manovra è impostata principalmente sul personale (blocco parziale del turnover , mancata attivazione di nuovi servizi) e sulla gestione degli acquisti di beni e servizi tra cui sono specificate protesi e dispositivi medici. Si intende passare da bandi per le singole Asl a procedure centralizzate che in Sicilia e Lazio hanno prodotto buoni risultati. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Blocco del turnover anche per i medici Puglia Non completato ancora, in Puglia, il processo di riorganizzazione della rete territoriale residenziale e domiciliare. Poco efficaci i provvedimenti per contrastare l' inappropriatezza. Troppe deroghe nel blocco del turnover . Ritardi nell' adozione del regolamento per la gestione centralizzata degli acquisti. Risultato: sulla base dell' istruttoria vengono erogate «risorse nella misura del 60% del maggior finanziamento per il 2006 e 2008 e della quota del 60% per il 2009». Per il 2011 la Regione ha calcolato un disavanzo tendenziale strutturale di 420 milioni che prevedeva di riequilibrare con una manovra da 295 milioni circa. È stato necessario ricordare ai tecnici pugliesi che in questa situazione di difficoltà non sono possibili deroghe al blocco di nuove assunzioni. In pratica chi va in pensione non può essere sostituito, medici compresi. Il rischio è che gli ospedali vadano sotto organico e le più esposte al collasso sono le strutture per l' emergenza come i pronto soccorso, specie nei periodi di maggior affluenza. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Resta da incrementare il servizio sul territorio Sicilia In questo panorama si salva la Sicilia dove la sanità è affidata a un magistrato, Massimo Russo. Le azioni intraprese sono valutate positivamente. «La stima a chiudere per il 2011 pari a 94,6 milioni prima delle coperture fiscali è coerente con quanto programmato di 91,7. Tale stima trova copertura nelle risorse programmate derivanti dalla leva fiscale». Ancora in corso la verifica degli adempimenti dal 2008 al 2010, superata quella sul 2007. I tecnici segnalano la necessità di incrementare l' assistenza territoriale per adeguarla al numero di abitanti. «Siamo partiti da meno 700 milioni nel 2008 - dice Russo -. Due anni dopo eravamo a meno 97. Abbiamo riformato un sistema feudale, ora ci sono ambulatori e punti di riferimento non ospedalieri per i cittadini. Arriveremo al pareggio nel 2013. Tanti sprechi abbiamo tagliato. Sono saltati il 16% dei primari di dipartimento e il 14% di quelli che dirigono strutture cosiddette semplici. Tutto questo è stato possibile grazie alla volontà del presidente Raffaele Lombardo». Tagliate 12 Asl su 29. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Venti milioni di stipendi da risparmiare Molise Il disavanzo non coperto nel Molise per il 2011 è di 22,5 milioni, quello complessivo, incluse le perdite precedenti, sfiora i 50. Malgrado la dimostrazione di «maggiore consapevolezza sulle criticità» bisogna spingere l' acceleratore. Gli esperti chiedono di intervenire con tutte le forme possibili «compresa l' introduzione di ticket». Il Piano operativo del biennio «manca di azioni relative all' assistenza territoriale per anziani e disabili e presenta lacune». C' è insufficiente chiarezza su come il Molise intende raggiungere l' obiettivo del bilancio di gestione pertanto «niente spettanze residue». Non esistono i presupposti per l' accesso ai fondi Fas (fondi per le aree sottoutilizzate, quelli previsti per il Sud) per la copertura del disavanzo fino al 2009. Alcune strutture della sanità regionale continuano a presentare «rilevanti criticità di contabilizzazione e affidabilità dei dati».Per il biennio 2011-2012 il Molise punta su una manovra incentrata sulla gestione del personale che dovrebbe portare risparmi rispettivamente di 12 e 20 milioni. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Accetta su ospedali e nuovo personale Lazio Gravissimi i ritardi. Nella relazione si parla di lentezza nell' attuazione dei provvedimenti indicati nel piano di rientro e di «mancato rafforzamento della governance regionale». È evidente «uno scostamento rispetto a quanto programmato nel piano e si profila un disavanzo non coperto di 75 milioni». Dunque, niente fondi fino a quando non verranno rispettate alcune richieste dei tecnici. Manca una relazione sulla rete ospedaliera e «in ordine al costo del personale non risultano atti di contestazione formale verso i direttori generali inadempienti». Gli interventi più pesanti riguardano la rete ospedaliera (125 milioni nel 2011) e il personale (91 milioni di risparmi) anche attraverso il blocco del turnover (62 milioni) che però sarebbe stato solo parziale senza interessare tutte le strutture in modo lineare. Il Lazio si era inoltre impegnato, di pari passo con la chiusura di piccoli ospedali, a potenziare il territorio attivando anche posti di Rsa. Non ancora pervenuto l' accordo con il Policlinico Gemelli e con la Fondazione Santa Lucia. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Le residenze per anziani pianificate a metà Campania «La proiezione del risultato di gestione per il 2011 evidenzia sulla base delle informazioni per il terzo trimestre una perdita massima di 27 milioni». Secondo i tecnici la Campania evidenziamacroscopici ritardi e avrebbe fallito molti degli obiettivi, tanto che nelle discussioni ai tavoli più volte è stata lamentata la mancanza di documentazione oltre al fatto che «la struttura sub commissariale non ha trasmesso una stima a chiudere per il 2011». Tra i rilievi più gravi, quelli sulla rete territoriale: «Solo il 50% delle residenze per anziani risulta pianificato» e non c' è chiarezza su come avverrà il raccordo fra questa e il sistema dell' emergenza. Il presidente Stefano Caldoro respinge il verdetto parziale: «A noi hanno formalizzato un giudizio positivo. È vero, siamo sprovvisti di una rete territoriale ma siamo partiti da zero e non è un mistero che il nostro sistema si basava sulla centralità degli ospedali. In quanto al recupero del deficit possiamo considerarci tra i migliori. Partivamo da meno 768, ora siamo a meno 250 milioni. La criticità irrisolta? Il Cardarelli». RIPRODUZIONE RISERVATA **** Continuano i concorsi nonostante il divieto Calabria Cè ancora molto da fare in Calabria, ma gli esperti hanno evidenziato sforzi di buona volontà tanto che dopo aver «valutato positivamente i progressi nell' attività di certificazione del debito pregresso e nella certificazione dei fatti contabili» è stata autorizzata l' erogazione di una quota delle spettanze residue del 2009 (220 milioni). Restano però alcuni «vizi». «Le aziende malgrado l' assoluto divieto di nuove assunzioni di personale hanno continuato tale attività» e restano «gravi criticità e ritardi». Per il 2011 la Regione affidata da maggio al commissario Luigi D' Elia si era impegnata a una manovra da oltre 260 milioni. Si partiva da una situazione disastrosa anche dal punto di vista contabile (assenza di documentazione scritta), come aveva denunciato a suo tempo l' ex ministro del Welfare Maurizio Sacconi. I problemi per i pazienti però restano. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Stop a viaggi e consulenze Ma restano buchi neri Abruzzo Per il 2011 l' Abruzzo si è impegnato a una manovra da circa 43 milioni. Interventi sul personale, accordi con i medici di famiglia, tetti per le prestazioni ospedaliere per la riduzione della spesa farmaceutica e una serie di tagli ai compensi per gli organi collegiali, alle consulenze sanitarie (meno 30%), a quelle per le relazioni pubbliche, convegni, aumento Irpef e Irap e missioni all' estero sono alcune delle azioni che la Regione ha previsto di attuare. Ma l' ultima verifica di dicembre è finita con il pollice verso: mancano «le condizioni per ulteriori erogazioni di risorse». Molti i buchi neri: non ancora approvato il Piano sanitario regionale e «si attendono chiarimenti sulla rete territoriale, sulle procedure per l' accreditamento definitivo e per l' acquisto di prestazioni da privati». Per il 2012 l' Abruzzo ha programmato una manovra da 75 milioni di euro. RIPRODUZIONE RISERVATA De Bac Margherita _____________________________________________________________ Corriere della Sera 04 Mar. ’12 IN TOSCANA VALORIZZATI GLI INFERMIERI «MODULI» UN MODELLO ISPIRATO AGLI EXPANDED CHRONIC CARE MODEL AMERICANI I l Piano sanitario regionale lo ha indicato fin dal 2008: occorre passare da un modello di cure primarie basato sull' attesa a quello di iniziativa. Per raggiungere l' obiettivo nel settore della cronicità, la Regione Toscana ha così deciso di investire quasi 9 milioni di euro. Serviranno a sviluppare su tutto il territorio i «moduli»: si tratta di aggregazioni di medici di medicina generale alle quali è affidata la realizzazione del nuovo modello assistenziale basato sull' Expanded Chronic Care Model canadese. L' elemento essenziale di questo modello è appunto l' attenzione alle condizioni non solo sanitarie ma anche sociali, economiche e culturali degli assistiti, e alla prevenzione primaria che vengono seguiti in ambulatori organizzati per patologie. Il medico di famiglia lavora non da solo o con altri medici, ma con infermieri e operatori sociosanitari. La Regione ha individuato come priorità la gestione di diabete di tipo II, scompenso cardiaco, insufficienza respiratoria in broncopneumopatia cronica ostruttiva, ictus e ipertensione medio-grave. «In accordo con le organizzazioni sindacali della Medicina generale, - spiega Lorenzo Roti, responsabile dei Servizi alla persona sul territorio della Regione - tutte le Usl hanno individuato i "moduli" a partire dalla fase pilota dei percorsi per diabete e scompenso cardiaco. Complessivamente, i progetti della fase pilota e la prima estensione comprendono 93 moduli con il coinvolgimento di 943 medici di medicina generale e circa un milione di assistiti. Nel corso del 2011 è stata avviata anche la presa in carico dei pazienti con ictus e Bpco». In sostanza, il progetto è quello di riunire in ogni aggregazione 20-25 medici di famiglia e fornire loro due infermieri e altrettanti operatori sociali, distaccati dall' Asl o gestiti direttamente dai generalisti attraverso le loro cooperative. L' accordo con la Fimmg prevede un compenso di cinque euro per ogni paziente che i medici di medicina generale cureranno a casa e in ambulatorio, evitando che si rivolga all' ospedale. Vittorio Boscherini, segretario regionale della Fimmg, spiega però che l' intenzione è di aggregare anche i medici di Guardia medica estendendo gradualmente il "modulo" a tutte le cronicità e anche alle dimissioni protette. I primi risultati del progetto sui "moduli", per quanto riguarda il diabete, sono incoraggianti. Il confronto tra pazienti diabetici arruolati dai medici di base nel nuovo programma e pazienti curati nel modo classico ha evidenziato un aumento dei controlli attraverso gli esami di laboratorio rispetto al trattamento con farmaci specifici, mentre i tassi delle visite specialistiche sembrano diminuire. «Tutto questo suggerisce una migliore gestione a livello di cure primarie della patologia cronica e una maggiore aderenza alle linee guida nazionali e internazionali per la diagnosi e cura del diabete - dice Roti -. Il progetto prevedeva l' avvio di percorsi di presa in carico su cinque patologie. L' impianto su singola patologia però è poco appropriato per le cure primarie, perché gli assistiti dei medici di famiglia presentano di frequente un insieme di più patologie. Per questo motivo stiamo rivedendo il progetto, così come prevede il Piano Sociale e Sanitario della Regione Toscana che è in fase di approvazione». _____________________________________________________________ Corriere della Sera 01 Mar. ’12 SANITÀ, ARRIVANO I MAC ADDIO AI DAY HOSPITAL Stanno partendo in questi giorni in Regione Lombardia i MAC: l' acronimo sta per Macroattività Ambulatoriale Complessa e si tratta di un nuovo modello organizzativo per le prestazioni ambulatoriali che va a sostituire i vecchi day-hospital. Questo dovrebbe permettere al paziente di attuare più agilmente e con meno difficoltà degli insiemi di esami. Per fare un esempio pratico, se un malato deve effettuare una biopsia epatica, l' esecuzione della manovra, la visita medica, gli esami ematochimici di controllo pre e post-procedura, eventuali visite specialistiche e ulteriori esami di controllo anche radiologici, faranno tutti parte di un solo «pacchetto» diagnostico. Il tutto sarà organizzato dall' ospedale con un percorso dedicato, per il quale il malato pagherà un solo ticket omnicomprensivo, se non esente. Al momento sono escluse dai MAC le prestazioni chirurgiche vere e proprie, mentre questa nuova formula comprende anche tutti i trattamenti chemioterapici, in passato erogati in regime di day-hospital. Cosa cambia rispetto a prima? Tanto e poco, dipende dalle situazioni e dai punti di vista. I day-hospital erano in Lombardia già in disarmo, la Regione sceglie quindi di decretarne la definitiva estinzione (restano attivi solo per pochissime situazioni) e di privilegiare le attività ambulatoriali. Se i MAC funzioneranno, a regime, dovrebbero garantire al cittadino una migliore integrazione e articolazione delle prestazioni, la loro organizzazione non sarà però semplice e immediata (si registrano infatti già ritardi nel loro avvio). Ci sarà un cambiamento per le tasche dei cittadini non esenti: i day- hospital, come tutte le procedure di ricovero, non erano soggetti a ticket mentre i MAC, essendo prestazioni ambulatoriali, lo saranno. Cambia anche qualcosa per gli ospedali, che dovranno riorganizzare le attività ambulatoriali e che si vedranno riconoscere rimborsi economici diversi rispetto ai precedenti. I MAC, superata la fase di avvio e corretto il tiro su alcuni aspetti organizzativi, potrebbero rappresentare un percorso più fluido per erogare le prestazioni ambulatoriali al cittadino, garantendo un iter predefinito e ben organizzato di esami e visite. Resta però aperto il problema ticket che, in piena crisi economica, andrà a sommarsi alle difficoltà già esistenti dovute ai recenti aumenti tariffari.sharari@hotmail.it Harari Sergio _____________________________________________________________ Corriere della Sera 10 Mar. ’12 LA NUOVA SANITÀ SECONDO VERONESI «Sia low cost e a chilometro zero» L'idea dell'oncologo: niente ticket, la paghino soltanto i ricchi «Non è concepibile che, a una certa ora, qualcuno inizi a guardare l'orologio perché deve scappare in una casa di cura privata. In questo modo si creano inevitabilmente pazienti di serie A e di serie B, perché i casi più semplici (e, va detto, che riguardano le persone più abbienti) finiscono nelle strutture private, mentre quelli più problematici restano a carico della struttura pubblica. Inoltre non è più concepibile che un clinico non dedichi parte del suo tempo allo studio e alla ricerca scientifica». È uno dei temi cari ad Umberto Veronesi che già da ministro della Sanità aveva posto sul tappeto per rinnovare l'organizzazione sanitaria. L'oncologo milanese, fondatore dell'Istituto europeo di oncologia (Ieo), non può quindi che apprezzare la linea sul tempo pieno ribadita dall'attuale ministro della Salute Renato Balduzzi. Perché ritiene il tempo pieno fondamentale per la Sanità italiana? «A parte l'etica (non è corretto che il medico ospedaliero tratti in ospedale i pazienti più critici e in casa di cura i meno gravi) per altre tre ragioni: i medici devono dedicare tempo ai pazienti; organizzare il lavoro di tecnici e infermieri, addestrando le nuove leve; fare ricerca». Va bene, ma se gli ospedali non hanno gli spazi adeguati per l'attività privata all'interno della struttura? «Da quando ero ministro della Sanità, nel 2000, gli ospedali sono tenuti a organizzare un reparto dove si possa svolgere la professione privata. È giusto che il cittadino abbia la possibilità di scegliere il suo medico e farsi curare da lui, ma in questo agisce come privato. In molti casi questi reparti non sono stati realizzati e questa mancanza è diventata un alibi per continuare a portare i pazienti fuori dell'ospedale. Ma questa non è una soluzione. Non c'è alternativa all'intramoenia». Purtroppo buona parte degli ospedali non è facile da ritoccare. Molti sono obsoleti e andrebbero chiusi. «Per questo è urgente un piano di ristrutturazione nazionale del sistema ospedaliero. Lo dico da anni e da ministro, con Renzo Piano, ho messo a punto un progetto articolato che giace da più di 10 anni in un cassetto. La Sanità di un Paese vale quanto valgono i suoi ospedali. E oggi circa 4 ospedali italiani su 10 andrebbero chiusi perché obsoleti, inefficienti e costosissimi. Poi si potrebbe ripartire con un progetto di costruzione: strutture di nuova concezione, adeguate alla nuova filosofia della medicina. Ciò permetterebbe anche un rilancio delle opere pubbliche e senza dover sempre ricorrere allo Stato. Esistono modi di far partecipare anche i privati. Non è giusto che la nostra Sanità abbia ancora ospedali in decadenza che la fanno apparire una malaSanità». Una nuova Sanità ha bisogno da subito di nuovi medici. «Il medico di oggi non può più limitarsi ad applicare protocolli e linee guida, ma deve interrogarsi incessantemente, dubitare di ogni certezza per cercare la migliore cura possibile per il suo paziente. E il collegamento con il mondo della ricerca internazionale diventa un fattore fondamentale della professionalità medica. Così come l'aggiornamento continuo: in 7-10 anni diventa obsoleta oltre metà delle conoscenze scientifiche acquisite con la laurea». Quindi, un medico clinico e ricercatore a tempo pieno? «È indispensabile. Occorre formare in modo nuovo. Con il Young Investigator Program (che eroga borse di studio a giovani tramite bandi pubblici) la mia Fondazione ha scelto di creare una compagine di giovani medici e ricercatori capaci di inserirsi nei centri più avanzati e di muoversi nel nuovo mondo internazionale della ricerca, che oggi cambia molto più rapidamente dei sistemi educativi. La scienza, spinta dalla tecnologia, ha il passo veloce, e per seguirla, non basta accumulare nozioni, ma bisogna possedere un abito mentale. Il compito che ci siamo posti in Fondazione è di instillare nei giovani la mentalità scientifica». Come intendete farlo? «Fra pochi giorni a Roma, il 28 marzo, nel corso di una cerimonia in Campidoglio, assegneremo 95 borse di ricerca a ragazzi principalmente italiani, ma con una frazione di stranieri, in onore all'universalismo della scienza. E attenzione: abbiamo scelto la prevenzione come tema di ricerca. Creare la cultura della prevenzione nei giovani è un altro cardine della Sanità futura». Nuovi ospedali e nuovi medici a tempo pieno. E che altro? «Bisogna ragionare alla luce dei tempi di crisi economica». Già, la crisi economica. Se non si interviene si rischia di tornare ad una Sanità moderna solo per ricchi. «Io penso che dovremmo andare nella direzione opposta: chi supera una certa soglia di reddito dovrebbe uscire dalla copertura del servizio sanitario nazionale e rivolgersi alle assicurazioni private. Si formerebbe una categoria a parte, che stimolerebbe il mercato delle assicurazioni. Bisogna dedicare le limitate risorse pubbliche per chi ha meno possibilità economiche e non il contrario». Ma non è sufficiente collegare l'entità dei ticket ai diversi redditi? «Credo che nel futuro i ticket vadano progressivamente eliminati perché sono una tassa sulla malattia. Chi più è malato, più paga: è un indebolimento dei più deboli. Credo sia più equa una Sanità completamente gratuita per chi ha i redditi inferiori, essendo tramontato il sogno di cure gratuite per tutti». Non c'è il rischio che la fascia di gratuità nel tempo si assottigli sempre più? «La soluzione è in un ripensamento profondo. I costi della Sanità vanno riesaminati alla luce delle innovazioni tecnologiche. Potrebbe così nascere una sorta di Sanità low cost sul modello dei voli aerei. Nessuno, pochi anni fa, avrebbe immaginato una riduzione così drastica del prezzo dei voli, mantenendo più o meno la stessa efficienza. È stato ridotto il personale, aumentandone la produttività grazie alle tecnologie e alla maggiore responsabilizzazione dei passeggeri. Un processo analogo si può applicare alla Sanità. Per esempio nella diagnostica, medici e tecnici possono raddoppiare la produttività nei referti grazie ai sistemi di registrazione automatica della voce. Ci vuole un investimento iniziale, ma minimo rispetto ai risparmi che ne deriverebbero». Che cosa pensa di una Sanità a «chilometro zero»? «La diagnostica deve essere a "chilometro zero", così come la gestione dei rapporti con i centri specializzati. Nel territorio occorre creare i presupposti per la prevenzione e la gestione dei malati, e dei non malati, senza bisogno di perdere tempo e denaro nelle strutture ospedaliere dove le degenze dovrebbero essere ridotte al minimo. Detto questo, la nostra è fra le migliori Sanità del mondo». Mario Pappagallo twitter:@mariopaps _____________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Mar. ’12 IN OSPEDALE CALANO I RICOVERI ORA LA RIFORMA DEL TERRITORIO Qualcosa si muove negli ospedali pubblici. Il 2010 ha visto infatti una netta diminuzione del numero di ricoveri e di giornate di degenza rispetto all'anno precedente: circa 380 mila ricoveri e 1,5 milioni di giornate in meno. Tradotto in percentuale significa un calo del 3,3%, ma è già un segnale, come sottolinea l'analisi delle schede di dimissione ospedaliera contenuta nel Rapporto 2010 sui ricoveri in Italia. Calano, in particolare, i ricoveri in day hospital per acuti, con un -5,1% di ricoveri e un -4% di giornate di degenza. Più contenuta la riduzione nei ricoveri per acuti in regime ordinario (-2,8% i ricoveri e -2% le giornate di degenza). Ferma al -2% anche la diminuzione di quelli in lungodegenza (-1,4%). La riduzione nell'attività per acuti in regime ordinario segna un calo dei ricoveri inappropriati di circa 181 mila unità. La vera svolta nel sovraffollamento di Pronto Soccorso e reparti potrebbe arrivare con la riforma della medicina del territorio alla quale sta lavorando il ministero della Salute: medici delle cure primarie associati in ambulatori aperti 7 giorni su 7, sulle 24 ore, in grado di gestire anche il primo soccorso. ____________________________________________ Il Giornale 09 mar. ’12 UNA FOLLIA CURARE LE DONNE CON I FARMACI DEGLI UOMINI» Ha avuto fra i suoi pazienti il più vecchio abitante della Terra Ora dice: «La medicina è un buco nero, un baratro. Va rifatta» Primaria sfata le leggende: a 50 anni il sesso femminile ha un'aspettativa di vita sana di soli 84 giorni in più rispetto a quello maschile di Stefano Lorenzetto Era tutto scritto fin dalla notte dei tempi. «Maschio e femmina li creò» (Genesi, 1, 27). Cioè differenti. Ma la ricerca scientifica e l'industria farmaceutica hanno preferito credere che fossero uguali. E si sono comportate di conseguenza. Prendete i quattro studi mondiali che rappresentano tuttora i capisaldi per il trattamento delle malattie cardiovascolari. Blsa (Baltimore longitudinal study of aging) durato dal 1958 al 1975: nessuna donna presa in esame. Physicians' health study ofaspirin and cardiovascular disease del1982:22.071 arruolati, nessuna donna. Mrfit (Multiple riskfactor intervention trial) del 1986: 355.222 uomini, nessuna donna. Woscops (West of Scotland coronary prevention study) condotto dal 1989 al 1991: 6.595 uomini, nessuna donna. Peccato che nel frattempo l'infarto, considerato fino a ieri un accidente tipicamente maschile, in Italia sia diventato la prima causa di morte per il sesso femminile. È prevalsa la teoria della costola: se Dio trasse la donna dall'uomo, le cure che vanno bene per lui andranno senz'altro bene anche per lei. «Non è affatto così. E oggi si scopre che la medicina è un buco nero, un baratro. Come se fosse rimasta ferma agli anni Quaranta. Bisogna ricominciare tutto daccapo, partendo dall'anatomia e dalla fisiologia, per capire come s'instaurano le malattie nei due sessi e poi stabilire quali terapie vanno adottate. Ma per farlo servono tanti quattrini. E le multinazionali farmaceutiche si metteranno di traverso, perché hanno il terrore che i loro prodotti vengano giudicati inutili per metà della popolazione mondiale». La professoressa Giovannella Baggio, primario di medicina generale nell'Azienda ospedaliera di Padova, emette una sentenza senza appello. È stata lei la prima in Italia, nel 2009, ad accorgersi di «questa vergogna mondiale», a dedicarvi un congresso e a fondare il Centro studi nazionale su salute e medicina di genere, del quale è tuttora presidente. «Attenzione: la medicina di genere non è la salute della donna o la salute dell'uomo, bensì una nuova dimensione della medicina che studia l'influenza del sesso e del genere su fisiologia, fisiopatologia e patologia umana». Musica per le orecchie delle femministe. «Purtroppo. Ma io le detesto cordialmente. Mai stata una di loro». La professoressa Baggio ha cominciato all'età di 7 anni a formarsi a tutt'altra scuola di vita, quella di sir Robert Baden-Powell e della sorella Agnes. È stata esploratrice dal 1954 fino al 1999 e per un quinquennio ha anche ricoperto la carica di capo guida d'Italia, il grado massimo nella diarchia maschio-femmina che governa lo scoutismo mondiale. Da questo punto divista ha raccolto l' eredità della madre Agnese, scultrice scomparsa nel 1988, figlia del conte Emilio Figarolo di Gropello e dell'inglese Agnese Treherne, la quale fu una leader del movimento scout femminile e un'intrepida scalatrice, spesso in cordata con gli alpinisti Emilio Comici e Giovanni Demez: aprì una via dolomitica, che porta il suo nome, nel gruppo Puez-Odle. La vocazione per la medicina l'ha invece presa - come del resto suo fratello Marco, psichiatra in Svizzera - dal p adre, il professor Giovanni Baggio, vicentino, primario chirurgo prima nell'ospedale di San Giovanni Valdarno, dov'è nata, e poi in quello di Adria. «Dall'età di 5 anni non ho mai pensato di fare nient' altro nella vita. Giocavo con le bambole, però io ero il loro medico, non la loro mamma. Mio padre era chirurgo generale, stava in sala operatoria 12 ore al giorno e doveva fare di tutto. Dalle condizioni in cui tornava a casa, intuivo che giornata aveva avuto. Quand'era stanchissimo, voleva dire che era stato impegnato in una resezione gastrica; se aveva le mani imbiancate di gesso, che era reduce da interventi ortopedici». Giovannella Baggio s' è laureata in medicina e chirurgia 40 anni fa all'Università di Padova, con il massimo dei voti e la lode. Poi s'è specializzata in endocrinologia e in medicina interna. Ha insegnato geriatria e gerontologia negli atenei di Pavia, Padova e Sassari. In Sardegna, dov'è rimasta per cinque anni, ha avuto fra i suoi pazienti il pastore Antonio Todde, abitante a Tiana, entrato nel Guinness dei primati come l'uomo più vecchio del mondo, morto nel 2002 pochi giorni prima di compiere 113 anni. Il quale solo all'età di 101 aveva cominciato a prendere le pastiglie contro il diabete. In quel periodo la professoressa creò un database contenente i nomi di un migliaio di ultracentenari.«Sull' isola ho assistito a un paradosso genetico, per cui la metà di coloro che avevano superato i 105 anni erano portatori di anemia mediterranea». Nel rep arto che dirige attualmente l' età media si aggira sui 79 anni. Un paziente ne ha 105. «Non disponiamo di conoscenze sufficienti per dire che uomo e donna vanno curati in modo diverso. Però abbiamo delle constatazioni agghiaccianti, soprattutto in cardiologia». Quali constatazioni? «Negli ultimi 30 anni la mortalità per malattie cardiovascolari è calata del 40 per cento nell'uomo e appena de13-4 per cento nella donna, a parità di prevenzione su entrambi i sessi per quanto riguarda ipertensione, ipercolesterolemia e sindrome pluri metabolica. L'infiammazione delle arterie causa aterosclerosi nella donna più che nell'uomo. Nei primi sei mesi dopo un infarto le probabilità di morire sono de126 per cento nella donna e solo dell'Il per cento, cioè meno della metà, nell'uomo. L'aspirinetta nelle donne non serve a prevenire gli accidenti vascolari: al massimo può essere utile solo a ridurre le ricadute sulle pazienti che hanno già avuto un infarto o un ictus. Il diabete è tre volte più pericoloso nella donna che nell'uomo. Persino la sintomatologia dell'attacco cardiaco cambia nei due sessi: invece della tipica stretta al petto percepita dai maschi, le femmine spesso avvertono dolore al dorso, alla pancia e al collo, motivo per cui finiscono nei reparti sbagliati quando non vengono addirittura dimesse dal pronto soccorso con la diagnosi: "Non è nulla"». Assurdo. Un infarto è un infarto «Sì, ma nell'uomo i danni sono concentrati nei grossi vasi dell'albero coronarico, mentre nella donna vengono coinvolti i piccoli vasi, che nelle coronarografie non si vedono. Vuole un altro esempio? La frequenza cardiaca è più veloce nel sesso femminile anche durante il sonno. Qual è il medico che ne tiene conto quando prescrive a una paziente ipertesa taluni farmaci, come i calcioantagonisti, che provocano tachicardia? Tutti i medicinali cardiovascolari hanno effetti collaterali 10 volte più pesanti sulle donne che sugli uomini e non sappiamo ancora perché». Oltre al cuore, quali altri organi femminili ha sottovalutato la ricerca? «Il cancro del polmone nelle donne è aumentato di 30 volte negli ultimi 30 anni». Per forza, fumate più dei maschi. «Anche. Ma nella donna la neoplasia si sviluppa in periferia, quindi provoca meno sintomi e non viene individuata per tempo. I tumori intestinali aggrediscono più frequentemente il colon discendente negli uomini e quello traverso nelle donne». Perché la medicina di genere arriva soltanto nel terzo millennio? «Perché per secoli ci si è occupati degli uomini, che portavano a casa il cibo e quindi dovevano vivere a lungo. Siamo state vittime della sindrome del bikini: si studiavano solo gli organi del nostro apparato riproduttivo, seni, utero e ovaie. Inoltre, quando agli inizi del 1900 la durata media della vita era di appena 50 anni, negli ospedali si vedevano molti più maschi, dal momento che nelle femmine le patologie senili s'instaurano con un decennio di ritardo. Sembrava che noi non ci ammalassimo mai. Oggi invece sappiamo che i cinque anni in più di sopravvivenza della don na rispetto all'uomo sono tutti contrassegnati dalla malattia. Infatti all'età di 50 anni l'aspettativa di vita sana è praticamente uguale nei due sessi: 20 anni e 230 giorni gli uomini, 20 anni e 314 giorni le donne. Una differenza di appena 84 giorni». Restala follia scientifica degli studi clinici. Perché le donne ne sono state sistematicamente escluse? «Per praticità. Prenda gli esami del sangue: a una paziente la glicemia va dosata prima, durante o dopo il ciclo mestruale? Non volendo seccature, i ricercatori hanno lavorato soltanto sugli uomini. Perfino gli animali da laboratorio, in oncologia, sono tutti maschi». Però la professione medica ormai è in mano al gentil sesso. Un bel paradosso, non le pare? «L'80 per cento delle specializzande in medicina interna qui a Padova sono donne. Finiremo come la Russia di 40 anni fa, dove c'erano solo medici di sesso femminile. Non è una buona cosa. Abbiamo teste diverse e la collaborazione uomo-donna vince sulla competizione». A quali malattie sono più soggette le donne? «Infarto, osteoporosi, demenza senile, depressione. Ma non sappiamo se vanno curate diversamente. Abbiamo mappato il genoma umano, ci riempiamo la bocca di farmacogenetica, presto daremo le medicine in base a un piccolissimo puntino di differenza nel Dna, eppure ci siamo dimenticati dei cromosomi XX e XY che distinguono l'uomo dalla donna. Fino al 2007 di questi temi non trovavo traccia nelle grandi pubblicazioni scientifiche, come Lancet. Le uniche osservazioni sulle differenze uomo-donna apparivano nelle riviste per infermieri». Dell'osteoporosisi parlasolo al femminile. Mai maschi non ne sono immuni «È l'unico esempio contrario. Qui è più studiata la donna, perché si ammala prima. Ma sopra i 65-70 anni l'osteoporosi colpisce molto anche l'uomo e, in caso di fratture, è assai più letale». La gravidanza è un fattore di rischio o protettivo? Insomma, diventare madri allunga o accorcia la vita? «Equivale a un doping. Nella donna che ha allattato, è un ottimo fattore protettivo contro il tumore al seno. Ma se durante la gravidanza s'instaurano ipertensione e ipercolesterolemia, questi vanno considerati indici predittivi negativi». Non per insistere nel comparativismo sessista, ma la menopausa è studiatissima e curatissima nelle donne, men- tre dell'andropausa manco si parla. «La menopausa è stata eccessivamente medicalizzata. L'abbiamo trasformata in una malattia. Come la gravidanza». Almeno lo stress è uguale in entrambi i sessi? «Direi di sì. Ma la stanchezza è diventata lo status abituale della donna che lavora e contemporaneamente porta il peso della famiglia e della casa. Vedo sindromi da astenia sempre più poderose». Quale incidenza ha lo stress nel predisporre gli individui ad ammalarsi? «È una concausa in molte malattie delle coronarie. Una piccola placca, se associata agli spasmi di un'arteria provocati dallo stress, dà luogo a un evento acuto. Ma lo stress che offre soddisfazioni fa bene. Stiamo attenti a non demonizzarlo. Se un individuo è stressato ma felice, non corre pericoli. Un po' di adrenalina ci fa alzare dal letto al mattino». Se la medicina di genere è così decisiva, perché a uomini e donne vengono allegramente trapiantati organi provenienti da donatori di entrambi i sessi? «Non ci siamo mai nemmeno posti il quesito. Guardavamo soltanto alle dimensioni degli organi: quelli maschili spesso sono troppo grossi per essere trapiantati in una donna. Di recente ci si è resi conto d'aver sottovalutato gli aspetti legati al sistema immunitario e all'istocompatibilità. Facciamo il caso di una paziente che sia diventata madre di un bambino. Durante la gravidanza avrà convissuto con un essere vivente riconosciuto dal suo organismo come non femminile e quindi avrà sviluppato gli anticorpi di difesa, che dopo il parto vanno in quiescenza. È fisiologia umana. Che cosa succede se le viene donato un organo maschile? Questi anticorpi si riattivano. Se poi di gravidanze maschili ne ha avute più d'una, peggio ancora: il trapianto diventa a rischio». Lo chiedo a lei che ha studiato gli ultra- centenari: ha senso aggiungere anni alla vita? Non sarebbe meglio aggiungere vita agli anni? «Dipende dallo spirito del gioco, come spiego nel mio saggio Aduti e gioco. Le componenti del gioco sono due: l'entusiasmo per l'avventura e le regole che impongono autocontrollo. Per vivere bene bisogna saper giocare bene». Qual è l'aspetto peggiore della vecchiaia? «La perdita dello spirito di gioco, la paura dell'oltre. È l'età in cui si comincia a scorgere la fine. Alcuni sperano che sia una frontiera al di là del quale vi è qualcosa. Altri, compresi vescovi e sacerdoti, ne hanno una paura tremenda, la scotomizzano, non la vogliono vedere. La frontiera spaventa». Per quale motivo un ultraottantenne con gravi invalidità dovrebbe essere felice di tirare avanti? «Dipende dal suo credo. Io ho avuto una mamma che ha vissuto gli ultimi 11 anni della sua vita tormentata da un mieloma multiplo. Diceva: "Una volta facevo roccia, adesso mi dedico all'alpinismo spirituale". Trovava un senso anche nelle sue diminuzioni. Ha scritto quattro libri su questo. Da malata». _____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Feb. ’12 LA CARRIERA DEL PRIMARIO CHE OPERAVA I MANICHINI Vi fareste operare al cuore da chi non ha «mai visto la cardiochirurgia» e si è impratichito solo con i manichini? Se la domanda vi sembra demenziale, sappiate che è già successo . O almeno così dice, in un' intervista stupefacente, il figlio del rettore della Sapienza. Che con una sfolgorante carriera si è ritrovato giovanissimo a fare il professore nella facoltà del papà, della mamma e della sorella. Che per essere un grandissimo chirurgo si debba avere necessariamente un curriculum scientifico universitario, per carità, non è detto. Ambroise Paré, il fondatore della moderna chirurgia, pare fosse figlio di una peripatetica e cominciò nella scia del padre facendo insieme il chirurgo e il barbiere. E il capo-chirurgo dell' «équipe 2» del primo trapianto di cuore in Sud Africa, nel 1967, al fianco di Christiaan Barnard, pare sia stato Hamilton Naki, che era un autodidatta con la terza media che essendo nero figurava assunto come giardiniere ma aveva le mani d' oro al punto di ricevere, finita l' apartheid, una laurea ad honorem e il riconoscimento di Barnard: «Tecnicamente era meglio di me». Detto questo, il modo in cui Giacomo Frati si è ritrovato alla guida di un' Unità Programmatica di (teorica) avanguardia al Policlinico di Roma appare sempre più sbalorditivo. Ricordate? Ne parlammo due settimane fa, dopo l' apertura di un' inchiesta giudiziaria. Riassumendo, il giovanotto riesce in una manciata di anni (ricercatore a 28, professore associato a 31, in cattedra a 36) a diventare ordinario nella stessa facoltà di medicina in cui il padre, il potentissimo rettore Luigi, è stato per una vita il preside e ha già piazzato la moglie Luciana Rita Angeletti (laurea in lettere, storia della medicina) e la figlia Paola, laureata in legge e accasata a Medicina Legale. Un genio tra tanti «sfigati»? Sarà... Ma certo gli ultimi passaggi della vertiginosa carriera di Giacomo sono sconcertanti. Prima l' esame da cardiochirurgo vinto grazie al giudizio di una commissione di due igienisti e tre dentisti: «Giusto? Forse no però questo non è un problema mio...». Poi la chiamata a Latina dove era stata aperta una «succursale» di cardiologia della Sapienza presso la casa di cura Icot. Poi il ritorno a Roma appena in tempo prima che le nuove regole contro il nepotismo della riforma Gelmini impedissero l' agognato ricongiungimento familiare. Poi la creazione su misura per lui, togliendo un po' di letti a un altro reparto, di un' «Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» che gli consente di avere un ruolo equiparato a quello di primario, novità decisa dal direttore generale Antonio Capparelli. Nominato poche settimane prima ai vertici del Policlinico proprio da Luigi Frati, il premuroso papà. Troppo anche per un ateneo storicamente abituato a una certa dose di nepotismo. Eppure, neanche un verdetto del Tar che dà ragione a quanti avevano presentato un esposto contro gli esiti della «gara» vinta da Giacomo («illogicità del criterio adottato», «irragionevole penalizzazione degli idonei», «danno grave e irreparabile») è riuscito a frenare l' irrefrenabile ascesa del giovanotto. Anzi, il giorno dopo avere perso il ricorso in appello contro quella sentenza, l' università gli ha fatto fare un nuovo passo in avanti. Né sono riusciti a bagnare l' impermeabile scorza di Luigi Frati (dominus assoluto di un sistema trasversale alla destra e alla sinistra che sta benissimo a molti baroni) alcune contestazioni nel Senato accademico o una miriade di mugugni sul Web. Né poteva infastidirlo, pochi giorni fa, il professor Antonio Sili Scavalli, segretario regionale della Fials e responsabile aziendale dello stesso sindacato, che ha mandato una diffida a Renata Polverini chiedendo come fosse possibile che Giacomo Frati, chiamato al Policlinico per attivare una guardia medica di cardiochirurgia, sia stato quattro mesi dopo promosso e contestualmente abbia chiesto, da primario, di essere esentato dalle noiose guardie notturne. Ma le domande più fastidiose poste dal sindacato, che preannuncia un esposto alla magistratura, sono altre. È vero che in un anno e mezzo i dati sulla produttività dell' unità di Giacomo Frati «fornirebbero un numero pari a zero»? Ed è vero che in questo periodo il giovine chirurgo ha fatto in tutto 5 interventi «peraltro di cardiochirurgia classica» che dunque non c' entrano niente con la creazione su misura del reparto di «avanguardia»? E soprattutto: qual era la mortalità di quella dependance di cardiochirurgia a Latina dove si era impratichito? Il punto più delicato è questo. Lo dicono nemici di Frati come il senatore Claudio Fazzone, che mesi fa ironizzò sull' «alta qualità portata a Latina» dal rettore: «Penso si riferisca alla cardiochirurgia che ha effettuato 44 interventi in un anno, di basso profilo, col più alto indice di mortalità del Lazio». Ma lo dice soprattutto un decreto della Regione del 29 settembre 2010. Dove si legge che nonostante a Latina fossero stati fatti «zero» interventi chirurgici «di alta complessità, i risultati all' Icot erano pessimi. Tanto da spingere la Regione Lazio a chiudere la dependance universitaria, a costo di dover pagare alla casa di cura dove stava un risarcimento milionario: «La disattivazione dei posti letto di cardiochirurgia dell' Icot di Latina è sostenuta da valutazioni relative ai volumi di attività estremamente ridotti e alla bassa performance. Nel 2009, la struttura ha effettuato 44 interventi cardiochirurgici (pari all' 1% del totale regionale) ed è ultima nel Lazio per capacità di attrazione, con una percentuale di ricoveri a carico di residenti fuori regione intorno al 2% (valore medio regionale del 9%). L' indice di inappropriatezza d' uso dei posti letto è 3 volte più elevato rispetto alla media regionale». Quanto «bassa» fosse la performance, lo dice una tabella riservata del «PReValE», il Programma regionale di valutazione degli esiti, recuperata da Sabrina Giannini, di «Report». Tabella dove, alla voce «Bypass aorto- coronarico» per il 2008-2009 sulla mortalità nei primi 30 giorni dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico, risulta che non ce la fece il 2,25% degli operati (su 356) al Gemelli, lo 0,46% (su 656) al San Camillo-Forlanini, il 2,67% (su 225) all' Umberto I, il 3,01 (su 632) all' European hospital e via così. Risultato finale: una media di mortalità, per quanto queste statistiche vadano prese con le pinze, intorno al 2,5%. Bene: in un servizio per «Reportime» di Milena Gabanelli, servizio da questa mattina su corriere.it , Sabrina Giannini mostra quella tabella a Giacomo Frati: come mai all' Icot c' era una mortalità del 6% e cioè più che doppia? Il giovane «astro nascente» della famiglia del rettore sbanda. E si avvita in una risposta strabiliante: «Cioè, la cardiochirurgia qui è partita da zero. Faccio presente che quando noi abbiamo iniziato tutto il personale, anche infermieristico, era un personale che non aveva mai visto la cardiochirurgia. Abbiamo fatto simulazione in sala anche con i manichini. Anche per il posizionamento dei devices della circolazione extracorporea». Fateci capire: «tutto il personale» (tutto, compresi dunque i chirurghi) era così a digiuno di cardiochirurgia che prima di operare dei pazienti si era addestrato coi manichini? Che storia è questa? Si sono impratichiti via via sui malati che avevano affidato loro la vita? Per difendere quel reparto, mentre la Regione decideva (troppi reparti) di rinunciare ad aprire nuove cardiochirurgie a Viterbo, Frosinone e Rieti, Luigi Frati disse in un' intervista a «La Provincia»: «Mi chiedo perché mai uno di Latina non abbia il diritto di farsi operare nella sua città». Ma da chi, signor rettore? A che prezzo? In quale altro paese del mondo, dopo tutto ciò che è emerso, potrebbe restare ancora imbullonato al suo posto? Gian Antonio Stella RIPRODUZIONE RISERVATA **** il padre **** La scheda La famiglia Luciana Rita Angeletti, moglie del rettore Luigi Frati, copre la cattedra di Storia della Medicina alla Sapienza mentre la figlia Paola Frati quella di Medicina legale Il rampollo Ultimo arrivato è il figlio Giacomo (a sinistra), cardiochirurgo: ricercatore a 28 anni, a 31 diventa professore associato e a 36 sale alla qualifica di ordinario. Oggi è a capo dell' Unità programmatica di avanguardia al Policlinico di Roma Stella Gian Antonio ____________________________________________ Il Giornale 11 mar. ’12 IN EUROPA SONO IN CALO LE VITTIME DI TUMORI: meno 10% per gli uomini e 7 per le donne In un articolo pubblicato su Annals of Oncology, un gruppo di ricercatori italiani e svizzeri stima che i tassi di mortalità per tumori (standardizzati per età per 100mila abitanti) sono in diminuzione, anche se i numeri assoluti sono in aumento (1,3 milioni di vittime stimati nel 2012)causa l'invecchiamento della popolazione. I ricercatori stimano che il tasso globale di mortalità per tumore nell'anno in corso sarà di 139 decessi per 100mila uomini e 85 per 100mila donne. Rispetto ai tassi de12007 si registra una diminuzione del 10% negli uomini e del 7% nelle donne. «In Italia - spiega Eva Negri, coautrice nel lavoro e ricercatrice presso l'Istituto Farmacologico Mario Negri - nel 2012 si registreranno circa 400mila casi e 180mila morti per tumori. I tumori sono secondi solo alle malattie cardiovascolari come numero di decessi, ma sono la principale causa di anni di vita persi, poiché insorgono in età più giovane delle malattie vascolari. I più frequenti tumori nel 2012 in Italia, sono quelli: del polmone (33mila decessi), dell'intestino (22mila), della mammella (12mila), del pancreas (11mila), dello stomaco (9mila) e della prostata (8mila)». Uno dei dati più favorevoli, sia in Europa, sia in Italia, è la riduzione del 9%in 5 anni nella mortalità per tumore della mammella, dove la riduzione è più marcata nelle donne giovani. «Ciò indica - afferma Carlo LaVecchia, capo del dipartimento di epidemiologia dell'Istituto Mario Negri - il ruolo essenziale dei miglioramenti della terapia per il tumore della mammella piuttosto che dello screening mammografico, che è ristretto alle donne tra i 50 - 70 anni». La mammella resta la principale causa di morte per tumore nelle donne nei Paesi europei eccetto il Regno Unito e la Polonia, dove è stata superata dal tumore al polmone in crescita come princip ale causa di mortalità per tumore. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 08 Mar. ’12 Copertina su due riviste. Gavino Faa sarà a un congresso a Washington FAA: TUMORI, BRILLA LA SARDEGNA RICERCA SULLE PROTEINE, RICONOSCIMENTI NEGLI USA Vedi la foto Uno studio sardo sui tumori e sui meccanismi che portano alle metastasi (in particolare nei casi di neoplasie legate al colon retto) ha acceso la curiosità negli ambienti scientifici degli Stati Uniti e sono arrivati dei riconoscimenti importanti per gli studiosi dell’Isola. Gavino Faa, direttore dell’Istituto di anatomia patologica del San Giovanni di Dio, ha ricevuto la nomina a professore aggiunto alla Temple University of Philadepia e la copertina su due prestigiose riviste americane. È arrivato anche l’invito al congresso mondiale di Washington. Tutto è nato tre anni fa dopo la scoperta di un biochimico dell’Università Cattolica di Roma, Massimo Castagnola. «Ha osservato che nei bambini la timosina beta 4, piccolissima proteina composta da 43 amminoacidi, è presente in quantità elevatissime, mentre negli adulti quasi assente», spiega Gavino Faa, Così, insieme al suo gruppo di lavoro, ha iniziato a interessarsi di questa proteina. «Dopo diversi studi sui tessuti umani, abbiamo constatato che Castagnola aveva ragione». Poi l’intuizione tutta sarda: «Ci siamo chiesti se questa proteina potesse influire anche sulla crescita delle masse tumorali». Gli studi hanno fatto emergere che «la proteina è come uno scudo durante la vita fetale, in grado di proteggere le cellule staminali dagli stimoli che potrebbero distruggerle», favorendo così lo sviluppo degli organi. «Gran parte dei tumori ha origine da cellule staminali neoplastiche, così abbiamo cercato la proteina in alcune forme di cancro». Fino alla scoperta: «Abbiamo rilevato che le cellule che si staccano dal tumore, e poi portano alle metastasi, producono quantità elevate di timosina beta 4», in particolare nei casi di cancro al colon retto. Nel febbraio 2012, la ricerca portata avanti con Giuseppe Casula, direttore della chirurgia di Monserrato, e i sue due assistenti, ha meritato la copertina del Journal of Biology and Cancer, prestigiosa rivista americana. «Ora stiamo osservando l’effetto della proteina in altri tipi di tumore. Grazie a questi risultati, la Temple University of Philadepia ha nominato Faa professore aggiunto. In maggio volerà in America per tenere un lungo ciclo di lezioni. Ma non è tutto: il 15 marzo, è stato invitato a Washington per il Congresso mondiale sulle “timosine”. Con Vassilos Fanoos, direttore della Neonatologia e terapia intensiva dell’Azienda mista sta portando avanti un secondo progetto: si vuole capire come si forma il rene. «Alcuni di noi nascono con un rene poco sviluppato e quindi più soggetti, da adulti, a ipertensione e malattie renali. Stiamo cercando di capire quali siano i meccanismi che facilitano lo sviluppo nefrologico durante la vita fetale e nel primo mese, in modo da rendere i bambini più forti. Anche questa ricerca è stata pubblicata in una prestigiosa rivista americana, il Journal of Cellular Phisiology. Sara Marci _____________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Mar. ’12 LISTER: IL METODO PER BLOCCARE I BATTERI Cento anni fa moriva Joseph Lister (1827-1912), brillante medico britannico da molti considerato il "padre della moderna chirurgia". Come ricorda un articolo da poco pubblicato sulla rivista The Lancet, Lister aiutò a definire la struttura muscolare dell'iride, fece ricerche su flusso capillare, coagulazione, infiammazione tissutale e suppurazione in relazione alla gestione di traumi e ferite chirurgiche. Non solo, introdusse nella pratica chirurgica l'uso di tubi di drenaggio e fili di sutura assorbibili (catgut), prestando particolare attenzione alla medicazione di ferite e allo sviluppo di terapie chirurgiche per le fratture composte. Ma ciò per cui il chirurgo britannico è più noto è il suo lavoro sull'antisepsi: Lister intuì l'importanza di mantenere le ferite libere dai germi e utilizzò a questo scopo il fenolo riducendo in modo rilevante l'incidenza della cancrena che le complicava con esiti mortali. Oggi la chirurgia salva la vita, ma ai tempi di Lister era una procedura terribilmente dolorosa, che causava tante morti quante vite salvate. Il vero problema era rappresentato dalla mortalità postoperatoria, molto alta a causa delle condizioni igieniche in cui venivano praticati gli interventi: gli strumenti erano spesso sporchi di liquido biologico di altri pazienti o venivano solo puliti con un panno, la sala operatoria era piena di studenti, le fasciature venivano riutilizzate senza essere accuratamente lavate, i chirurghi non usavano guanti e spesso non si detergevano nemmeno le mani tra un'operazione e l'altra. Il risultato? I pazienti morivano per quelle che noi oggi definiamo infezioni ospedaliere, ma che all'epoca erano ancora concettualmente sconosciute. Quando Lister cominciò ad affacciarsi alla chirurgia, il tasso di mortalità postoperatoria era molto elevato e l'eventuale, e probabile (una volta su due), decesso del paziente veniva considerato come uno spiacevole effetto collaterale dell'atto chirurgico fuori dal controllo del medico. Ma il chirurgo britannico non la pensava allo stesso modo e i suoi esperimenti gli diedero ragione. Durante la sua attività Lister notò che di solito i pazienti con fratture chiuse (in cui la cute rimane integra) sopravvivevano, mentre chi andava incontro a fratture esposte (in cui vi era una lacerazione della cute) sviluppava una cancrena tale da comportare l'amputazione dell'arto interessato o addirittura la morte. Ancora, constatò che questa condizione, caratterizzata dalla putrefazione dei tessuti, era molto diffusa in ambiente ospedaliero, ma piuttosto rara all'esterno. Ciò lo indusse a ritenere che la cancrena fosse dovuta non tanto all'esposizione della ferita all'azione di «gas venefici» dispersi nell'aria (teoria del miasma), ma a germi che penetravano nei tessuti dall'esterno e potevano essere trasmessi da un paziente all'altro. Così cominciò a lavarsi accuratamente le mani prima di operare e a prestare maggiore attenzione alla pulizia degli indumenti utilizzati. Ma la vera svolta avvenne dopo la lettura degli studi del chimico francese Louis Pasteur sulla fermentazione alcolica, che lo portò a sviluppare un sistema per mantenere le ferite libere dai microbi dopo gli interventi. Gli scienziati dell'epoca ritenevano che la fermentazione alcolica fosse un fenomeno esclusivamente chimico; Pasteur riuscì invece a dimostrare il ruolo essenziale svolto dai microrganismi, e in particolare dal lievito, in questo processo. Non solo, scoprì che la formazione indesiderata di sostanze (acido acetico e acido lattico), che rendevano imbevibili le bevande alcoliche, era dovuta alla contaminazione con altri microrganismi provenienti dall'esterno e che portando il vino in pochi secondi a una temperatura dai 50 ai 60 gradi era possibile contrastarne la crescita. Lister intuì che nelle ferite avveniva qualcosa di simile e che bisognava cercare il modo di mantenerle completamente libere dai microbi dopo l'operazione. Nel 1865 provò per la prima volta su una frattura esposta il suo metodo antisettico basato sull'uso di fenolo (all'epoca chiamato acido carbolico e poi acido fenico), una sostanza sintetizzata pochi anni prima e adoperata come deodorante e disinfettante per le fogne. Il risultato fu che la ferità non suppurò e l'unico effetto collaterale fu una bruciatura della pelle circostante: l'acido fenico puro è, infatti, altamente irritante per i tessuti sani che circondano la ferita. Lister cercò allora di attenuare questo effetto indesiderato diluendolo sia in acqua che in olio. Nel 1867 Lister pubblicò i risultati del suo lavoro su The Lancet e nel titolo dell'articolo, «Antiseptic Principle of the Practice of Surgery», apparve per la prima volta il termine antisepsi. Da allora Lister continuò a utilizzare il fenolo nelle fratture ossee esposte e poi anche nel trattamento degli ascessi, la cui causa più diffusa era rappresentata dalla tubercolosi. Il suo metodo però fu ostacolato per molti anni dai colleghi. Ci volle più di un decennio perch _____________________________________________________________ Corriere della Sera 4 Mar. ’12 IL CROMOSOMA MASCHILE È SALVO di ANNA MELDOLESI Dato per spacciato, il genotipo Y sembrava il simbolo del declino Un nuovo studio lo riabilita: Adamo (forse) non si estinguerà S i spegne il desiderio. Il cromosoma Y è sul viale del tramonto. Sembrava una rappresentazione in tre atti della crisi del maschio, trascinata dalla camera da letto fino ai laboratori. Con le donne destinate a mantenere un bel genotipo simmetrico (XX) e gli uomini che si ritrovano con una X soltanto e nient'altro (X0). E invece no. Il cromosoma Y si è preso la rivincita: non è vero che sia irrimediabilmente destinato all'estinzione, come si è detto nell'ultimo decennio. Non è vero che perde pezzi e continuerà a farlo fino a essere rimpiazzato da uno zero. Anche fra 5-10 milioni di anni, con ogni probabilità, il genotipo XY sarà il marchio di fabbrica dei discendenti maschi dei primati, uomo compreso. La notizia è arrivata sulle pagine della rivista «Nature», con un lavoro firmato da Jennifer Hughes e David Page: il confronto delle sequenze del cromosoma sessuale maschile di Homo, scimpanzé e macaco rhesus ha decretato che è stabile da molto, moltissimo tempo. Almeno 25 milioni di anni. Con buona pace della teoria della degenerazione (rotting theory) e delle sue funeste previsioni. Il segmento di Dna che determina lo sviluppo dei testicoli, dunque, è al sicuro: non dovrà cercare ospitalità su un altro cromosoma, come un profugo, per poter assicurare la sopravvivenza dei figli di Adamo. Ed è un po' come se insieme a questo gene detto Sry (regione determinante il sesso sull'Y) si salvasse anche l'ego del maschio. Basta aver letto Io e lui di Alberto Moravia per sapere che molti uomini hanno con il proprio organo sessuale un rapporto speciale, dialettico e al tempo stesso di identificazione. «Il mio nome è Federico, meglio Rico, lui lo chiamo Federicus rex», scriveva Moravia all'inizio degli anni 70, raccontando le avventure di un giovane alle prese con una sessualità esuberante, difficilmente controllabile. Non solo Rico dialogava col suo membro, a voce alta o mentalmente a seconda dei casi, ma aveva scelto per lui il nome di un re vittorioso. Si tratta di letteratura, certo, ma anche di una colorita lezione di psicologia. Spesso e volentieri, nella lingua come nell'immaginario, una parte saliente finisce per rappresentare il tutto, ecco allora la trappola della sineddoche pronta a scattare. Uomo-pene-Y. Poteva l'effigie spaccona del re di Prussia coesistere con quella di un alter ego cromosomico che si rimpicciolisce fino a scomparire? I corpi cavernosi di Federico il Grande possono essere l'incarnazione delle istruzioni genetiche impartite da Pipino il Breve, il più miserabile dei cromosomi? Se il maschio occidentale contemporaneo sia davvero in crisi d'identità, sinceramente non ci sono strumenti per dirlo. Probabilmente è un luogo comune. Pur perdendo posizioni in molte classifiche, dalla longevità al rendimento scolastico, gli uomini continuano a tenere ben strette le leve del potere. Giocare con la biologia per pungolarli si può ed è divertente. In fondo c'è tutto un filone di pensiero che ha esplorato la storia della scienza a caccia dei fantasmi degli stereotipi di genere. Gli spermatozoi, ad esempio, sono milioni di volte più numerosi degli ovuli, però sono anche a buon mercato. Semplici nuclei dotati di coda che ai nascituri hanno da offrire soltanto i propri geni, mentre dalla parte femminile arrivano anche tutte le risorse per lo sviluppo embrionale. Ci autorizza questo a definire «decaduto, ridondante e parassita» l'uomo, o il suo cromosoma distintivo? Qualche genetista l'ha fatto, un po' per scherzo e un po' sul serio, ma è ingeneroso e comporta persino qualche rischio. Non vorrei che di questo passo ci ritrovassimo a cantare che i geni sono di destra e le cellule di sinistra, facendo il verso a Gaber. Sta di fatto che se la storia del cromosoma Y ha sempre esercitato un fascino particolare anche fuori dalle aule universitarie è proprio perché scienza e allegoria si intrecciano. La specie umana ha 23 coppie di cromosomi, che in particolari fasi del ciclo cellulare si appaiano, scambiandosi dei pezzi in un processo di ricombinazione. Quasi tutti vengono indicati con un numero e sono chiamati autosomi, mentre le lettere si usano esclusivamente per i cromosomi sessuali. Due uguali per le donne, due diverse per gli uomini. In altre specie accade il contrario, ma a noi poco importa. È interessante ricordare, invece, che ad accorgersi della presenza di cromosomi diversi in maschi e femmine, scoprendo le basi della determinazione del sesso, è stata Nettie Stevens all'inizio del 900. Il cromosoma Y dunque ha una madre, non un padre, e il caso vuole che sia una delle prime grandi genetiste della storia, una studiosa che è diventata un'icona dei Nobel negati alle donne di scienza. L'Y comunque non è sempre stato così come lo vediamo raffigurato nei libri di scuola. Circa 200-300 milioni di anni fa i cromosomi sessuali erano identici. Poi un segmento dell'X ha smesso di ricombinare con l'Y, che ha condotto una vita sempre più solitaria, riducendosi. Nella storia dei mammiferi è accaduto in altre quattro occasioni e ogni volta l'Y ha perso dei geni, delegando ad altri un gran numero di funzioni. Oggi il cromosoma maschile umano conserva appena il 3 per cento degli oltre 600 geni che nella notte dei tempi condivideva con il suo omologo femminile. Possiamo chiamarlo decadimento oppure processo di riorganizzazione, come nelle aziende, con tanto di downsizing ed esternalizzazione. In ogni caso, abbiamo appena scoperto che questo fenomeno non è andato avanti nel genoma dei primati e nulla autorizza a dare per scontato che riprenderà in futuro. Lunga vita al cromosoma Y, dunque. E se invece dovesse accadere l'irreparabile? Sarebbe la fine dell'uomo o la fine dell'umanità? Gli ominidi orfani dell'Y, che magari avranno abbandonato la Terra per colonizzare nuovi pianeti, saranno tutti di sesso femminile come in certe storie di fantascienza? Si riprodurranno per clonazione? Magari fabbricheranno spermatozoi artificiali con le staminali? Fermi tutti. Anche nel caso peggiore, l'evoluzione offre possibilità insperate. Nel mondo animale esiste già qualche specie che ha perso l'Y senza aver riportato danni, e senza che i diretti interessati se ne siano neppure accorti. Sono dei roditori transcaucasici (Ellobius) e giapponesi (Tokudaia). Questi esempi ci dicono che i geni chiave della mascolinità possono spostarsi su un cromosoma più stabile e continuare tranquillamente il lavoro fuori sede. In poche parole, morto un Y se ne può fare un altro. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 10 Mar. ’12 L' AGENZIA DEI TRAPIANTI AFFIDATA A UN DENTISTA Gli esperti al ministro: è uno scherzo «Un dentista alla guida dell' Agenzia regionale per i trapianti». Il caso è stato sollevato ieri dai responsabili dei Centri trapianti del Policlinico Gemelli, Rino Agnes, e del Policlinico Umberto I, Pasquale Berloco, due esperti del settore a livello nazionale. Il nuovo presidente dell' Agenzia è «Gaetano Marcello», che è affiancato da «Pietro Alimonti e Aldo D' Avach come vicepresidenti». Le nomine nel decreto numero 92 sono state firmate il 15 febbraio scorso dal presidente del Consiglio regionale del Lazio, Mario Abbruzzese. Il documento, pubblicato ieri sul Bollettino ufficiale della Regione Lazio (Burl), spiega che i designati sono stati scelti «attraverso l' esame dei curricula previsti dagli avvisi pubblicati il 13 dicembre del 2008» sullo stesso Burl. Gaetano Marcello, dentista di Guidonia, prende il posto del professor Carlo Umberto Casciani, esperto di trapianti ed ex presidente e commissario dell' Agenzia dal 2008. Alimonti è primario nel San Pietro, mentre D' Avach, ex Cgil, è stato per 8 anni nel Cda dell' Agenzia regionale di sanità (Asp). Il senatore Lionello Cosentino (Pd) tuona: «La lottizzazione squalificata delle nomine per l' Agenzia dei trapianti del Lazio fa cadere le braccia. I trapianti sono una cosa seria, la politica regionale no. Spero che il ministro Balduzzi abbia la sensibilità di intervenire». Gli esperti di trapianti capitolini stanno preparando una lettera per il ministro Balduzzi e la presidente della Regione Polverini: «È pazzesco nominare un dentista in un ruolo così delicato: l' Agenzia è un organo tecnico, di consulenza nella programmazione dell' attività di assistenza e ricerca a livello regionale - sottolinea Paquale Berloco, responsabile del centro trapianti dell' Umberto I -. All' inizio credevo fosse uno scherzo. Poi sono andato a vedere su Internet, ma non ho trovato neanche una ricerca sui trapianti firmata da lui». «Vorrei sapere quali requisiti aveva questo candidato - chiede Berloco -. Io ho partecipato al mio primo trapianto di rene in Italia il 22 settembre del 1973, insieme al professor Raffaello Cortesini. Nel 2008 ho anche presentato la domanda, ma questo dentista che cosa faceva nel frattempo?». Commenti analoghi dal Gemelli: «Sono costernato - aggiunge Agnes -. Hanno nominato degli sconosciuti: è incomprensibile. Pure io avevo partecipato al bando, ma evidentemente altri, in teoria, avevano più titoli di me...». Francesco Di Frischia RIPRODUZIONE RISERVATA Di Frischia Francesco _____________________________________________________________ Corriere della Sera 08 Mar. ’12 I «FAGIOLI» IN MOVIMENTO CHE CONSERVANO I RICORDI CULTURA SCIENZA ESCE OGGI UNO STUDIO RIVOLUZIONARIO SUI MECCANISMI MOLECOLARI DEL CERVELLO CHE CONSENTONO ALLA MEMORIA DI FUNZIONARE Le nuove scoperte sull' architettura dei neuroni Speranze Questa volta si potrebbe veramente trovare la cura per l' Alzheimer e molti altri disturbi Prospettive Si potranno capire meglio il funzionamento del cervello e i fondamenti del linguaggio e della coscienza A ndiamo per un attimo con il pensiero a una vicenda che ben ricordiamo e che è vecchia di cinque o dieci anni o ancor più. Come fa il nostro cervello a ricordare quanto ci è successo tanto tempo fa? Se è per questo, come fa perfino a ricordare qualcosa che risale a poche ore addietro? Le neuroscienze hanno a lungo studiato i processi della memoria, mietendo una mole impressionante di eccellenti risultati. Restano, però, molti problemi di fondo ancora aperti e perfino dei paradossi. L' articolo oggi pubblicato sulla rivista scientifica internazionale «PLoS Computational Biology» da due fisici canadesi, Travis Craddock e Jack Tuszynski (Università di Alberta) e da un neuroscienziato e anestesiologo americano, Stuart Hameroff (Università dell' Arizona), promette di aprire una nuova frontiera in questo settore. Detto molto semplicemente, questi studiosi offrono un modello teorico e sperimentale di quello che succede dentro i neuroni. Sì, abbiamo capito bene, hanno sondato quello che succede all' interno dei singoli neuroni responsabili della fissazione e della successiva salvaguardia delle tracce mnemoniche. Occorre, qui, forse, fare un passo indietro. Nel lontano 1949, uno dei padri delle moderne neuroscienze, il canadese Donald Olding Hebb, aveva individuato l' autografo cerebrale della memoria: la fissazione stabile dei ponti che si creano incessantemente tra i neuroni, le cosiddette sinapsi. Il motto che lo ha reso famoso è «i neuroni che sparano insieme si sposano insieme» (in inglese è più grazioso: «neurons that fire together wire together»). In altre parole, due neuroni che si attivano allo stesso tempo, in uno stesso preciso momento, stabiliscono tra di loro un' alleanza stabile per il futuro. Attivate uno di questi, e anche l' altro risponderà prontamente all' appello. Questo tipo di sinapsi si chiama, da allora, una sinapsi hebbiana. Ne è passata, da allora, di acqua sotto i ponti. Nel 1966, all' Università di Oslo, Terje Lomo e Timothy Bliss, studiando il consolidamento della memoria nell' ippocampo del coniglio, scoprirono il fondamentale meccanismo chiamato potenziamento a lungo termine (in gergo internazionale Ltp). Lo sposalizio tra i neuroni veniva da loro certificato su precise basi molecolari. Il problema, però, mi spiega Stuart Hameroff, è che molte di queste molecole della memoria (delle speciali proteine) vivono solo pochi minuti o poche ore, mentre i ricordi vivono molto più a lungo. Un paradosso, questo, che il lavoro oggi pubblicato conta di poter risolvere. Entriamo, allora, con Hameroff e collaboratori dentro questi benedetti neuroni e dentro queste benedette sinapsi. Scopriamo un' architettura di grande complessità e di grande bellezza: i cosiddetti microtubuli, parte dello scheletro delle cellule, ma che, nei neuroni, assumono proprietà particolari. Sono colonne di forma esagonale, formate da moltissime molecole, le tubuline, che hanno ciascuna all' incirca la forma di un fagiolo. Questi fagioli possono essere ripiegati su se stessi o invece aprirsi. E lo fanno in modo contagioso, facendo aprire o chiudere altre tubuline lungo tutto il tubulo. Il loro passaggio dalla forma aperta a quella chiusa racchiude informazione e questa informazione si propaga lungo l' intero tubulo e può poi trasmettersi a un neurone successivo. Il processo è assai simile a quanto avviene in un microcalcolatore. È così che l' immagazzinamento e la trasmissione di informazione possono restare stabili anche su lunghi periodi, in certi neuroni anche lungo molti anni. La quantità di energia consumata è bassissima. L' articolo oggi pubblicato spiega tutto ciò in grande dettaglio, con illustrazioni degne di un grande disegnatore. Ecco quindi trovata, secondo questi scienziati, la soluzione del paradosso della memoria. Lascio la parola a Hameroff: «Abbiamo scoperto quello che sembra proprio essere il sito della memoria, il codice del ricordare, all' interno dei neuroni. Abbiamo scoperto la memoria, senza alcun paradosso». Poi aggiunge: «È forse solo un primo passo, ma le conseguenze possono essere molto importanti per capire il funzionamento del cervello, perfino per capire i fondamenti del linguaggio e della coscienza». Mi descrive anche le possibili applicazioni pratiche: «Il trattamento dell' Alzheimer e di altri disturbi del sistema nervoso, compresi i disturbi da stress post-traumatico. Diventerà forse possibile in futuro potenziare la memoria o, all' opposto, eliminare ricordi traumatici». Hameroff è autore di numerosi articoli e libri scientifici su quello che succede all' interno dei neuroni, uno di questi scritto a quattro mani con il noto fisico e matematico inglese Sir Roger Penrose (autore del discusso saggio La mente nuova dell' imperatore ). Nel comunicato stampa rilasciato ieri congiuntamente dall' Università dell' Arizona e dall' Università di Alberta, Hameroff non ha peli sulla lingua: «Molti articoli tecnici di neuroscienze concludono promettendo cure per l' Alzheimer e altri disturbi. Anche noi ora lo facciamo, ma questa volta potrebbe essere vero». Tronchiamo di colpo l' intervista, perché deve andare in sala operatoria ad amministrare l' anestesia. Il camice che indossa e la mascherina che ora si porta davanti a bocca e naso sono verdi, un colore che ben si addice alle sue speranze. RIPRODUZIONE RISERVATA Piattelli Palmarini Massimo _____________________________________________________________ Corriere della Sera 04 Mar. ’12 QUANDO È GOOGLE E NON IL MEDICO A RIVELARCI SE LA MALATTIA È GRAVE Dominic Stacey junior, un bambino inglese di otto anni, ha saputo da Internet di dover morire presto. Gli è bastato digitare su un motore di ricerca «gambe stanche», sensazione che lo affliggeva spesso, per scoprire di essere affetto da una rara malattia degenerativa. La diagnosi online, come ha raccontato il quotidiano inglese Daily Mail , ha cambiato, e non in meglio, la vita di Dominic e della sua famiglia. Il caso colpisce perché coinvolge un bambino, ma si replica migliaia di volte ogni giorno, specie per malati di tumore o altre patologie gravi. Una volta (pochissimo tempo fa, in realtà) in casi come questi la verità poteva essere distillata dal medico alle dosi ritenute opportune a seconda del profilo psicologico del paziente o in considerazione di altre valutazioni. Internet ha cancellato questo filtro. Google non sa se chi cerca vuole davvero sentirsi dire tutto. Un medico oltre a saper parlare, almeno in teoria, dovrebbe saper ascoltare, per capire quanto il paziente è pronto a «ricevere» in quel momento, dal momento che ognuno, di fronte a malattia o dolore, reagisce in modo diverso. Sul New England Journal of Medicine , la più prestigiosa rivista medica del mondo, specialisti dell' università di Rochester (Usa) hanno scritto che esistono condizioni nelle quali il paziente non deve essere informato in maniera completa e dettagliata su diagnosi, prognosi e trattamento. E tra queste condizioni c' è quella in cui, più o meno direttamente, il paziente fa capire di non voler conoscere la prognosi della propria patologia, cioè ciò che lo aspetta. In particolare, il dettaglio più difficile da affrontare è il tempo che resta da vivere. Chi è colpito da una malattia a prognosi infausta spesso si aggrappa a qualche motivo di ottimismo. E lasciare questa possibilità fa parte della terapia che il medico può decidere di adottare. Ma a Google questo non interessa. Luigi Ripamonti _____________________________________________________________ Corriere della Sera 04 Mar. ’12 IN PALESTRA BISOGNA SAPERE QUANDO PRENDERE FIATO SALUTE FITNESS COME ALTERNARE CORRETTAMENTE INSPIRAZIONE ED ESPIRAZIONE PER OTTENERE IL MASSIMO QUANDO CI SI ALLENA ESERCIZIO FISICO UNA GUIDA PER OTTIMIZZARE RESPIRAZIONE E PRESTAZIONI Gli errori più comuni e quelli più rischiosi Sotto sforzo il blocco della respirazione può causare capogiri e svenimenti N on c' è attività più naturale della respirazione. Eppure respirando commettiamo diversi errori, perlomeno quando stiamo facendo sport o un qualsiasi sforzo fisico. Pensiamo a quando facciamo ginnastica, solleviamo pesi, corriamo o pedaliamo: tutti gli organi richiedono un supplemento energetico, che viene assicurato da un maggiore apporto di sangue, e di conseguenza di ossigeno e di nutrienti, ai tessuti. Per fornire questo supplemento il cuore accresce la portata cardiaca e i polmoni la ventilazione, aumentando sia la profondità sia la frequenza respiratoria. Un' attività che, benché involontaria, possiamo gestire e controllare in modo da renderla più efficace. In realtà, però, questo nostro potere è spesso vanificato dalle nostre scarse conoscenze. Pur essendo la respirazione una componente fondamentale nella pratica di qualsiasi sport, resta di solito un argomento affrontato con approssimazione. Un esempio: quando si fanno esercizi con i pesi la maggior parte delle persone durante la fase di carico istintivamente trattiene il respiro, oppure inspira, anziché espirare. «Scelta sbagliata - chiarisce Antonio La Torre, professore associato in Metodi e didattiche delle attività sportive alla Facoltà di Scienze motorie all' Università degli Studi di Milano - perché il blocco intenzionale della glottide, che si ha trattenendo il respiro, favorisce un aumento della pressione intratoracica che può arrivare anche a triplicarsi causando una compressione delle vene e un rallentamento del ritorno del sangue verso il cuore. Un rallentamento che si traduce in una riduzione del sangue in uscita, che può divenire insufficiente a ossigenare gli organi periferici, cervello compreso. Le conseguenze quali sono? «Non da poco: visione offuscata, capogiri o addirittura svenimenti in questi casi non sono affatto rari. Ma l' aumentata pressione intratoracica può creare problemi anche al cuore costretto a lavorare contro resistenze molto elevate. Per questo le attività di potenza praticate in apnea ( si veda box a sinistra ) sono sconsigliate a che soffre di patologie cardiovascolari» puntualizza La Torre. Allora, come deve essere la respirazione quando si lavora con i pesi, quali manubri, bilancieri e "macchine" varie? «Bisogna comportarsi in modo esattamente contrario rispetto a quanto istintivamente si sarebbe portati a fare - dice l' esperto -. Si deve, infatti, espirare durante la fase di carico, cioè quando si compie più fatica, e inspirare durante la fase di scarico, cioè quando il peso torna alla posizione di partenza. In pratica quasi sempre si espira durante le fasi "concentriche" del movimento, cioè quando i pesi si avvicinano al corpo, e si inspira durante le fasi "eccentriche", quando i pesi si allontanano. Questo perché l' espirazione crea sempre una chiusura della cassa toracica (che riduce la pressione intratoracica che in una fase di sforzo è alta) e la contrazione di tutta la muscolatura addominale che aiuta a compiere lo sforzo». E se invece ci si sta esercitando senza pesi, a corpo libero? «All' espirazione si abbinano i movimenti di flessione delle gambe e della colonna, di adduzione delle braccia (fase concentrica), mentre all' inspirazione si associano i movimenti di estensione delle gambe e della colonna, di abduzione delle braccia (fase eccentrica)» risponde La Torre. Come respirare quando si praticano attività aerobiche tipo ciclismo, corsa di resistenza, nuoto o "miste", sia aerobiche che anaerobiche, come calcio, basket, pallavolo e tennis? «In questo caso - prosegue l' esperto - sia la frequenza che la profondità della respirazione aumentano proporzionalmente allo sforzo. Durante un esercizio di media-bassa intensità è preferibile inspirare attraverso il naso perché narici e ciglia nasali agiscono da filtro proteggendo l' organismo da sostanze indesiderate e contemporaneamente scaldano l' aria in entrata». E quando l' esercizio fisico è intenso e l' inspirazione nasale non è più sufficiente? «Evidentemente si è costretti a respirare con la bocca. Ma se l' intensità dell' esercizio supera di circa il 60% del massimo consumo di ossigeno (e cioè si va oltre la soglia che permette di parlare con un compagno), il corretto scambio anidride carbonica-ossigeno si altera e nel sangue si accumula l' acido lattico - precisa Antonio La Torre -. Questo significa che i centri respiratori sono sottoposti a uno stimolo addizionale, probabilmente derivante dall' aumento della concentrazione di idrogenioni (ioni che esprimono l' acidità del sangue) nel circolo ematico in conseguenza della produzione di acido lattico. Da qui l' insorgere del "fiatone": efficace indicatore del fatto che l' organismo non ce la fa e bisogna ridurre i ritmi». Mabel Bocchi RIPRODUZIONE RISERVATA **** Quanto conta la capacità polmonare Maggiore capacità polmonare significa migliori prestazioni? «Non è sempre così - specifica il professor Antonio La Torre -.Tant' è che solo alcuni parametri polmonari hanno valori diversi in un atleta, rispetto a un sedentario. Il volume massimo di aria che l' organismo può espirare in seguito ad un' inspirazione forzata, per esempio, è un valore che dipende da età, sesso e corporatura ed è ben poco condizionato dall' allenamento. Diversa la situazione se si parla di massima ventilazione volontaria, il massimo volume di gas che può essere ventilato, per minuto, respirando con la massima profondità e frequenza possibili. In media un sedentario ha valori massimali di circa 120-130 litri al minuto, mentre un atleta di livello può arrivare anche a 200. Stessa situazione per la frequenza respiratoria, che nei soggetti non allenati arriva a circa 40-42 respiri al minuto, mentre nello sportivo di livello anche a 59. Un atleta, inoltre, ha maggior resistenza alla fatica, dato che questa caratteristica è in gran parte collegata all' allenamento dei muscoli del diaframma, degli intercostali e degli scaleni, che hanno la funzione meccanica di espandere la cavità toracica. In pratica, a parità di tempo, e di sforzo, in un soggetto allenato la fatica è inferiore». **** Non fate come i campioni di pesistica L' eccezioneAvete presente gli atleti olimpici alle prese con il sollevamento pesi? Guardandoli in Tv, non avete l' impressione che nel momento di massimo sforzo, trattengano il fiato facendo tutto quello che nell' articolo a fianco vi abbiamo sconsigliato di fare? Non avete torto, ma una spiegazione c' è, come precisa La Torre: «Questi atleti utilizzano la "manovra di Valsava", ovvero il blocco consapevole della respirazione che prevede un' espirazione forzata attraverso la glottide chiusa: di conseguenza l' aria è trattenuta all' interno dei polmoni e i muscoli dell' addome e della cassa toracica si contraggono, aumentando la rigidità dell' intero torace, il che rende più facile il sostegno di carichi pesanti. Alcuni studi hanno dimostrato che questa tecnica offre la possibilità di ridurre del 50% la pressione a livello dei dischi intervertebrali dell' ultima vertebra dorsale e della prima lombare, e del 30% dell' ultima lombare e della prima sacrale. Tuttavia, la "manovra di Valsava" è decisamente dannosa per chi, non essendo un atleta di professione, può patire l' eccessiva pressione intratoracica e intra-addominale che viene a crearsi, con modifiche importanti, seppure temporanee, nel sistema cardiocircolatorio. La manovra è quindi sconsigliata a tutti, ma soprattutto a chi soffre di problemi cardiaci e circolatori, quindi a ipertesi, infartuati, diabetici». _____________________________________________________________ Le Scienze 11 Mar. ’12 COME L'ESERCIZIO MODIFICA IL DNA DEI MUSCOLI Atleti si nasce o si diventa? Attraverso una serie di modificazioni epigenetiche, l'attività fisica è in grado di stimolare l'espressione di alcuni geni all'interno delle cellule dei muscoli scheletrici che portano a un migliore adattamento allo sforzo. Una simile variazione si verifica anche con l'ingestione di caffeina (red) Che l'esercizio fisico faccia bene alla salute è un fatto noto e dimostrato innumerevoli volte. Difficile tuttavia immaginare che l'effetto positivo arrivi fino a un livello biologico fondamentale come quello genetico, come invece ha riscontrato una nuova ricerca - illustrata sulle pagine della rivista “Cell Metabolism” - che ha scoperto come anche pochi minuti di esercizio possano produrre, in persone inattive ma in buona salute, un cambiamento immediata del DNA. Ovviamente, il codice genetico codificato dalla sequenza nucleotidica delle cellule muscolari non cambia con l'esercizio: le modificazioni riguardano altri aspetti chimici e strutturali del DNA e sembrano rappresentare i primi eventi di una riprogrammazione genetica dei muscoli che ha lo scopo di variare il metabolismo celluare e, in ultima istanza, aumentare la forza e la resistenza muscolare. “I nostri muscoli hanno una plasticità incredibile”, spiega Juleen Zierath, del Karolinska Institut svedese. “Spesso si dice che siamo quello che mangiamo: almeno per i muscoli ciò è vero; se non li usiamo li perdiamo e quello che abbiamo scoperto è uno dei meccanismi che permette che ciò avvenga”. I cambiamenti relativi al DNA in questione sono noti come modificazioni epigenetiche e coinvolgono l'attivazione o la disattivazione di marcatori genetici, in particolare sui nucleotidi, generalmente indicati con le lettere A, G, T e C. Secondo i risultati del nuovo studio, il DNA delle cellule dei muscoli scheletrici di persone che hanno da poco effettuato un esercizio fisico mostra un numero di gruppi metile inferiore rispetto a quello che si misura in assenza di esercizio. In particolare, la metilazione attiva geni importanti per l'adattamento dei muscoli all'esercizio. Sulla base dei risultati ottenuti, i ricercatori hanno ipotizzato che anche la caffeina introdotta nell'organismo con il caffè del mattino sia in grado di influire sui muscoli secondo meccanismi analoghi. Per quanto riguarda la caffeina, Zierath sottolinea infatti che questa sostanza è in grado di riprodurre la contrazione muscolare che si verifica in seguito all'esercizio fisico. In termini generali, i risultati mostrano con tutta evidenza che il nostro genoma è molto più dinamico di quanto si pensasse. _____________________________________________________________ Le Scienze 11 Mar. ’12 MANGIARE SENZA INGRASSARE? MENO ENDOCANNABINOIDI Uno studio su topi geneticamente modificati ha scoperto che basta limitare la produzione di un endocannabinoide coinvolto nel metabolismo energetico per non aumentare di peso anche con una dieta ad alto tenore di grassi ( I fumatori di cannabis conoscono bene gli effetti della sostanza sull'appetito. Ora un gruppo di ricercatori statunitensi della Yale University e dell'Università della California a Irvine insieme con colleghi italiani dell'Università Politecnica delle Marche ad Ancona ha scoperto l'origine di un effetto di portata ben più grande che coinvolge gli endocannabinoidi e il loro effetto sulla regolazione del metabolismo energetico. In quest'ultimo studio, pubblicato sulla rivista "Cell Metabolism", Daniele Piomelli professore di farmacologia dell'Università della California a Irvine ha ingegnerizzato i neuroni nel lobo frontale di topi di laboratorio per limitare la produzione di un endocannabinoide denominato 2-AG. Questo endocannabinoide è prodotto nel cervello di tutti i mammiferi e si ritiene che consenta di controllare l'attività dei circuiti neurali del proencefalo coinvolti nella gestione del consumo di energia. Come risultato, questi topi geneticamente modificati mangiavano di più e si muovevano di meno rispetto ai loro simili con patrimonio genetico inalterato, ma non guadagnavano peso anche se seguivano una dieta ad alto tenore di grassi. Oltre a ciò, non sviluppavano alcun segno di sindrome metabolica, una combinazione di disturbi che vanno dall'obesità all'ipertensione, che incrementa il rischio di patologie cardiovascolari e di diabete. “Abbiamo scoperto che questi topi erano resistenti all'obesità poiché consumavano più calorie prodotte dalla dieta ricca di grassi rispetto ai topi normali”, ha spiegato Piomelli. “Sapevamo che gli endocannabinoidi hanno un ruolo cruciale nella regolazione del metabolismo energetico, ma questa è la prima volta che troviamo a che livello ciò avviene”. In particolare, si è scoperto che i topi mutanti rimanevano magri poiché il loro tessuto adiposo bruno, che in tutti i mammiferi ha lo scopo di mantenere caldo l'organismo, diventava iperattivo ed era convertito in calore a un tasso molto più alto del normale. Il controllo dei livelli di 2-AG potrebbe dunque diventare l'obiettivo terapeutico per contrastare sovrappeso e obesità anche nell'uomo? Nello studio, per limitare la produzione di 2-AG i topi erano stati ibridati con celle manipolate e questa procedura non potrebbe essere riprodotta negli esseri umani. _____________________________________________________________ Le Scienze 11 Mar. ’12 PERCHÉ LA MARIJUANA PEGGIORA LA MEMORIA Una nuova sperimentazione sui topi ha permesso di scoprire la base neurobiolgica dell’effetto negativo del consumo di cannabinoidi sulla memoria di lavoro: a essere colpiti non sarebbero direttamente i neuroni, ma gli astrociti, che per la prima volta vengono implicati in questo tipo di meccanismi, fondamentali per l’apprendimento e per il ragionamento La marijuana influisce negativamente sui processi di memoria, ma qual è l’origine neurobiologica di questo effetto? Se lo sono chiesti gli autori di un nuovo articolo apparso sulla rivista “Cell” riscontrando con sorpresa come tali problemi di memoria siano imputabili all’effetto della sostanza psicoattiva contenuta nella marijuana – Delta-9- tetraidrocannabinolo – non direttamente sui neuroni ma sull’astroglia, che rappresenta la principale struttura di sostegno dei neuroni. In particolare, la ricerca clinica ha messo in luce come la marijuana influenzi la memoria di lavoro, dove vengono immagazzinate temporaneamente ed elaborate le informazioni utili per i processi di ragionamento, di comprensione e di apprendimento. Lo scopo dei ricercatori inizialmente era un altro. Giovanni Marsicano dell’INSERM, in Francia, e Xia Zhang dell’Università di Ottawa, in Canada, hanno iniziato la sperimentazione per chiarire per quale motivo le cellule astrogliali (o astrociti) rispondano sia al THC sia agli altri segnali fisiologici del cervello. I due studiosi hanno utilizzato alcuni topi di laboratorio per evidenziare gli effetti neurobiologici della droga, e in particolare il ruolo svolto dai recettori per i cannabinoidi di tipo 1 (CB1R), molto diffusi nel cervello, soprattutto sui vari sottotipi di neuroni. Si è così scoperto come i topi mancanti di CB1R solo sulle cellule gliali siano protetti dai deficit della memoria di lavoro spaziale che spesso segue alla somministrazione di una dose di THC e che è stata riscontrata negli animali mancanti di CB1R sui neuroni. Dato che differenti tipi di cellule esprimo diverse varianti di CB1R, potrebbe essere possibile, in linea di principio, attivare i recettori sui neuroni senza influenzare le cellule astrogliali”, ha spiegato Marsicano commentando i risultati. “Il nostro studio mostra come gli effetti più comuni dell’intossicazione da cannabinoidi è dovuta all’attivazione dei recettori CB1R”. La scoperta ha notevoli implicazioni anche per lo studio delle attività degli endocannabinoidi endogeni, agonisti naturali dei recettori CB1R sia sugli astrociti sia sugli altri tipi di cellule. Il sistema degli endocannabinoidi è coinvolto nell’appetito, nella regolazione dell’umore, nella memoria e in molte altre funzioni. La comprensione di come queste molecole di segnalazione agiscono potrebbe gettare una luce anche su alcune gravi patologie in cui la memoria di lavoro è fortemente deficitaria, come l’Alzheimer”. _____________________________________________________________ Le Scienze 29 Feb. ’12 Scoperto il colore degli occhi di ÖTZI, PIÙ SARDO CHE MITTELEUROPEO Grazie al sequenziamento del suo genoma nucleare si sono potuti scoprire diversi tratti dell'uomo del Similaun, fra cui anche la sua intolleranza al lattosio e la sua vicinanza genetica alle popolazioni insulari del Tirreno, e in particolare a quelle sarde e corse (red) Aveva gli occhi castani, era intollerante al lattosio, soffriva di un malattia vascolare ereditaria e aveva perfino contratto la malattia di Lyme. Sono queste le ultime scoperte su Ötzi - l'uomo la cui salma congelata era venuta alla luce dal ghiacciaio del Similaun nel 1991 - che si sono potute ottenere grazie al sequenziamento del suo genoma. Lo studio che ha portato a questi risultati, ora pubblicata sulla rivista "Nature Communications", è stato realizzato da un gruppo di ricerca coordinato da Albert Zink Albert Zink, direttore dell'Istituto di Mummiologia e dell'Iceman di Bolzano (EURAC). I primi studi sulla genetica di Ötzi avevano riguardato il genoma mitocondriale, ma i tentativi di amplificare il DNA nucleare erano rimasti senza frutto. Ora grazie ai progressi ottenuti nella ricostruzione dei genomi fossili, l'impresa è riuscita grazie al ricorso alle tecnologie di ultima generazione. Al fine di garantire la correttezza delle analisi, queste sono state condotte in tempi e laboratori differenti su svariati campioni prelevati da distinti punti del corpo, che hanno dato risultati concordanti. L'analisi degli SNP; i polimorfismi a singolo nucleotide, ha così permesso di scoprire numerose caratteristiche di Ötzi , dal colore degli occhi al fatto che era intollerante al lattosio, un tratto che ben si conforma ad altri studi di paleogenetica, che in svariati siti preistorici non erano riusciti a rilevare l'allele in nessuno dei campioni neolitici, indicando che la persistenza della lattasi in età adulta era rara nel Neolitico e che la sua diffusione, dovuta al vantaggio selettivo conferito da questa caratteristica, si è progressivamente allargata nel corso dei millenni successivi fino a diventare prevalente nell'Europa centrale dal Medioevo. Sempre con la stessa tecnica si è appurato anche che l'uomo del Similaun soffriva di una malattia genetica alla quale si possono far risalire le calcificazioni vascolari che erano state rilevate dagli esami tomografici. Ma i suoi acciacchi non finivano qui: dai campioni esaminati sono emerse chiare tracce del genoma di Borrelia burgdorferi, l'agente eziologico della malattia di Lyme. Infine, le analisi condotte dal gruppo di ricerca hanno mostrato la sua distanza genetica dalle moderne popolazioni dell'Europa continentale, ma la vicinanza alle popolazioni insulari del Tirreno. In particolare è stata messa in evidenza la sua appartenenza all'aplogruppo G2a4 del cromosoma Y, che finora è stato trovato a frequenze apprezzabili solamente nelle popolazioni della Sardegna e della Corsica. L'affinità del genoma dell'uomo venuto dal ghiaccio ai moderni gruppi sardi, osservano gli autori, potrebbe riflettere l'esistenza di un antenato relativamente recente comune alle popolazioni sarde e alpine, forse a causa della diffusione delle popolazioni neolitiche.