RASSEGNA STAMPA DEL 26/02/2012 UNIVERSITÀ: PROFUMO ASSICURA: NESSUN TAGLIO UNICA: BUON DIPLOMA? ZERO TASSE UNIVERSITÀ: GLI IRONICI RACCONTI DI UN PRECARIO D'ANTAN GLI ATENEI E LA RIFORMA FRETTOLOSA UNIVERSITÀ "3+2", SCOMMESSA PERSA CON LE IMPRESE VALUTAZIONE: QUANTO «PESA» UN'AULA SPORCA? VALUTAZIONI: LA MISURA DEI SAPERI VALUTAZIONI: IL VIZIO DELL'INDICE EDITORIALE LA RICERCA «TAGLIA» LA BUROCRAZIA SCALARE LA GRADUATORIA DEL MIUR UNICA: RISALE AL POSTO N° 21 (era 24) PER LA PREMIALITÀ IL 94,4% DEGLI STUDENTI TROVA SUBITO LAVORO IL CEPU ORDINA AI SUOI DIPENDENTI: ISCRIVETEVI AL PDL MATEMATICA: PUNTARE SUI NUMERI A SCUOLA LILLIU: L'UOMO CHE SCOPRÌ BARUMINI LILLIU, COSA RESTA NEL LIBRO DELLA STORIA DULBECCO: MORTO LO SCIENZIATO GENTILUOMO DAL NOBEL A SANREMO NEUTRINI, I PERCHÉ DI UN ERRORE«TROPPA FRETTA PER L'ANNUNCIO» LE DOMANDE IMPOSSIBILI DI GOOGLE CRITTOGRAFIA, DA SOLA NON BASTA LA DEMOCRAZIA DEI PESCI NESSUN EGOISMO, DECRESCERE È SANO LA MAPPA DEI NEGAZIONISMI DI STATO ========================================================= AOUCA: FONDI ALL'AZIENDA MISTA AOUCA: RAFFORZARE IL PRONTO SOCCORSO E ODONTOIATRIA AOUCA: IN ARRIVO ALCUNI REPARTI DEL SAN GIOVANNI  AOUCA: «AGGREDITA DAL PRETE» AOUCA: «EPILETTICI DISCRIMINATI» MANI:SE FOSSE VERO SAREBBE UNA STUPIDATA» AOUCA: PADRE CARRUCCIU «UN COMPLOTTO CONTRO DI ME» ASLNU: IL CONSIGLIO DI STATO SALVA IL PROJECT ASLNU: LE CARTE NASCOSTE DEL PROJECT ASL UN NUOVO PATTO SOCIALE PER IL BROTZU» IL CAOS E L' «EFFETTO IMBUTO» SOLO IL 15% VIENE RICOVERATO MEDICI E LIBERA PROFESSIONE: NUOVO TENTATIVO DI DEREGULATION CAMICI SUL PIEDE DI GUERRA PER I LIMITI ALL'INTRAMOENIA PER ASSICURARE UN MEDICO PREMI SEMPRE PIÙ CARI OBIETTORI DI COSCIENZA IN CRESCITA: IL MAGISTRATO INDAGA SPECIALIZZANDI SENZA IMMUNITÀ: RISPONDONO DEGLI ERRORI BIMBI SOVRAPPESO, ECCO I RISCHI ALLARME, I MASCHI ITALIANI CE L'HANNO SEMPRE PIÙ PICCOLO UNA SANA EFFICIENZA LE IMPALCATURE "SMART" RIFANNO OSSA E ARTERIE LA PERFETTA SALUTE DEL CROMOSOMA Y E IL MICROBO DISSE: CAMBIO SPECIE I «TURNISTI»SONO PIÙ ESPOSTI AL DIABETE PENSARE TROPPO ALLA MALATTIA FA AMMALARE ANCHE I FAMILIARI ========================================================= _____________________________________________________________ Avvenire 21 feb. ’12 UNIVERSITÀ, PROFUMO ASSICURA: NESSUN TAGLIO MILANO. «Niente tagli», ma «occorre prepararsi al cambiamento». E il duplice messaggio che il ministro dell'Istruzione, Università e ricerca Francesco Profumo lancia al mondo dell'Università. Lo fa nella giornata in cui partecipa a una doppia inaugurazione di anno accademico in terra veneta (Verona al mattino e Padova al pomeriggio).Visita caratterizzata anche da alcune contestazioni che hanno accolto il ministro, ma quest'ultimo ha invitato i giovani al dialogo. «Per il 2012 non ci saranno assolutamente tagli, nè dal punto di vista del finanziamento all'Università e agli enti di ricerca, nè per il diritto allo studio» ha assicurato il ministro nella sua tappa veronese, ma ha anche spiegato che l'intento «è di arrivare più preparati nei confronti dell'Europa, dove dal 2014 arriveranno nuovi programmi. Nel 2013 ci sarà una revisione della modalità della distribuzione del fondo a fronte dei risultati dell'anno». Per il mondo accademico, dunque, il 2012 sarà un anno di «stabilità» nei fondi, ma anche di studio in vista dei cambiamenti. Del resto individuare nuovi criteri nella distribuzione delle risorse del fondo di finanziamento ordinario (Ffo) che tenga conto anche del merito è un percorso che l'università italiana ha intrapreso da qualche tempo, senza al momento essere approdato a un traguardo operativo. «Nel 2013 andremo con regole nuove che dobbiamo studiare» ha assicurato il ministro Profumo. E nell'agenda del titolare del dicastero di viale Trastevere vi sono anche i fondi per il diritto allo studio. «Sono 400 milioni di euro — ha ricordato Profumo —, ma in realtà sono un po' meno di ciò che servirebbe per poter dare una risposta a tutti gli idonei». E sempre agli studenti, soprattutto quelli che lo hanno contestato nelle due tappe venete, il ministro ha rivolto un invito al dialogo, dicendo che «gli studenti indignati delle università devono essere ascoltati» e bisogna «provare a ragionare con loro per trovare delle soluzioni, anche se non sono quelle definitive», sottolineando che «la dialettica è un elemento di crescita». Resta da verificare se questo dialogo sarà capace di passare nelle sedi istituzionali di rappresentanza che esistono presso il ministero. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 23 feb. ’12 UNICA: BUON DIPLOMA? ZERO TASSE  Il rettore annuncia: agevolazioni per giovani svantaggiati e meno facoltà  Incentivo dell'Università per studenti eccellenti  La preoccupazione per la crisi economica che vessa l'Isola fa capolino anche nel mondo dell'istruzione. Il timore principale, manifestato dal rettore dell'Università, è che i costi delle tasse possano far desistere studenti eccellenti a proseguire gli studi. Con questa premessa è arrivata la buona notizia per gli studenti sardi che decideranno di iscriversi all'ateneo cagliaritano: «Dal prossimo anno consentiremo ai giovani che si diplomano col massimo dei voti di iscriversi a tasse zero». Sono le parole pronunciate ieri mattina da Giovanni Melis, in occasione della presentazione delle tradizionali “Giornate dell'Orientamento 2012”. L'INCENTIVO Proprio perché studenti bravi e meritevoli non abbandonino la loro formazione, l'ateneo sta studiando anche altre forme di agevolazioni per i figli di genitori cassintegrati, in mobilità o licenziati. Anche per loro dal prossimo anno accademico sono in cantiere misure per la riduzione delle tasse. Rispetto alle proposte ministeriali che incitano ad aumentare le imposte, l'Università ha deciso di muoversi in controtendenza; per l'anno prossimo infatti non è prevista nessuna maggiorazione. «Siamo preoccupati che la crisi scoraggi i giovani. È vero che oggi è difficile trovare un'occupazione - ha sottolineato il rettore - ma lo è ancora di più per chi non ha istruzione». Come confermano i nuovi dati statistici dell'indagine Almalaurea, presentati ieri, circa il 90% dei laureati nell'ateneo cittadino ha trovato lavoro dopo 3 anni dal conseguimento del titolo. È ormai da 13 anni che l'Università organizza le Giornate dell'Orientamento ma quest'anno gli studenti che si apprestano a diventare matricole si trovano di fronte un'offerta formativa profondamente rinnovata, con nuove facoltà e nuovi dipartimenti, nati in seguito alla riforma Gelmini e all'approvazione del nuovo Statuto. L'OFFERTA Le facoltà sono state ridotte e raggruppate in grandi poli, da undici presenti lo scorso anno sono diventate sei, nello specifico: Studi Umanistici; Scienze economiche Giuridiche e Politiche; Ingegneria e Architettura; Scienze; Medicina e Chirurgia; Scienze farmaceutiche e Biologiche. Sono invece diciassette i nuovi dipartimenti. Anche l'Università ha dovuto fare i conti con la razionalizzazione e cercare di poter offrire un servizio migliore tenendo conto delle risorse disponibili. Nonostante ciò particolare impegno è stato riservato alle biblioteche, ai laboratori e al programma Erasmus, ritenuto un'esperienza fondamentale. Anche per questo si è data maggiore importanza ai corsi di lingua inglese, che da 7 sono diventati 33. Sino a sabato prossimo gli studenti possono recarsi alla Cittadella universitaria di Monserrato per scegliere il corso di laurea più adatto alle proprie aspirazioni. Oggi più di ieri studiare paga. Veronica Nedrini _____________________________________________________________ Il il manifesto 23 feb. ’12 UNIVERSITÀ, GLI IRONICI E DISINCANTATI RACCONTI DI UN PRECARIO D'ANTAN MEMORIE • «Pentapoli» di Franco Marucci per Masso delle Fate Enrico Terrinoni Le piccole ironie della vita di un accademico e l' amara constatazione del declino delle facoltà umanistiche La tesi di laurea non esiste praticamente più... grave è che si addottorino nelle università molte più persone di quanto per ora il sistema accademico può assorbire, con il risultato che molti dottori, scoraggiati dall'assenza di prospettive, tornano a fare, ottenuto il dottorato, il lavoro che avrebbero fatto con la laurea specialistica o triennale; solo che trovano ancora più difficoltà, perché lo cercano con tre o quattro anni di ritardo». Il commento laconico, che non sembra lasciare troppe speranze alle ultime generazioni di studenti, descrive purtroppo con una certa precisione quanto avviene giornalmente da diversi anni all'interno dell'università pubblica italiana, un'istituzione che in tanti di recente hanno tentato di riformare, e che, chi più e chi meno, in tanti hanno contribuito ad affossare. Da dove provengono queste parole all'apparenza sconsolate? Saperlo aggiunge una eco sinistra, quasi beffarda, alla verità difficilmente contestabile che esse propongono. Sono infatti di un addetto ai lavori per così dire sui generis, Franco Marucci, già professore ordinario alla Ca' Foscari di Venezia, e autore della monumentale Storia della letteratura inglese in sette volumi, uscita a partire dal 2003 per Le Lettere di Firenze. Marucci non è però_ un barone, semmai il contrario. Per scelta consapevole — e anche, forse, per le ragioni di cui sopra -- a soli 60 anni ha abbandonato la cattedra ín controtendenza rispetto all'uso comune, e lo ha fatto per dedicarsi alla scrittura. Da questa decisione nasce Pentapoli. Le piccole ironie della vita di un accademico (Euro 14, pp. 218), uscito di recente per il piccolo marchio fiorentino Masso delle Fate. Di ironia in questo impegnato libro di memorie e levità accademiche ce n'è molta. È ironico il resoconto della lunga gavetta dell'autore, degli anni di produzione scientifica infaticabile e della lunga attesa prima di salire in cattedra, delle tante domande presentate in giro per l'Italia per ottenere qualche corso in affidamento, e della estenuante angosciosa alba della riapertura dei concorsi. Insomma, più che il ritratto auto-declamatorio di un accademico consumato, il testo ci presenta, si direbbe, le vicissitudini picaresche di un precario, e non fa fatica immaginare che tanti giovani lettori potranno identificarsi con lo scanzonato protagonista di queste confessioni. Alla leggerezza affabulatoria che anima le «piccole ironie della vita di un accademico» (il sottotitolo ti manda al Life's Little Ironies di Thomas Hardy), si affianca un velo di consapevole disillusione per le sorti dell'università e delle materie umanistiche in particolare. Il profilo dell'accademia che ne viene fuori, per quanto dipinto a pennellate lievi, è sconsolante. Come per la sedia del dittatore descritta da Sararnago, che sí rompe inesorabilmente al rallentatore e con essa cade il suo occupante, l'accademia con la sua aria un po' stantia, vista attraverso gli occhi di Marucci si (ri)piega su se stessa, persa com'è in futili falde dipartimentali, in consigli e riunioni in cui l'interesse per il sapere è spesso secondo rispetto alla burocrazia o alle piccole rendite di potere, in convegni e conferenze in cui supponenti mostri sacri dell' establishment letterario (si veda il tagliente ritratto di uno scostante Derek Walcott in visita a Venezia) danno il meglio di sé e della propria altezzosità. Il libro propone la presa di coscienza di un irrimediabile declino, quello delle facoltà umanistiche, a dispetto della loro indiscussa popolarità tra gli studenti — gli stessi studenti che i tecnocrati dell'ultim'ora preferiscono chiamare clienti, o meglio consumatori, e non fruitori, di un'offerta formati- va standardizzata e sempre più aziendalista. Ma tale decadenza non è se non un microcosmo che riflette un macrocosmo universitario continuamente svilito, negli ultimi anni, e demonizzato da riformatori sciatti e incolti picconatori, il cui hobby malsano è trattare l'immenso patrimonio culturale di una nazione non come valore aggiunto, ma come una sorta di ricchezza dei poveri, una ricchezza di serie. B. Tanto per ricordare che con la cultura non si mangia, come ammoniva un triste creativo della finanza di qualche tempo fa. E invece con la cultura si mangia. Cultura è l'intrecciarsi dei saperi, cultura è la memoria non ereditaria di una comunità, diceva Lotman. Ed è proprio con un nuovo umanesimo delle università, e non con un loro bieco aziendalismo dirigista che si può aspirare a far affiancare a una sperata rinascita economica, anche un meritato risollevarsi culturale. In Irlanda; dopo il famoso tracollo finanziario seguito allo scoppio della bolla immobiliare, è stato eletto un poeta a Presidente della Repubblica. Ma quelle sono altre latitudini. Da noi basterebbe un po' di sano scetticismo, e di ironia, se vogliamo, nei confronti di ricette liberaliste calate dall'alto che pur promettendo molto in nome della razionalizzazione e della ripartizione dei saperi, rischiano di lasciare sul tavolo niente più che un pugno di briciole. E con le briciole, si sa, si mangia poco. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 feb. ’12 «GLI ATENEI E LA RIFORMA FRETTOLOSA» Al ministro dell'Istruzione Laureata con lode in Lingue (1981), prima del corso; nella carriera di anglista incontro alcuni «baroni» che trovano la mia ricerca «originale», ma molti apprezzano. Dopo il prestigioso Australian-European Award (1985), scelgo di riportare cervello e cuore in Italia; di ruolo a scuola, giovane ricercatrice a 29 anni, giovane associata a 40 anni (concorso nazionale), giovane ordinaria a 44 anni (concorso locale), giovane direttrice di dipartimento a 48 anni, giovanissima preside a 49 anni, ancor più giovane presidente della Conferenza dei presidi a 50 anni. Faccio ricerca internazionale. La Facoltà che presiedo, Università di Udine, è da nove anni prima per il Censis. Devo gestire una riforma che non approvo e non capisco, sarò diventata vecchia? Era un lavoro entusiasmante, centrato su studenti, didattica e ricerca; ora studiamo decreti astrusi, sostituiti da altri che li contraddicono; siamo premiati se laureiamo in fretta; demoliamo le Facoltà in favore dei Dipartimenti (avranno mille competenze e mi chiedo come si farà) solo perché gli americani fanno così, ma i Paesi anglofoni invidiano il nostro sistema. La bibliometria è in disuso e noi l'adottiamo, in ritardo e malamente: la valutazione non premierà il merito. Brillanti addottorati/e sono a spasso o all'estero (molti/e oltre i 40). Internazionalizziamo e sul sito dell'Anvur leggo le bio in inglese con banali errori di lingua. Mi chiedo, con il Nobel Kari Mullis, chi controlla la bottega? Dov'è lo spiraglio per il progresso interiore, sociale e culturale e non solo economico del nostro Paese? Credo di poter fare la differenza per un'Istituzione che mi onoro di servire da 30 anni, così come hanno fatto mio padre Luigi Riem, Medaglia d'oro alla Pubblica istruzione e alla Sanità, e mia madre Ines Argia de Vescovi, profuga istriana, antesignana di tutte le metodologie didattiche odierne. Caro ministro, spero Tu sia abbastanza giovane e mi risponda. Grazie Antonella Riem Presidente della Conferenza permanente di lingue e letterature straniere _____________________________________________________________ Il Secolo d’Italia 23 feb. ’12 UNIVERSITÀ "3+2", SCOMMESSA PERSA CON LE IMPRESE Luci e ombre della riforma Berlinguer. La Fondazione Agnelli: i risultati sono stati deludenti Alessandro Sansoni Sono trascorsi ormai do- dici anni dalla riforma della didattica universitaria che ha introdotto in Italia la famosa formula del "3+2". All'epoca si trattò di una vera e propria cesura: l'allora ministro Luigi Berlinguer volle in questo modo adeguare l'università italiana agli standard europei, così come venivano tratteggiati dalla Dichiarazione di Bologna sottoscritta il 19 giugno 1999. Gli obiettivi che si intendeva perseguire con la riforma erano rivolti ad ampliare la base sociale degli iscritti, aumentare il numero dei laureati e rafforzare il collegamento tra università e mondo del lavoro. Tra i principali limiti del sistema formativo terziario del nostro Paese venivano annoverati, infatti, l'alta selettività sociale in entrata - con la tendenza a escludere fasce consistenti di popolazione giovanile provenienti dai ceti meno abbienti - l'alta percentuale di studenti fuori corso, il basso numero di laureati (soprattutto se confrontato con le medie degli altri paesi maggiormente sviluppati) e la scarsa attinenza dei programmi di studio con le necessità delle imprese e dell'economia reale. Con il "3+2" si voleva, pertanto, snellire i percorsi di studio con l'introduzione della laurea triennale, analoga all'istituto del baccellierato in vigore in diversi paesi europei, confidando in una maggiore accessibilità, anche per chi non era in grado economicamente di fare fronte ad investimenti formativi di lungo periodo, al titolo di studio post-scolastico. Contestualmente, con l'introduzione di massicce dosi di autonomia, il legislatore puntava a una maggiore interazione tra atenei ed esigenze di capitale umano presenti sul territorio. Oggi, a distanza di oltre un decennio, è possibile tirare un primo bilancio - seppur parziale, vista la farraginosità delle statistiche disponibili - degli effetti sortiti dalla riforma, verificando se essa è riuscita a conseguire gli obiettivi prefissati. Ci ha provato la Fondazione Giovanni Agnelli di Torino, l'istituzione culturale del nostro Paese maggiormente specializzata nella ricerca sullo stato del settore istruzione e che pubblica annualmente il "Rapporto sulla scuola in Italia", con uno studio appena uscito per i tipi di Laterza intitolato I nuovi laureati. La riforma del "3+2" alla prova del mercato del lavoro. Secondo i ricercatori della Fondazione Agnelli le motivazioni che condussero alla riforma erano giustificate e sostanzialmente corretti gli strumenti predisposti. Ciononostante i risultati non sono stati all'altezza delle aspettative, sebbene in misura non così negativa come solitamente si ritiene. L'auspicato aumento di immatricolazioni c'è stato, così come l'aumento in percentuale di detentori di titoli universitari. Deludente è stato invece il riscontro sul fronte del mercato del lavoro, sia a causa della crisi economica, che è coincisa con la messa a regime della riforma, sia per il cattivo utilizzo che il management universitario ha fatto dell'autonomia concessagli. A spese dello stato centrale - in quanto l'autonomia di spesa e di offerta didattica non coincide con la piena responsabilità nell'individuazione delle risorse in entrata - si è avuta una proliferazione di cattedre e corsi di laurea con un aumento sproporzionato, rispetto al numero di immatricolazioni, dei docenti. Senza contare il sorgere di nuovi atenei in ogni angolo della penisola che ha portato a una dispersione dei fondi disponibili, che nonostante le ristrettezze sono comunque aumentati rispetto al 2000 sia in termini assoluti, sia in termini percentuali. Inoltre l'auspicato incontro con il mondo delle imprese è stato deludente, salvo casi particolari, anche a causa dell'atteggiamento eccessivamente accademico del mondo universitario. Eppure, a fronte di uno scetticismo sempre più diffuso, quello nella formazione universitaria resta un buon investimento. Le statistiche raccontano che, sebbene in misura meno consistente che nel passato, un laureato percepisce uno stipendio migliore rispetto a un diplomato ed è favorito nella ricerca di un'occupazione. Il problema, gravissimo, resta la scarsa mobilità sociale dei giovani italiani, i quali, al netto del proprio livello di formazione, continuano a trovare lavoro grazie soprattutto alla rete di conoscenze parentale e amicale delle famiglie d'origine, a tutto discapito del merito e di quel fondamentale propulsore dell'economia di un paese che è l'aspirazione dei propri cittadini a un domani migliore per sé e per i propri figli Alla politica gli studiosi della Fondazione Agnelli chiedono una maggiore e più incisiva attenzione verso l'università, intendendola come investimento sul futuro dell'Italia e superando tanto l'atteggia-mento conservatore e difensore dei privilegi del mondo accademico dominante a sinistra, quanto l'incapacità della destra di individuare nel sistema universitario uno dei settori strategici per lo sviluppo del Paese. Senza gettare il bambino con l'acqua sporca, il rapporto propone, infine, alcuni miglioramenti al "3+2": maggiore differenziazione nell'offerta, con una formazione triennale liberamente accessibile e diffusa su tutto il territorio, una formazione professionale terziaria (sul modello degli Its) specifica per alcune realtà, più libera sotto il profilo gestionale e a minor finanziamento pubblico e una formazione magistrale/dottorale erogata solo da alcuni atenei altamente selezionati e sostenuti dallo Stato; attento monitoraggio dei risultati conseguiti dagli atenei e dai loro studenti; finanziamento degli atenei basato su costi standard per studente, che tenga conto delle oggettive differenze tra aree disciplinari; differenziazione delle carriere lavorative dei docenti. Miglioramenti costosi, politicamente ed economicamente, da inquadrare in una riflessione complessiva circa il ruolo che l'università dovrà svolgere in Italia nei prossimi anni. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 VALUTAZIONE: QUANTO «PESA» UN'AULA SPORCA? Dal vivo le distorsioni cognitive che interferiscono sul giudizio delle prestazioni altrui sono tante. Per questo alcune aziende hanno eliminato i colloqui d'assunzione Roberto Casati Un paradosso morale aleggia nei corridoi universitari. I docenti resistono quando si tratta di far valutare il proprio lavoro. Questi stessi docenti, però, passano una parte del loro tempo a valutare i propri studenti. Chi può e deve essere valutato, e perché? Ma anzitutto: che cosa significa valutare? Mettere in atto una valutazione non ha senso se non si ha un'idea chiara del perché si valuta. Ci sono valutazioni informali (per esempio, contrattazioni sul prezzo di un oggetto) e valutazioni formali, esplicite. Queste ultime servono a scopi svariati: possono aiutare il valutato a farsi un'idea delle sue capacità, possono selezionare e premiare, possono informare chi impiega il valutato; si valuta retrospettivamente (per fare un bilancio di un'attività) e prospettivamente (quando si vuole assumere un dipendente). Essere valutati può permettere di capire se si sta facendo un buon lavoro. Uno può anche pensare di saperlo da sé, ma (1) a nessuno sembra utile misurarsi con l'indifferenza generale, (2) nello stimarsi da sé entrano in gioco potenti distorsioni cognitive, come la tendenza alla conferma – per cui si va a caccia di convalide piuttosto che di critiche –. Forse siamo valutati da robot, ma alla fine di ogni processo c'è una persona. Un valutatore deve essere cosciente delle difficoltà disseminate sul suo percorso. La tendenza alla conferma si fa sentire anche qui: un pregiudizio positivo (o negativo) nei confronti di una persona viene rinforzato dall'attenzione selettiva per quei fenomeni che lo corroborano. L'errore fondamentale di attribuzione è dietro l'angolo: si attribuiscono ai soggetti dei tratti stabili (una certa personalità) quando il loro comportamento dipende largamente dalla situazione. La ricerca empirica indica che la valutazione è influenzata da ancora altri tratti ambientali. Se la stanza d'esame è sporca, il giudizio tenderà a essere più negativo che quello emesso in un ambiente lindo e ordinato. A stomaco vuoto si tende a dare giudizi meno lusinghieri che a stomaco pieno. E poi il giudicante pensa di essere infallibile, di potersi fidare delle proprie intuizioni – quando farebbe meglio a documentarsi sulla vasta letteratura sull'imperfezione dell'intuizione –. E in che modo un colloquio di dieci minuti permette di misurare le qualità personali? Potrebbe non misurare altro che la capacità del candidato a sottoporsi a un colloquio di dieci minuti. Lo sanno bene quegli esaminandi che invece di preparare l'esame preparano un certo modo di atteggiarsi all'esame. Alcune istituzioni hanno abolito il colloquio di assunzione, sulla base di risultati che dimostrano che il colloquio introduce solo rumore nel processo decisionale, e si basano solo sul curriculum del candidato. Quando invece le qualità di interazione sono cruciali le aziende ricorrono a vere e proprie simulazioni di situazioni critiche, che si protraggono per ore se non giorni. Questo per dire che ci sono dei modi di rimediare all'imperfezione cognitiva del processo decisionale. Ne elenco alcuni. Chiedersi se il colloquio è veramente utile; se no, farne tranquillamente a meno, si risparmia tutti tempo. Non circondarsi di yes men nei comitati. Nei comitati, evitare il voto e ricercare il consenso, il che permette di neutralizzare il voto di scambio strategico e alza il livello argomentativo. Scandire la valutazione in più criteri ben distinti: qualità personali, qualità delle lettere di raccomandazione (in senso anglosassone, beninteso), qualità del progetto, fattibilità, prestazione al colloquio eccetera, facendo attenzione a evitare le doppie punizioni o le doppie ricompense. Un candidato che ha un buon progetto non è poi necessariamente in grado di eseguirlo. Un candidato può aver mal di testa il giorno del colloquio ma essere un'ottima scelta come mostrano i risultati negli altri criteri. I criteri permettono anche di dare una forma non arbitraria alla discussione. Cercare di circoscrivere i comportamenti strategici. Un modo consiste nell'iniettare una dose di casualità nel processo di valutazione. Per esempio non valutare tutti i docenti ogni anno imponendo loro una rendicontazione che sottrae tempo ed energia a tutti, ma effettuare controlli a campione approfonditi. Conta molto capire la missione di ciò che si valuta o di chi si valuta. Per esempio, non è detto che valutare l'eccellenza per poi ricompensarla sia un modo efficiente di migliorare la qualità di un sistema nel suo complesso. Se la missione di un sistema educativo è quella di migliorare la qualità di ciascun elemento del sistema, conviene investire in metodi che agiscono sulla parte mediana e inferiore della distribuzione dei talenti. Più che premiare l'eccellenza, si dovrebbe incoraggiare la parte eccellente che c'è in ciascuno, trovare il modo di farla emergere perché possa esprimersi al meglio. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 VALUTAZIONI: LA MISURA DEI SAPERI I ranking attuali hanno dei limiti. Ma negarne l'utilità non ha senso: meglio affinare gli strumenti di misurazione La proposta di due matematici: ricorrere al linguaggio naturale per ordinare le varie dimensioni qualitative, come si fa per i vini o i candidati alle presidenziali Andrea Bonaccorsi Nel dibattito aperto dall'ipotesi di abolizione del valore legale del titolo di studio si è fatto cenno alla possibilità che le università italiane siano classificate in categorie di qualità e che dal ranking discendano conseguenze sui laureati. L'idea nasconde uno scarto logico incomprensibile tra dare un voto a un'istituzione e dare un voto a un individuo. Sarebbe come proporre che nelle gare internazionali dei vini si desse un voto prima alla regione di provenienza (quindi il Piemonte o il Bordeaux avrebbero voti migliori in partenza) e dopo alla singola bottiglia. A parte questo errore, il dibattito riapre la questione della possibilità di giungere a una graduatoria (ranking) di entità complesse come le università. Ellen Hazelkorn ha pubblicato il primo studio sistematico sui ranking delle università. Attualmente esistono circa cinquanta ranking a livello nazionale e almeno dieci a livello mondiale. L'enorme impatto mediatico è abilmente sfruttato dai produttori delle graduatorie, che scandiscono il calendario con la consumata perizia dei migliori uffici di comunicazione, pubblicando i dati a distanza uno dall'altro, per non disturbarsi a vicenda sui media. I ranking hanno un potere di attrazione formidabile, perché sintetizzano in un'unica, semplice misura fenomeni complessi, utilizzando solo informazioni quantitative. Tuttavia i ranking hanno severi limiti metodologici e conseguenze perverse. Sotto il profilo metodologico, utilizzano pochi indicatori, che sono correlati tra di loro. La scelta dei pesi per la costruzione dell'indicatore di sintesi è arbitraria, e inoltre non vengono pubblicati i criteri con cui si effettuano le indagini di opinione di tipo campionario. Di conseguenza essi privilegiano università grandi, antiche e orientate alla ricerca scientifico-tecnologica e medica, sacrificando invece università specialiste, oppure università generaliste di media dimensione o più giovani. Le graduatorie hanno anche effetti distorcenti per almeno due ragioni. La prima è che inducono i governi a ritenere che obiettivo principale sia salire o entrare nel vertice delle classifiche, tralasciando altre dimensioni della missione delle università, non catturata dai pochi indicatori delle graduatorie. Secondo, le graduatorie non forniscono alcuna indicazione per quelle che si collocano sotto la soglia di visibilità. La lista delle prime cinquanta è relativamente stabile negli anni e anche tra graduatorie diverse, ma appena si scende più in basso la posizione relativa perde ogni significato. Questo costituisce un serio problema per il nostro Paese, nel quale le eccellenze non sono concentrate in poche istituzioni, ma distribuite. Ciò significa che qualunque quantificazione va rigettata come arbitraria? Questa è l'opinione di Alain Abelhauser, Roland Gori e Marie-Jean Sauret, tre psicanalisti e professori di psicopatologia francesi che hanno dato voce in La folie évaluation ai timori più profondi di una parte della classe accademica. La loro tesi è drastica: la valutazione delle università e della ricerca si iscrive in un programma neoliberale e di estensione del dominio del mercato e del profitto, genera conformismo intellettuale, si basa su metodi di quantificazione che reclamano una obiettività impossibile e quindi mascherano dispositivi di servitù volontaria. In linea di principio, qualunque misurazione è illegittima e qualunque giudizio è autoritario, perché le realtà da valutare sono incommensurabili. Combinando la tradizionale polemica degli psicoanalisti contro gli approcci di psicologia sperimentale con letture tardive di Foucault e Bourdieu (ma anche di Pasolini), gli autori invitano né più né meno alla rivolta contro la valutazione. Un approccio più sobrio è proposto da due matematici esperti di scelta sociale, che in Majority judgment sviluppano un'idea semplice e potente. Non è vero che la realtà sociale è misurabile esattamente allo stesso modo di quella fisica (e quindi le pretese di obiettività vanno senz'altro messe in discussione). Tuttavia gli individui riescono piuttosto bene a valutare gli oggetti ricorrendo al linguaggio naturale, perché esso fornisce criteri chiari per ordinare gerarchicamente tutte le possibili dimensioni della qualità, siano esse riferibili ai vini, alle gare di tuffi o ai candidati alla presidenza francesi. La sfida principale è quindi sviluppare un linguaggio comune per descrivere verbalmente livelli crescenti di qualità: una volta costruito il linguaggio, si può dimostrare con opportuni teoremi che esistono metodi di aggregazione dei giudizi soggettivi che rendono inattaccabile il risultato finale. Tra visibilità mediatica, basata su un'illusoria certezza dei numeri, e pretesa di incommensurabilità esiste dunque una terza alternativa, meno roboante, ma per fortuna più robusta. Ellen Hazelkorn, Rankings and the reshaping of higher education. The battle for world-class excellence, Palgrave Macmillan, Houndmills, pagg. 272, £ 58,00 Alain Abelhauser, Roland Gori, Marie-Jean Sauret, La folie Èvaluation. Les nouvelles fabriques de la servitude, Mille et une nuits, Parigi, pagg. 204, € 16,15 Michel Balinski, Rida Laraki, Majority judgment. Measuring, ranking, and electing, The Mit Press, Cambridge, Mass., pagg. 448, $ 40,00 _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 VALUTAZIONI: IL VIZIO DELL'INDICE EDITORIALE Gli storici sono stati chiamati dall'Anvur a indicare le tre case editrici più autorevoli nel loro settore: una graduatoria limitata dagli effetti distorcenti Luigi Mascilli Migliorini Nelle ultime settimane, sollecitate a fornire un loro orientamento, le tre principali, le più rappresentative, associazioni di storici del nostro Paese (la Sissco che raccoglie gli studiosi dell'età contemporanea, la Sisem che si occupa dell'età moderna e la Sismed che raggruppa gli storici del Medioevo) hanno espresso i loro criteri di valutazione della ricerca universitaria, nell'ambito – ben s'intende – della disciplina di loro competenza. Il quadro dentro il quale poteva muoversi il loro lavoro era assai ristretto. Si trattava, più esattamente, di indicare la rilevanza di case editrici, collane e riviste scientifiche secondo un criterio decrescente di fasce dalla A alla C. Per le case editrici, in particolare, si imponeva di indicare solo tre nomi per la prima fascia. L'esito che ne è derivato è che tutte e tre le associazioni hanno indicato le stesse case editrici: Laterza, Mulino, Einaudi, riservando alle fasce minori una più variata articolazione di indicazioni. I tre nomi sono ovviamente fuori discussione. Sarebbe puerile non riconoscere il ruolo fondamentale, che in forme, sensibilità e, talvolta, tempi diversi queste tre aziende hanno svolto e svolgono nella cultura italiana e nella presenza di questa cultura su scala internazionale. Come, ovviamente, per spiegare questa convergenza non si tratta di immaginare scelte concertate, complotti di storici o altre spy-stories. E tuttavia proprio la solida fondatezza di queste indicazioni e un'insospettabile unanimità rafforzano la natura del problema che si viene a determinare. Un problema che non ha nulla (o quasi) a che vedere con le vivacissime discussioni che si sono avute e che si stanno avendo nell'intero mondo universitario su criteri e modalità di applicazione di questo nuovo genus che è la valutazione della ricerca e la sua immancabile Agenzia di riferimento, l'Anvur. È un problema che investe, piuttosto, il mercato del l'industria editoriale, dove scelte di questo tipo rischiano di destabilizzare ulteriormente un settore non da oggi in difficilissimo equilibrio per il quale queste scelte rischiano di produrre una «favola delle api» al rovescio, dove le privatissime virtù di chi enuncia il proprio, autonomo orientamento generano un vizio pubblico, uno svantaggio collettivo. Per comprendere meglio questo rischio sarà bene ricordare che i criteri che verranno assunti dall'Anvur serviranno a determinare le dimensioni delle risorse messe a disposizione delle singole università per le attività di ricerca e potrebbero, forse, essere utilizzati anche nei futuri concorsi per ruolo di professore. In parole povere, se si pubblica il proprio lavoro con una casa editrice di fascia A si ottiene una valutazione più alta, oggi per i finanziamenti, domani per i concorsi. In Italia, però, non c'è casa editrice, neppure quelle appena ricordate, che generalmente non chieda per pubblicare opere di sicura qualità scientifica, ma di difficile appeal commerciale un contributo più o meno sostanzioso alle spese di stampa per compensare, appunto, la presunta difficoltà di vendita sul mercato. Stiamo, dunque, parlando nella quasi totalità dei casi di denaro pubblico che viene trasferito ad aziende private. Si dirà: ma è quello che già accade e accade da tempo. Certo, ma la condizione oligopolista che si viene prefigurando in queste scelte (e che è frutto – lo ripeto – più della perversione del meccanismo che di chi ha scelto) può produrre in una prospettiva non troppo lontana una distorsione assai significativa di un mercato libero e concorrente. Che cosa, infatti, potrà accadere? Da un lato, gli atenei e i loro organismi – dipartimenti, centri di ricerca eccetera – saranno indotti a rivolgersi di preferenza (e al di là dei loro sicuri meriti imprenditoriali) a quelle case editrici in grado di metterli in migliore condizione al momento della distribuzione dei finanziamenti ministeriali. Dall'altro, il singolo studioso aderirà con maggiore prontezza alla richiesta di contributo di quelle aziende che hanno, nelle valutazioni concorsuali, un peso più consistente. Trascuro di considerare la possibilità che l'oligopolio aiuti una lievitazione dei prezzi, a tutto svantaggio del "consumatore", istituzione universitaria o singolo studioso. Non è il massimo dei risultati in tempi di liberalizzazioni e non lo è, neppure, in tempi, per così dire, di biodiversità. Se siamo così attenti a evitare la scomparsa di una specie rara e gustosa di fagioli, se salutiamo con compiacimento planetario la sopravvivenza di un vitigno creduto perduto per sempre, possiamo rimanere del tutto indifferenti all'impoverimento che questi criteri rischiano di provocare nel campo fragilissimo dell'editoria specialistica, della saggistica di ricerca? Descrivere questo settore con i colori del puro parassitismo tipografico, o peggio della inutilità, sarebbe fare un torto grave non solo a chi vi opera con passione e intelligenza, ma anche a quanti, tantissimi tra gli storici ricordano bene di aver fatto le loro prime, e talvolta anche seconde e terze, prove in queste case editrici, nello loro collane dove – non lo avranno certo dimenticato – i loro giovani libri si sono trovati onorevolmente accanto a quelli di autori più illustri, di maestri temuti o ammirati. Nessuna caricatura, dunque, di protagonisti determinanti di quella vita culturale che, certo, trova in alcune sigle le sue vetrine più scintillanti e attraenti. Se poi si volesse mettere avanti l'argomento della necessità di utilizzare al meglio le risorse pubbliche, evitando dispersioni verso imprese e opere di scarso valore, allora il discorso serio che si dovrebbe affrontare sarebbe tutto un altro. Se le risorse sono pubbliche rimangano nel pubblico. Si utilizzi questa occasione, questo momento per avviare quella politica di University Press, di editoria universitaria che non si è mai realizzata nel nostro Paese. Si provi a separare l'ambigua condizione dell'editore di mercato che, in determinate circostanze è anche editore di ricerca pura, e si metta mano alla costruzione di un'editoria che, per organizzazione interna dei comitati di lettura, filtri nella valutazione e quanto ne segue, offra le migliori garanzie di buon utilizzo delle risorse che lo Stato, e con esso i singoli atenei mettono a disposizione della ricerca. Ma evitiamo monopoli, tanto più in quel mercato dove la concorrenza non è quella delle passate da sugo o dei tonni in scatola, ma è quella delle idee. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 LA RICERCA «TAGLIA» LA BUROCRAZIA Innovazione. Il decreto semplificazioni si allinea alle direttive della Ue, che dal 2014 metterà in palio 80 miliardi Meno adempimenti e nuove figure professionali per snellire l'attività di laboratorio Francesca Barbieri Meno burocrazia e nuove figure professionali per dare slancio all'innovazione. Almeno sulla carta. Il decreto semplificazioni (n.5/2012) prevede un pacchetto di misure dedicate alla ricerca, in primis a quella che associa università e imprese. La stella polare che orienta gli interventi è l'Europa, che per il nuovo programma quadro Horizon 2020 - che dal 2014 investirà 80 milardi nella ricerca - ha abbassato le barriere all'entrata per accedere ai fondi comunitari, con un netto stop alla miriade di possibili incroci tra grant (progetto collaborativo, azioni di supporto, rete di eccellenza), attività (ricerca, prototipi, attività di disseminazione, management) ed enti partecipanti (enti di ricerca, università, aziende, piccole e medie o grandi). Un sistema che produceva varie combinazioni di sistemi di rimborso, obbligando i ricercatori e i gruppi coinvolti a dedicare buona parte del proprio tempo a calcoli e procedure di gestione complessi. La Commissione Ue ha accolto lo schema della Leru (la lega europea delle università di ricerca di cui fa parte la Statale di Milano), basato su un unico modello di finanziamento. La soluzione, ora al vaglio del Parlamento, prevede finanziamenti al 100% senza fare alcuna differenza tra tipologia di grant, attività e soggetti partecipanti. In Italia la sburocratizzazione prevede per la gestione dei progetti di ricerca internazionale e industriale la "nomina" di un unico capofila che rappresenti tutte le imprese e gli enti coinvolti, ma anche l'eliminazione della valutazione ex ante degli aspetti tecnico-scientifici e del parere per i progetti già selezionati nel quadro dei programmi europei o internazionali. Le verifiche - se il decreto verrà convertito in legge nell'attuale formulazione - saranno solo al termine dei progetti, con un sistema di rendicontazione che ci allinea al resto d'Europa e per i giovani ricercatori (quelli con meno di 40 anni) ci sarà una riserva del 10% del fondo per gli investimenti nella ricerca. «Un mix positivo di interventi - commenta Dario Braga, prorettore alla ricerca all'Università di Bologna - a tutto vantaggio dei giovani ricercatori, che saranno più incentivati a partecipare a bandi europei e a seguire più da vicino i propri progetti, grazie alla possibilità di mettersi in aspettativa e anche di guadagnare di più in caso di vincita di grant internazionali». Ma la vera novità del decreto semplificazioni è il debutto all'interno dei laboratori dei tecnologi a tempo determinato. «Una figura interessante - osserva Barbara Rebecchi dell'ufficio di ricerca dell'Università di Modena e Reggio Emilia - che potrebbe essere utilizzata per il reclutamento di personale qualificato da inserire nei progetti. Anche se l'impatto di un profilo di questo tipo, totalmente nuovo per le università, è tutto da verificare, l'impressione è che si tratti di una novità positiva che amplia il range di figure da coinvolgere nei laboratori». Agli aspiranti tecnologi - da reclutare attraverso concorso pubblico per il supporto tecnico e amministrativo alle attività di ricerca - viene richiesto «almeno il titolo di laurea ed eventualmente una particolare qualificazione professionale» si legge nel decreto. Le novità 1 UNICO CAPOFILA Nelle procedure per il sostegno alla ricerca scientifica e tecnologica internazionale e industriale viene stabilito che ci sia un soggetto unico rappresentante di tutte le imprese e gli enti interessati al progetto di ricerca. Possibile variare i progetti nel limite del 20%, garantendo il raggiungimento degli obiettivi 2 COSTI DI COORDINAMENTO Sono ammesse tra le voci di spesa che possono essere chieste a rimborso i costi per il coordinamento generale e per la diffusione del progetto,purché relativi a progetti rientranti nei programmi dell'Unione europea o relativi ad accordi internazionali 3 VALUTAZIONE EX ANTE Una quota non inferiore al 15% del Fondo agevolazioni per la ricerca deve finanziare interventi svolti nel quadro di programmi europei o internazionali. Per questi progetti non sarà necessaria la valutazione ex ante degli aspetti tecnico-scientifici. Una relazione tecnica potrà attestare il possesso dei requisiti 4 ORGANIGRAMMA DEI RICERCATORI Ai ricercatori a tempo indeterminato non potranno essere assegnate attività di tutoraggio o didattica integrativa. I dipendenti della Pa che ottengono un contratto da ricercatore a tempo determinato sono collocati in aspettativa non retribuita o fuori ruolo 5 GIOVANI RICERCATORI Attribuzione del 10 per cento del Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (First) a interventi a favore dei giovani ricercatori di età inferiore a quaranta anni, secondo procedure stabilite con decreto del ministro dell'Istruzione, università e ricerca 6 ISTRUTTORIA PIÙ SEMPLICE Il Miur potrà finanziare con risorse nazionali progetti a esclusiva ricaduta nazionale valutati positivamente in sede comunitaria, ma non finanziati. Con decreto del Miur si semplificano le procedure istruttorie, valutative, di spesa e di controllo nel settore della ricerca 7 ASPETTATIVA SENZA ASSEGNI I ricercatori dipendenti di enti pubblici di ricerca e università che, in seguito a grant comunitari o internazionali, svolgano attività di ricerca presso l'ente di appartenenza, saranno collocati in aspettativa senza assegni su richiesta per la durata del grant 8 TECNOLOGI A TERMINE Le università potranno stipulare contratti a tempo determinato con soggetti almeno laureati per svolgere l'attività di tecnologo. I destinatari sono selezionati attraverso concorsi pubblici e svolgeranno attività di supporto tecnico e amministrativo alle attività di ricerca SCAMBIO DI DOCENTI La possibilità per i docenti a tempo pieno di svolgere attività didattica e di ricerca anche presso altri atenei è estesa anche agli enti di ricerca. Lo scambio è regolato sulla base di una convenzione tra le due strutture che fissa la quota d'impegno che il docente deve svolgere e la ripartizione dei costi _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 SCALARE LA GRADUATORIA DEL MIUR Lorenzo Tomasin Può sembrar temerario pensar che si possa crescere investendo sul più apparentemente improduttivo dei beni, la cultura. Ma l'esperienza recente dell'Università Ca' Foscari di Venezia sembra interessante. Università pubblica di medie dimensioni pressoché priva dei dipartimenti-calamita di finanziamenti dedicati a tecnologia o salute, Ca' Foscari ha scalato la classifica del Miur relativa alla quota premiale dei fondi per la performance di ricerca e didattica, piazzandosi in due anni al 2º e al 3º posto, partendo dal 12º del 2009 (primatista abituale, il Politecnico torinese). Non è, ovviamente, conseguenza del lavoro d'una faculty nuova e diversa o della sola modifica di qualche indice ministeriale. Il cambio è stato favorito soprattutto dal superamento della diffidenza per la valutazione del lavoro universitario. Pervicace – né solo in campo umanistico – e solo in parte giustificata dalla natura degli studi, è la sfiducia verso valutazioni oggettive che classifichino alcuni àmbiti come migliori e altri come migliorabili, individuando ciò che funziona male, e valorizzando ciò che funziona bene. Se alcuni (ad esempio Andrea Graziosi nel Domenicale del 16 ottobre scorso) auspicano per l'area umanistica l'avvento di nuovi criteri di valutazione, ispirati (non: copiati) da quelli delle scienze dure, l'esperienza di Ca' Foscari mostra una via possibile. Si può forse valutare sistematicamente la ricerca umanistica, anche se è arduo, e valorizzarne i prodotti assoggettandoli gradualmente a criteri certi, come accade nel campo della ricerca quantitativa o tecnica: criteri ovviamente adeguati alle discipline cui si applicano. In un ateneo rivolto perlopiù a discipline non tecnico-scientifiche (che pure non vi mancano) puntare sulla qualità – ad esempio premiando i ricercatori riconosciuti migliori da giudici esterni o incentivando chi partecipa a bandi di ricerca e chi attrae fondi, con maggiore riconoscimento per quelli più difficili da raccogliere, dedicati alla ricerca non applicata – ha significato scoprire che valutazione e competizione non sono fatalmente destinate a favorire le discipline professionalizzanti a tutto svantaggio delle umanistiche. Prorettore Università Ca' Foscari di Venezia _____________________________________________________________ Sardegna Quotidiano 23 feb. ’12 UNICA: POSTO N° 21 (era 24) PER LA PREMIALITÀ L’ateneo risale dal 24esimo al 21esimo posto nella classifica nazionale della premialità stilata dal ministero dell’Istruzione e dell’Università. Sono 1021 i professori: 227 ordinari, 309 associati, 465 ricercatori, 3 assistenti e 17 ricercatori a tempo determinato. Calo dell’offerta formativa, dalle 90 classi del 2009 alle 83 nel 2012/2013. Dall’anno prossimo facoltà in calo da 12 a 6, per il previsto accorpamento. In rialzo l’offerta formativa in lingua inglese, dai 7 insegnamenti del 2009 ai 33 attuali. Due anni fa 2771 studenti hanno vinto una borsa di studio. Da una ricerca condotta su base anonima, il 73.44% degli studenti triennali è soddisfatto dall’offerta-studio. Altri dati arrivano da Almalaurea: il 90,5% di chi si laurea in scienze della formazione primaria lavora dopo 3 anni. Fanalino di coda giurisprudenza, con il 60,5%. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 feb. ’12 E IL 94,4% DEGLI STUDENTI TROVA SUBITO LAVORO MILANO — Osmosi. Difficile trovare altre parole per definire il rapporto tra la Bocconi e il governo Monti. Ieri, all'inaugurazione dell'anno accademico dell'ateneo di via Sarfatti, si avvertiva un'aria particolare. Tonalità che è risuonata nella prolusione del rettore, Guido Tabellini. Non solo nell'attestato di benemerenza rilasciato all'esecutivo: «Grazie all'eccezionale lavoro del governo, non solo l'Italia sta recuperando la fiducia degli altri, ma sta ritrovando fiducia in se stessa e nel proprio futuro». Ma soprattutto nelle linee programmatiche dell'università milanese fortemente assimilabili a quelle di Palazzo Chigi. «Nel nostro piccolo — ha detto Tabellini — negli anni passati abbiamo affrontato alcune delle sfide che ora il Paese si trova ad affrontare molto più in grande: come valorizzare il merito e attrarre talenti, come rinforzare la credibilità internazionale, come trasmettere al nostro interno i valori di rispetto reciproco e delle regole, di pluralismo, di coesione e solidarietà». Qual è la copia? E qual è l'originale? Sul palco i professori in ermellino. Davanti il rettore Tabellini, il vicepresidente Luigi Guatri, il professore emerito Piergaetano Marchetti, presidente di Rcs. In platea, tra gli altri, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, il presidente della Consob Giuseppe Vegas, l'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Enrico Cucchiani, l'amministratore delegato di Expo Giuseppe Sala, il presidente di Promos Bruno Ermolli, il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli. Eccoli i numeri. Anche in un momento di crisi aumentano i laureati della Bocconi che trovano lavoro entro un anno. Si è passati dal 93,6% del 2009 al 94,4. E crescono anche le domande di ammissione: più 20% per il triennio, più 28% nel biennio e addirittura più 40% dall'estero. Il 34% delle ore di insegnamento è in inglese. Il 17,3% dei laureati trova lavoro all'estero, con un picco del 43% per il biennio di International management. L'11% degli studenti proviene dall'estero. Aumentano anche i finanziamenti internazionali: nel 2012 hanno superato gli 8 milioni di euro. «Nei ranking internazionali — sottolinea Tabellini — l'università ha scalato varie posizioni e l'indicatore che ci dà piu soddisfazione è il placement e la qualità degli studenti. Siamo quindicesimi al mondo per la reputazione dei datori di lavoro». E al ventiseiesimo posto nel mondo per finanza e accounting. Tabellini lancia anche un appello. Al pubblico e al privato. «Le grandi università americane sono nate e cresciute grazie a lasciti di privati. Queste donazioni sono state lungimiranti perché gli atenei hanno portato ricchezza materiale e intellettuale alle aree circostanti». Conclusione: «La sfida di mantenere e rinforzare il sostegno che viene dall'esterno sarà cruciale per la Bocconi del futuro». A Piergaetano Marchetti è toccato il compito di tracciare il percorso dell'informazione che cambia nell'epoca del web. Un effetto dirompente di partecipazione che muta le regole del gioco e la gestione della polis. Un ciclo virtuoso che però deve fare i conti con le distorsioni della Rete. Insite strutturalmente in un mezzo così potente che da spazio di libertà rischia di trasformarsi nel Grande Fratello di orwelliana memoria. «Quella che sembrava la sublimazione del diritto fondamentale di libertà di pensiero diventa un far west in cui sono messi a maggior rischio altri diritti fondamentali». Praterie di libertà contro diritti violati, strumento democratico versus «tentazioni populiste». E per scendere nel concreto della norma: violazione del copyright contro diffusione orizzontale della cultura. Un quadro che richiede nuovi strumenti giuridici, perché quelli esistenti risultano «scompaginati» dalla novità di Internet. E anche scelte dolorose: «Mi chiedo e ci si chiede — conclude Marchetti — che senso abbiano queste microprovvidenze a questa o a quella testata cartacea con modestissime tirature, ove sia incentivato un facile accesso alla rete come offerente e come utente ed ove, soprattutto, il Paese sia dotato di una rete capillare ed efficiente». M. Gian. _____________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 25 feb. ’12 IL CEPU ORDINA AI SUOI DIPENDENTI: ISCRIVETEVI AL PDL ALTRE POLEMICHE SUL TESSERAMENTO AL PARTITO GUIDATO DA ALFANO: NELL'ISTITUTO IL MODULO CON L'OBBLIGO DI RICONSEGNA di Gianni Barbacetto Catia Polidori ex viceministro del governo di B. è la cugina del fondatore della struttura privata Il Cepu? Una grande riserva di I caccia per i signori delle tessere Pdl. Certamente a Milano, dove un dipendente dell'istituto privato che prepara gli studenti agli esami universitari (e non solo) ha trovato sulla sua scrivania il modulo per l'iscrizione al Popolo della libertà. Con un ordine secco scritto a mano su un post-it : "Da consegnare firmato". Le istruzioni orali erano solo un poco meno perentorie: "Poi votate chi vi pare, ma intanto prendete la tessera del Pdl". Difficile dire di no ai propri capi. Così il tesseramento forzato al Cepu si aggiunge alla lunghissima serie di irregolarità denunciate nelle scorse settimane dentro il partito di Silvio Berlusconi. Iscritti a loro insaputa, tesserati defunti o minorenni. Perfino pacchetti di adesioni in odore di camorra. Le irregolarità sono state segnalate in diverse parti del Paese, da nord a sud. A Bari, ma anche a Vicenza, a Modena come a Brescia. Qui si è trovata iscritta al Pdl, con tessera numero 158378 e fotocopie allegate dei suoi (veri) documenti, una militante del Pd che certo non si sognava di entrare nel par-tito di Berlusconi. In Brianza, tra Ar- core e Monza, hanno dovuto intervenire i carabinieri per cercare di capire le "anomalie" del tessera-mento, con iscritti minorenni, dipendenti di aziende arruolati in blocco, iscrizioni regalate (pagate da chi?). A SALERNO la procura ha aperto un'inchiesta che sta verificando addirittura il ruolo nel tesseramento Pdl giocato dai clan camorristi dell'agro nocerino-sarnese. Il segretario del partito, Angelino Alfano, ha tentato di chiudere le polemiche: "Ai congressi vota solo chi si presenta di persona con documento d'identità e bollettino di versamento della quota di iscrizione. Ogni irregolarità sarebbe dunque inutile e non avrebbe alcuna incidenza sui risultati elettorali. Ho avuto conferma del pieno rispetto delle regole e quindi", rassicura Alfano, "prosegue la stagione congressuale del Pdl". Tranquilli anche i coordinatori nazionali del partito, Sandro Bondi, Ignazio La Russa e Denis Verdini: "Ottima la dichiarazione di Angelino Alfano, che mette la parola fine alla telenovela tessere del Pdl. È la prima volta che un partito decide di consentire il voto solo all'iscritto che si presenta personalmente, munito di carta d'identità e di bollettino postale di versamento della quota. E esclusa ogni possibilità di delega. Sono regole a prova di bomba". Intanto però in diverse parti del Paese continuano le inchieste della magistratura e gli accertamenti delle forze dell'ordine. LE VOTAZIONI congressuali proseguono con le nuove regole, ma le iscrizioni potrebbero comunque essere state viziate da irregolarità e gonfiate da dirigenti desiderosi di fare bella figura e con una fame da lupi di nuovi iscritti. Ora entra in scena anche il Cepu. Con una campagna di tesseramento al Pdl molto "spinta" dentro le sue sedi. Al Cepu, Berlusconi gioca da sempre in casa• Catia Polidori, cugina del fondatore, è stata una dei deputati che, tradendo Gianfranco Fini e schierandosi con Berlusconi, hanno allungato la vita al governo del Cavaliere. In cambio, nell'ottobre 2011 è stata nominata viceministro. Di Francesco Polidori, che il Cepu se l'è inventato una trentina d'anni fa, è poi risaputa l'incrollabile fede "azzurra". Imprenditore di Fraccano, paesino sopra Città di Castello, ha ottenuto un incredibile successo con il suo "Centro europeo di preparazione universitaria". In politica, ha dapprima sostenuto il nascente movimento di Antonio Di Pietro, ma a partire dal 1994 si è schierato con Berlusconi. Nel 2010 gli ha messo a disposizione anche le sedi Cepu, proponendo al leader del Pdl di usarle come rete capillare sul territorio per fare politica. Non si è mai capito fino in fondo come Berlusconi abbia risposto all'offerta e che seguito abbia avuto il movimento fondato un paio d'anni fa da Polidori, "Federalismo democratico umbro", con l'obiettivo di sostenere la politica berlusconiana. Oggi, però, di quel sostegno emerge un segnale concreto: i moduli d'iscrizione al Pdl distribuiti nelle sedi del Cepu. Con l'ordine: "Iscrivetevi". _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 MATEMATICA: PUNTARE SUI NUMERI A SCUOLA Umberto Bottazzini Un paio di settimane fa, nel documento di budget per il 2013 presentato al Congresso americano il presidente Barak Obama ha lanciato un grande programma di finanziamenti per l'istruzione matematica e scientifica nella scuola secondaria. L'allarme per le condizioni dell'insegnamento della matematica negli Stati Uniti era stato lanciato da tempo dallo stesso Obama. Ogni anno in Cina si laurea un numero di ingegneri pari a otto volte quello degli americani, aveva detto Obama, e il livello raggiunto dai nostri studenti nei test di matematica e di scienze al termine della scuola secondaria è inferiore a quello della maggior parte dei ragazzi nel resto del mondo. Lo scopo dichiarato formare centomila (100.000!) insegnanti di matematica e materie scientifiche nel prossimo decennio (e di reclutarne diecimila già nel prossimo biennio) per «raggiungere l'ambizioso obiettivo di un milione in più di laureati in matematica, scienze, tecnologia e ingegneria nei prossimi dieci anni». Nella convinzione che «gli studenti devono padroneggiare le scienze, la tecnologia, l'ingegneria e la matematica per affrontare con successo l'economia del Ventunesimo secolo». Per sostenere questa "missione" e sottolineare «la priorità che l'Amministrazione assegna all'innovazione» il budget prevede poi per il 2013 uno stanziamento di 7,4 miliardi di dollari per la National Science Foundation, con un incremento del 5 per cento rispetto all'anno in corso. Non c'è bisogno di dire che si tratta di una strategia politica diametralmente opposta a quella seguita negli ultimi anni nel nostro Paese. Le parole di quel documento mi sono rivenute in mente quando ho cominciato a leggere questo libro di Alex Bellos. Non si tratta di un manuale scolastico, ma porta in maniera naturale a riflettere sui problemi dell'insegnamento della matematica nella scuola. Nel Regno Unito, scrive Bellos, la matematica che si insegna nel biennio della scuola superiore «non va oltre quella conosciuta alla metà del Seicento, mentre per il triennio si arriva a metà del Settecento». Le cose non vanno meglio nelle nostre scuole anche se in taluni casi ci si spinge fino all'inizio dell'Ottocento. Ma è come se il programma di storia si arrestasse al Congresso di Vienna o quello di italiano alle poesie di Vincenzo Monti. Da ragazzo, ricorda Bellos, «l'esigenza di superare gli esami mi costringeva spesso a tralasciare gli argomenti davvero interessanti». Entrare da adulto nel «meraviglioso mondo dei numeri», come invita a fare Bellos in questo libro, consente di seguire le strade più curiose e interessanti. Scoprire i modi in cui «il cervello pensa i numeri», rivelati dalle neuroscienze in recenti ricerche, e le modalità di accostarsi alla matematica presenti nelle culture più diverse. E poi le storie che hanno accompagnato lo sviluppo della matematica nel corso dei secoli. Scoprire, insomma, che la matematica, anche al livello elementare cui si mantiene Bellos, può essere molto affascinante. Molto più dell'immagine affidata alla memoria dei banchi di scuola. Bellos ha fatto per qualche tempo il giornalista, corrispondente estero da Rio de Janeiro, e il suo racconto inizia proprio dalla matematica di una tribù amazzonica, i munduruku, che sanno contare fino a cinque, mentre in altre tribù le uniche parole per indicare numeri sono "uno", "due", e "molti", come avviene anche in alcune comunità aborigene del l'Australia. Lo stile è piacevole, e nel racconto la storia della matematica si intreccia liberamente con osservazioni suggerite dall'attualità. I capitoli si lasciano leggere in maniera indipendente, anche se seguono un ordinamento temporale, dai modi di nominare i numeri e far di conto nell'antichità e nel Medioevo, ai sistemi di numerazione, a successioni di numeri come quella di Fibonacci, alla probabilità e le distribuzioni normali con le loro caratteristiche curve "a campana". A proprietà e risultati relativi ai numeri si accompagnano poi in maniera naturale argomenti di geometria, dal teorema di Pitagora alla quadratura del cerchio al modello di geometria iperbolica di Poincaré e le relative realizzazioni all'uncinetto di Daina Taimina. Anche se non è certo un manuale, questo libro può integrare piacevolmente l'insegnamento e avrà raggiunto il suo scopo se riuscirà, come promette l'autore, a far amare la matematica «anche a chi l'ha odiata a scuola». © RIPRODUZIONE RISERVATA Alex Bellos, Il meraviglioso mondo dei numeri, Einaudi Editore, Torino, pagg. 580, € 20,00 Archivia _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 LILLIU: L'UOMO CHE SCOPRÌ BARUMINI Stefano Salis Quello che è capitato a Giovanni Lilliu è il sogno più bello di ogni archeologo. Lui, morto la scorsa domenica, all'età di 97 anni, aveva avuto la fortuna e la bravura di realizzarlo. Era nato a Barumini nel 1914. E, sui 40 anni, aveva intuito che quella strana montagnola, che aveva sempre visto nel suo paesetto, celava qualcosa. Nel 1951, sotto trenta metri di terra da lui scavati, era emerso il più bel complesso nuragico della Sardegna, un gioiello costruito 1500 anni prima di Cristo da una misteriosa popolazione che abitava l'isola già da 2000 anni e non aveva lasciato tracce scritte. Solo piccole statuine di bronzo, scarse testimonianze di vita, e, appunto, centinaia di nuraghi, una costruzione mai vista e fatta da nessun'altra parte del mondo. Ecco: Giovanni Lilliu quel mondo nuragico lo conosceva più di tutti gli altri. Ne intuiva la bellezza, la forza, e persino l'estrema, muta, poesia. Simbolo di un popolo sopraffatto dalla storia e forse ignoto al mondo, se non fosse stato anche per la sua opera. Di scavo e scrittura. Quando l'Unesco, nel 2000, mise «Su Nuraxi», il suo nuraghe, nel patrimonio dell'umanità, con Macchu Picchu o Pompei, quella storia aveva avuto un senso. Lilliu era partito da quel "senso" per essere intellettuale impegnato nel senso alto del termine; politico, preside di facoltà, accademico dei Lincei ma anche studioso pronto al dialogo nelle scuole elementari. Aveva elaborato una teoria scientificamente discutibile come la «costante resistenziale sarda» ma non aveva mai fatto mancare la sua voce potente di intellettuale (quella reale era mite e dolce) sulle questioni più spinose del l'archeologia, della storia e dell'attualità sarde. I successi e le medaglie che aveva raccolto in una straordinaria carriera non gli avevano tolto la semplicità e l'umiltà della ricerca. Amava raccontare l'emozione di quando scoprì nel 1974, con Enrico Atzeni, i Giganti di Monti Prama, enormi statue di epoca nuragica in arenaria, di inspiegabile e magnetica bellezza. Gli piaceva parlare e difendere il sardo e non aveva timore di ammettere, lui, che sui nuraghi non sapeva abbastanza. Non sapeva come li avevano costruiti, dubitava sul perché ma condannava le ipotesi troppo fantasiose. Credeva nel lavoro, nella scienza, nel l'ascolto degli altri. Non aveva perso il sorriso di un bambino che aveva realizzato un sogno _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 25 feb. ’12 LILLIU, COSA RESTA NEL LIBRO DELLA STORIA Le scoperte e le teorie, le conferme e le revisioni Non è facile a pochi giorni dalla scomparsa di Giovanni Lilliu trarre un primo bilancio della sua opera storiografica, cioè, per dirla alla Croce, verificare ciò che è vivo e ciò che è morto del suo contributo all'archeologia, alla storia, alla cultura della Sardegna. Si può dire innanzitutto che Lilliu è stato uno dei più grandi intellettuali sardi della seconda metà del secolo passato. Un maestro per generazioni di studiosi non soltanto di antichità preistoriche, ma anche un esempio di metodo scientifico, di rettitudine morale, di impegno civile. Si tratta, infatti, di una figura poliedrica che ha lasciato un segno profondo negli scavi archeologici, dalla scoperta di Barumini a quella dei giganti di Monti Prama, nella letteratura scientifica, autore di una sterminata bibliografia di volumi e saggi, nel giornalismo con la collaborazione all' Unione Sarda prima e alla Nuova Sardegna poi, nella politica, dalla militanza nella DC alla successive posizioni nazionalitarie. TRADIZIONE STORIOGRAFICA La prima notazione è quella che con Lilliu è nata una tradizione storiografica sardista a livello scientifico-accademico. Certo, nella prima metà del Novecento, vi erano stati alcuni significativi tentativi, innanzitutto quello di Camillo Bellieni, col volume “La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico” (1928-31), una puntuale confutazione dell'opera nazionalista di Ettore Pais, poi quello dell'editore-libraio Raimondo Carta Raspi (ingenerosamente definito da Enrico Besta “Raspa-Carte”), fondatore della rivista e delle edizioni Il Nuraghe, con i suoi studi sul Medioevo sardo e sui giudici d'Arborea. Lilliu rivoluzionò, invece, l'approccio alla preistoria sarda descrivendone la sua parabola dalle origini neolitiche sino alla crisi della civiltà nuragica dovuta alla conquista cartaginese. La resistenza dei nuragici nei confronti degli invasori stranieri divenne in qualche modo una sorta di metafora dell'intera storia dell'isola, appunto quella che lui avrebbe definito in un fortunato saggio come la «costante resistenziale sarda».  La seconda notazione riguarda la capacità di Lilliu di “divulgare” le proprie scoperte anche presso un pubblico che andava molto al di là dei lettori specialisti, come è avvenuto col volume “La civiltà dei sardi dal neolitico all'età dei nuraghi” (Torino 1967), dove è riuscito a tracciare un affascinante e al tempo stesso nitidissimo quadro d'insieme, grazie anche a raffinati strumenti di indagine quali ad esempio le più aggiornate correnti dell'antropologia culturale. È un volume che ha avuto una grande fortuna di critica e di pubblico e costituisce indubbiamente il “capolavoro” storiografico di Lilliu. La successiva edizione de “La civiltà dei sardi” (1988), arricchita (per non dire appesantita) dai risultati di un ventennio di scoperte archeologiche, non raggiunge l'efficacia pregnante della prima edizione che resta, ancor oggi, un esempio insuperato e un “classico” della storiografia sulla Sardegna. La terza notazione non può fare a meno di osservare che nell'opera di Lilliu il rigore scientifico è sempre strettamente legato alla passione civile e all'impegno politico, con una forte concezione della “contemporaneità” della storia e del nesso che unisce i processi di un passato remoto alla realtà del presente. Proprio come scienziato è stato il promotore della costruzione di quella identità “nazionale” della Sardegna, che nella civiltà nuragica individuava il suo momento fondante, destinata a diventare uno dei temi ricorrenti del dibattito politico regionale degli ultimi quarant'anni. Ciò spiega perché egli sia stato un punto di riferimento per un'intera generazione di intellettuali. Rispetto ad altri studiosi, pur di alto livello (Motzo, Meloni, Boscolo) che però non sono mai usciti dal proprio ambito specialistico, Lilliu è stato capace con le sue tesi talvolta eterodosse a far discutere il mondo culturale sardo su tematiche sino ad allora pressoché ignorate. Un caso per taluni aspetti analogo, ma per certi versi profondamente diverso, è quello di Antonio Pigliaru, filosofo del diritto e al tempo stesso studioso del mondo barbaricino e grande organizzatore di cultura. L'ultima notazione deve considerare il fatto che Lilliu ha sempre ridiscusso, talvolta in modo impietoso, le proprie tesi storiografiche, con onestà intellettuale ed umiltà scientifica. Un esempio è quello dei rapporti tra il mondo nuragico e quello fenicio, che, all'inizio, aveva valutato in termini di contrapposizione, e poi, grazie alle scoperte degli allievi di Sabatino Moscati, aveva riconsiderato in termini di coesistenza e di scambi economici e culturali. Era un modo forse per mantenersi in qualche misura giovane, nonostante gli anni e di affrontare con spirito critico le nuove tematiche.  SCOPERTE STRAORDINARIE Le scoperte archeologiche di Lilliu sono state davvero straordinarie: innanzitutto quella del villaggio nuragico di Barumini - realizzata, come l'altare neolitica di Monte d'Accoddi, scavata da Ercole Contu, grazie a cospicui finanziamenti regionali - ora monumento dell'umanità, che ha modificato l'idea stessa dell'insediamento nuragico, prefigurando una sorta di embrionale civilità preurbana (tesi confermata di recente dagli scavi di Marco Rendili a Sant'Inbenia presso Alghero, dove in un villaggio litoraneo è stata rinvenuta una piccola piazza con botteghe artigiane). La seconda scoperta è quella dei giganti di Monti Prama che ha rivoluzionato la cronologia della statuaria monumentale mediterranea, ipotizzando che la civiltà nuragica fosse giunta a questa forma di espressione artistica molto prima dell'Etruria e della Grecia arcaica. Lilliu, maestro di scienza e di vita, che credevamo eterno, se n'è andato in punta di piedi. Il suo sguardo acuto sembra ancora scrutare al di là del tempo per cercare una risposta ai grandi quesiti della storia della nostra terra. Cittadino del mondo ma con le radici profonde nel suo villaggio di Barumini.  Antonello Mattone _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 21 feb. ’12 E’ MORTO DULBECCO SCIENZIATO GENTILUOMO DAL NOBEL A SANREMO  Nel 1947 decide di trasferirsi in California: il viaggio, a sorpresa, insieme a Rita Levi Montalcini  ROMA. Se oggi sappiamo che i tumori sono malattie dai mille volti e che il primo bersaglio per aggredirli è il loro Dna il merito è di Renato Dulbecco, il pioniere delle ricerche sulla genetica del cancro. In pochi decenni la lotta ai tumori ha imparato a parlare un linguaggio completamente nuovo grazie alle sue ricerche.  Nonostante avesse la cittadinanza americana dal 1953, Dulbecco ha sempre mantenuto un forte legame con l’Italia, tanto da essere considerato il padre delle ricerche italiane sulla mappa del Dna, condotte presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) a Milano. Solo l’età avanzata e le condizioni di salute precarie hanno interrotto la spola tra Milano e La Jolla, in California, dove viveva e lavorava presso l’istituto Salk. Tuttavia la sua presenza in Italia ha lasciato tracce significative, sia nei risultati scientifici sia nella difesa del valore della ricerca. Al punto che nel 1999 non ha esitato ad accettare di condurre il Festival di Sanremo insieme a Fabio Fazio, devolvendo il compenso a favore del rientro in Italia di cervelli fuggiti all’estero. Una iniziativa simbolica che ancora oggi prosegue nel «Progetto carriere Dulbecco» promosso da Telethon.  Non è stato solo il palco di Sanremo a favorire la popolarità di Dulbecco: il suo sorriso spontaneo, la cortesia innata e il grande entusiasmo per la ricerca hanno fatto di lui uno «scienziato gentiluomo», schierato in prima fila nelle battaglie a favore della ricerca sulle cellule staminali e per reintrodurre l’Evoluzionismo nei libri scolastici.  Nato a Catanzaro il 22 febbraio 1914, Dulbecco si avvicina alla scienza spinto dalla passione per la fisica e arriva alla medicina dopo avere «assaporato» anche chimica e matematica. A 16 anni si iscrive alla facoltà di Medicina dell’università di Torino e segue i corsi dell’anatomista Giuseppe Levi insieme a Rita Levi Montalcini e Salvador Luria. Si laurea con lode nel 1934. Durante la seconda guerra mondiale è ufficiale medico sul fronte francese e poi su quello russo dove, nel 1942, rischia di morire. Rientrato in Italia, nel dopoguerra torna a Torino.  Nel 1947 la grande decisione di trasferirsi negli Stati Uniti per raggiungere Luria, che lavorava lì dal 1940. Un viaggio che cominciò con una sorpresa: «senza saperlo, ci ritrovammo sulla stessa nave», raccontava mezzo secolo più tardi, divertito ripensando all’incontro inatteso con Rita Levi Montalcini. «Facevamo lunghe passeggiate sul ponte parlando del futuro, delle cose che volevamo fare: lei alle sue idee sullo sviluppo embrionale e io alle cellule in vitro per fare un mucchio di cose in fisiologia e medicina».  Sono le strade che entrambi seguono negli Usa e che portano Dulbecco nel California Institute of Technology (CalTech), dove ha una cattedra e comincia ad occuparsi di tumori. Nel 1960 fa la scoperta che nel 1975 lo porterà al Nobel: osserva che i tumori sono indotti da una famiglia di virus che in seguito chiamerà «oncogeni». Nel 1972 lascia gli Usa per Londra, come vicedirettore dell’Imperial Cancer Research Fund.  Dopo il Nobel, condiviso con David Baltimore e Howard Temin, ritorna all’Istituto Salk per studiare i meccanismi genetici responsabili di alcuni tumori, in primo luogo quello del seno. Il suo rientro in Italia, nel 1987, coincide con l’avvio del Progetto internazionale Genoma Umano, del quale Dulbecco diventa coordinatore del ramo italiano. Un’esperienza che si arena nel 1995 per mancanza di fondi e che lo riporta negli Stati Uniti. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. ’12 NEUTRINI, I PERCHÉ DI UN ERRORE«TROPPA FRETTA PER L'ANNUNCIO» Controlli limitati per battere la concorrenza di altri teamdi GIULIO GIORELLO La parola chiave adesso è riflessione. Dopo la retromarcia sul sorpasso della velocità della luce, gli scienziati che hanno passato gli ultimi tre anni a pane e neutrini cercano di capire: abbiamo fatto passi falsi? Quali? «Forse — valuta qualcuno — si doveva aspettare, aspettare, aspettare prima di annunciare». «Sarebbe stato meglio contare su più verifiche» considerano altri. A pensarci bene «conta anche il fatto che non eravamo ancora pronti a un risultato del genere» suggerisce l'amarezza del momento. «Di sicuro eravamo impreparati all'enorme risonanza mediatica» concludono più o meno tutti. «Sa quando si tocca un mostro sacro come Einstein...». Piero Monacelli, professore di fisica all'Università dell'Aquila, è stato «dissidente» fin dalla prima ora. A settembre — mentre gli entusiasti della Collaborazione Opera annunciavano il viaggio dei neutrini a 60 nanosecondi più della luce e mentre il mondo metteva in discussione la teoria della relatività — lui (che guida uno dei gruppi della collaborazione) era fra i sette che non firmarono il pre-print, la base della pubblicazione scientifica sui 60 nanosecondi in più. «Prima di mandare in soffitta Einstein avrei voluto controllare le misurazioni» disse. Ecco: adesso i controlli ci sono e smentiscono che il neutrino corra più della luce. I dati di settembre sono sbagliati perché strumenti e cavi usati per le misurazioni non hanno fatto il loro dovere. Per Monacelli sarebbe fin troppo facile un bel «io l'avevo detto» e invece non solo non ne fa cenno ma si dice «dispiaciuto perché è sempre una brutta figura rimangiarsi la parola». La critica? «Troppa fretta di pubblicare per timore che gruppi di studio concorrenti lo facessero prima. La scienza è molto competitiva... Ma una cosa è stata positiva: che sia stata la stessa fonte e non un altro gruppo a dire "probabilmente ci siamo sbagliati". Lo abbiamo deciso tre giorni fa ed era giusto così. In questa storia c'è stata troppa fretta, i risultati sono complessi, con tantissime sottomisure, ci voleva tempo e invece non si sono fatte tutte le doppie verifiche che una grande Collaborazione doveva fare». Luca Stanco, responsabile del gruppo Opera di Padova, è un altro dei non firmatari del pre-print. «Ho sempre sostenuto che il risultato di settembre dovesse uscire ma è stato presentato in un modo che io non avrei scelto. Per esempio, la parola preliminary doveva essere usata invece è stata cassata ed è stata una delle ragioni per cui qualcuno non ha firmato. Forse non eravamo pronti, come scienziati a un riscontro di questo tipo. E poi eravamo impreparati alla risonanza mediatica: è stato un errore anche troppo sensazionalismo. Sono cent'anni che Einstein funziona benissimo, prima di toccarlo...». Il senso è sempre lo stesso: sono state bruciate le tappe. E poi un'autocritica: «Noi fisici dovremmo imparare a filtrare in modo diverso e più aggiornato i nostri risultati». Il responsabile del gruppo «analisi emulsioni» dei laboratori nazionali del Gran Sasso, Nicola D'Ambrosio, a settembre si era detto «non completamente convinto». «Perché non avevamo avuto accesso diretto a tutta la misurazione, conoscevamo solo il nostro segmento di ricerca. A onor del vero devo dire che nessuno ha mai parlato di "scoperta", nessuno voleva mettere in discussione con un solo risultato un mostro sacro come Einstein. Sicuramente aspettare sarebbe stato un bene ma con il senno del poi è facile...». A Roberta Antolini, fisica al laboratorio del Gran Sasso, ieri è toccata «la giornataccia» da capo delle relazioni pubbliche. Tutti a chiamarla per approfondire, chiarire il dietrofront dei neutrini: «Gli errori negli esperimenti succedono, certo è un dispiacere...e poi c'entra anche il fatto che Einstein nell'immaginario collettivo è il più grande scienziato di tutti i tempi. Se penso alla bella atmosfera e alla curiosità enorme di settembre...». Ecco. Sembra tutto lontano anni luce. Giusi Fasano Twitter @GiusiFasano _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 LE DOMANDE IMPOSSIBILI DI GOOGLE Le selezioni per entrare nell'azienda californiana spesso sono una corsa ad ostacoli. Perché non si cerca specializzazione ma talento e creatività di Luciana Grosso «Le aziende vogliono di più. Solo che di preciso non sanno nemmeno loro cosa. Per questo, nel dubbio, fino a quando non lo capiscono davvero, fanno ai loro candidati domande impossibili». A dirlo è William Poundstone autore di «Are you smart enought to work at Google», uscito in questi giorni negli Usa. Come recita il sottotitolo, il volume raccoglie «Domande a trabocchetto, rompicapo zen, test incredibilmente difficili e altre contorte tecniche di colloquio che è bene conoscere se si vuole avere un lavoro nella new economy». Poundstone ha raccolto molte cose insieme: da un lato un manuale con risposte e trucchi per superare il fuoco di fila dei test (in certi casi si può essere richiamati sino a cinque volte per quello che l'autore definisce "colloquio kafkiano"); dall'altro, un viaggio negli uffici di risorse umane più gettonati e severi del mondo: quello di Google, chiamato "Human operations", riceve più di un milione di candidature all'anno, ma solo uno su 103 si rivela idoneo. Sullo sfondo emerge il ritratto di un Paese afflitto da un livello di disoccupazione cui non era preparato e al quale reagisce incredibilmente alzando gli standard delle proprie richieste, in cerca dell'impiegato perfetto, capace di rispondere a domande di ogni tipo e di saper operare in condizioni di difficoltà imprevedibili. «In realtà i giovani che si presentano ai colloqui di ammissione sono nella stragrande maggioranza dei casi preparati, brillanti e capaci – spiega Poundstone, che per scrivere il suo libro ha passato settimane gomito a gomito con i selezionatori delle aziende della Silicon Valley –. Le aziende non hanno le idee molto chiare su come selezionarli. Conducono colloqui impossibili affinché i candidati possano dimostrare di saper agire in condizioni di grande difficoltà, imprevisti, reazioni inattese, persino fuori dai canoni comuni della logica. In pratica durante quei colloqui – continua Poundstone – occorre dimostrare cosa si è in grado di fare, benchè, in pratica, non si stia facendo ancora niente». Le domande poste non sono solo complicate, ma anche spesso avulse rispetto a quello che sarà il campo di attività. Del tipo: «Quante persone stanno usando Facebook, a San Francisco alle 2 del pomeriggio di un venerdì?» (chiesto in un colloquio a Google), oppure, «Cosa pensi dei nani da giardino?» (chiesto da Trader's Joe), o ancora, «Come risolveresti il problema della fame nel mondo?» (chiesto da Amazon) o «Camera, scrivania, macchina: quale riordini per primo?» (chiesto da Pinkberry). «La verità e che ai recruiter non importa sapere cosa e quanto sai. Vogliono capire che tipo di persona sei – chiarisce Poundstone – chi viene assunto in un posto come la Silicon Valley o le grandi società finanziarie dovrà affrontare sfide quotidiane in un ambiente altamente competitivo. Dovrà essere estremamente duttile e svelto a imparare e a combinare informazioni diverse tra loro». Per valutare la sua capacità di essere all'altezza di questi compiti gli vengono rivolte domande come «Trova il numero successivo nella sequenza di numeri 10, 9, 60, 90, 70, 66…». Vi è venuto il mal di testa? La risposta giusta è 69. Ma potrebbe anche essere 54. I numeri infatti sono posti in un ordine crescente in base al numero di lettere che, in inglese, li compone: 10 ( ten, tre lettere), 9 (nine, quattro lettere) e così via. Per cui quello successivo potrebbe essere un numero qualsiasi purché sia composto da nove lettere. «La persona in grado di rispondere a un quesito del genere – spiega Poundstone – è capace di astrazione, di guardare i numeri e pensare alle lettere, e di pensare alle lettere in termini numerici». E per rispondere correttamente a una domanda del genere non c'è istruzione o formazione che tenga. «È una specie di paradosso: per superare questi test la formazione serve a poco, eppure senza un tipo di studi che abituino e insegnino a ragionare in un certo modo non c'è speranza di fare parte del magico mondo della Silicon Valley» conclude l'autore. Solo per chi saprà dimostrare di avere questo tipo di plasticità, che non insegna a scuola ma che a scuola si impara, si potranno aprire le porte della leggendaria sala relax di Mountain View, con tanto di parete da freeclimbing. E si sa: il freeclimbing non è materia scolastica. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 CRITTOGRAFIA, DA SOLA NON BASTA Per proteggere il sito e-commerce o la piattaforma e-banking occorre investire di più nelle misure di sicurezza primarie. Perché la sola chiave è debole Il rischio più concreto è lo scippo d'identità delle caselle di posta certificate Alessandro Longo Guai a fare affidamento cieco alla crittografia, per il proprio sito e-commerce o su piattaforma e-banking. Nei giorni scorsi vari ricercatori hanno messo in luce un problema dei sistemi oggi usati per proteggere tramite crittografia le informazioni, come i dati di pagamento o d'accesso a un conto corrente. Ne ha parlato uno studio congiunto di vari ricercatori svizzeri e californiani (http://eprint.iacr.org/2012/064.pdf), «ma la questione, a quanto risulta dalle mie analisi, può avere un impatto anche più esteso di quanto sembri – dice Massimiliano Sala, direttore del laboratorio di Crittografia all'Università di Trento e tra i massimi esperti della materia in Europa –. I problemi evidenziati dallo studio sono due. Il primo: ben il 4% delle chiavi di un sito è condiviso da un altro, nel mondo. Il secondo: lo 0,38% delle chiavi è debole, cioè è rompibile facilmente, in meno di un millisecondo». Di base, bisogna sapere che queste chiavi per essere robuste crittograficamente devono essere sia matematicamente forti, ovvero non rompibili con la potenza computazionale a disposizione dei cracker (i pirata informatici) sia non prevedibili (random). Ecco, quei due problemi inficiano sia il primo sia il secondo aspetto. Che una chiave sia condivisa da due o più siti «è grave –, nota Sala – perché se un attaccante riesce a procurarsi un pacchetto di chiavi di crittografia può sperare che siano utilizzate da qualche sito e quindi decifrarne i dati, con relativa facilità». Ma non solo: «quel dato del 4% è dovuto al fatto che i ricercatori hanno esaminato sei milioni di chiavi. Ma se l'avessero fatto su una quantità maggiore, 30 o 40 milioni, sono certo che la percentuale di doppioni salirebbe al 10%, come mi risulta da studi privati che non posso divulgare». Così, può salire anche la percentuale di chiavi considerabili deboli. «Sono convinto che a un'analisi più approfondita – una giornata di calcolo a chiave, invece che un millisecondo – arriveremmo a un punto percentuale». Sebbene questo problema sia meno ricorrente rispetto al precedente (1% contro 10%), «le chiavi deboli sono più pericolose perché per romperle non c'è bisogno di collezionare altre chiavi. È possibile attaccarle singolarmente». La causa di fondo è negli algoritmi che generano queste chiavi e che sono negli apparecchi Hsm (Hardware secure module), usati dai siti. Il problema è che, per tenere bassi i costi e migliorare la velocità di generazione, «gli Hsm non verificano se la chiave creata è debole. Né gli enti certificatori degli Hsm verificano la dipendenza statistica del random (cioè se è più o meno probabile che Hsm diversi generino doppioni)». Sul piano pratico, questi due problemi rendono un po' meno sicuri i siti e-commerce e-banking, «anche se il pericolo è improbabile. Bisogna tener conto, del resto, che un attaccante, prima di provare a decifrare una chiave, deve essere riuscito a infiltrarsi nei sistemi informatici del l'azienda e quindi averne già superato le difese». «Mi sembra più concreto il rischio per le caselle di posta certificate, che stanno diventando sempre più numerose e più importanti per le comunicazioni istituzionali – aggiunge –. Se un cracker riesce a ottenere la chiave della posta certificata di un pubblico ufficiale, può assumerne l'identità nelle e-mail che invia», per esempio. Soluzioni? Per prima cosa, avere massima cura per i propri sistemi di sicurezza anti infiltrazione. «Un sito e-commerce o un'istituzione di credito sbaglierebbe a trascurarli, confidando nella crittografia come in una panacea». «Se il sito vuole migliorare la propria crittografia, inoltre, può andare da una certification authority e chiedere una chiave che sia verificata come sicura. Certo, però, spenderebbe di più». In teoria, sarebbe consigliabile anche farsi verificare le proprie chiavi già utilizzate; ma in pratica in Italia è difficile per questioni tecniche e legali. Insomma, la lezione che se ne trae: anche se non c'è motivo per allarmarsi tanto, i siti che utilizzano la crittografia non dovrebbero farci totale affidamento. Possono provare a renderla più robusta o, almeno, investire di più nelle misure di sicurezza primarie. © RIPRODUZIONE RISERVATA la parola chiave Crittografia È la scienza che si occupa di elaborare tecniche per proteggere informazioni. Rendendole incomprensibili a chi le dovesse intercettare tramite un algoritmo ("chiave") che traduce il messaggio in un linguaggio segreto. La traduzione inversa, per renderlo leggibile, è possibile solo a chi possiede la chiave. La crittografia moderna comincia nel secolo scorso. La svolta è nel 1976, quando i ricercatori Whitfield Diffle e Martin E. Hellman (Stanford University) ideano un sistema – detto asimmetrico – abbastanza sicuro per scambiarsi la chiave crittografica. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 feb. ’12 LA DEMOCRAZIA DEI PESCI dal nostro inviato PAOLO VALENTINO«L'ignoranza delle masse aiuta i processi decisionali»L'indagine di Princeton sulle carpe divide gli studiosi di ANTONIO CARIOTI PRINCETON (New Jersey) — Quando era in vena di provocazioni, Winston Churchill amava dire che «il miglior argomento contro la democrazia è una conversazione di cinque minuti con l'elettore medio». Il grande statista britannico ce l'aveva con la scarsa, quando non inesistente informazione sulla vita pubblica di gran parte della popolazione di un Paese. Sono soprattutto gli Stati Uniti a fornire esempi da manuale di diffusa ignoranza di base dei fatti politici. E non c'è bisogno di risalire al 1964, in piena guerra fredda, quando appena il 38% degli americani sapeva che l'Unione Sovietica non faceva parte della Nato e a cosa esattamente servisse il Patto Atlantico. Neppure oggi va tanto meglio. Più del 50% degli elettori in America non sa chi è il congressista eletto nel suo distretto. Il 45% degli adulti non sa che ogni Stato elegge due senatori. Il 40% non sa dire il nome del vicepresidente (Joseph Biden) e il 63% ignora quello del presidente della Corte Suprema (John Roberts). Il deficit cognitivo dell'opinione pubblica, non soltanto in America, interessa da sempre studiosi e puristi della democrazia, preoccupati che l'assenza di un'adeguata informazione nella maggioranza degli elettori e l'indifferenza che ne consegue siano il fertilizzante per opinioni estreme, il terreno prediletto da minoranze rumorose e con opinioni forti, per manipolare il resto della popolazione e imporsi. Eppure, era lo stesso Churchill a concludere che «la democrazia è la peggior forma di governo, tranne tutte le altre che sono state provate». Come fanno allora la democrazia americana e le altre democrazie dell'Occidente a rimanere così vitali, attive e ricche di anticorpi, anche in presenza di tanti individui scarsamente informati? Secondo lo studio condotto da un gruppo di ricercatori qui alla Princeton University, lungi dall'essere una iattura, l'ignoranza collettiva è una benedizione, un ingrediente decisivo del consenso democratico. La ricerca, pubblicata dalla rivista «Science», suggerisce che elettori scarsamente informati e con deboli preferenze politiche in realtà «inibiscano l'influenza di fazioni estremiste», impedendo che dominino il processo politico e riportando il controllo alla maggioranza numerica. Insomma, è l'apatia dei politicamente ignoranti che ci mette al sicuro. «Il nostro lavoro dimostra che quando i poco informati partecipano, un gruppo arriva a una decisione maggioritaria anche in presenza di una minoranza appassionata. Essi infatti impediscono stallo e frammentazione, perché depotenziano le opinioni forti ed estreme», spiega Iain Couzin, docente di ecologia e biologia evoluzionista, che ha guidato la ricerca. Ma a suscitare polemiche e controversie, non sono tanto le conclusioni del team di Couzin, quanto il procedimento usato per arrivarci. Accanto a modelli matematici e simulazioni al computer, strumenti normali in questo tipo di ricerche sui comportamenti collettivi, gli studiosi di Princeton sono infatti ricorsi anche a esperimenti con gruppi di pesci che si muovono in banchi. In particolare, gli scienziati hanno usato il golden shiner, un piccolo pesce d'acqua dolce della famiglia della carpa, che naturalmente associa il colore giallo a un premio in cibo. Un gruppo numeroso di pesci è stato addestrato a nuotare verso un obiettivo di colore blu per ricevere il mangime. Un gruppo molto più piccolo è stato invece addestrato a seguire l'inclinazione verso il colore giallo come traguardo del nutrimento. Quando i due gruppi sono stati messi in un solo acquario, la maggior parte ha seguito la minoranza verso il giallo. Ma quando i ricercatori hanno inserito nello stesso acquario un gruppo di golden shiner non addestrati, cioè privi di qualsiasi informazione, il giallo aveva perso ogni attrattiva e i nuovi pesci hanno seguito il gruppo maggioritario verso l'obiettivo blu. «In genere — spiega Couzin — si pensa che essere informati sia un bene, non esserlo sia un male. Ma questa è una costruzione umana. I gruppi animali sono raramente frammentati e vediamo un alto grado di consenso. L'esperimento indica che esiste una funzione evolutiva attiva sia nell'essere poco informati che nell'avere molte informazioni». Anche l'effetto benefico dell'ignoranza collettiva ha però i suoi limiti. Troppa non va bene, secondo Couzin. L'esperimento con i pesci ha infatti mostrato che quando i non informati superano certi livelli, il gruppo cessa di agire in modo coerente. Né la maggioranza né la minoranza sono in grado di prenderne la guida. Domina il «rumore». L'estrapolazione dalle carpe al governo di una società democratica ha ovviamente fatto storcere il naso a molti nella comunità accademica. Non tutti gli elettori indipendenti, cioè privi di convinzioni forti, sono ignoranti, è stato fatto osservare. Né il termine minoranza è sempre sinonimo di estremista. Ma in difesa di Couzin e dei suoi ricercatori si è pronunciato un celebre studioso di sistemi elettorali. Secondo Donald Saari, professore di matematica ed economia alla University of California a Irvine, ci sono forti paralleli con il lavoro di Princeton in politica e nei mercati. L'arco che va dal dominio di una minoranza a un pluralismo genuino può essere osservato a suo parere nel sistema elettorale americano. Dove una minoranza dalle opinioni forti (come il movimento dei Tea Party) può dominare contesti elettorali che attirano i più impegnati politicamente, come le primarie o le elezioni di midterm. Ma in contesti più generali, come le elezioni presidenziali, quell'influenza svanisce di fronte alla partecipazione di elettori meno appassionati e meno informati, il cosiddetto centro moderato, talismano di ogni conquista della Casa Bianca. «Questa ricerca — spiega Saari — ci dà una nuova interpretazione delle dinamiche di gruppo: i meno informati inibiscono le opinioni estreme. E questo perché sono il centro della società». Couzin è il primo ad ammettere che il suo lavoro è una «semplificazione della realtà». Ma il suo valore principale è nel permettere di «osservare e capire la meccanica sottostante a questo tipo di processo decisionale». Dunque, la prossima volta che un sondaggio metterà a nudo la crassa ignoranza di larghe fette dell'opinione pubblica, ricordatevi delle carpe. Il concime della democrazia sono proprio coloro che non sanno troppo della politica. RIPRODUZIONE RISERVATA _____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 feb. ’12 NESSUN EGOISMO, DECRESCERE È SANO di SANDRO VERONESI Per avere un futuro serve un modello economico più equo Senza idolatrare l'innovazione, che ha prodotto l'amianto C aro Antonio Pascale, ho letto con attenzione il tuo articolo sulle parole-ameba (cioè quegli involucri verbali che, sostieni, «significano tutto e niente») comparso su queste pagine la settimana scorsa. Tu dici: «Il concetto di decrescita non trova spazio nei dipartimenti di economia, ma abbonda sulla bocca di quelli di noi che non hanno mai superato un esame di micro e macroeconomia». E io ti chiedo: perché dici questo? Vuoi forse suggerire che «quelli di noi» che lo menzionano non sanno di cosa stanno parlando? Non sai che fior di economisti (magari non nei dipartimenti universitari) stanno parlando di downshifting, decrescita e di riduzione da almeno tre decenni? E se le università non ne tengono conto, tu credi forse che abbiano ragione? Credi che in economia abbia valore solo quello che esce dai dipartimenti universitari? Fai dei nomi, nel tuo articolo, il mio molto tangenzialmente e accompagnato da un complimento di cui ti ringrazio, altri con maggiore messa a fuoco, indicando in quelle persone il modello degli «egoisti» che predicano la decrescita degli altri per evitare la propria. E io ti chiedo: ma sei sicuro di quello che dici? Sono accuse gravi, con quali prove le sostieni? E quale responsabilità hanno avuto costoro nell'irrompere di due recessioni in tre anni? A meno che tu possegga dei dati che nel tuo articolo non hai fornito, la responsabilità di queste persone è pari a zero — ciò che non si può proprio dire dell'economia ortodossa, che è la principale responsabile del flusso di sofferenza che sta attraversando il mondo, per la semplice ragione che continua a basarsi su un modello fatiscente che non funziona più. Ma davvero, caro Antonio, tu credi che il nostro attuale sistema possa ricominciare a produrre crescita solo perché la maggior parte dei dipartimenti universitari non prevede altra soluzione? Costruire un meccanismo che può andare solo avanti è di un'ingenuità imbarazzante, ma se l'invenzione della catena di Sant'Antonio dello sviluppo risale a un'epoca ingenua (20 gennaio 1949, discorso d'insediamento alla Casa Bianca del presidente Truman), il paradosso che imprigiona l'euro è stato concepito negli anni Novanta, quando il diritto a quell'ingenuità era scaduto da un pezzo. Eppure, come stiamo vedendo, i professori di economia chiamati a stabilire le regole d'ingresso nell'eurozona non hanno studiato nessun protocollo di uscita. Per loro la necessità di uscire dalla moneta unica non era un problema prevedibile — e tu te la prendi con chi invece questo problema se lo pone? Perché questo fanno, caro Antonio, quelli che additi nel tuo articolo: potrà anche non piacerti la via che indicano, ma almeno propongono qualcosa di un po' più serio che alzare le tasse, smantellare lo Stato sociale e aspettare che passi 'a nuttata. Tu dici anche: «Se diamo uno sguardo globale notiamo che benessere e reddito sono in crescita, aumenta la vita media e decresce la mortalità infantile. A questi cittadini del mondo, chi gli dice "dovete fermarvi"?». Perché dici questo? Non sai forse di star parlando non già di popoli, ma di ceti sociali in crescita? Non sai che la divisione Nord-Sud non separa più le nazioni tra di loro, ma divide internamente ogni singola società nazionale? Non sai che Nigeria, Thailandia e perfino Bhutan (dove la televisione è arrivata solo nel 1999) hanno la loro brava borghesia globalizzata che vive e consuma più o meno come la borghesia occidentale, solo che è molto meno nutrita numericamente — e che è in quelle poche mani che finisce tutta la ricchezza prodotta dai loro Paesi, cioè sono solo loro che crescono, mentre la gran massa degli «altri» non sta andando proprio da nessuna parte? E non hai letto una pietra miliare della sociologia politica, scritta da Herman Daly e John Cobb jr. e intitolata For the Common Good (Boston, Beacon Press, 1989), in cui si dimostra abbastanza incontrovertibilmente che il valore aggiunto prodotto dall'economia ufficiale in questi ultimi decenni (aumento del Pil, del reddito, dei consumi) si basa in buona parte sul valore sottratto ai beni comuni, sia sociali sia naturali? Surriscaldamento planetario, inquinamento atmosferico e idrico, dissesto idrogeologico, alterazione degli ecosistemi, scorretto smaltimento di rifiuti e scorie e via dicendo, fino al progressivo, spaventoso anticipo dell'età mestruale nelle bambine — chiedi ai medici di famiglia, Antonio: anche nove anni, per via degli ormoni contenuti nei cibi —, non sono fenomeni così facilmente quantificabili da poterli inserire in un'equazione, ma mi sorprende che tu non li menzioni neppure: non posso credere che tu appartenga alla schiera di coloro che li negano. Dici anche: «Quanto siamo disposti a perdere in termini di reddito per salvare il pianeta dall'eccesso di desiderio?». Perché, questo? Non ti accorgi di quanto si stia già riducendo il nostro reddito — in assoluto, per via della recessione, e indirettamente, per via dell'aumento di tasse e prezzi? Davvero non ti accorgi di essere più povero di vent'anni fa? Io me ne accorgo tutti i giorni, e l'idea di perdere dei soldi per salvare il pianeta non mi spaventa certo, visto che ne sto già perdendo parecchi per distruggerlo. Voglio ora consigliarti la lettura di due volumi usciti nella prima decade di questo secolo a cura di uno dei massimi studiosi di socioeconomia del mondo, Wolfgang Sachs, membro del Wuppertal Institut e addirittura ripetutamente titolare di cattedre universitarie, anche se non nelle facoltà di economia: Ambiente e giustizia sociale. I miti della globalizzazione (Editori Riuniti, 2002) e Per un futuro equo. Conflitti sulle risorse e giustizia globale (Feltrinelli, 2007). Non sono solo «raffinato eloquio», Antonio, e sono corredati da numeri, formule e grafici come piace a te. Sono studi rigorosi, e parlano di fatti e fenomeni che tu tralasci o mostri di sottovalutare. Per esempio, quando dici che «purtroppo, è vero, le risorse disponibili sono in diminuzione, è necessario produrre meno input energetici», ma subito dopo, per uscire dal baratro che ti si è appena spalancato sotto i piedi, ricorri alla madre di tutte le parole-ameba, e cioè: innovazione. Ma cosa mai dovrebbe essere innovato, in un sistema che produce miseria laddove dovrebbe produrre ricchezza, se non il modello stesso? È chiaro che ti riferisci alle innovazioni scientifiche e tecnologiche, e allora io ti faccio un esempio: l'introduzione dell'asbesto nei materiali da costruzione, cioè dell'amianto, è stata senza dubbio una grande innovazione, in termini di prestazioni coibentanti fratto costi di produzione — peccato però che ci fosse un altro problema. Alla fine, ti chiedo, quell'innovazione ci ha fatto andare avanti o indietro? Guadagnare o perdere? No, caro Antonio, parlare di innovazione oggi, senza nemmeno accennare alla necessità di una ridefinizione del modello socioeconomico di riferimento, è sovranamente inutile, e fa venire in mente una battuta del grande Lenny Bruce, con la quale mi piace finire questo intervento: «Ho inventato l'acqua in polvere, ma non so in cosa scioglierla». Un caro saluto. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 feb. ’12 LA MAPPA DEI NEGAZIONISMI DI STATO di MARCELLO FLORES Dallo sterminio degli armeni alla Shoah, dal colonialismo alla questione irlandese Chi vuole falsificare il passato oggi può contare su nuove, potenti strategie comunicative Negazione, revisione, rimozione: attorno a questi termini si svolgono da anni, in tutto il mondo, history wars, guerre di interpretazione su eventi drammatici e luttuosi, che non riguardano solo gli storici ma, spesso, governi e Stati, popoli e minoranze, vittime e carnefici. All'interno della memoria pubblica la questione del negazionismo ha acquistato, con gli anni, sempre più spazio. La conoscenza storica è stata spesso manipolata, travisata, riabilitando o condannando per interessi politici, ideologici, statali. Di negazionismo in senso stretto, ossia di storici che negano realtà assodate e riconosciute da tutti, vi è forse solo il caso della Shoah, venuto alla ribalta negli anni Settanta e poi amplificato negli anni Novanta a opera di un ristretto manipolo di storici (o autoproclamatisi tali). I campi di sterminio e l'uccisione di cinque-sei milioni di ebrei avrebbero costituito, per costoro, una «menzogna», il risultato di un complotto giudaico. Pochi e squalificati (i più noti sono Robert Faurisson e David Irving), i negazionisti hanno costruito nuove strategie comunicative e approfittato del sorgere di movimenti neonazisti per ottenere attenzione dai media, rimanendo sempre del tutto marginali e ininfluenti, ma contribuendo alla rinascita di rigurgiti di antisemitismo. Con l'appoggio al negazionismo del presidente iraniano Ahmadinejad si è ulteriormente diffusa, soprattutto nel mondo arabo, una visione riduttiva e minimizzatrice della Shoah, vista come mito fondatore dello Stato di Israele più che come evento cruciale del Novecento. Di negazionismo di Stato si è parlato molto anche a proposito del genocidio degli armeni. Il famigerato articolo 301 del codice penale turco — che ha permesso di portare in tribunale per «offese alla turchità» centinaia di persone, tra cui il Premio Nobel Pamuk, ree di ricordare il massacro degli armeni — rappresentava la minaccia più pesante che lo Stato turco poneva su chi volesse parlare di genocidio. Il negazionismo turco si è basato per anni sull'attività di istituzioni accademiche e di storici occidentali compiacenti che hanno ridimensionato o attribuito alla violenza di guerra, o a quella preventiva contro il possibile tradimento degli armeni, i massacri iniziati nel 1915 (tra essi Stanford Shaw e Justin McCarthy con una posizione più giustificazionista, ma anche Bernard Lewis con l'intento di minimizzare). Oggi la strategia è quella di chiedere che vengano poste «sullo stesso piano» interpretazioni diverse, senza insistere sulla negazione in sé, con l'obiettivo di far diventare legittime, pur se discutibili, le interpretazioni che riducono a poche centinaia di migliaia le morti armene (di fronte alle stime ormai consolidate tra 1 e 1,5 milioni di morti), poste a confronto con quelle superiori sofferte dai turchi nel corso della Prima guerra mondiale. Di qui la dura protesta del governo di Ankara contro la legge francese che punisce chi nega le stragi degli armeni. Gran parte del dibattito rimane ancorato alla possibilità di usare il termine genocidio — dizione fortemente avversata dallo Stato turco — in una querelle terminologica che ha riguardato anche altri casi. Tra questi quello della carestia in Ucraina nel 1932-33, che causò la morte di almeno 5 milioni di persone (altre stime parlano di 7 e il governo ucraino di 10) in seguito a direttive politiche del regime staliniano per piegare l'opposizione contadina alla collettivizzazione e la ripresa di movimenti nazionalistici. La rivendicazione dell'Holodomor («uccisione per fame») come genocidio o crimine contro l'umanità è ormai largamente accettata, ma vi sono ancora forti resistenze a riconoscerlo — e ad ammetterne la matrice politica — soprattutto in Russia. Il dibattito sulle vittime del comunismo può ormai poggiarsi su solide basi documentarie. Negato negli anni 50 e 60 da molti simpatizzanti, compresi storici e intellettuali, accettato ma minimizzato negli anni 70 quando Solženicyn ne portò alla ribalta la tragica esperienza, dibattuto sulla base della documentazione disponibile negli anni di Gorbaciov, il sistema del Gulag è oggi unanimemente riconosciuto nella sua estensione, profondità e tragicità. Tra il 1930 e il 1952 vennero condannate alla fucilazione 1 milione di persone, 19 milioni a pene detentive in campi e prigioni, 30 ai lavori forzati e ad altre misure repressive. È sul versante statale che si sono avute forme preoccupanti di rimozione che hanno alimentato disinteresse e disinformazione da parte dell'opinione pubblica russa sul suo passato. Putin ha sottolineato la grandezza di Stalin, espresso rammarico per la scomparsa dell'Urss, celebrato i «monumentali risultati» del periodo sovietico, festeggiato i servizi segreti e reintrodotto l'inno nazionale dell'Urss; Medvedev ha istituito nel 2009 una commissione per contrastare «la falsificazione della storia a danno della Russia», ma non, evidentemente, quella a suo vantaggio. I numerosi libri dello storico Jurij Zhukov, (l'ultimo del 2011 dal titolo inequivocabile Essere orgogliosi e non pentiti. La verità sull'epoca staliniana) stanno conoscendo diffusione e successo. Come molti libri divulgativi che relativizzano i crimini del comunismo e rivalutano l'epoca staliniana soprattutto per il periodo di guerra, grazie all'influenza della chiesa ortodossa. Shoah, genocidio armeno, Gulag, non sono gli unici eventi su cui si sono cimentati il revisionismo storiografico o la rimozione pubblica. In Francia la discussione ha ruotato attorno al regime di Vichy e al colonialismo in Algeria, e ormai solo qualche sparuto storico militare è ancora disposto a negare i risultati della ricerca su entrambe le questioni. Cosa che fanno alcuni politici e giornalisti per influenzare l'opinione pubblica in una rivalutazione esplicita della grandeur francese e nella riproposizione di tabù sul collaborazionismo o l'uso della tortura nelle colonie. Una legge del 2005 sottolineava il «ruolo positivo del colonialismo» e la creazione da parte di Sarkozy di un ministero insieme dell'Immigrazione e dell'Identità nazionale ha rilanciato la discussione sulla «frattura coloniale», spingendo a posizioni (come quella di Daniel Lefeuvre in Farla finita col pentimento coloniale) che tendono a negare o ridimensionare non più i fatti ma le interpretazioni e le attribuzioni di responsabilità. Il dibattito in Cile, Argentina e Uruguay si è svolto anch'esso più attorno alle interpretazioni e definizioni, ai ridimensionamenti e ai silenzi sugli eventi legati al passato dittatoriale di quei Paesi, che non su vere e proprie negazioni. In Argentina si rifiuta il carattere genocidiario della repressione giovanile (sancito da alcuni tribunali nazionali), in Uruguay si sottolinea il ruolo della violenza dei gruppi dell'ultrasinistra nel favorire la reazione militare, in Cile si valorizzano le misure economiche dell'epoca di Pinochet: è su questi terreni che le guerre della memoria sono passate anche in ambito accademico, non più limitate al dibattito pubblico sulle amnistie, le responsabilità, i risarcimenti. In Gran Bretagna il dibattito sulla «questione irlandese» continua a essere acceso, sia sulla carestia del 1845-52 (un milione di morti, due milioni di emigrati negli Usa, altrettanti ospitati nelle terribili workhouse dell'epoca: una tragedia «naturale» fortemente aggravata dalla mancanza di misure adeguate e da scelte errate compiute dal governo britannico) sia su innumerevoli episodi della lotta indipendentista negli anni Venti. Ma è sul periodo più recente che la battaglia è più acuta: il rapporto Saville del 2010 ha smentito il rapporto Widgery del 1972 sulle responsabilità del Bloody Sunday a Londonderry, attribuendole alle Forze armate britanniche e non più alle associazioni irlandesi. Ma la recente decisione di obbligare il Boston College a consegnare agli inglesi le interviste ai militanti dell'Ira (una ricchissima documentazione storica) come prove per una possibile incriminazione, si presenta come una pesante intromissione della politica nel lavoro degli storici. ========================================================= _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 feb. ’12 AOUCA: FONDI ALL'AZIENDA MISTA SANITÀ. In via di definizione un accordo di programma da 246 milioni L'assessore: ricerca e assistenza priorità della Giunta «Stiamo chiudendo un Accordo di programma che porterà 246 milioni di euro nell'Isola: parte andrà alle Aziende ospedaliere». Risponde così l'assessore regionale alla Sanità, Simona De Francisci, all'appello lanciato dal preside della facoltà di Medicina, Mario Piga, nel convegno sull'Alta specializzazione tenutosi ieri al Policlinico di Monserrato, in cui si è fatto il punto sul rapporto tra sanità regionale e università.  Il grido d'allarme è volto ad ottenere al più presto i finanziamenti necessari per portare avanti una "missione sociale": formare una nuova generazione di figure mediche professionali preparate. Impellente il bisogno di tecnologie all'avanguardia, organizzazione adeguata, nuovo piano sanitario, rete assistenziale, ospedaliera e d'emergenza. Poiché l'alta specializzazione comporta alti costi viene chiamata in causa la politica il cui compito è sostenerli.  «Chiedo che una comunione d'intenti possa permettere lo sviluppo di questo ospedale», ha ribadito il preside di Medicina. «Ci troviamo in una difficoltà non solo economica, ma percepiamo mancanza di attenzione dalla parte politica nel capire che questo è un ospedale diverso dagli altri», ha aggiunto Ennio Filigheddu, direttore generale dell'Azienda mista. Veronica Nedrini _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 feb. ’12 AOUCA: RAFFORZARE IL PRONTO SOCCORSO E ODONTOIATRIA Simposio nella Cittadella universitaria sulle frontiere dell’assistenza e sui rapporti tra l’Ateneo a l’Azienda sanitaria Il prorettore Uccheddu: «Puntare a migliorare il percorso dei singoli pazienti» L’assessore alla Sanità: «Importante investire risorse sulla ricerca»  CAGLIARI. Rapporti tra ateneo e ospedali e quindi tra Università di Cagliari e Azienda sanitaria. Sono alcune delle tematiche trattate nel convegno “Alta specializzazione nell’assistenza clinica, medica e chirurgica. Stato dell’arte, prospettive a breve e medio termine”.  Il simposio si è tenuto ieri mattina nella sala congressi della facoltà di Medicina della Cittadella universitaria di Monserrato. Un evento organizzato dalla facoltà di Medicina e e dall’Azienda Ospedaliero-universitaria di Cagliari e patrocinato dalla Regione per capire quanto ancora c’è da fare e quanto invece è stato fatto negli ultimi anni. In primo piano il completamento della sede del Pronto soccorso e il progetto della facoltà di Odontoiatria nella Cittadella di Monserrato. «Sembrava una “cattedrale nel deserto” invece a breve verrà completato il progetto della facoltà di Odontoiatria a Monserrato - ha sottolineato Giovanni Argiolas, Sindaco di Monserrato - che prevede l’utilizzo della vecchia scuola ex Crias. È un una scelta condivisa con il Rettore». Tra gli obiettivi dell’ateneo il consolidamento di una sede unica che favorisca la didattica e i costi di gestione. «Una sede unica - ha sottolineato Alessandro Uccheddu, prorettore per le tematiche assistenziali - che consenta di migliorare anche il percorso del paziente oltre a favorire l’integrazione e l’interazione tra varie discipline». Al convegno hanno preso parte anche Francesca Barracciu della Commissione Sanità del Consiglio regionale della Sardegna e l’assessore all’Igiene e sanità della Regione Simona De Francisci che ha sottolineato come la Giunta Cappellacci, in questi ultimi tre anni, abbia creduto nel connubio assistenza sanitaria-ricerca e abbia voluto investire, invertendo il trend del passato, per migliorare l’alta specializzazione e l’ammodernamento tecnologico delle strutture delle aziende ospedaliere». _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 20 feb. ’12 AOUCA: IN ARRIVO ALCUNI REPARTI DEL SAN GIOVANNI  Policlinico, entro l’anno aprirà il pronto soccorso  Entro la fine dell’anno un moderno pronto soccorso potrebbe entrare in funzione al Policlinico di Monserrato, completando così la dotazione sanitaria dell’ospedale. Con il completamento del cosiddetto "Blocco Q", già appaltato, verranno anche trasferiti alcuni reparti dell’ospedale San Giovanni di Dio, così da mettere in funzione il cosiddetto Dea (Dipartimento emergenza e accettazione). A confermare i tempi è lo stesso manager dell’azienda mista, ospedaliero-universitaria, Ennio Filigheddu. «Il pronto soccorso al Policlinico», ha spiegato il direttore generale, «sarà aperto entro la fine del 2012, una volta terminati i lavori del nuovo blocco. In quegli spazi, troveranno posto i reparti trasferiti dal San Giovanni di Dio». DEA Ciò che in questi anni ha impedito alle ambulanze con feriti gravi di dirigersi al Policlinico della Cittadella è stato proprio l’assenza del Dea, anche se alcuni reparti - come ad esempio alcune chirurgie - sono già in funzione. In realtà, per poter attivare il pronto soccorso è necessario garantire come minimo anche ortopedie e traumatologie, cardiologie e terapie intensive, anche se nosocomi più moderni possono contare anche su chirurgie molto più avanzate come la neurochirurgia, la cardiochirurgia, la terapia intensiva neonatale, la chirurgia toracica e quella vascolare. Insomma, unità che possono salvare la vita ai pazienti arrivati d’urgenza al pronto soccorso. IN FUNZIONE Attualmente a Monserrato sono già in funzione le strutture di biologia molecorale virologica, la chirurgia generale, vascolare e toracica, la diabetologia e l’endocrinologia, la gastroenterologia e la medicina del lavoro, i dipartimenti di medicina interna e oncologia medica, nuclerare, neurofisiopatologia, radiologia e reumatologia. IL SINDACO Chi preme per avere entro l’anno il pronto soccorso e le specialistiche d’emergenza è il sindaco Gianni Argiolas, che però avanza dubbi. «C’è chi rema contro», ha detto. «Il nostro obiettivo è sostenere fortemente la causa del pronto soccorso al Policlinico, che vuol dire un servizio immediato per l’area vasta raggiungibile in un brevissimo tempo. La mia forte paura è che ci sia chi, per giochi politici, stia remando contro, puntando invece al potenziamento dell’ospedale Brotzu». Francesco Pinna _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 20 feb. ’12 AOUCA: «AGGREDITA DAL PRETE» Parla la madre di un epilettico. Dal sacerdote parziali ammissioni Il figlio disabile disturba la messa: cacciati Cacciata dalla messa domenicale nella cappella del Policlinico universitario perché il figlio, in preda a una crisi epilettica, avrebbe disturbato la funzione religiosa. «Non riprendo la celebrazione finché non uscite», ha detto il prete al ragazzo e alla madre. Ma la storia, che già qui potrebbe sembrare surreale, continua: «Il cappellano mi ha aggredito fisicamente al termine della messa, quando ho minacciato di raccontare l'accaduto al vescovo», dice Silvana Fattori.  Cinquantanove anni, casalinga, racconta l'episodio fuori dal pronto soccorso del San Giovanni di Dio. L'anulare della mano destra è gonfio e fasciato: «Il prete ha cercato di strapparmi dalla mano il telefonino, con il quale volevo registrare la nostra conversazione. E l'anello che porto al dito mi si è conficcato nella nocca».  Sono le dieci del mattino. Silvana Fattori è al Policlinico, dove il figlio, trentenne e epilettico, è stato ricoverato dopo tre crisi ravvicinate. Decide di accompagnare il ragazzo alla messa. «Era una funzione dedicata alla Giornata del malato», precisa. La celebrazione inizia regolarmente, ma dopo cinque minuti le parole di padre Giuseppe Mario Carrucciu, cappellano settantunenne del Policlinico di Monserrato, vengono interrotte da un rumore: «Mio figlio ha avuto una crisi epilettica: sarà durata cinque, dieci secondi al massimo. Si è calmato subito. Il sacerdote ha interrotto bruscamente la celebrazione. Era molto, molto contrariato, e dall'altare ci ha ordinato di uscire immediatamente. Siamo stati costretti ad alzarci e tornare nella stanza dove mio figlio era ricoverato». Una versione confermata anche da chi ha assistito alla messa: «L'episodio ci ha turbato. Padre Carrucciu ha detto a mamma e figlio di uscire, eppure il ragazzo ha urlato in una sola occasione, e non ha dato nessun fastidio», spiegano due anziane ricoverate al Policlinico. Ma pochi minuti dopo accade qualcosa di ancora più grave. Silvana Fattori racconta di essere stata aggredita da padre Carrucciu: «Dopo, nella sua stanza, mi ha detto che non avrei dovuto accompagnare “certi soggetti”, ha detto proprio così, in chiesa. Allora gli ho chiesto di ripetere la frase per registrarla con il mio telefonino, per farla poi riascoltare al vescovo. In quel momento mi ha preso la mano dove avevo il cellulare e ha cercato di prendermelo, con tutta la forza che può avere un uomo. A quel punto sono arrivate le infermiere e si è fermato». Padre Carrucciu non nega il “corpo a corpo”, ma precisa: «La signora stava registrando la conversazione senza il mio premesso, allora ho cercato di portarle via il telefonino. Mi ha anche morso una mano». Anche il racconto della messa è leggermente diverso: «La signora è arrivata a celebrazione già iniziata. Il ragazzo che era con lei ha gridato, ci siamo spaventati tutti. Le ho detto: lo riporti in reparto. Avevo paura che, se fossero rimasti loro, se ne potessero andare le altre persone. Ma la verità è che ero preoccupato per il ragazzo, e mi sono spaventato per quell'urlo improvviso. Come me anche gli altri erano scossi». Due versioni, in fondo, non troppo diverse. Ma il racconto di Silvana Fattori potrebbe finire nero su bianco in una denuncia. «Andrò sicuramente dai carabinieri». Michele Ruffi _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 22 feb. ’12 AOUCA: «EPILETTICI DISCRIMINATI» Reazioni dopo l'allontanamento dalla messa di un ragazzo malato Le associazioni dei malati scrivono a Mani La storia del ragazzo epilettico allontanato, insieme alla madre, dalla cappella del Policlinico universitario durante la messa domenicale arriva fino a Bologna, dove il presidente dell'Aice (associazione italiana contro l'epilessia) Giovanni Battista Pesce chiede «le scuse» di padre Giuseppe Mario Carrucciu e l'adozione di «atti concreti per offrire adeguata inclusione della famiglia», che ha subìto una «pesante discriminazione».  LA DENUNCIA Silvana Fattori, madre del trentenne ricoverato nella struttura di Sestu, ieri mattina ha avuto un colloquio con la direzione sanitaria del Policlinico e con il suo legale di fiducia: «Nei prossimi giorni presenterò una denuncia per quello che è successo. Non l'ho ancora fatto perché c'è tempo, ma lo farò sicuramente», assicura. Domenica è stata invitata da padre Carrucciu ad allontanarsi dalla cappella dell'ospedale insieme al figlio, appena colpito da una crisi epilettica.  Una «discriminazione assurda», come spiega il presidente dell'Aice, che in una lettera inviata a sindaco, prefetto, arcivescovo, rettore e direzione generale del Policlinico «chiede alle autorità quali provvedimenti intendano assumere a tutela della piena cittadinanza della famiglia Fattori». L'associazione chiede anche che «dal vescovo giunga a tutte le parrocchie un invito sulla riflessione circa la dovuta accoglienza ai fedeli con epilessia» e auspica che la chiesa sostenga la ricerca scientifica su questa malattia. «GRAVISSIMO» Anche Luisanna Loddo, presidente di Abc Sardegna (associazione bambini cerebrolesi) critica padre Carrucciu: «Siamo esterrefatti per un episodio gravissimo di ignoranza ed esclusione sociale fuori dal tempo che non pensavamo sarebbe potuto accadere a Cagliari oggi». Loddo conosce bene la famiglia del ragazzo epilettico e «sappiamo bene con quale amore curano e seguono il loro figlio in ogni aspetto della vita e come sanno reagire ai momenti di difficoltà e crisi, specie quelli della sua salute, padroneggiando certamente le situazioni e intervenendo con le giuste azioni, di cui siamo stati anche testimoni; anzi, sono un esempio per gli altri genitori». L'associazione chiede che «questa grave vicenda» sia l'occasione «per correggere» il comportamento del cappellano del Policlinico, che «dovrebbe vivere e testimoniare l'amore di preferenza per chi vive situazioni difficili e applicare quanto scritto bene nei documenti della Santa Sede». Il comportamento di padre Carrucciu invece farebbe il paio con «convinzioni erronee di alcuni esponenti della Chiesa» e andrebbero corrette. «Viceversa andrebbero fortemente proclamate e vissute quelle realtà vere, che con la nostra vita sperimentiamo ogni giorno, insieme a tanti delle nostre comunità e società che ci circondano». ( m.r. ) _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 21 feb. ’12 MANI:SE FOSSE VERO SAREBBE UNA STUPIDATA» «Se fosse vero, cioè se padre Carrucciu avesse detto che gli epilettici non possono entrare in chiesa, avrebbe detto una stupidaggine». L'arcivescovo Giuseppe Mani sottolinea che si tratta di un periodo ipotetico, perché crede invece che le cose, al Policlinico, siano andate in maniera diversa.  IL COLLOQUIO «Ho parlato con il cappellano e mi ha spiegato di aver semplicemente invitato la donna a riportare nel reparto il figlio che aveva appena avuto una crisi epilettica. E non ho nessun dubbio sul fatto che mi abbia detto la verità».  Se la ricostruzione di padre Giuseppe Mario Carrucciu, che però è in conflitto con quella di Silvana Fattori e con quelle di alcuni testimoni che hanno partecipato alla messa domenicale del Policlinico, fosse vera, per il capo della Curia cagliaritana si tratterebbe «di una cosa normalissima». Mani preferisce non commentare l'aggressione fisica riferita dalla donna: «Il cappellano non mi ha raccontato niente di tutto questo».  LA RISPOSTA Ma alle associazioni degli epilettici e alle altre intervenute sulla vicenda risponde così: «Gli epilettici non possono entrare in chiesa? Non scherziamo. Chiunque dica una cosa del genere direbbe una stupidaggine. Conosco preti che soffrono di questa malattia e partecipano regolarmente alla vita religiosa e alle messe». Di sicuro Mani non prenderà nessun provvedimento nei confronti di Carrucciu: «Provvedimenti? E perché? Se ne avete qualcuno da suggerire ditelo», conclude ironicamente l'arcivescovo, con l'intento di sdrammatizzare la situazione. INDAGINE INTERNA Per ora invece nessuna dichiarazione da parte della direzione dell'azienda ospedaliera universitaria, che però avrebbe aperto un'inchiesta interna per capire che cosa è successo veramente domenica mattina. È probabile che nelle prossime ore vengano sentiti tutti i protagonisti di questa vicenda, più alcuni testimoni che hanno partecipato alla messa. Solo dopo la dirigenza del Policlinico potrebbe prendere una posizione e eventuali provvedimenti. Anche se è difficile immaginare una rimozione del cappellano, scelta che spetterebbe solo alla Curia. ( m.r. ) _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 25 feb. ’12 AOUCA: PADRE CARRUCCIU «UN COMPLOTTO CONTRO DI ME» DIETRO LE QUINTE. Accusato di aver cacciato da messa una donna col figlio epilettico Parla padre Carrucciu, assistente spirituale a contratto di PAOLO PAOLINI «Padrone del Policlinico? Mi piacerebbe, ma è una falsità».  Padre Giuseppe Carrucciu indossa il camice bianco dei medici mentre macina metri nelle corsie d'ospedale stringendo nella mano destra l'iPhone bianco latte. Settantun anni, frate cappuccino, cappellano del Policlinico di Monserrato e direttore dell'Ufficio per la Pastorale sanitaria, è accusato di aver cacciato dalla messa un ragazzo scosso da un attacco epilettico. Per soprammercato la mamma del paziente lo accusa di averla aggredita: «Ci mancava solo questo». Perché ha scelto l'ordinazione sacerdotale?  «Le vie del Signore sono infinite». Non le sembra poco solidale buttare fuori dalla cappella un epilettico?  «Non mi sarei neppure sognato di fare una cosa del genere. Domenica, alle 10, celebravo la messa. Al momento dell'atto penitenziale si è aperta la porta ed è entrata una donna con una carrozzina, si è sistemata a metà sala. Durante la predica un urlo mi ha fatto sobbalzare. Pensavo di avere a che fare con un paziente oncologico. La madre l'ha stretto a sé e lui si è calmato. È stata delicatissima, femminile e materna. Non ho fiatato. Quando lei si è riseduta nel banco mi sono avvicinato e le ho detto: “ Signora, forse sarebbe meglio accompagnarlo in reparto per farlo visitare dai medici”. Lei mi ha risposto che sarebbe rimasta per la messa. Ho replicato: “La sua messa è tornare in reparto”». Si è scusato?  «Sono andato nel blocco N per cercare il ragazzo e mi hanno detto che stava bene. Al rientro in sacrestia ho trovato la mamma che mi ha aggredito». È finita in ospedale con una lesione al dito.  «Registrava la conversazione. Le ho chiesto di smetterla. Ho solo cercato di spegnere il telefonino, le nostre mani si sono toccate e nulla più. Mi ha anche morsicato. Oltretutto per me era una giornata particolare, era appena morta l'ultima sorella di mio padre». La direzione non l'ha difesa.  «L'ho notato. Solo il martedì il direttore generale si è fatto vedere per conoscere la mia versione». Molti non le credono: è un complotto?  «Forse do fastidio a qualcuno». È vero che ha occupato due stanze della Chirurgia?  «Devo partire da lontano. Quando è stato aperto il Policlinico la cappella non esisteva. Il direttore generale di allora mi propose di fare un altare con le rotelle, per spostarlo in qualunque momento. Gli risposi a tono. Più tardi realizzarono la cappella nell'allora reparto di Reumatologia, oggi diventato Chirurgia. Nella stessa zona mi assegnarono due stanze, una da letto e lo studio. Di recente il primario di Chirurgia mi ha chiesto di restituirle, gli ho risposto che per una non c'è alcun problema, l'altra invece fa parte dell'intesa siglata dall'Azienda con la Curia vescovile». Dove dorme?  «In un appartamento al secondo piano, camera da letto minuscola». Che bisogno ha un frate cappuccino di una porta blindata?  «Non c'entro, l'ha deciso l'Ufficio tecnico. E non ce n'è una, ma due. Tempo fa ho fatto notare che queste spese erano eccessive. Anche se un minimo di sicurezza deve essere garantita».  I maligni sostengono che lei vinca lo stress riposando nella villa con piscina a Flumini?  «Una calunnia. Provengo da una famiglia conosciuta a Cagliari, ho anche parenti che posseggono una bella casa con piscina a Quartu. Il fatto che ci abbia trascorso qualche giornata non significa nulla».  Dicono di lei: un democristiano dentro il saio.  «Non mi occupo di politica, solo cultura». È intoccabile per via di amicizie molto influenti.  «Sono amico di tante persone, ma nella sanità chi decide è la massoneria». Lei conta più del direttore?  «Mi potrebbe anche piacere, ma non è così. Prendo uno stipendio di 1100 euro al mese, lui 270 mila all'anno. Qualcosa vorrà pur dire». A proposito: dopo la pensione le hanno fatto una consulenza.  «La legge dice che gli assistenti religiosi, una volta raggiunti i 67 anni, se il vescovo è d'accordo, possono continuare con le stesse mansioni in regime di convenzione. La norma non favorisce la legge cattolica, ma l'assistenza religiosa a tutto tondo». Quindi sbagliano Monti & C. a sostenere che il posto fisso non esiste più.  «Purtroppo il lavoro dei preti non è semplice, si muovono in un mondo di sofferenza».  L'arcivescovo Mani l'ha difesa.  «Davanti a un prete trattato in quel modo, è intervenuto». Raccontano che lei abbia un caratteraccio.  «Non ho mai fatto carriera perché parlo chiaro, e infatti non sono diventato vescovo». La Chiesa fa troppo politica?  «È normale che alcuni vescovi se ne occupino nei limiti del loro ruolo».  È vero che lei ha chiesto che i pasti le fossero serviti da infermiere gradevoli?  «Altra calunnia. A me il pasto non lo servono. Lo prendo io e lo porto in camera. Al Brotzu una donna è a disposizione dei cappellani cinque ore al giorno. Al San Giovanni di Dio i due cappellani hanno l'aiuto di una portantina dalle 8 alle 14. Non escludo di chiedere anch'io di essere trattato come gli altri». ppaolini@unionesarda.it _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 22 feb. ’12 ASLNU: IL CONSIGLIO DI STATO SALVA IL PROJECT Annullata la sentenza del Tar. Decisivo l’accordo con la ricorrente Polish house La direzione: Ora ci attiveremo per dar corso al contratto e migliorare così le prestazioni sanitarie in tutto il territorio NUORO. Il project financing è salvo. Il Consiglio di Stato ha annullato la sentenza del Tar del febbraio 2011 che aveva spazzato via come un terremoto il maxi appalto Asl da 700 milioni. Decisivo l’accordo con la Polish house. Accordo ufficioso già da settimane. Con la società, che, si legge nella sentenza del Consiglio di Stato depositata ieri: «Ha dichiarato il 29 dicembre 2011 di rinunciare al ricorso in primo grado e agli effetti della sentenza». E, dice ancora il Consiglio di Stato: «Nel medesimo contesto, da una parte Derichebourg multiservizi e l’Asl di Nuoro, e dall’altra la Polo Sanitario Sardegna Centrale dichiarano di rinunciare al loro ricorso in appello». Un colpo da maestri del collegio difensivo, che di fatto ha avuto come conseguenza l’estinzione dei giudizi in essere. E il salvataggio del progetto. Da capire ora quali siano i termini dell’accordo che ha portato la Polish a ritirare il ricorso. La cosa più probabile è che la società riprenda in mano la gestione dei servizi di pulizia e sanificazione dei presidi ospedalieri dell’Azienda sanitaria (che le era stato tolto causando il ricorso), probabilmente con l’allargamento della società che gestisce il progetto, la Polo Sanitario della Sardegna Centrale. Un dettaglio nel maxi piano di investimento venticinquennale della Asl. Tanto da far dire al «padre» del project Franco Mariano Mulas: «Per uno specchietto difettoso vogliono buttar via tutta la macchina». Ma abbastanza da convincere il tribunale amministrativo regionale a bloccare il piano che riguardava l’ampliamento e la ristrutturazione di ospedali (San Francesco e Zonchello di Nuoro, San Camillo di Sorgono) e poliambulatori (Macomer e Siniscola). E i servizi di housing che comprendono, tra gli altri, pulizie, ristorazione, ingegneria clinica, portierato, centro prenotazioni, ovvero tutto ciò che serve a far funzionare la sanità della provincia di Nuoro. Un appalto aggiudicato alla Cofely, società che fa capo alla multinazionale francese Gdf Suez. Con numeri di capogiro: 60 milioni per gli investimenti e quasi 25 milioni all’anno per 27 anni per la gestione dei servizi. Per un totale da oltre 700 milioni di euro. Abbastanza per gettare nel panico la sanità nuorese, e gran parte della sua classe politica. Che, dopo la gestione commissariale Psd’Az della Asl (che al project era ed è fortemente contraria) ha messo in sella con ampio accordo Antonio Maria Soru con il compito di salvare il progetto. Missione compiuta, con la Asl che sobria commenta: «L’azienda sanitaria di Nuoro ha ricevuto la comunicazione del deposito della sentenza del Consiglio di Stato, con la quale si annulla la pronuncia del Tar Sardegna, che aveva azzerato il Project Finance. La Direzione, nel prenderne atto, si attiverà per dare esecuzione al contratto in conformità delle statuizioni del supremo consesso amministrativo, nell’esclusivo interesse della utenza e nell’ottica di un miglioramento qualitativo delle prestazioni sanitarie sul territorio».  _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 feb. ’12 ASLNU: LE CARTE NASCOSTE DEL PROJECT ASL «Al Tar non sono stati presentati documenti fondamentali» VEDI TUTTE LE 2 FOTO «Il Project è una Ferrari, difficile da costruire (e da capire) ma anche da guidare», dice Franco Mariano Mulas ricordando l'obiettivo principale datato 2007: «Il terzo polo sanitario sardo, con la crescita della sanità nuorese. Un piano per il territorio (la cittadella sanitaria di Nuoro, Sorgono, Siniscola e Macomer), ma fino ad allora privo di sufficienti finanziamenti pubblici. Scegliendo la finanza di progetto, utilizzata in tutto il mondo e oggi rilanciata dal Governo Monti, abbiamo attivato, con l'approvazione della Regione, due gare internazionali, per trovare i capitali privati».  Si aspettava un cammino così accidentato? «Le difficoltà le abbiamo incontrate in fase di predisposizione. Il progetto è passato per una serie di verifiche da parte di società internazionali e istituti universitari, come Rina Industry e il Dipartimento economico dell'Università di Tor Vergata e, infine, Regione e Sfirs. Tutti gli atti sono stati sottoposti a controlli stringenti. Sono orgoglioso inoltre che questa sfida abbia fatto crescere nell'Asl molte competenze e professionalità». Tra Tar e Consiglio di Stato l'Asl è rimasta un anno nel limbo. Quale consiglio darebbe al direttore generale? «Nessun consiglio. Ogni soggetto faccia bene la sua parte: il privato dovrà rispondere dei risultati, l'Asl vigilare sul rispetto dei patti». Sono stati commessi errori o qualche aspetto positivo è stato sottovalutato? «Prima di tutto il non aver contrastato adeguatamente una disinformazione solo in parte dovuta alla complessità e alla novità. Poi la scarsa convinzione difensiva dell'Asl a gestione sardista, palesemente project-scettica, che ha portato persino ad una difesa al Tar priva dell'intera documentazione. Mi riferisco in particolare alla relazione della Sfirs del 18 aprile 2008, che riconosceva “la congruità del canone di disponibilità e del canone dei servizi, in funzione di una struttura contrattuale idonea al trasferimento del rischio di costruzione, del rischio di tasso, del rischio di disponibilità e del rischio di domanda in capo al concessionario privato per l'intera durata della concessione”». Insomma, il Tar che tra l'altro ha sanzionato l'assenza del rischio privato d'impresa, non conosceva quel documento... «Non è stato presentato. La sola lettura della relazione Sfirs avrebbe evitato qualche errore di valutazione e dannosi ritardi nella realizzazione delle opere». Ha sbagliato solo la Asl post Mulas? «Anche i privati. La Cofely doveva associare da subito la Polish House, l'impresa di pulizie già vincitrice di gara pubblica». Esistono ostacoli da scansare in futuro? «In primis la co-gestione tra soggetto privato e soggetto pubblico: non si deve subire la tentazione di rinunziare alla funzione di controllo in cambio di qualche “piatto di lenticchie”. Poi l'inoculatezza perché chiedere al concessionario più di quanto è previsto nei disciplinari (per esempio se l'Asl andando oltre il contratto pretenderebbe il raddoppio del numero dei portieri), determinerebbe costi aggiuntivi». Il commissario che lo ha sostituito, Antonio Onorato Succu, un mese fa ha denunciato nell'Asl “un riverbero di un modo feroce di intendere la militanza politica”. Cosa ne pensa? «Per quanto mi riguarda non è vero, il dottor Succu si sarà riferito al periodo della sua esperienza…». M. T. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 21 feb. ’12 UN NUOVO PATTO SOCIALE PER IL BROTZU» SANITÀ. Il segretario della Uil-Fpi Attilio Carta: una grave carenza di personale Pochi, precari e senza riconoscimenti economici. È la situazione di una gran parte di operatori socio sanitari e degli infermieri del Brotzu nella fotografia fatta da Attilio Carta, segretario della Uil-Fpl dell'ospedale cagliaritano. «Per risolvere questa, e altre situazioni, chiediamo l'impegno degli assessori alla Sanità e al Lavoro. Dalla classe politica i cittadini si aspettano un forte impegno affinché le scelte sociali e sanitarie siano le più lungimiranti possibili e in grado di valorizzare tutte le risorse esistenti», spiega il sindacalista. LE RICHIESTE I punti da affrontare sono diversi: «Chiediamo l'incremento delle dotazioni organiche di operatori socio sanitari e infermieri, risorse straordinarie per il recupero professionale ed economico degli oss, l'assegnazione dell'indennità radiologica a tutti gli operatori delle sale e l'immediato inquadramento di alcuni operatori interni da tempo in possesso del titolo di operatore socio sanitario». Queste le richieste avanzate dalla Uil-Fpl all'assessore alla Sanità, Simona De Francisci. Ma la lettera-appello è rivolta anche all'altro componente della giunta regionale, Antonello Liori, assessore al Lavoro: «Chiediamo una specializzazione “gratuita” per la categoria degli operatori specializzati e un corso interno di base per operatori socio sanitari». Carta ricorda le ultime vicende giudiziaria: «Per affiancare gli infermieri nell'assistenza del paziente, vista l'eccessiva mole di lavoro, è stata introdotta la figura professionale dell'operatore socio sanitario. E i giudici hanno più volte imposto al Brotzu l'incremento del numero degli oss nei turni. L'azienda ha però utilizzato in modo massiccio gli operatori assunti a tempo determinato». IL PERSONALE Anche interventi chirurgici delicati, come i trapianti di organo, vengono garantiti, ricorda Carta, «grazie all'abnegazione del personale, impegnato da troppo tempo al limite di ogni garanzia professionale e sopportazione umana». E le battaglie legali si stanno moltiplicando: «Dopo i vani tentativi conciliatori del personale di Radiologia, Chirurgia vascolare, Ortopedia e Chirurgia d'Urgenza, si andrà in udienza. Seguiranno a breve le vertenze di Anestesia e Neurochirurgia». A questo si aggiungono, fa sapere, le battaglie contrattuali. «Serve una svolta. Per questo chiediamo all'azienda un forte patto sociale, un piano straordinario per risolvere i numerosi problemi. Con l'aiuto, necessario, anche della Regione attraverso un indispensabile e straordinario impegno politico-finanziario». ( m.v. )  _____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 feb. ’12 IL CAOS E L' «EFFETTO IMBUTO» SOLO IL 15% VIENE RICOVERATO LO STUDIO IN TROPPI CON IL «CODICE VERDE»: 7 PAZIENTI SU 10. DAL 2000 A OGGI 45 MILA POSTI LETTO IN MENO Al pronto soccorso si presentano in 23 milioni l' anno Un letto Sei pazienti su 10 ottengono un letto entro 12 ore. Per 1 su 4 è necessario un giorno intero MILANO - «Emergency!». Il 28 maggio del 1990 il settimanale statunitense Time dedica la copertina ai pronto soccorso, con il titolo choc: «Emergenza!». È la prima presa di coscienza di un flagello dell' assistenza sanitaria in tutto il mondo: il sovraffollamento dei pronto soccorso. Le date, in casi simili, sono importanti: ammettere l' esistenza di un problema è il primo passo per risolverlo. L' Italia, 22 anni dopo, annaspa ancora tra immagini vergognose di massaggi cardiaci praticati per terra e malati legati su barelle, polemiche e accuse incrociate. Gli allarmi lanciati dalle società scientifiche, come la Federazione italiana di Medicina di Emergenza-Urgenza (Fimeuc) e la Società italiana Medicina di Emergenza-Urgenza, sono rimasti inascoltati. Giorgio Carbone, presidente della Simeu, scrive sul suo sito internet: «Già nel 2008 i colleghi di Roma misero in atto per le strade della città la protesta del "Barella day " per porre all' attenzione dell' opinione pubblica, e degli amministratori politici, la gravissima e pericolosa situazione del settore dell' Emergenza a Roma. Da allora nulla è stato fatto, se si esclude la definizione di piani di rientro regionali che inaspriscono anziché risolvere i problemi esistenti». Troppi pazienti, pochi letti La maledizione dei pronto soccorso è quello che, in gergo medico, viene chiamato l' «effetto imbuto». Arrivano troppi pazienti, l' ospedale non è in grado di reggere l' onda d' urto né di smistare i malati nei reparti spesso ridotti all' osso da un taglio di 45 mila posti letto dal Duemila a oggi. In Italia ci sono state ventitré milioni di richieste d' aiuto in un anno: il 15% sono cittadini in condizioni gravi che hanno bisogno di essere ricoverati; l' altro 85% è composto da uomini, donne e bambini che non riescono a trovare altrove la soluzione ai propri malanni, in sette su dieci sono «codici verdi» (non gravi). Di qui il caos, le ore in sala d' aspetto in attesa di una visita, lo stress di medici e infermieri che scontano il taglio degli organici e la crescita dei malati da visitare. Ma per chi è entrato nel girone infernale del pronto soccorso con condizioni di salute serie, purtroppo, i problemi da affrontare sono solo all' inizio. Lo dimostrano all' ennesima potenza gli episodi di cronaca degli ultimi giorni, come la storia di Miriam, lasciata quattro giorni in pronto soccorso su una barella al policlinico Umberto I, le braccia legate per non farla cadere a terra. Succede, infatti, che i pazienti spesso non riescono ad avere un posto letto, nei reparti c' è il tutto esaurito, non resta che attendere e pregare. In attesa di un ricovero Così la condizione dei malati diventa di «imbarcati», come vengono definiti coloro che stazionano in pronto soccorso in attesa di posto letto al termine del processo diagnostico-terapeutico. Non sempre è una questione di ore, a volte ci vogliono giorni: solo il 60% dei pazienti trova un letto nel giro di 8/12 ore, nel 25% dei casi vengono superate le 48 ore, nel Lazio e in Campania 72 ore possono non bastare (come emerge dai dati raccolti dalla Fimeuc). «Il sovraffollamento non va considerato un problema del pronto soccorso, ma dell' intero ospedale - spiega Maria Antonietta Bressan, presidente Simeu della Lombardia -. È una situazione rischiosa per il paziente, perché ritarda le cure e fa diminuire la loro sicurezza». È già stato perso troppo tempo, adesso servono soluzioni. Cinzia Barletta, presidente della Fimeuc, precisa: «Alcune contromisure efficaci sono già state adottate in via sperimentale da Regioni come la Toscana, l' Emilia Romagna e la Lombardia. Altre possono essere importate dagli Usa e dall' Inghilterra». I modelli da copiare Sulla scrivania di Barletta c' è lo studio di mister Steven J. Weiss, Università della California, Davis Medical Center di Sacramento. È Weiss che otto anni fa ha messo a punto il Nedocs, uno strumento per misurare con una formula matematica il sovraffollamento dei pronto soccorso. I parametri utilizzati sono sia di tipo strutturale (come il numero di posti letto dell' ospedale e le postazioni di pronto soccorso) sia basati sull' attività ospedaliera (numero di pazienti, gravità, tempi di attesa). Adesso l' obiettivo è arrivare a misurare in modo scientifico, con il Nedocs, anche il sovraffollamento dei pronto soccorso italiani. È in corso uno studio multicentrico che coinvolge Emilia, Toscana, Lombardia, Liguria, Veneto e Lazio. «I risultati sono attesi per fine estate - dice Barletta -. Fotografare con precisione il problema è indispensabile per risolverlo». Sono state messe in campo anche altre misure virtuose. In Toscana, con un decreto dell' 11 dicembre 2009, hanno debuttato le « Discharge Room», aree dell' ospedale dedicate ai pazienti che devono essere dimessi, che in questo modo possono liberare la camera alle 13. In Lombardia dallo scorso ottobre sono stati attivati 880 letti destinati ai pazienti sub-acuti, soprattutto anziani, che possono essere dimessi dall' ospedale ma non ancora in condizioni di essere adeguatamente assistiti a casa per la complessità del quadro clinico. «È un sistema per decongestionare i reparti, in modo da non intasare i pronto soccorso - spiega il supermanager della Sanità lombarda, Carlo Lucchina -. L' obiettivo è intercettare anche i pazienti cronici che, al bisogno, possono rivolgersi alle strutture dedicate ai sub-acuti, invece che al pronto soccorso». Nel Lazio, con una delibera del 3 novembre 2009, è stata introdotta la figura del «facilitatore dei processi di ricovero e dimissione»: «Il problema - ammette Barletta - è che il provvedimento è rimasto sulla carta». Ma per disincentivare gli accessi inutili al pronto soccorso è necessario anche riorganizzare le cure al di fuori dell' ospedale. Lì, sul territorio. Così il ministro della Salute Renato Balduzzi punta sul progetto «Medicina 24 ore» che prevede ambulatori e studi medici in funzione 7 giorni su 7 dalle 8 alle 20. Un' offerta, dunque, più ampia di quella che solitamente viene offerta oggi dai medici di famiglia. Simona Ravizza sravizza@corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA Ravizza Simona _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 MEDICI E LIBERA PROFESSIONE: NUOVO TENTATIVO DI DEREGULATION Sanità. Emendamento in commissione Affari sociali alla Camera LA PROPOSTA L'attività intramuraria negli studi privati dovrebbe chiudersi il 30 giugno Ora si prova la retromarcia con estensione agli infermieri Si riaffaccia il tentativo di deregulation per la libera professione intramoenia dei medici pubblici. Mentre col milleproroghe (si veda l'articolo in apertura di pagina) proprio oggi la Camera vota la fiducia anche allo stop dal 30 giugno all'attività intramuraria negli studi privati dei medici, sempre alla Camera, in commissione Affari sociali, è spuntato ieri un emendamento del Pdl al provvedimento sulla governance sanitaria che in pratica liberalizza l'intera partita. Prevedendo anche la libera professione per gli infermieri. Ed è subito scontro politico nella "maggioranza tra diversi" che sostiene il Governo di Mario Monti: la Lega sta col Pdl, tutti gli altri partiti sono contro. La settimana prossima si voterà. «Un blitz, una controriforma, un gravissimo ritorno al passato. Si coprono ancora conflitti d'interesse e di categoria a danno dei cittadini», accusa Margherita Miotto (Pd). «Non vedo perché, mentre con decreto legge si liberalizzano l'economia e le attività professionali, non lo si debba fare anche per i medici. Salvaguardando i pazienti e il loro diritto di scelta. Non difendiamo i medici che rubano», ribatte il relatore, e autore dell'emendamento, Domenico Di Virgilio (Pdl). Mentre il ministro Renato Balduzzi – sostenitore dell'altolà alla libera professione intramuraria negli studi privati – s'è subito mostrato scettico: «La regolamentazione della libera professione dei medici è un tema che ha bisogno dei suoi tempi e non so se sono quelli di un emendamento al Ddl sul governo clinico». L'emendamento (per il testo www.24oresanita.com) ripropone il testo dei due articoli cassati dalle Regioni prima dell'estate perché giudicati invasivi delle competenze locali. E nel nuovo testo le regioni dovranno disciplinare l'intramoenia, ma «nel rispetto» dei principi «fondamentali» scritti nella proposta di modifica. Si prevede prima di tutto che l'intramoenia negli studi privati diventi una forma di libera professione istituzionale. Poi si stabilisce che la libera professione sia compatibile con il lavoro dipendente al di fuori dell'orario istituzionale, in strutture anche esterne alle aziende, ma non convenzionate con il Servizio sanitario. A meno che non si tratti di una specialità che il Ssn non eroga. Gli "obblighi" per le regioni sono: il limite del volume di prestazioni in libera professione - utilizzata anche per ridurre le liste d'attesa - non deve superare quello svolto in attività istituzionale; la definizione delle tariffe con un accordo quadro tra azienda e sindacati; l'assenza di qualsiasi onere per le strutture del Ssn se la libera professione è extra-azienda; il monitoraggio e il controllo sull'attività per garantire il rispetto di tutti i principi e, in caso di violazioni, la disciplina delle sanzioni, fino alla revoca dell'attività. Previsioni analoghe per le professioni non mediche, infermieri in testa. Unica integrazione, l'assimilazione fiscale del reddito ricavato dalla libera professione a quelli di lavoro dipendente. R.Tu. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 CAMICI SUL PIEDE DI GUERRA PER I LIMITI ALL'INTRAMOENIA In studio. Termine al 30 giugno per la libera professione «allargata» IL MILLEPROROGHE Stop all'esercizio della professione anche in strutture fuori dell'azienda ospedaliera di appartenenza e negli studi medici Paolo Del Bufalo Medici sul piede di guerra per il giro di vite sulla libera professione intramoenia. Il decreto Milleproroghe ha limitato al 30 giugno sia la possibilità di esercitarla anche in strutture al di fuori dell'azienda di appartenenza e negli studi medici (la cosiddetta intramoenia “allargata”), sia il tempo che le regioni hanno per realizzare le strutture interne da dedicare a questa attività. E il ministro della Salute Renato Balduzzi ha annunciato due giorni fa che non ci saranno proroghe ulteriori, come invece chiedono i sindacati a gran voce perché, sostengono, senza intramoenia allargata di fatto si toglie la possibilità di esercizio della libera professione. Anaao e Cimo, i maggiori sindacati degli ospedalieri, chiedono un coinvolgimento più diretto dei medici nelle scelte di politica sanitaria perché l'intramoenia è «un diritto dei medici», sostengono. Un diritto che non si può esercitare annullando la possibilità di utilizzare strutture e studi esterni a quelli pubblici, perché non esistono ancora gli spazi necessari all'interno delle aziende per la libera professione in tutte le regioni. Solo la metà infatti ha utilizzato il 100% delle risorse messe a disposizione dalla legge (oltre 800 milioni), ma gli interventi “collaudati” e quindi in funzione sono anche tra queste al 100% solo in Umbria. Eppure la legge dettava tempi massimi di tre anni per l'adeguamento alle sue previsioni. Pena «l'esercizio di poteri sostitutivi fino alla destituzione» dei direttori generali inadempienti e la preclusione per le regioni ai finanziamenti integrativi del fondo sanitario nazionale. Anche la Cgil medici, che appoggia l'iniziativa del ministro di interrompere l'intramoenia allargata, sottolinea però che è necessario dare precise e, questa volta, rigide scadenze alle regioni inadempienti. In effetti l'intramoenia problemi di gestione a livello regionale ne ha, anche al di là della realizzazione delle strutture. Secondo la relazione dell'Osservatorio nazionale sulla libera professione pubblicata a gennaio, la legge del 2007 che regola l'intramoenia è applicata ancora solo a metà, soprattutto per i controlli. Nel 2010 in 9 regioni non sono state avviate misure anti-conflitto di interesse; solo in 11 regioni tutte le aziende riscuotono gli onorari per conto dei medici. Onorari che nel 2010 hanno portato a incassi di circa 1,3 miliardi, di cui poco più di uno è andato ai medici e poco meno di 200 milioni alle strutture del Servizio sanitario da cui questi dipendono. Un costo pro capite di circa 21 euro medi l'anno per i cittadini italiani che la richiedono per poter essere sicuri di avere le cure del medico scelto anche in ospedale, ma spesso anche per bypassare le liste di attesa. Chi sceglie l'intramoenia ottiene una visita e/o una analisi nella maggior parte dei casi entro una settimana (il 70% in media, con punte oltre l'80% per le visite otorinolaringoiatriche e poco più del 60% per le risonanze magnetiche) contro una media per le stesse prestazioni (non in urgenza) che arriva anche a code dai 6 agli 8 mesi per le visite e oltre 10 mesi per la diagnostica e il laboratorio. Nel 2010 poco meno dell'1% delle prestazioni in ricovero è stato eseguito in intramoenia, contro circa il 6-8% di visite specialistiche e esami diagnostici. A livello regionale i record positivi di attesa per visite specialistiche in intramoenia si hanno nelle Marche, dove ad esempio per una visita ortopedica quasi il 70% di richieste viene evaso nello stesso giorno, in Piemonte dove il 100% di risonanze al cervello è in giornata e stesso risultato in Toscana per le Rm alla colonna. Sul versante opposto va male per le visite oculistiche in Umbria, con oltre il 60% di prestazioni che superano i 60 giorni e in Basilicata in cui la stessa sorte tocca al 55% delle Rm alla colonna, al 50% di quelle a cervello e tronco. Anche per l'intramoenia a volte le code si allungano. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 PER ASSICURARE UN MEDICO PREMI SEMPRE PIÙ CARI IL TREND Il maggior numero di richieste di risarcimento danni si concentra al Nord Ma al Centro la copertura costa di più Sara Todaro Nel giro di un anno, a fronte di un aumento di circa l'8% del tasso di rischio clinico ogni 100 medici, il costo assicurativo medio per camice bianco è aumentato a livello nazionale del 23,86% per un totale 4.569 euro a professionista: quasi mille euro in più in soli 12 mesi. Ma le medie dicono poco quando in gioco c'è la necessità degli ospedali di tutelarsi dalle ricadute economiche di veri o presunti errori: c'è medico e medico; c'è paziente e paziente. Così, l'onere per la copertura assicurativa di un ricovero in chirurgia generale è aumentato solo del 5,75% per un valore unitario di 82,22 euro a fronte di un valore medio nazionale di 71,54 euro a degenza, mentre in ostetricia – dove il posto letto in termini di Rc vale la cifra record di 6.739 euro – la copertura assicurativa per ogni singolo nato ha pesato 196,30 euro sulle casse della struttura, con un aumento del 31,36 per cento. A confermare il dilagare del caro-polizza nelle corsie del Ssn è la terza edizione della «Medmal Claims Italia», realizzata dalla società di brokeraggio Marsh su un campione di 80 ospedali pubblici, anticipata nel numero in distribuzione del settimanale «Il Sole-24 Ore Sanità». Lo studio – presentato ieri a Milano dall'autore, Emanuele Patrini (Healthcare Practice Leader Marsh) – prende in esame un totale di circa 28mila richieste di risarcimento a fronte di un totale di 2 milioni e 200mila ricoveri gestiti da 34mila 629 medici e 81mila 187 infermieri. Dai dati è emerso che avvengono 10,15 sinistri ogni cento posti letto, 2,70 ogni mille ricoveri, 17 ogni cento medici, 7,36 ogni cento infermieri. Ancora una volta, la realtà fotografata dalle medie non dà conto della variabilità geografica: gli eventi avversi sono 8,89 ogni cento posti letto al Nord, 11,61 al Centro e 12,12 al Sud; in rapporto ai medici si registrano invece 15,16 eventi avversi ogni cento dottori al Nord, 20,61 al Centro e 15,46 al Sud. La rilevazione conferma i trend e la variabilità regionale già evidenziati nelle due prime edizioni: il maggior numero di richieste di risarcimento danni si concentra al Nord (54,58% del totale analizzato), sempre al Nord si registra il maggior numero medio di richieste per singola struttura (40%). Ma è il Centro a dover versare l'obolo più pesante sul fronte della copertura del rischio. Ogni ricovero costa 80,12 euro contro i 71,43 del Sud e i 74,82 del Nord; ogni dottore spedito in corsia costa 5mila 700 euro: 1.700 euro in più che al Sud; circa mille in più che al Nord. Primati da brivido. Altrettanto elevati sono gli importi liquidati e la tempistica di gestione del contenzioso: nei sette anni sotto la lente è stato chiuso solo il 31% delle richieste di indennizzo, il 45% delle pratiche è ancora in itinere; il 20% s'è perso strada facendo. Per gli 8.725 casi risolti è stato liquidato un valore complessivo di oltre 233milioni di euro, per una media di quasi 27mila euro ad evento. L'evento più costoso in assoluto è stato registrato in un punto nascita e ha meritato 2milioni 124mila euro di risarcimento. Un dato che salta agli occhi specie in questi giorni in cui è riesploso il dibattito sul ricorso al cesareo nelle ostetricie nazionali, oggetto anche di una risoluzione oggi al voto di Montecitorio. Certo è che anche il liquidato medio per un errore nel punto nascita sfonda il muro del suono: 270mila euro, contro i 207mila in chirurgia e i circa 29mila in ortopedia. A far riflettere è anche il trattamento che il caro-polizze riserva agli ospedaletti: nelle strutture di primo livello la copertura assicurativa costa 3mila euro a letto (81,63 euro a ricovero); nei policlinici universitari – dove magari la casistica è più complessa – si spendono almeno 500 euro in meno (66,85 a ricovero). _____________________________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. ’12 OBIETTORI DI COSCIENZA IN CRESCITA: IL MAGISTRATO INDAGA Legge sull'Aborto e Medici obiettori in Corsia ormai arriva il Magistrato . Ginecologi e personale sanitario che rifiutano di prestare la loro opera a donne che richiedono di poter abortire. Così una legge dello Stato, approvata dopo lunghe battaglie, rischia un'attuazione parziale. Incompleta. Fino alla possibilità che le Regioni con i servizi inadempienti debbano rimborsare interventi effettuati altrove o all'estero. È il quadro dipinto dalla «Relazione sull'attuazione della 194 del 1978»: i ginecologi obiettori sono passati, a livello nazionale, dal 58,7% nel 2005 al 69,2% nel 2006, al 71,5% nel 2008 (ultimi dati disponibili). E gli anestesisti, parallelamente, dal 45,7% al 52,6%. Il personale non medico dal 38,6% al 43,3%. Le percentuali di obiettori, tra personale medico e non, sono più marcate al Sud rispetto alla media nazionale. Tra i ginecologi l'obiezione raggiunge l'85,2% in Basilicata, l'83,9 in Campania, l'82,8 in Molise e l'81,7 in Sicilia. Tra gli anestesisti, il 77,8% in Molise, il 77,1 in Campania e il 75,7 in Sicilia. Tra il personale non medico arriva all'87% in Sicilia e all'82 in Molise. Addirittura in alcune realtà esistono aziende ospedaliere prive dei reparti per l'interruzione della gravidanza visto che l'obiezione è scelta dalla totalità del personale. E questo nonostante la legge preveda che l'ente ospedaliero si faccia comunque carico di provvedere alla richiesta della donna che intende abortire. Il rischio illegalità è dietro l'angolo. La relazione non poteva passare inosservata e chiede un chiarimento urgente. Come ha fatto Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata radicale, che ha presentato un'interrogazione urgente al ministro della Salute. Sottolineando che, andando avanti così, si arriverà (ma è già accaduto) all'intervento della magistratura. Come a Messina, dove è stato chiesto il rinvio a giudizio per un medico di guardia del reparto di Ostetricia e ginecologia del Policlinico che si sarebbe rifiutato di assistere una donna che aveva richiesto un aborto terapeutico programmato per le gravi malformazioni del feto. Al momento delle contrazioni, nessuno sarebbe intervenuto a prestarle soccorso. Tutti obiettori. E la donna abortì nel bagno della sua stanza in ospedale. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 feb. ’12 SPECIALIZZANDI SENZA IMMUNITÀ: RISPONDONO DEGLI ERRORI Cassazione. Se prende in carico il paziente il giovane medico risponde degli errori I medici specializzandi che stanno completando la formazione negli ospedali sotto la guida del tutor, se commettono errori professionali dopo aver accettato di occuparsi di un paziente, rischiano l'incriminazione, la condanna penale e anche la condanna al risarcimento dei danni alla parte civile, senza poter invocare a difesa lo status di specializzandi o la responsabilità del tutor. Lo ha statuito la Cassazione (sentenza 6981/12) che ha confermato due mesi di reclusione e a una provvisionale di 50 mila euro per una ex specializzanda del Policlinico di Roma. Il giovane medico aveva accettato di seguire un bambino con problemi di vista, cefalee e vomito ma poi aveva commesso, stando alla sentenza, «macrocopici errori» trascrivendo male nella cartella clinica la diagnosi e senza dare nemmeno rilievo ai sintomi manifestati dal piccolo. In questo modo concorse, insieme all'imperizia di un radiologo, ad aggravare la malattia del bambino, che soffriva di un tumore del quale i due medici non si erano accorti. Per questo l'asportazione avvenne con ritardo causando danni irreparabili. L'imputata si era difesa sostenendo che «l'attività formativa dei medici si svolge sotto la guida dei tutori». I supremi giudici le hanno replicato che «il medico specializzando non è presente nella struttura per la sola formazione professionale, la sua non è una mera presenza passiva, nè lo specializzando può essere considerato un mero esecutore di ordini del tutore anche se con gode di piena autonomia; si tratta di una autonomia che non può essere disconosciuta, trattandosi di persone che hanno conseguito una laurea in medicina e chirurgia e, pur tuttavia, essendo in corso la formazione specialistica, l'attività non può che essere caratterizzata da limitati margini di autonomia in una attività svolta sotto le direttive del tutore». «Ma tale autonomia - prosegue la Cassazione - seppure vincolata, non può che ricondurre allo specializzando le attività da lui compiute; e se lo specializzando non è (o non si ritiene) in grado di compierle deve rifiutarne lo svolgimento perchè diversamente se ne assume le responsabilità». _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 feb. ’12 BIMBI SOVRAPPESO, ECCO I RISCHI Il monito dei medici: più sport, meno cibo-spazzatura I bambini del 2000 sono sempre più grassi: «Circa la metà di quelli obesi presenta già la resistenza all'azione insulinica, più del 12% ha il fegato grasso, il 18% ha la glicemia alta», spiega Sandro Loche, endocrinologo pediatra. Percentuali allarmanti, accentuate dal fatto che si riferiscono a under 11. Ma non solo: «Essere grassi in tenera età - aggiunge il cardiologo Carlo Lai - significa avere un rischio aumentato da 10 a 15 volte di andare incontro, da grandi, al diabete e a malattie cardiovascolari». «Un aspetto poco conosciuto è la relazione tra problemi oncologici e il sovrappeso», puntualizza l'oncologo Alberto Desogus. L'approccio multidisciplinare è, dunque, inevitabile e spiega la presenza al tavolo del dibattito, ospitato alla Fiera e organizzato da Rotary International, Asl 8, Società Italiana di Pediatria e dal Coni, di esperti di varie discipline. La Regione è impegnata in prima linea nella lotta alla malattia del terzo millennio: «Due dei diciotto progetti nell'ambito del piano di prevenzione 2010-12 sono legati alla prevenzione e allo stile di vita. Uno in particolare comprende, oltre la sensibilizzazione al tema, l'implementazione delle ore di educazione fisica», spiega Simona De Francisci, assessore regionale alla Sanità. Lo sport è coinvolto in prima linea: «Mangiare meno e muoversi di più», suggerisce Paolo Bonomo, medico dello sport. In sintonia Gianfranco Fara, presidente del Coni, promotore, in collaborazione con il Comune, di un'iniziativa di alfabetizzazione motoria. «No al cibo spazzatura», ammonisce Angela Quaquero, presidente della Provincia, e «maggior diffusione del cibo salute». Sono intervenuti anche Ugo Storelli, Enrico Tocco, Francesco Loi, Patrizia Zavattari e Giovanna Ghiani. Sara Marci _____________________________________________________________ Libero 25 feb. ’12 ALLARME, I MASCHI ITALIANI CE L'HANNO SEMPRE PIÙ PICCOLO di GIORDANO TEDOLDI Il pene degli italiani perde un cm ogni 50 anni Colpa di smog e obesità. Ma è una ritirata strategica Non è piacevole parlare di lui, figuriamoci con lui. Lui è un tipo che non ama le parole, preferisce l'azione, e se mancano i compagni di gioco fa da sé. Ma stavolta dovrà dirmi cosa ne pensa di questa storia che arriva dall'università di Padova, secondo la quale lui, e tutti quelli come lui, si stanno rimpicciolendo. Lui è l'organo riproduttivo maschile, meglio noto come pene, e ancora meglio noto come, vabbè, lo sapete. Il dipartimento di patologia riproduttiva del suddetto ateneo ha effettuato uno studio su un campione di 2019 maschietti di 19 anni. Non uno studio particolarmente elevato, si è concentrato a mezz'altezza, proprio là dove se ne sta lui. L'ha misurato. Orrore. Nel 1948 lui era lungo in media 9,7 cm, nel 2001 era sceso 9, adesso ha perso ancora qualche millimetro, siamo a 8,9 cm. Di questo passo, tra qualche generazione di lui resterà un ricciolino. Così ne ho parlato direttamente con lui, cominciando col tranquillizzarlo perché pare che vi sia un rapporto tra obesità e diminuzione fallica (questione di ghiandole e interferenze della ciccia sulla produzione ormonale): da oggi niente più fast food, dieta ferrea. «A dirti la verità non sono molto allarmato», mi ha detto lui, sfoggiando orgoglio, «del resto le donne sai come dicono: le dimensioni non sono importanti». Sì, ma sai anche tu che è una balla. «Certo che lo so, infatti non mi risulta che esistano vibratori di 5 cm». Non essere scurrile. «Ah per favore, se dobbiamo parlare di questa cosa, diciamo tutto. E allora io ti dico che secondo me l'obesità, le perturbazioni ghiandolari durante la crescita, la struttura scheletrica, tutte quelle cose di cui parlano i dottori di Padova, non sono vere. Noi ci stiamo ritirando». Sì, di qualche millimetro all'anno. «No, non hai capito, parlo in termini bellici. È solo una ritirata tattica, fa parte della nostra strategia. Far imbaldanzire la femmina per poi tornare a castigarla con più forza di prima». Senti, o la pianti con questo linguaggio insopportabilmente... «Fallocentrico?». Sì, esatto. «Che vuoi, l'autostima è importante. Lo diceva anche Aristotele, bisogna amare se stessi per amare gli altri. Non posso soddisfare la vagina se non mi piaccio almeno un po'». Ok, torniamo alla questione della ritirata tattica. «Dunque, ammetterai che in questo terzo millennio, dopo tanti strepiti, finalmente le donne contano quasi quanto voi uomini». Come quasi? Siamo alla pari. «No, non esattamente, lo vedi quanto sono insoddisfatte, stanno sempre li a lamentarsi che gli manca qualcosa, e non fa molta differenza se questo qualcosa è una borsetta di Prada o un'equiparazione di stipendio al collega maschio«. Dio mio, sei veramente un troglodita. E che c'entra tutto questo con la faccenda che tu ti stai rimpicciolendo? Mi sembra che sottovaluti il problema. «Non sottovaluto un bel niente, e ti ripeto che è una cosa voluta. Adesso è inutile combattere, mettersi lì a dire ce l'ho duro, tengo una mazza tanta, e altre amenità che andavano bene ai tempi degli antichi romani. Ora le donne bisogna aggirarle, la battaglia del sesso si vince facendo avanzare queste furie scatenate, lasciamo che saccheggino, distruggano, travolgano». Mi sembri il generale Kutuzov, mi sto seriamente preoccupando. «Ma non capisci? Cosa sarà mai qualche millimetro perso, di fronte al beneficio guadagnato?». E quale sarebbe questo beneficio guadagnato? «Calmare le erinni! Placare le diavolesse assetate di sangue! Dico, credi che ci sia una qualche relazione tra la lunghezza del pene e l'avere una discussione ragionevole con una donna?». No, non credo. «Infatti non c'è. Puoi anche avere il pene lungo due metri, ma credimi, alla fine, dopo la prima settimana di sesso furibondo, lei ti chiederà lo stesso di accompagnarla a fare shopping». Sì, è probabile, pare che lo shopping sia un atavismo inestirpabile nella femmina. «E allora? Non capisci che l'unica soluzione è spiazzarle? Prenderle in contropiede? Ci dicono che siamo maschilisti, fallo- centrici, che abbiamo l'istinto dello stupratore potenziale? Eh no cara, un corno, al contrario: mi sto ridimensionando, e non lo puoi negare. Piuttosto, non sarebbe niente male se anche tu, in segno di solidarietà, ti stringessi un pochettino». _____________________________________________________________ Il Giornale 25 feb. ’12 ALTOLÀ ALLA NEUROSCIENZA, STIA FUORI DAI TRIBUNALI I test si limitano a misurare. E la quantità non basta per scoprire la verità d i Vincenzo Vitale Ancora una volta - e sotto nuove forme - sembra prendere corpo la possibilità di giungere nel corso dei processi penali ad un accertamento scientifico, in quanto del tutto inoppugnabile, della verità dei fatti posti ad oggetto delle accuse contestate all'imputato. Non si tratta della vecchia, ed in fondo ingenua, idea che sta a base della macchina della verità le cui imprese hanno a volte dato vita a memorabili sequenze cinematografiche americane, ma di un test impostato da neuroscienziati e adoperato perla prima volta nei giorni scorsi presso il Tribunale di Cremona. Si trattava di un caso di «stalking», imputato al datore di lavoro che avrebbe importunato una sua dipendente stagista. Ora, invece di operare attraverso il solito colloquio con la ragazza, usando i normali test psicodiagnostici, le si chiede di classificare nel modo più veloce possibile nelle categorie «vero-falso» alcune affermazioni che appaiono sullo schermo di un computer: così, ad una risposta molto rapida e corretta corrisponderà un ricordo veritiero (che si porrà alla base della condanna dell'imputato), mentre ad una scorretta o leggermente meno rapida corrisponderà la necessità di superare un «conflitto cognitivo» da parte della ragazza e quindi un ricordo non veritiero (che condurrà invece alla assoluzione). Tutto bene allora? Non proprio. Infatti, molte sono le perplessità che un tale metodo suscita. Innanzitutto, esso non supera certamente il tradizionale modo di procedere del sapere scientifico che, in quanto «misurante», si pone sul piano «quantitativo» e non «qualitativo». La scienza positiva infatti ci dirà sempre la «quantità» delle cose investigate e, se si vuole, il «come» dei fenomeni: mai il perché autentico ed il loro senso complessivo. In una testimonianza, ciò è assolutamente insufficiente rispetto alfine che invece si vorrebbe raggiungere, che è quello di valutarne la reale attendibilità: si tratta perciò di un metodo emotivamente affascinante, ma sostanzialmente inutile. Da un secondo punto di vista, deve notarsi come ciò che viene a galla attraverso quell'esperimento non è detto sia davvero la verità dei fatti, bensì ciò che il subconscio del soggetto si è rappresentato come tale: vale a dire l'insieme delle sue rappresentazioni oniriche, delle sue paure, dei suoi incubi, dei suoi desideri. Tutto, per dir così, materiale «di risulta» che non solo nulla dice sull' attendibilità del testimone, ma anzi complica non poco, intorbidandolo, il quadro probatorio complessivo. Il fatto è probabilmente che la cultura giuridica contemporanea - forse troppo influenzata dalle intemperanze metodologiche e dai facili trionfalismi di quella pseudo- scienza che è la psicologia - ha dimenticato le proprie stesse origini. Altrimenti, ricorderebbe che il modo più sicuro per vagliare il vero ed il falso nell'ambito processuale rimane quello di ragionare sui dati oggettivi, su quelli indiscutibili, di valutarne la compatibilità reale con le dichiarazioni rese dai testi e dagli altri attori del processo, operando in tal modo una sintesi certo difficile e non completa, ma di sicuro più affidabile di quanto possano essere indagini del tipo di quella descritta. Ma, si sa: esercitare la ragione è la cosa più facile, perché nulla è più a disposizione di tutti, ma nello stesso tempo più ardua, perché esigente e senza sconti. _____________________________________________________________ ItaliaOggi 21 feb. ’12 UNA SANA EFFICIENZA Diana Mortarini Efficienza del servizio e qualità della prestazione erogata, assistenza post ricovero e strutture all'avanguardia sono tutti ingredienti fondamentali per fare di un istituto sanitario un'eccellenza a livello nazionale e internazionale. Ma tutto questo non può prescindere da un'attenta valutazione economico-finanziaria dei costi sostenuti e di quelli messi a budget. L'Istituto Mediterraneo per i Trapianti e le Terapie ad Alta Specializzazione di Palermo (Ismett), una struttura pubblica che fa parte del Servizio Sanitario Regionale della Sicilia, si era dotato già da tempo di processi informatizzati, come per esempio il sistema di telepatologia e la cartella clinica elettronica, per garantire la miglior assistenza e sicurezza al paziente. Nato nel 1997 come progetto di sperimentazione gestionale grazie a una partnership tra la Regione siciliana e la University of Pittsburgh Medical Center, l'Istituto punta a essere riconosciuto come il centro di riferimento nel campo dei trapianti e delle terapie ad alta specializzazione in tutto il bacino del Mediterraneo. A questo scopo si è reso tuttavia necessario disporre di un sistema in grado di ottimizzare la gestione dell'enorme mole di dati già disponibili per poter condurre una più precisa analisi anche a livello finanziario. «L'obiettivo era quello di avere maggiori dettagli su ogni singola spesa», ha spiegato Astrid Pietrosi, responsabile per la divisione programmazione e controllo di gestione di Ismett. La scelta è ricaduta sul sistema di business intelligence evoluta Cognos, firmato Ibm, che ha reso possibile l'integrazione di più modelli di cost accounting collegati tra loro (contabilità analitica a costi diretti e a costi pieni, sistema di activity based costing orientato al singolo paziente e sistema di budgeting) in una logica legata principalmente al costo reale di produzione sostenuto per ogni singolo episodio di ricovero. Lo strumento introdotto, ha spiegato Pietrosi, «ci permette di rivedere la stessa spesa sotto diversi profili: lo stesso costo può essere legato infatti al centro di costo, al centro di responsabilità ma anche all'episodio di cura, alla singola procedura, alla specialità di riferimento diretta o trasversale, come la diagnostica, persino a un evento clinico come un'infezione o una complicazione post intervento». Il vantaggio è quello di poter combinare il mondo amministrativo con quello sanitario per fornire risposte precise agli utenti dal punto di vista sia clinico sia economico. «Conoscere le reali risorse utilizzate nelle attività cliniche e gli output ottenuti ci permette a posteriori una revisione critica dei processi seguiti, fondamentale per la ricerca continua dell'ottimizzazione delle prestazioni erogate», ha spiegato la responsabile per la divisione programmazione e controllo di gestione dell'istituto. Ogni dipendente può dunque usufruire di informazioni relative alla produzione e alla valorizzazione delle attività erogate e capire se il servizio è stato reso con l'efficienza richiesta e messa a budget. «Queste informazioni permettono di confrontarsi continuamente, di mettersi in gioco e di sviluppare un sistema di learning by doing focalizzato al miglioramento continuo», ha specificato Pietrosi. Assumendo il paziente stesso come «aggregato di costi», al quale è attribuito in modo univoco e diretto il valore delle risorse assorbite nei diversi eventi sanitari tramite il sistema di business intelligence, ogni singolo episodio di ricovero diviene quindi confrontabile con il ricavo da drg (diagnosis related groups). Si tratta di un sistema che permette di classificare tutti i pazienti dimessi da una struttura ospedaliera pubblica in gruppi omogenei per assorbimento di risorse impegnate. A parità di drg (attribuito a ogni paziente tramite un software) e giorni di degenza, ogni struttura sanitaria della stessa regione riceve lo stesso importo. «La nostra business intelligence permette una immediata evidenza delle relazioni tra costo e ricavo per ogni drg, evidenziando dove il consumo delle risorse è adeguato e dove invece non è interamente coperto dal ricavo drg». Il sistema attivo attualmente all'interno dell'istituto, ha concluso la dottoressa Pietrosi, consente inoltre di ottenere informazioni non solo economiche ma anche relative ad aspetti cinici legati al controllo dei processi e dell'output. «Oggi siamo in grado di conoscere con estremo dettaglio i dati sull'utilizzo delle sale operatorie, i tempi di codifica delle schede di dimissione ordinaria e quelli di riabilitazione e refertazione, l'evoluzione del costo di una procedura negli anni e così via», ha concluso Pietrosi, «tutto ciò permette dí capire come evolvono anche gli aspetti organizzativi e dove occorre concentrarsi per ottimizzare uno o più processi». _____________________________________________________________ Tst 22 feb. ’12 LE IMPALCATURE "SMART" RIFANNO OSSA E ARTERIE Cellule staminali del nostro corpo impiantate su «scaffol ds», impalcature bioartificiali, in cui i fattori di crescita - le proteine capaci di stimolare la proliferazione e il differenziamento cellu-lare - guidano la rigenerazione di ossa, cartilagini e arterie, mandando in soffitta protesi, valvole cardiache e «stent». Si tratta di un lavoro multidisciplinare di ingegneria tissutale, associata alla medicina rigenerativa, capace già oggi di riprodurre parti dell'organismo e doma-ni, probabilmente, organi interi. L'ingegneria tissutale è la nuova frontiera della biomedicina, basata su una filosofia rivoluzionaria, quella, appunto, della «riproduzione» biologica. Si tratta di un'innovazione globale con vantaggi incommensurabili per la vita delle persone: basta pensare all'azzeramento dei rischi di rigetto o alla possibilità di non essere più costretti ad assumere farmaci anticoagulanti. E le prospettive sono esaltanti. Ogni malattia che dia luogo alla degenerazione dei tessuti, infatti, è una potenziale candidata per le tecniche dell'ingegneria tissutale, dalle malattie cardiache a quelle neurodegenerative, dalle ustioni ai traumi, dal diabete al cancro. E intanto la realizzazione di valvole cardiache di nuova generazione, l'innesto di vasi sanguigni, la rigenerazione del tessuto muscolare cardiaco, la riparazione di ossa e cartilagini sono già potenzialmente una realtà. E l'Italia, in questo .settore della ricerca, non è affatto indietro. Nel Laboratorio di Ingegneria Tissutale dell'Università Campus Bio-Medico di. Roma, per esempio, si stanno mettendo a punto nuovi «scaffolds intelligenti», costruiti con materiali bioistruttivi, capaci di reclutare direttamente nell'organismo umano lesionato le cellule staminali per rigenerare rapidamente il tessuto. E' un'innovazione di grande importanza, perché in grado di allargare decisamente i vantaggi terapeutici, riducendo allo stesso tempo sia i tempi di guarigione sia i costi dell'intervento. Un fattore, quest'ultimo, che ha finora decisamente ristretto il campo d'azione dell'ingegneria tissutale anche nei centri già attrezzati. Uno degli approcci più diffusi è al momento quello della terapia cellulare: le staminali adulte autologhe, grazie alla loro multipotenza e alla presenza in molti tessuti umani (midollo e sangue in primis), se opportunamente guidate, possono differenziarsi nelle cellule del tessuto desiderato, riparando la lesione. Ma i «trials» clinici, finora, non hanno portato ai risultati desiderati, dimostrando che le cellule staminali, da sole, spesso non bastano a riprodurre un tessuto. E' per questo che la ricerca più avanzata si è indirizzata all'approccio degli «scaffolds», le strutture artificiali in materiali biocomp atibili e bioassorbili, capaci di mimare la matrice extra-cellulare e di guidare la formazione di tessuti in 3D. Il percorso si sviluppa in più tappe. Prima vengono isolate le cellule dal tessuto del paziente, poi queste vengono «coltivate» in vitro prima di essere seminate nello «scaffold» stesso, dove è ancora necessario il condizionamento in vitro per ottenere il tessuto desiderato. Soltanto allora avviene l'impianto nel paziente (in sala operatoria). Un procedimento della durata di almeno un mese, tempo che rischia, però, di essere esiziale per alcune patologie e che si ripercuote inevitabilmente anche sui costi. Ecco perché oggi questo approccio rivoluzionario non rientra nell'ordinaria pratica clinica in nessun Paese del mondo. E' per questo motivo che nel laboratorio del Campus Bio-Medico un team di chimici, biologi e ingegneri, in stretta collaborazione coni clinici, sta concentrando i propri sforzi per la costruzione di «scaffolds intelligenti»: una volta «cosparsi» di cellule staminali prelevate dal paziente, possono essere direttamente inseriti nel «sito» dell'organismo dove è necessario rigenerare il tessuto mancante oppure danneggiato. Un'impalcatura in cui le staminali introdotte fanno da polarizzatori di altre cellule presenti nel corpo, guidando direttamente nell'organo lesionato il processo di rigenerazione dei tessuti. Si tratta di un piccolo-grande miracolo della ricerca italiana che potrebbe presto regalare un futuro per milioni di pazienti. _____________________________________________________________ Le Scienze 23 feb. ’12 LA PERFETTA SALUTE DEL CROMOSOMA Y I processi di degenerazione che ha subito nel corso dell'evoluzione - e che avevano fatto supporre che fosse destinato a "estinguersi" in tempi relativamente rapidi in seguito alla perdita di tutti i suoi geni - in realtà non sono più attivi da ben 25 milioni di anni Il cromosoma Y, dato quasi per spacciato e in via di "estinzione" da ricerche condotte negli anni scorsi, è in perfetta salute, pronto ad affrontare un lungo e prospero futuro. A rivelarlo è una nuova ricerca condotta da biologi del Whitehead Institute, della Washington University School of Medicine e del Baylor College of Medicine, che firmano un articolo su "Nature". Quando è stato scoperto che nel corso degli ultimi 300 milioni di anni il cromosoma Y ha perso centinaia di geni, si è diffusa l'idea che questa tendenza fosse ancora in atto, tanto da concludere che il cromosoma Y prima o poi sarebbe inevitabilmente rimasto del tutto privo del suo contenuto genetico. "Negli ultimi dieci anni, questa storia dell'Y che sta scomparendo ha avuto una notevole presa sul pubblico", dice David Page, che ha diretto lo studio. "Questa idea è stata così pervasiva che ci ha impedito di passare ad affrontare le questioni davvero importanti sull'Y."   Per nulla convinto della validità dell'ipotesi, Page ha quindi deciso di controllare l'effettivo stato di salute del cromosoma Y. I ricercatori del suo laboratorio hanno interamente sequenziato il cromosoma Y del macaco rhesus, una scimmia del Vecchio Mondo il cui percorso evolutivo si è separato da quello degli esseri umani circa 25 milioni di anni fa, per poi confrontarlo con le sequenze dei cromosomi Y dell'uomo e dello scimpanzé. E da questo confronto, pubblicato questa settimana nell'edizione online di "Nature", è emersa una notevole stabilità genetica dei cromosomi Y di umani e macachi in tutti gli anni successivi alla loro separazione evolutiva. Prima di diventare cromosomi sessuali specializzati, X e Y costituivano una normale, identica coppia di autosomi come le altre 22 coppie di cromosomi umani. Per conservare la diversità genetica ed eliminare le mutazioni potenzialmente dannose, le coppie di autosomi si scambiano geni in un processo denominato crossing over.  Circa 300 milioni di anni fa, un segmento del cromosoma X ha smesso di operare questo processo con l'Y, provocando in esso un rapido decadimento genetico. Nel corso delle successe centinaia di milioni di anni, altri quattro segmenti dell'X hanno cessato di scambiarsi geni con l'Y, che ha subito così una estesa perdita di geni: l'Y umano conserva appena 19 degli oltre 600 geni che condivideva con il partner autosomico ancestrale. "Nella fase iniziale l'Y era in caduta libera, e i geni sono stati persi a un ritmo incredibilmente rapido", dice Page. "Ma poi si sono stabilizzati, e da allora va tutto bene." L'analisi ha infatti mostrato che negli ultimi 25 milioni di anni  il cromosoma Y del macaco rhesus non ha perso un singolo gene ancestrale e che quello dell'uomo, nello stesso periodo, ne ha perso uno solo, una perdita verificatasi, peraltro, in un segmento che comprende solo il 3 per cento dell'intero cromosoma.  Grazie a questi dati, i ricercatori descrivono l'evoluzione dell'Y come un percorso segnato da periodi di decadimento rapido seguiti da una conservazione rigorosa. _____________________________________________________________ Le Scienze 22 feb. ’12 E IL MICROBO DISSE: CAMBIO SPECIE Perché due popolazioni identiche diano origine a specie differenti è in genere necessario che vi sia qualche tipo di barriera che le separi per un tempo sufficiente. Ma non sempre le cose vanno così, come testimonia una ricerca condotta su due popolazioni di microrganismi che hanno iniziato a evolversi in specie diverse nonostante continuassero a condividere lo stesso habitat e talora si incontrassero scambiandosi perfino alcuni geni. Il tutto sotto gli occhi dei ricercatori. A sancire il primo esempio ben documentato di speciazione simpatrica in un microrganismo è uno studio condotto da biologi dell'Università dell'Illinois, che riferiscono la scoperta in un articolo pubblicato sulla rivista "PLoS Biology".   © Dr. Terry Beveridge/Visuals Unlimited/Corbis La speciazione simpatrica - in cui due popolazioni di uno stesso lignaggio divergono in due o più specie in assenza di barriere fisiche o meccaniche che le tenga separate - è particolarmente difficile da dimostrare, e questo è tanto più vero quando si ha a che fare con microbi. "Una delle grandi questioni, da Darwin in poi, è come divergano le specie se vivono insieme", spiega Rachel Whitaker, che ha diretto lo studio. "Alla questione, in realtà, non è stata data una risposta perfettamente soddisfacente neppure per i macro-organismi studiati per centinaia di anni."  Nel caso dei batteri e degli archea, lo studio si complica ulteriormente per le numerose modalità con cui vengono condivise le informazioni genetiche. Dato che i microrganismi si riproducono generando cloni perfetti o quasi perfetti di se stessi, se non intervenissero altri fattori la loro diversità genetica sarebbe piuttosto bassa, risultato solo di alcuni errori di copiatura e di mutazioni casuali. In realtà, essi possono anche collegarsi tra di loro scambiandosi geni, acquisire nuovi geni da virus che infettano o anche "risucchiare" elementi genetici casuali dall'ambiente. Prima che venisse sviluppata la tecnologia in grado di analizzare il patrimonio genetico dei singoli microrganismi, popolazioni oggi ben distinte apparivano del tutto identiche e non si era neppure in grado di distinguere batteri e archea, che oggi sono considerati un dominio della vita del tutto a parte, distanti dai batteri tanto quanto lo sono le piante e gli animali.  Whitaker e colleghi hanno focalizzato la loro attenzione su Sulfolobus islandicus, un organismo termofilo appartenete agli archea, ed è uno dei pochi microrganismi che vivono in ben definite popolazioni isolate all'interno di sorgenti calde geotermiche. "Stiamo guardando un ambiente che non è molto complesso in termini microbici", aggiunge Whitaker. "Non sono molti gli organismi in grado di viverci, e quelli che possono farlo non possono muoversi molto spesso." Sequenziando i genomi di 12 ceppi di S. islandicus provenienti da un'unica sorgente calda della regione vulcanica di Mutnovsky, in Kamchatka, i ricercatori sono riusciti a ricostruire la storia genetica di ciascuno dei ceppi, scoprendo che i ceppi si ripartivano in due ben distinti gruppi. I ricercatori hanno anche osservato che i membri di uno stesso gruppo si scambiavano geni più frequentemente del previsto, mentre lo scambio fra due membri di gruppi diversi non solo avveniva molto più di rado, ma tendeva a diminuire sempre più con il passare del tempo. Per quanto le differenze tra i due gruppi fossero lievi, era chiaramente in corso un processo di speciazione, tanto da poter dire che i due gruppi erano alla fine già due specie separate. Analizzando ancor più da vicino i modelli di cambiamento, i ricercatori hanno visto un mosaico delle differenze lungo del cromosoma, con vaste "continenti" di variazione e piccole "isole" di stabilità. Queste isole, osservano i ricercatori, rappresentano probabilmente le regioni che sono sotto pressione selettiva, esercitata da qualcosa nell'ambiente in grado di eliminare i microrganismi che non hanno questi geni o gruppi di geni. Le regioni variabili sono invece più fluide, con geni che vanno e vengono per ricombinazione e le mutazioni di crescente diversità. "Quelle che vediamo come due specie diverse differiscono per lo 0,35 per cento in tutto il genoma, che è circa un terzo della distanza tra uomo e scimpanzé", osserva Whitaker, rilevando che i due distinti gruppi di microbi sono di alcuni "ordini di grandezza" più simili tra loro rispetto ai gruppi normalmente considerati specie separate. "Questo significa che esiste un numero di specie di microbi di qualche ordine di grandezza più grande di quanto abbiamo mai pensato. E' un po' sbalorditivo." _____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 feb. ’12 I «TURNISTI»SONO PIÙ ESPOSTI AL DIABETE Una proteina che favorisce i chili di troppo Dieta disordinata e obesità le cause L a dieta scombinata di molti turnisti deve essere considerata una nuova forma di rischio professionale. Il lavoro che costringe a stare svegli quando gli altri riposano oltre a sballare l'orologio biologico crea confusione nel rapporto col cibo, e questo spesso si traduce in un incremento del peso e del rischio di ammalarsi di diabete: lo dimostra una ricerca pubblicata sulla rivista PLoS Medicine, secondo cui il pericolo di diabete sale di quasi il 60 per cento se si fanno i turni per oltre vent'anni. Lo studio è stato condotto da An Pan, nutrizionista dell'Università di Harvard, analizzando i dati di oltre 170 mila infermiere che hanno partecipato a due Nurses' Health Study, indagini epidemiologiche coordinate da Harvard attraverso cui è stata raccolta un'enorme quantità di informazioni sulla salute femminile e i fattori di rischio che la minacciano. Pan stavolta ha analizzato la correlazione fra il fare spesso i turni di notte (almeno tre volte al mese) e lo sviluppo di diabete, misurato attraverso test ripetuti ogni tre, quattro anni nell'arco degli oltre 20 anni in cui sono state seguite le partecipanti. Il risultato è chiaro: all'aumentare degli anni durante i quali le infermiere avevano fatto i turni di notte, cresceva anche il rischio di ammalarsi di diabete. Le turniste per oltre vent'anni, ad esempio, avevano una probabilità di diabete del 60 per cento più alta rispetto a chi non faceva turni. Il pericolo di diabete è risultato legato a doppio filo con il peso in eccesso e diete «sballate» proprio per colpa dei turni. In un editoriale che accompagna l'articolo Mika Kivimaki, epidemiologo dell'University College di Londra, commenta: «Il lavoro a turni è molto frequente, si stima che interessi circa un quinto dei lavoratori in tutta Europa. Per questo, se come pare sempre più evidente è connesso a un maggior rischio di patologie serie come il diabete, è opportuno pensare a strategie che migliorino la qualità della vita dei turnisti. Le cause che lo rendono "pericoloso" risiedono nel fatto che i turni interferiscono con il normale ciclo sonno-veglia regolato dal nostro orologio biologico: sappiamo che questi squilibri ad esempio facilitano la resistenza all'insulina e aumentano l'appetito e la tendenza ad accumulare chili di troppo, ma anche che i turnisti mediamente sono più sedentari. Tutto questo incide sulla probabilità di sviluppare il diabete». L'esperto fa notare che la dieta dei turnisti è spesso molto peggio di quella degli altri lavoratori, anche perché c'è un maggiore ricorso ai cibi spazzatura: molti turnisti portano con sé uno snack per spezzare la fame che può sorprenderli mentre sono svegli di notte, ma la probabilità che si tratti di uno spuntino sano sono minime. «Ovviamente è impensabile eliminare i turni di notte in una società come la nostra, che vive 24 ore su 24. Però dati come questi spingono a pensare a modifiche che possano ridurre l'impatto dei turni sulla salute dei lavoratori, ad esempio attraverso un attento studio delle rotazioni e degli orari, ma anche tramite una migliore educazione alimentare o "diete da turnisti" appositamente pensate per chi lavora spesso di notte», conclude Kivimaki. Alice Vigna _____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 feb. ’12 PENSARE TROPPO ALLA MALATTIA FA AMMALARE ANCHE I FAMILIARI L' impatto del tumore incide non solo sulla vita del malato: chi si prende cura di lui viene messo a dura prova dal punto di vista psicologico. L'assistenza ai pazienti oncologici comporta infatti nei familiari lo sviluppo di elevati livelli di stress, che concorrono all'insorgenza e al mantenimento di disturbi somatici invalidanti. La presenza di disagio psicofisico deriva dall'atteggiamento che i cosiddetti caregiver assumono di fronte alla malattia, a sua volta influenzato dalle strategie di risposta al problema utilizzate, dal giudizio, dalla valutazione e dal senso dato alla propria esperienza. A tale proposito, studi recenti dimostrano come il «rimuginio», cioè il pensare in modo ricorrente e prolungato a quanto di negativo potrà accadere, giochi un ruolo determinante nello sviluppo dei disturbi sia psicologici che organici. La Fondazione Ant Italia Onlus (che dal 1985 a oggi ha assistito gratuitamente a domicilio circa 87 mila di tumore in 9 regioni), in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia dell'Università di Bologna, ha voluto indagare questo aspetto e il suo impatto sulla salute psicofisica dei familiari che si prendono cura dei pazienti oncologici assistiti a domicilio. La ricerca ha evidenziato che nei caregiver, il rimuginio è davvero un attivatore potenziale di malattia. La ricerca è stata condotta su un campione sperimentale costituito da 107 familiari (77 femmine e 30 maschi) di pazienti oncologici in assistenza domiciliare. Ciascuno è stato valutato due volte: all'inizio dell'assistenza domiciliare Ant e circa 3 settimane dopo. A tutti i sono stati sottoposti, sia nella prima che nella seconda valutazione, una breve scheda socio-anagrafica e i questionari self-report (cioè di autovalutazione). Il dato più significativo emerso dalla ricerca è che il livello di rimuginio risulta essere molto elevato nei caregiver e diventa un elemento significativo per capire in anticipo se e come si svilupperanno i sintomi di una malattia fisica e persino il grado di depressione di chi assiste un malato di tumore. «Questi risultati hanno un grande valore pratico e operativo — dicono gli esperti di Ant —: non va dimenticato infatti che, se il familiare si ammala, invece di risultare una risorsa finisce col poter rappresentare un'ulteriore aggravante, ostacolando il percorso di riabilitazione oncologica. In quest'ottica sarebbe auspicabile proporre interventi di sostegno specifici per tale categoria di caregiver a rischio». E sostegno all'attività delle famiglie che si prendono cura dei malati, soprattutto di quelli che non potranno più guarire, torna a chiedere anche la Federazione Cure Palliative (FedCP) con una raccolta di 30 mila firme. La petizione sarà presentata ai ministri della Salute e del Lavoro e Politiche sociali, oltre che ai Presidenti delle Giunte regionali, per chiedere «risposte urgenti, concrete ed efficaci ai cittadini anche attraverso l'istituzione di un bonus mensile che consenta a queste famiglie, in integrazione alla Legge 104, di attuare la loro coraggiosa scelta». Ruggiero Corcella