RASSEGNA STAMPA 17/07/2011 TAGLI UNIVERSITÀ E POI? PRIMA SI PENSI AI RISPARMI ALMALAUREA:VA BENE IL MERITO MA DEVE CRESCERE IL LIVELLO MEDIO 2011: FUGA DAGLI ATENEI IL CROLLO DELLE ISCRIZIONI UNIVERSITÀ, L’ERA DELLE RIFORME I DOTTORI POCO SAPIENTI DI MARIA STELLA GELMINI UNIVERSITÀ, SASSARI MEGLIO DI CAGLIARI TUTTE DOPO TRIESTE TALENTI? ROMA VALE ATENE UNIVERSITÀ, 12 MILA ASSEGNI PER STUDENTI MERITEVOLI QUANTO COSTA L'UNIVERSITÀ LAUREA MA QUANTO MI COSTI PER I NEOLAUREATI MENO SOLDI IN BUSTA TESI SCOPIAZZATE DUE «DOTTORI» SMASCHERATI DAL PC I MATURI SCELGONO IL PUBBLICO RICERCA: DALLA PUBBLICAZIONE ALLA TECNOLOGIA L'ANTICHITA' STUDIATA IN 3D PER L'ENERGIA PICCOLO È BELLO PICCOLE DIGHE CRESCONO ADDIO ALL'ATOMO, TOKYO ACCELERA ADDIO ATOMO: DALLA PADELLA ALLA BRACE LONDRA: AL POSTO DELLE FONTI FOSSILI ATOMO E TANTE PALE EOLICHE" BERLINO TAGLIA LE RINNOVABILI: IMPIANTI A CARBONE L'APPRENDISTATO ORA APRE ALLA P.A. SCOPERTE LE ONDE A SENSO UNICO SMEMORATI GRAZIE A INTERNET IL WEB FA IMPIGRIRE IL CERVELLO IL NEUROLOGO: IL BAGAGLIO MENTALE NON VA DEPOSITATO IN UN ARCHIVIO ITALIA SENZA LEGALITÀ E SENZA RICAMBIO INTERESSE COLLETTIVO, QUELLA VIRTÙ PERDUTA L'INCHIOSTRO DIVENTA LUCE ========================================================= I MEDICI DICONO SÌ ALLA LAUREA PIÙ VELOCE AOUCA: IL MEDICO PER GLI STUDENTI SPECIALIZZANDI, LA GIUNTA STANZIA OLTRE 3 MILIONI ASL8-AOUCA: PARTE LO SCREENING CONTRO IL TUMORE AL SENO ATTILIO MURRU È IL NUOVO DIRETTORE DELL' ASL DI LANUSEI SANITÀ, SÌ ALLA “BOZZA” DI RIFORMA MA È POLEMICA SANITÀ, PASSA UNA RIFORMA A METÀ DA LUNEDÌ IL CONTO DEL TICKET SALE A 46 EURO LIORI: DIREMO SÌ AI TICKET LIORI: TICKET, NO DELLA REGIONE «IN SARDEGNA I TICKET PIÙ ALTI D'ITALIA» PRIMO COMANDAMENTO: NON AMMALARSI TEST DI COMUNICAZIONE PER MEDICI MEDICINA: UN ROBOT INNOVATIVO PER LA NEUROCHIRURGIA BIMBI, OBESITÀ, SOTTO LA LENTE LE REGOLE D'ORO PER SALVARSI DAI FULMINI LO IODIO? A TAVOLA CE N'E' PIU' CHE IN SPIAGGIA MEDICINA RIGENERATIVA: IL FUTURO PASSA DAI DENTI TUMORI AL SENO: MENO BISTURI CARDIOCHIRURGHI SOTTO ACCUSA UNA VALIDA CURA PER I DIABETICI: LA CHIRURGIA STRESS POSTRAUMATICI: PROGRESSI PRIMA DI FREUD LA GUERRA DEI 30 ANNI CONTRO VIRUS E PREGIUDIZI L'EMPATIA VIAGGIA SULLA RETE MA L'EPIDEMIA NON E ANCORA SCONFITTA IL MAGNETISMO DEI BATTERI AL SAN RAFFAELE FINITA L’ERA DON VERZÉ L’EX UFFICIALE DELLA FINANZA NELL’EX IMPERO DI DON VERZÉ UNA CORRELAZIONE TRA TELOMERI E RISCHIO DI ENFISEMA COME TI RISCRIVO TUTTO IL GENOMA LEPTINA: L'ORMONE ANTIOBESITÀ UN TEST SULLA SALIVA PER SVELARE LA CELIACHIA NASCOSTA «IO, CHIRURGA SARDA AL CENTO PER CENTO» ========================================================= _________________________________________________ Il Riformista 16 lug. ’11 TAGLI UNIVERSITÀ E POI? PRIMA SI PENSI AI RISPARMI La drammatica situazione economica del Paese, richiederà in ogni caso, e con qualsiasi governo, tagli decisi alla spesa pubblica. In queste condizioni non ha senso cullarsi sugli slogan della intoccabilità dei fondi per l'università e la ricerca, come ha fatto finora l'opposizione di sinistra. È il momento in cui anche la sinistra dovrà chiedersi se sono possibili risparmi di spesa da parte del sistema universitario, o, quanto meno, quali provvedimenti siano necessari perché gli inevitabili tagli non danneggino il sistema universitario. Purtroppo cominciamo male, perché la riforma Gelmini, che avrebbe avuto un costo tollerabile a finanziamenti costanti, costringerà invece le università a bloccare le assunzioni di giovani, in attesa della inevitabile promozione a professore di oltre 15.000 meritevoli ricercatori universitari. Questa gravissima conseguenza sul sistema universitario potrà, forse, essere alleviata stabilendo che le assunzioni di personale esterno al sistema (nella nuova forma di ricercatore a tempo determinato di "tipo b", cioè suscettibile passaggio nei ruoli) avvengano, ogni anno e per ogni sede, in una proporzione fissa rispetto alle promozioni. Per adottate un simile provvedimento bisognerebbe allungare il periodo di validità delle abilitazioni a professore. Ma i costi della "riforma Gemini" risulterebbero spalmati su diversi anni. Per procedere ulteriormente sulla strada di limitare i danni dei tagli nei finanziamenti, dobbiamo innanzitutto chiarire alcune scelte di fondo per il sistema universitario. Se vogliamo, come ci chiede l'Europa, aumentare la percentuale dei giovani che conseguono un diploma universitario passando dall'attuale 30% di una coorte giovanile ad un auspicabile 40%, i tagli dovranno avere effetti sull'offerta didattica delle lauree magistrali, ma non sulle lauree di primo livello. Questa politica non potrà essere coerentemente conseguita senza una attenuazione del valore legale delle lauree magistrali, che le renda non indispensabili per la maggior parte delle professioni ed impieghi. A questo proposito ci sono state due circolari del Ministro della Funzione Pubblica, che invitavano le amministrazioni pubbliche a non richiedere la laurea magistrale per concorsi a funzioni non dirigenziali. Le stesse circolari prevedono che il funzionario pubblico entrato con la laurea (triennale), dopo cinque anni di servizio possa partecipare a concorsi per dirigente. Queste disposizioni sono state completamente ignorate. Basterebbe renderle cogenti ed imporre agli ordini professionali di ammettere alle prove per l'iscrizione al livello "senior" anche i possessori di laurea di primo livello iscritti da cinque anni all'ordine "junior" per rendere appetibile a molti studenti l'uscita dal sistema universitario dopo la laurea triennale. La laurea magistrale non più sorretta dal valore legale acquisterebbe il valore che merita in alcune, forse poche, sedi, mentre altre sedi sarebbero costrette ad offrire, per carenza di studenti, solo lauree triennali. Gli studenti insomma si indirizzerebbero solo verso le lauree magistrali che offrono vantaggi concreti nelle professioni e negli impieghi o preparano ad attività di ricerca. Si determinerebbe, almeno parzialmente un regime di concorrenza tra le diverse sedi per l'offerta delle lauree magistrali. Resta naturalmente il peso di scelte costose e improvvide avvenute nel passato in merito alla formazione degli insegnanti. Sarebbe stato ragionevole prevedere che la formazione generale di un insegnante possa concludersi con una laurea triennale ed essere seguita da non più di un anno di formazione-tirocinio professionale. La scelta di richiedere cinque anni di formazione generale (e sei anni in tutto) è stata imposta da alcune corporazioni di docenti universitari. In questa occasione, come in altre, i costi, per gli studenti e per lo stato, del prolungamento della formazione universitaria degli insegnanti non sono stati nemmeno presi in considerazione. Un altro ambito dove, prima ancora di pensare a tagli, bisognerebbe cercare di fare chiarezza è quello delle funzioni assistenziali, svolte dalle Facoltà di Medicina. Il Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, nel rapporto annuale del 2008, ha calcolato che l'onere dell'assistenza pesava, nel 2007, sulle spese per il personale del sistema universitario, per almeno 350 milioni di euro. A livello nazionale il costo totale per assegni fissi al personale impegnato anche in attività assistenziale superava nel 2007 il miliardo di euro. Questa attività assistenziale delle facoltà di medicina non viene né valutata, né premiata in termini di finanziamenti. Le università che hanno una facoltà di medicina si trovano quindi svantaggiate nella distribuzione dei fondi di finanziamento. Altro sarebbe se le facoltà di medicina godessero di autonomia finanziaria e quindi di un autonomo finanziamento, comprendente una quota relativa alla attività assistenziale che, a rigor di logica, dovrebbe essere a carico del servizio sanitario nazionale. La "quota premiale" del finanziamento delle autonome facoltà di medicina potrebbe essere calcolata anche in relazione a parametri di qualità dell'assistenza clinica, in competizione con altre strutture ospedaliere. La chiarezza sarebbe propedeutica ad una migliore allocazione delle risorse e a potenziali risparmi. ALESSANDRO FIDA TALAMANCA _________________________________________________ L’Unità 16 lug. ’11 AlmaLaurea:VA BENE IL MERITO MA DEVE CRESCERE IL LIVELLO MEDIO» Intervista a Andrea Cammelli Il direttore di AlmaLaurea sui flussi nelle facoltà «La laurea triennale aveva avvicinato una fascia socialmente debole che ora si allontana di nuovo» Un flusso di popolo che si era avvicinato all'università, con la crisi economica e in assenza di una politica per lo studio adeguata, è tornato ad allontanarsi». Questo sta accadendo, secondo Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, che legge il calo delle matricole come la spia di un fatto storico allarmante. «E se non invertiamo nuovamente questa tendenza non ce la faremo a riprenderci dalla crisi». PERCHÉ I DIPLOMATI «FUGGONO» DALL'UNIVERSITÀ? «C'è un fattore demografico: cala la popolazione dei diciannovenni. Ma più basso in percentuale è anche il numero dei diplomati che si iscrive all'università. I media hanno fatto passare l'idea che sia tutta una parentopoli, antiquata, che non risponde alle esigenze del mercato del lavoro. E poi c'è la convinzione diffusa quanto errata che i laureati avranno le stesse difficoltà a trovare lavoro dei diplomati. Ma il calo di prestigio dell'università ha influito negativamente, soprattutto, su quella parte di popolazione tradizionalmente esclusa per ragioni sociale ed economiche». SONO SOPRATTUTTO I PIÙ POVERI A PASSARE LA MANO? «Sì, l'introduzione della laurea triennale aveva avvicinato all'università una fascia di persone storicamente esclusa e socialmente debole, che ora sta tornando ad allontanarsi. Gli iscritti in meno sono soprattutto i giovani che vengono da famiglie socialmente ed economicamente svantaggiate. E la difficoltà economica crescente è anche una delle cause di abbandono dell'università al primo anno». L'UNIVERSITÀ COSTA TROPPO? «Sì e il punto non è tanto il costo degli studi universitari quanto la sua sostenibilità per le famiglie che non ce la fanno ad arrivare alla quarta settimana, né tanto meno a mantenere i figli agli studi. Il governo doveva intervenire con una politica per il diritto allo studio adeguata. Ma agli annunci non ha mai dato seguito». E ADESSO CHE FARE? «Si deve investire di più sui giovani, che sono già pochi. Nel confronto internazionale, siamo al fondo scala per spesa per università e per ricerca. Se non invertiamo questa tendenza il paese non ce la farà a riprendersi. Negli anni di carestia il contadino taglia su tutto ma non sulla semina. Dovremo fare dei sacrifici, ma è l'unica cosa che possiamo fare se non vogliamo continuare a sprecare talenti». IL GOVERNO DICE CHE BISOGNA PREMIARE IL MERITO E LE ECCELLENZE. «A me va benissimo il merito, anche se temo che venga usato da chi non ne conosce il significato, mi vanno bene le eccellenze. Ma il nostro obiettivo deve essere far crescere la soglia educazione di una parte consistente del paese. Dall'inizio degli anni '80 i figli degli operai tra i laureati sono passati dall'1,5% a oltre 25,8%, ma tra i matricolati questa tendenza si va invertendo. Di questo dovremmo occuparci. I laureati in Italia, tra gli under 35, sono ancora 20 su 100 quando la media Oecd è del 35%. Non ci sono ricette contro la crisi se non si riduce questo ritardo storico. MA. GE. ANDREA CAMMELLI PROF. ASSOCIATO STATISTICA SOCIALE UNIVERSITA DI BOLOGNA _________________________________________________ L’Unità 16 lug. ’11 2011: FUGA DAGLI ATENEI TRA SFIDUCIA E TAGLI IL CROLLO DELLE ISCRIZIONI Sofia Sabatino (Rete studenti) «Anche i test per l'accesso all'università sono una spesa, specie se per avere più chance provi a farne più di uno» Luca Spadon (Link) «Le tasse aumentano in 33 atenei su 70, molti studenti quindi o non si iscrivono o poi abbandonano» Marco Grandinetti (Fed. studenti) «Bisogna ridare valore allo studio. I giiovani si scoraggiano a vedere anche i laureati a lavorare nei call center» Dopo il diploma ci si ferma: le matricole sono precipitate in 7 anni con un -9% Storie di ordinaria esclusione tra la forbice ricchi-poveri e la chimera «borsa» MARIAGRAZIA GERINA mgerina@unita.it Figlio di un operaio o figlio di un petroliere fa lo stesso», scrive Roger Abravanel, già consulente della McKinsey & Company e ora consigliere del ministro Mariastella Gelmini: quello che conta è il merito. Vallo a raccontare a Girolamo, figlio di un camionista e di una casalinga, nato e cresciuto a Palmi, Calabria. Girolamo ha vent' anni, è perito informatico e vorrebbe laurearsi. Lo scorso settembre, appena diplomato, si è messo a inseguire la chimera di una borsa di studio e di un alloggio alla Casa dello studente di Cosenza. Alla fine, anche se aveva superato il test a numero chiuso, si è scoraggiato. E non si è più iscritto. Quest'anno ci riproverà, in proprio: «Facendo un po' il cameriere, un po' il meccanico ho messo da parte 700 curo». Per mantenersi all'università da fuori sede, in un anno ce ne vogliono 7mila. Storie di ordinaria esclusione dall'università italiana. Sempre più ragazzi rinunciano in partenza. Se nel 2002, il 74,5% degli Under 20, presa la maturità, correva a iscriversi all'università, sperando in un futuro e un lavoro migliore, nel 2009 (ultimo dato disponibile) quella percentuale è scesa al 65,7%, facendo passare da 330mila a 293mila le matricole under 20. Nove punti percentuali persi in 8 anni: 38mila ragazzi che, usciti dalla scuola superiore, non ci hanno neppure provato. E la parabola discendente precipita letteralmente in certe province del Sud. A Catania, per esempio, dove appena il 46,4% dei maturi si iscrive all'università. Oppure a Cagliari, dove la percentuale è del 56,8%. Ma anche il Nord ha i suoi abissi. A Sondrio, il rapporto tra diplomati e matricole è del 46,7%; a Bolzano, non va oltre il 37,3%. E chi si iscrive spesso resta indietro fin dal primo metro. In più, una buona fetta delle matricole - circa il 13,3% -, al termine del primo anno non ha superato neppure un credito e da matricola finisce direttamente nel limbo degli «inattivi». Mentre ancora di più, il 16,7%, sono quelli che gettano la spugna dopo il primo anno. Cronaca di un'emorragia che dovrebbe essere in cima alle preoccupazioni di chi governa il paese. Chi sono questi ragazzi che rinunciano all'università? Perché invece di proseguire gli studi decidono di fermarsi? L'ultimo rapporto Almalaurea lo dice esplicitamente. Tra le cause del calo di immatricolazioni, c'è «la crescente difficoltà di tante famiglie a sopportare i costi diretti e indiretti dell'istruzione universitaria» unita a «una politica del diritto allo studio ancora carente». Una sorta di tenaglia che si stringe attorno ai ragazzi. Da una parte, la crisi rende più severo il bilancio delle famiglie che non ce la fanno più a sostenere le spese universitarie. Dall'altra, il bilancio dello Stato, invece di potenziare le scarse risorse destinate alle borse per gli studenti, taglia i fondi per il diritto allo studio. Mentre in Germania o in Francia uno studente su quattro riceve una borsa di studio, in Italia nemmeno 1 su 10 riesce ad ottenerla. Su una popolazione di 1,8 milioni di iscritti, appena 150mila nel 2010 ne hanno beneficiato. E peggio ancora va per gli alloggi universitari che sono appena 4lmila in tutta la penisola. Gli sbarramenti di reddito sono molto bassi, escludono non solo il ceto medio, e variano da regione a regione: sotto gli llmila curo in Abruzzo, meno di 14mila in Molise, fino a 19mila in Piemonte. E anche tra gli idonei, 1 ogni 6 resta fuori. Gli esclusi nel 2010 erano 29mila su 179mila aventi diritto (il 16,3%). Un'ingiustizia anche qui diversamente distribuita. Più di 2mila esclusi in Abruzzo, dove solo il 55% degli idonei ottiene la borsa; 7mila in Campania, dove la percentuale è del 56%; 4400 in Calabria, dove è beneficiato della borsa solo il 59%, etc. La domanda dovrebbe essere: come includere almeno loro? E invece il governo ha stanziato appena 26milioni per il prossimo anno, reintegrate a 97 milioni, dopo le proteste, per l'anno in corso. Comunque meno della metà dei 246milioni di euro stanziati nel 2009 e 50 milioni in meno della media degli anni precedenti. In compenso 10 milioni li ha destinati alla "Fondazione per il merito", istituita sulla scia dell'Abravanel-pensiero. Ma chi se la merita un'università così. se non chi può permettersi di sostenerne i costi anche senza borsa? A questo proposito sono illuminanti i dati Eurostudent. I laureati tra i 45 e i 64 anni sono appena 1'11% della popolazione generale (il 10% tra le donne) ma se guardiamo alla popolazione universitaria il 20% degli studenti universitari ha un padre laureato (il 17% una madre). Mentre appena il 35-6% degli studenti hanno un padre o una madre con un titolo di studio medio-basso, percentuale che sale al 62% nella popolazione generale. E solo il 28% ha un padre operaio (44% della popolazione tra i 45 e i 64 anni). D'altra parte la laurea ha perso attrattiva anche, anzi, forse soprattutto per le classi più svantaggiate. La disoccupazione, per chi ha la laurea triennale, è passata dall'11,3% del 2007 al 16,2% del 2009. E chi trova lavoro in un caso su due è precario. Mentre gli stipendi passano dai 1210 euro del 2007 a 1149 euro del 2009. Il deterioramento della condizione occupazionale dei laureati, insomma, è l'altro grande fattore che rema contro quello che è stato fin qui uno dei principali obiettivi di crescita del paese: estendere la formazione universitaria anche alle fasce di popolazione che ne erano tradizionalmente escluse. Trent'anni fa i figli della «classe operaia» (così nella classificazione di Almalaurea) tra i laureati erano 1'1,5%, nel 2004 erano il 22,4%, nel 2010 sono il 25,8%. Una tendenza che, a leggere i dati delle immatricolazioni, sembra destinata a invertirsi di nuovo. E mentre in Europa i figli di genitori con un titolo di studio basso che si laureano sono il 17%, in Italia la percentuale è ancora all'8%. Che vadano a scaricare la frutta ai mercati generali, ha suggerito Brunetta, a quanti tra i giovani sono esclusi dal mercato del lavoro. La riforma Gelmini, rispetto agli esclusi dall'università, non fa di meglio: non ha neppure provato ad analizzare il problema. 1-continua MEDICINA Le differenze sociali e il grado di istruzione della famiglia pesano sulle scelte degli studenti: più della metà dei dottori in medicina hanno almeno un genitore laureato, mentre il 41% di laureati in materie di insegnamento, ha genitori con titolo di studio basso. FEDERALISMO: Federalismo applicato al diritto allo studio. Lo scorso anno il Veneto ha deciso di sospendere 5mila borse per il patto di stabilità. Dopo le proteste ha promesso di reintegrarle ma gli studenti, che hanno anticipato le spese, non hanno ancora visto un euro. FUORI SEDE: I costi in un anno per uno studente fuori sede, calcolati da Federconsumatori, superano i 7mila euro, tra tasse (che oscillano dai 500 euro al Sud ai 577 al Nord), alloggio (4.100 euro per una stanza singola in affitto al Nord, 2.900 al Sud). DISCRIMINAZIONI: «Tutti gli studenti italiani non sono adeguatamente sostenuti ma a rinunciare sono soprattutto i figli di chi è in condizione disagiate», spiega Federica Laudisa, dell'Osservatorio regionale per l'università e il Diritto allo studio universitario. ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 14 Lug. '11 UNIVERSITÀ, L’ERA DELLE RIFORME La storiografia sarda sul Secondo Settecento ha da tempo destrutturato l’immagine tradizionale di un’isola estranea alle correnti di pensiero e ai moti rinnovatori dell’Ottantanove. La ricerca sul riformismo sabaudo, gli interlocutori e le conseguenze nel quadro sardo, evidenzia una classe dirigente e intellettuale attenta, con una volontà di modernizzazione che individua nel sistema feudale il bastione da abbattere. Il lavoro di Walter Falgio ( Libro e Università nella Sardegna del ’700 , AM&D, pp. 242, euro 35). giornalista e studioso della storia della cultura, è costruito su un’accurata documentazione e un rigoroso apparato critico, e nell’ambito della riflessione sul riformismo sabaudo focalizza alcuni nodi. Il primo è il dibattito sulla “rifondazione” dell’Università di Cagliari (1755-1764): l’Ateneo presenta numerose criticità, dalla sede alla qualità dell’insegnamento. Per metterlo in grado di formare tecnici ed intellettuali autoctoni, Carlo Emanuele III istituisce una Giunta che esamina numerose proposte di intervento su finanziamento, strutture e strumenti, impianto dei corsi, equilibrio tra docenti sardi e forestieri. Dotate di risorse umane e finanziarie - senza cui, allora come oggi, non si avviano processi riformatori - le Università si aprono al confronto tra intellettuali sardi e non. Dei primi è figura esemplare Gemiliano Deidda, docente di Geometria; tra i secondi spicca Michele Antonio Plazza, professore di Chirurgia e autore della “Flora Sardoa”. La “rifondazione” degli Atenei sardi riesce nell’intento di formare una nuova classe dirigente, ma gli esiti sono lontani dalle intenzioni: larga parte dei leader del triennio rivoluzionario è costituita da nobili e borghesi cresciuti nelle due università. I fenomeni di acculturazione nell’Isola sono profondi e diffusi: alla “rivoluzione delle idee” è dedicato un denso capitolo. Muovendo dalle ricerche sulla diffusione del libro in Francia, e attraverso una minuziosa ricerca tra gli atti notarili degli inventari di libri compresi in cause di successione, vengono analizzati struttura e patrimonio di dieci biblioteche sarde tra il 1773 e il 1839. Fra i proprietari, nobili ed ecclesiastici, figurano personaggi centrali degli ambienti riformatori. La consistenza va da poche decine a diverse centinaia di volumi (la Biblioteca Universitaria cagliaritana ne possedeva 8.000), l’analisi tematica mostra il passaggio dalla preponderanza di testi teologici a quella di libri tecnici, filosofici, giuridici, letterari. Lo spagnolo cede all’italiano, per effetto della politica linguistica boginiana, ed è significativa la presenza del francese. Interessante la diffusione delle opere sulla Sardegna, di argomento scientifico (Cetti), tecnico-economico (Manca dell’Arca e Gemelli), linguistico (Madao) e storico (da Vico a Manno). I repertori bibliografici attestano una presenza numerosa di autori e testi dell’Illuminismo, dall’“Émile” di Rousseau a diverse edizioni dell’“Encyclopedie”. Oltre a dimostrare la vitalità dell’apporto della giovane generazione di studiosi, il lavoro rilancia un tema centrale: le vicende dell’Isola non si comprendono senza il contesto italiano, mediterraneo ed europeo nel quale si sono sviluppate e di cui portano i segni investigabili, anche quando ne appaiono del tutto avulse. Aldo Borghesi ___________________________________________________________ Il MANIFESTO 12 Lug. '11 I DOTTORI POCO SAPIENTI DI MARIA STELLA GELMINI: «TAGLIERÒ LE SPECIALIZZAZIONI» UNIVERSITÀ • Il ministro non esclude di abolire il valore legale del titolo di studio. Si parte dai corsi di laurea in Medicina e Giurisprudenza Roberto Cfccareill Come ogni lunedì che Dio manda in terra, anche ieri il Ministro dell'Università Mariastella Gelmini ha intrattenuto sulle colonne de Il Giornale, preferito stavolta a quelle de Il Sole 24 ore, una conversazione dove ha annunciato un provvedimento che, se confermato, rivoluzionerà la vita degli attuali 19.909 laureati in medicina e di 11.308 laureati in giurisprudenza (Dati Almalaurea 2010) e di tutti quelli che li seguiranno. Gelmini sostiene di avere aperto un tavolo con il Ministro della Salute, Ferruccio Fazio, per «valutare un'abbreviazione degli anni di studio per la facoltà di Medicina». A suo avviso, il tempo necessario per formare un medico, comprensivo del ciclo di laurea di 6 anni, più cinque di specializzazione e altri tre di dottorato, «è troppo». Stessa valutazione per gli studenti di Giurisprudenza, per i quali si sta «valutando la possibilità di anticipare il tirocinio all'ultimo anno prima della laurea in modo che dopo il diploma occorra soltanto un anno di pratica». La proposta è stata bocciata dal presidente del Consiglio Universitaria Nazionale (Cun) Andrea Lenzi per il quale «non ha fondamento: perché abbiamo vincoli imposti dall'Europa: in tutti i paesi il corso di medicina dura 6 anni. E poi perchè sarebbe davvero curioso che da un lato portiamo Odontoiatria da 5 a 6 anni e dall'altro tagliamo un anno a Medicina. Forse il ministro intende trasformare i 60 crediti professionalizzanti già esistenti spalmati sui 6 anni di corso in un anno di pratica in coda. In questo caso si potrebbero utilizzare i giovani medici sul territorio, ma sarebbe un'ipotesi tutta da verificare». Non ha dubbi invece il rettore della Sapienza Luigi Frati che nel pomeriggio di ieri ha annunciato, con la solita destrezza, che l'ateneo più popoloso d'Europa ridurrà gli anni della scuola di specializzazione per i medici e ciò permetterà l'aumento di mille posti in più all'anno, da 5 a 6 mila. Parere favorevole ha espresso il presidente degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri Amedeo Bianco secondo il quale il corso di laurea in medicina resta «incomprimibile». Nella serata di ieri sono spuntate varie interpretazioni sul senso della sortita gelminesca. La prima sostiene che fa parte del progetto ultra- liberista di abolizione del valore legale del titolo di studio. «Sostituire cioè parte fondamentale della formazione secondaria superiore e quella universitaria - è il parere di Claudio Franchi del coordinamento precari Flc-Cgil - con forme di praticantato, lavoro nascosto e sottopagato». Questa ipotesi si sposa con la riforma delle professioni in discussione in Parlamento che prevede, come denunciato ieri in una lettera dei Consigli Nazionali delle professioni tecniche e delle Casse di previdenza (architetti, geometri, geologi, chimici e altri), l'abolizione dei minimi tariffari. Ciò comporterà un ribasso dell'80 per cento sulle parcelle e l'aumento del precariato tra i «giovani» professionisti (quindi anche di medici e avvocati). Per Tito Russo, studente della Rete della Conoscenza, questo progetto è coerente anche con un'altra riforma, quella dell'apprendistato. «L'istruzione avrà come unico scopo la formazione professionale. In questa direzione va il riordino degli istituti tecnici e professionali, e la possibilità concessa ai diplomandi di assolvere l'ultimo anno di scuola in azienda sotto forma di tirocinio formativo. Così facendo si riducono i tempi di presenza all'università e nella scuola perchè serve manodopera a basso costo da precarizzare quanto più è possibile». Un orientamento confermato dal progetto di far certificare la laurea e il dottorato dalle regioni, e non più dal ministero dell'Istruzione. Quando sarà approvata questa riforma, forse entro agosto, il diritto allo studio resterà in vita nella Costituzione, non nella realtà. ___________________________________________________________ La Nuova Sardegna 12 Lug. '11 UNIVERSITÀ, SASSARI MEGLIO DI CAGLIARI E TUTTE DOPO TRIESTE Ma per entrambi gli atenei sardi il problema principale è lo sbocco di lavoro per i neolaueati SASSARI. Tra gli atenei con più di 50 mila studenti la prima è Padova, tra quelle fra i 10 mila e i 50 mila studenti la prima è Trieste. E’ quanto emerge dalla Guida 2012 di Campus (gruppo Class) sugli atenei italiani, anticipata ieri dal quotidiano economico Italia Oggi. A determinare la posizione in classifica sono diversi fattori: dal numero degli studenti a quello dei docenti, dalla qualità delle strutture a quella della ricerca, l’internazionalizzazione, web, le tasse. E come si collocano, in questa classifica, le università sarde? Sia l’ateneo di Cagliari che quello di Sassari compaiono nella categoria delle università con un numero di iscritti tra i 10 mila e i 50 mila iscritti che vede in testa Trieste con un voto finale di 99,41. La votazione delle singole voci è in trentesimi, come negli esami universitari. La votazione finale è invece come quello di laurea, su 110. Oltre alla valutazione sul profitto e la regolarità negli studi degli iscritti, compare anche la voce relativa agli sbocchi lavorativi dei neolaureati. Sassari occupa il ventitreesimo posto con una votazione di 84,52/110, mentre Cagliari si trova nella posizione trentaduesima con un voto finale di 74,28/110. In particolare le voci che riguardano l’ateneo turritano sono i seguenti: studenti, 22,21; docenti 25,52; strutture 24,96: ricerca 23,31; internazionalizzazione 23,40; tasse 26,89; lavoro 22,00, web 25,50. «Il risultato sintetizzato dalla Guida di Class - dice il rettore dell’università di Sassari, Attilio Mastino - testimonia di un processo di crescita del nostro ateneo. Come si vede le tasse per studiare nella nostra università sono più basse rispetto a quelle di altre, sono buoni sia i livelli di internazionalizzazione che di web. Buone anche le strutture grazie a una buona politica edilizia. Per quanto riguarda la ricerca, poi, contiamo su alcuni livelli di eccellenza che ci fanno ben comparite nel panorama nazionale. Buona poi anche la politica di reclutamento degli studenti come dimostrano anche i dati di questi giorni». «Certo- prosegue il rettore Mastino - dobbiamo intervenire per migliorare l’offerta formativa in rapporto agli sbocchi lavorativi. Ma è inutile negare che in questa campo la Sardegna risente della crsi economica generale più di altre regioni. Su questi temi abbiamo avuto un interessante e proficuo rapporto con l’assesseore regionale alla Cultura, Sergio Milia, che si è impegnato a costruire con noi un percorso che ci consenta di migliorare i livelli di formazione della nostra università nel mercato del lavoro globale. Dobbiamo però innalzare la produttività degli studenti che, soprattutto dopo il primo anno vanno in crisi dando luogo a fenomeni di dispersione. Siamo soddisfatti, infine, della internazionalizzazione con più di 100 visiting professor del nostro ateneo e un buon numero di studenti stranieri». L’università di Cagliari, dicevamo, compare in 32 esima posizione con una votazione finale di 74,15/110. Queste le singole voci: studenti 21,56; docenti 23,33; strutture 22,59; ricerca 22,33; internazionalizzazione 23,48; tasse 26,02; lavoro 20,22, web 25,22. «Non conosco la classifica della guida di Class - dice il professor Giovanni Melis, rettore dell’università di Cagliari - Le posso dire però che noi seguiamo i parametri suggeriti dal ministero dell’Università: qualità della didattica e qualità della ricerca. E in quella classifica l’ateneo di Cagliari è passato, su scala nazionale, dal 25esimo al 24esimo posto. E questa progressione ci viene riconosciuta sul piano dei finanziamenti. A livello internazionale, poi, su 1500 università, Cagliari è certamento entro le prime 500. Sul piano del lavoro non possiamo competere con regioni o città ricche di noi. Debbo riconoscere che siamo indietro sul piano delle strutture (posti letto e mense per i fuorisede), ma i fondi sono amministrati dall’Ersu)». _________________________________________________ Il Sole24Ore 14 lug. ’11 TALENTI? ROMA VALE ATENE Competitività. Nell'allevare classe dirigente il Paese paga pegno a una università poco efficiente Heidrick & Struggles: Italia al 23° posto appaiata alla Grecia Cristina Casadei QUESTIONE TRASPARENZA Risultiamo poco attrattivi per le eccellenze estere Celii (Luiss): scontiamo la tradizionale opacità dei percorsi di carriera nostrani Italia mia, ti si sono ristretti i talenti. Nel global talent index 2011 di Heidrick & Struggles, l'Italia al 23esimo posto era e al 23esinao posto è rimasta. A pari merito con la Grecia, il Paese a cui qualunque Stato in questo periodo non vorrebbe essere paragonato. Dieci posizioni più in basso della Germania, il Paese a cui, invece, molti Stati vorrebbero assomigliare. Gli Usa mantengono ben saldo il dominio della classifica, seguiti dai Paesi nordici. Danimarca, Finlandia, Norvegia. Nessun conforto arriva nemmeno dall'outlook per il 2015: il terzetto di testa rimarrà lo stesso, guadagneranno posizioni la Svezia (3), il Canada (6), la Germania (2), la Francia (3). L'Italia? Appunto, sempre ferma al 23esimo posto, a difendere, più che ad aggredire i fattori che la incollano in una posizione non allineata con l'essere considerata la settima economia del mondo. Come si spiega lo scollamento tra il 23 che indica la posizione in classifica del paese e il 7 che indica la posizione della nostra economia? Innanzitutto va precisato che Pindex è il risultato di sette fattori: la qualità della forza lavoro, l'analisi demografica, il sistema scolastico primario e secondario, l'ambiente di sviluppo, l'apertura, l'attrattività dei talenti. I primi due pesano per una quota pari al 22,2% ciascuno, gli altri cinque per una quota pari all'11,1%. A penalizzare di più l'Italia nel confronto con il resto del mondo sono l'educazione universitaria al 39% nella scala di punteggio, contro 1'82,9% degli Stati Uniti, la qualità della forza lavoro al 51,8% contro 1'88,8% degli Stati Uniti, l'ambiente dei talenti al 56,9% contro il 100% degli Stati Uniti. Una prima considerazione riguarda l'analisi demografica, che riguarda l'età media del paese, e ci vede scendere dal 43esimo al 49esimo posto. È la conferma del nostro declino in termini di natalità. Certamente non è una buona prospettiva per l'alimentazione di un pool di talenti che possono mantenere l'Italia ad un livello adeguato in termini di eccellenza. Andando oltre la demografia, il dato più perfettibile sta nella qualità del sistema scolastico obbligatorio. «Scende di 4 punti, facendoci perdere ben 9 posizioni, dal 11 esimo al 23esimo posto» spiega Maurizio Panetti, managing partner per l'Italia di Heidrick & Struggles. Quel sistema scolastico, primario e secondario, che è stato il nostro fiore all'occhiello in passato, «mostra adesso le sue debolezze, misurate in termini di durata dell'obbligatorietà, investimenti in rapporto al Pil e al numero di studenti, sviluppo e offerta della scuola secondaria, anni di scolarizzazione, numero di insegnanti», elenca Panetti. Può essere questa la culla dei talenti? Qualche dubbio è almeno lecito averlo. La qualità della nostra Università ci fa invece avanzare di un posto, al 22esimo. Con una precisazione. Dal momento che la survey non è comparativa, ma è legata a fattori oggettivi del Paese, come la percentuale di iscritti, il livello del ranking delle singole università e gli investimenti effettuati, il senso di questa ennesima posizione alla fine è che «non c'è stato alcun miglioramento tangibile del nostro sistema universitario», dice Panetti. Per il direttore generale della Luiss Guido Carli, Pierluigi Celii, il nostro Paese sconta «una bassa considerazione dei nostri sistemi formativi. Ma questa non è automatica, nè così conclamata. Siamo noi a svalutarla più di quanto non sia in realtà. Coloro che si formano negli atenei italiani hanno un backgroud che ha una qualità paragonabile a quello dei paesi che dominano la classifica. L'index però coglie una linea di tendenza e cioè il fatto che i sistemi educativi e formativi sono slabbrati. Ma anche nelle imprese i sistemi di reclutamento sono deficitari». La valutazione qualitativa peggiora se si arriva al capitolo forza lavoro. Il punteggio si basa sul numero di ricercatori e di tecnici impiegati nell'R&d, la conoscenza delle lingue, le capacità tecniche e le qualità dei manager locali ed è peggiorativo: perdiamo due posizioni e passiamo dalla 28 alla 30. L'ambiente per lo sviluppo dei talenti invece sembra migliorato, così come l'apertura delle imprese ai talenti. Per Celli invece il deficit più forte quando si parla di talenti arriva «dallo sfrangiamento del tessuto sociale e valoriale dove il talento potrebbe trovare più alimentazione. I percorsi di carriera dovrebbero essere meno legati all'appartenenza e alle relazioni personali e più alla solidità delle conoscenze e delle competenze». A questo, per il direttore generale della Luiss bisogna aggiungere il fatto che «ognuno ha i suoi talenti e questo è frutto di una causalità di nascita, di una lotteria genetica. La società dovrebbe sì prendersi in carico le eccellenze, ma soprattutto le medietà anche perché in qualsiasi impresa un'attenzione prevalente ai talenti può portare a una dannosa separazione del talento dall'organizzazione aziendale». Quello che noli migliora è invece l'attrattività dei talenti. Rimaniamo al 20eSiM0 posto e gli indicatori scelti come il reddito personale disponibile e il tasso di crescita dell'occupazione non danno segnali positivi. E qui scontiamo, forse, «l'opacità dei percorsi di carriera - sostiene Celli -. Il problema è che le carriere si possono programmare fino a un certo punto perché bisogna vedere i risultati ottenuti dalle persone e poi la reazione nelle singole tappe di carriera. Se si dichiarano certi percorsi di carriera e poi non si praticano perché intervengono altri fattori allora l'organizzazione potrebbe perdere credibilità ed essere accusata di predicare bene e razzolare male». ___________________________________________________________ Corriere della Sera 15 Lug. '11 UNIVERSITÀ, 12 MILA ASSEGNI PER STUDENTI MERITEVOLI FOCUS BORSE DI STUDIO CORSI GLI AIUTI DI LUISS, BOCCONI, CATTOLICA, STATALE, LIUC E BICOCCA Sostegni e agevolazioni anche ai redditi più bassi Borse di studio a copertura totale o parziale per frequentare facoltà e master di ogni tipo. Con l' avvicinarsi dell' autunno, le Università pubbliche e private si danno da fare per aiutare e conquistare nuovi studenti. Tra le offerte ci sono per esempio quattro borse erogate dalla Luiss School of government grazie a Unicredit & Universities Foundation per gli studenti meritevoli che concorrono all' ammissione al Master in International public affairs. Inoltre l' ateneo romano ogni anno mette a disposizione 500 borse di studio e agevolazioni su alloggi, trasporti, acquisto del pc per chi non ha i mezzi per pagare la retta universitaria. Spostandoci a Milano sono in media un migliaio i sostegni allo studio dati alle matricole da parte della Bocconi. Mentre per coloro che scelgono i Master sono previsti finanziamenti o da parte delle aziende sponsor o da parte della stessa Università a seconda delle circostanze e delle esigenze. In Cattolica poi, dove per le facoltà più di 9.500 studenti beneficiano di forme diversificate di agevolazione allo studio e oltre 400 disabili possono usufruire di particolari servizi, nell' anno accademico 2011-2012, saranno assegnati con il sostegno di Promos Camera di Commercio una ventina di «assegni» alle candidature più interessanti provenienti dai Paesi in via di sviluppo (Sud America, Asia, Medio Oriente, Africa) che prevedono l' abbattimento del 50% della quota d' iscrizione e un rimborso spese di 5 mila euro per la permanenza a Milano. Una quindicina di studenti provenienti dall' Africa potranno inoltre avere l' opportunità di seguire gratuitamente master internazionali in lingua inglese grazie ai proventi ricevuti con le destinazioni del 5 per mille. Tutti i programmi post-laurea prevedono anche il pagamento parziale dell' iscrizione per i corsisti più meritevoli nella maggior parte dei casi attraverso partnership aziendali. In particolare per i settori management, bancario-finanziario e comunicazione dovrebbero essere una cinquantina le agevolazioni parziali. Per il Master in nutrizione e fitness sportivo la Statale (che per il prossimo anno accademico metterà a disposizione 321 borse per un milione e mezzo di euro) prevede invece di dare 3 mila euro di contributo per uno dei 15 partecipanti (iscrizioni fino al 29 settembre). La Liuc di Castellanza poi, che concede tramite l' iniziativa «Premiamo il merito» il pagamento della retta universitaria dal 12,5% al 50% in base al voto di maturità ed eroga circa 250 borse ogni anno, prevede 3 o più rimborsi totali e parziali per il Master in merchant banking che partirà nel gennaio prossimo(richiesta fino al 14 ottobre). Infine Bicocca prevede di poter mettere a disposizione circa 440 borse per coloro che frequenteranno le facoltà e 70 contributi per 6 master, per un importo di circa 300 mila euro. Irene Consigliere RIPRODUZIONE RISERVATA **** 300 mila euro L' ammontare messo a disposizione dalla Bicocca e finanziato da aziende per 70 contributi ai partecipanti di sei master di primo e secondo livello **** 500 le borse di studio che ogni anno la Luiss di Roma mette a disposizione degli studenti a basso reddito per agevolazioni su alloggi, trasporti, acquisto del pc **** 20 i destinatari delle borse di studio previste dall' Università Cattolica per studenti provenienti dai Paesi in via di sviluppo: Sud America, Asia, Medio Oriente, Africa Consigliere Irene ___________________________________________________________ Il Giornale 11 Lug. '11 QUANTO COSTA L'UNIVERSITÀ Ecco la mappa delle tasse EDDITO E GEOGRAFIA La Bicocca di Milano e la Sapienza di Roma fra le più «salate». In coda alla classifica Bari e Bologna Vincenzo Pricolo Le tasse universitarie, che in Italia hanno cominciato a lievitare una ventina d'anni fa, sono ormai unavoce rilevante della spesa delle famiglie configli che inseguono il cosiddetto pezzo di carta. Ma le differenze da ateneo ad ateneo da città a città, e anche da facoltà a facoltà, sono veramente abissali. Secondo un recente indagine di Federconsumatori, seguire studi umanistici al Sud costa molto meno che cercare di diventare chirurgo a Milano. Ingegneria alla Federico II di Napoli costa al massimo 1.432 euro all' anno, Medicina alla Bicocca di Milano più di 3.000.A Parmala fascia di reddito più bassa paga 740 euro per l'iscrizione a una facoltà umanistica e 865 per u n a scientifica: in media il71% in più rispetto alla media nazionale della prima fascia. Passando a un' altra voce di spesa, sivede che per itestila spesa media nelle facoltà umanistiche è di 454 euro all'anno, il 17% in più rispetto alle facoltà scientifiche. Ma le tasse universitarie, ormai, sono anche da una parte una posta irrinunciabile dei bilanci dei singoli atenei e dall' altra uno dei pochi dati controllabili di quella specie di equazione che come risultato finale dovrebbe dare una formazione universitaria di buona qualità a costi sostenibili. Infatti. Una questione che ogni tanto torna d'attualità nel dibattito pubblico, non solo in Italia, è la seguente: non è giusto che tutta la collettività paghi per una «macchina», l'istruzione universitaria, cheviene usata quasi esclusivamente alle classi più abbienti. A chi manifesta questo dubbio si replica: ma se si alzano le tasse universitarie la platea degli utilizzatori della «macchina» si restringe ulteriormente. E la questione resta aperta, insieme con quelle che attengono i parametri di valutazione dell'efficienza del sistema universitario, della qualità dell'insegnamento, del finanziamento del diritto alla studio eccetera eccetera. Purtroppo non c'è alcuna relazione diretta fra tasse universitarie alte e alta qualità della preparazione media degli studenti. Università private a parte, nei primi posti delle classifiche mondiali si trovano facoltà e istituti dei Paesi più diversi - dalla Cina agli Stati Uniti e il Giappone passando per Svizzera, Germania e Regno Unito - che hanno università pubbliche finanziate dal fisco nelle proporzioni più disparate. Per quanto riguarda le università italiane una cosa è certa. Che siano pubbliche o private e che facciano pagare tasse alte o basse, sono comunque fuori, ormai da decenni, dal top mondiale dell'eccellenza. AL MINIMO L'ateneo con le tasse più contenute d’Italia è quello di Bari, seguito a breve distanza da quello di Bologna, dove circa tomi- la iscritti pagano il W% in meno della media nazionale FUORI SEDE Secondo Federconsumatori gli studenti fuori sede (i «fuori regione sono oltre il 20% del totale) spendono ogni anno quasi 7.000 euro in più rispetto a chi studia nella propria città AL MASSIMO L'ateneo più caro del Paese è quello di Parma, dove gli studenti pagano per le tasse il 70%. in più rispetto alla media nazionale. Al secondo posto c'è l'Università Bicocca di Milano EUROPA/1 La Svezia vanta molte università ai vertici mondiali ma tiene le tasse universitarie a zero. Alla Sorbona di Parigi si pagano armassimo 500 euro, alla Freie Universitat di Berlino 200 CAPUT MUNDI All'Università la Sapienza la fascia di reddito più bassa paga 330 euro, quella più alta paga, da facoltà a facoltà, intorno ai 2.000 euro. A Tor Vergata si paga al massimo 1.300 euro EUROPA/2 Nel Regno Unito molte università sono private e carissime (Oxford, Eton...) e lo Statofinanzia gli studenti meritevoli con redditi bassi che una volta occupati restituiscono il prestito MODA FIORENTINA A Firenze gli studenti dei corsi triennali di moda (cultura, progettazione e stilismo) pagano, oltre alle normali tasse che possono arrivare a oltre 2.000 euro, 1.245 euro l'anno STATI UNITI Il sistema universitario americano è simile a quello britannico. La differenza principale è che gli studenti devono iniziare a estinguere il debito con lo Stato non appena sono laureati 5 Di solito le fasce di reddito che determinano le tasse sono: fino a 5.000euro;fino a 10.000;fino a 20.000; fino a 30.000; oltre 9 L'ateneo di Firenze adotta 9fasce: la più bassa fino a 17.500 euro (che paga 315 euro), la più alta oltre i n.000 (2.015 euro) 13,3% Per le fasce dire dito più basse nelle università del Nord si paganotassede113,13°I.supedori alla media nazionale 88,87% È il divario fra università del Nord e quelle del Sud per quanto riguarda letasse dovute per la fascia di reddito più alta 8% La media nazionale delle tasse delle facoltà scientifiche è più alta dell'81 rispetto a quella delle facoltà umanistiche 4.982 È la spesa media annua, naturalmente in euro, che uno studente fuori sede deve destinare ad alloggio e utenze 5.544 È la spesa media annua per una stanza singola nelle città universitarie del Centro, che sono le più care d'Italia 1.713 Sono gli euro dovuti per le tasse nell'università di Amsterdam, fra le pochissime in Europa con tasse «all'italiana» ___________________________________________________________ LAB il Socialista 12 Lug. '11 LAUREA MA QUANTO MI COSTI Finalmente archiviata la maturità, gli studenti sono di nuovo sui libri con un nuovo esame alle porte, obiettivo superare i test d'ingresso all'università. Infatti migliaia di studenti che hanno deciso di continuare il percorso di studi si trovano ora di nuovo sui libri per preparare i test: di ingresso o soltanto di orientamento, che difficilmente si possono evitare. Ci sono quelli vincolanti fissati dal ministero e quelli introdotti dalle singole università. E mentre i giovani studenti scelgono cosa fare nella vita, i genitori fanno i conti con per far quadrare il bilancio familiare. Perché studiare all'università da sempre costa. E anche in Italia costa molto caro. Poi è ovvio che come in ogni cosa, molto dipende da dove si 'sceglie' di studiare e che facoltà intraprendere. Scelta legata, molto spesso, al reddito familiare. Studiare al sud e in una facoltà umanistica è, infatti, più accessibile che decidere di diventare chirurgo a Milano. Le rette universitarie variano, infatti, sia da regione a regione che tra diversi indirizzi universitari, ma anche dalla fascia di reddito. Gli studenti del nord pagano circa il 13% in più rispetto alla media nazionale per la prima fascia e addirittura il 32% in più se si considera l'importo massimo da versare. L'università' più cara è Panna (oltre il 70% in più rispetto alle media), seguita dalla li- cocca di Milano; la più economica e' l'Aldo Moro di Bari, rincorsa dall'i-dma mater di Bologna. Secondo uno studio condotto da Federconsumatori nel 2010, le tasse universitarie annuali si aggirano intorno ai 1.000 curo con picchi che variano dai 400 agli oltre 2.000 a seconda della regione delle scelte amministrative della struttura. Mentre a Napoli studiare all'Orientale più costare da un minimo di 440,00 curo a un massimo di 910,00, al Politecnico di Milano si pagano anche 1.700 euro. Stesso discorso per chi sceglie di studiare nella Capitale. A Tor Vergata le famiglie in ultima fascia pagano 1.300 euro e la Sapienza non e' da meno. Pur garantendo il diritto allo studio con una tassa minima di 330 curo annuali, la storica università di Roma arriva a costare anche 2.000 per chi ha un reddito familiare alto. Generalmente sono cinque le fasce di reddito considerate, calcolate considerando dei valori di Isee fissi. la prima fascia considera un reddito sono a seimila euro, la seconda siano a 10mila, la terza sino a 20mila, la quarta sino a 30mila e la quinta il massimo. anche se e' difficile fare una comparazione in quanto variano da ateneo ad ateneo. La spesa annuale, comunque, cambia non solo in base al reddito ma anche a seconda del tipo di Facoltà: Medicina, Ingegneria, Architettura e Farmacologia risultano essere sicuramente le piu' care. La speranza di avere un ingegnere in famiglia se costruita alla Federico II di Napoli costa a un padre 1.432 euro l'anno mentre mandare un figlio a Chirurgia alla Bicocca di Milano anche 3.000. Sempre secondo la ricerca di Federconsumatori, si scopre che gli atenei del Nord sono quelli più cari: del 13,13% rispetto alla media nazionale se si considera la prima fascia, e addirittura del 31,92% se si considera il massimo importo dovuto. La media nazionale e' quindi fortemente influenzata dal Nord, in quanto nel Centro e nel Sud i costi delle tasse sono quasi sempre inferiori a tale media. La differenza è ancor più evidente tra Nord e Sud, dove il divario, per quanto concerne la prima fascia, raggiunge il 25,27%, e sale fino all'88,87% quando si prende in considerazione la fascia relativa al massimo importo dovuto. Sono gli atenei del Sud, in termini generali, ad applicare tasse più basse, con l'Università Aldo Moro di Bari in testa alle università che costano meno (considerando la prima fascia), anche se bisogna sottolineare che parte dell'importo della retta e' dovuta al merito: una votazione media bassa o un basso numero di crediti conseguiti, quindi, si traduce in un aumento delle tasse. Al secondo posto tra le università meno costose si trova l'Università 'Alma Mater' di Bologna che considera come fascia base quella che arriva a circa 20.000 euro di ISEE, soglia al di sotto della quale gli studenti pagano il 55% in meno rispetto alla media nazionale. Al contrario l'università più cara, sempre prendendo in considerazione la prima fascia, è l'Università degli studi di Parma con una retta di 865,52 Euro annui per le facoltà scientifiche e di 740 Euro per quelle umanistiche, pari al 71% in più rispetto alla media nazionale. Al secondo posto si trova invece, l'Università degli studi di Milano con una retta annuale di 685 Euro per le facoltà umanistiche e 789 Euro per le facoltà scientifiche. La distinzione tra facoltà scientifiche e facoltà umanistiche non è attiva in tutte le Università, comunque generalmente le facoltà scientifiche hanno un costo maggiore dell'8% nella maggior parte delle fasce. E se studiare costa caro in assoluto scegliere di cambiare città può diventare un salasso, lino studente italiano 'fuori sede' spende, infatti, fino a 6.958 curo animi in piu' rispetto ad uno che studia in sede. In Ma- ha, sempre secondo Federconsumatori, il 20% degli studenti universitari, stando ai dati Istat 2009, studia al di fuori della propria regione di residenza, inoltre, a questi andrebbero aggiunti ali studenti che, all'interno della stessa regione, si spostano in un'altra città. E' l'affitto la voce più costosa per uno studente 'fuori sede', che, insieme alle spese accessorie (riscaldamento, condominio, energia, ecc.), raggiunge mediamente 4.982 curo annui se sceglie di vivere in singola, e 3.756 curo annui se, invece, sceglie di condividere una stanza con altri studenti. Dividendo l'Italia in Macro-regioni si scopre che e' il Centro ad avere le spese per la casa (affitto--mantenimento) più alte, pari a 5.544 curo 'annui per una stanza singola e 4.194 euro annui per una stanza condivisa. Più economico, invece, risulta il Sud con una spesa pari al 31 % in meno rispetto al Centro, per quanto riguarda la stanza doppia e dei 34% in meno relativamente alla singola. Di non poco conto risultano anche le spese per i libri, con una differenza tra le facoltà umanistiche e quelle scientifiche: per le prime la spesa ammonta in media a 454 curo annui, il 17% in più rispetto a quelle scientifiche. Da tale studio, quindi, emerge chiaramente che ad orientare lo studente nella scelta dell'università non e' solamente la qualità della facoltà prescelta, ma gioca un ruolo fondamentale anche il reddito della propria famiglia. Chi non ha la possibilità di sostenere i costi di una vita da studente fuori sede, perciò, deve accontentarsi di frequentare l'università più vicina (ovviamente ove disponibile). Mandare i figli all'università in Italia e', quindi, una spesa non indifferente anche per una famiglia benestante. Le nostre Universita' sono, infatti, tra le piu' care in Europa. Solo ad Amsterdam le tasse universitarie si avvicinano quelle nostrane: fino a 1.713 curo annuali. Una spesa esorbitante se si pensa che le universita' svedesi, tra le ppime nella classifica mondiale, sono tutte completamente gratuite. E nelle altre capitali europee? La Sorbona di Parigi erutta al massimo 500 curo mentre alla Freit Univanalhat Berlin si superano a malapena i 200 curo annuii. Tutta un'altra storia se sii tendono in esame gli Atenei universitari britanniniiper lo più privati. La University, College London urlata ad una famiglia 9.000 curo all'anno, neanche troppo in realtà, se si pensa che far studiare il proprio figlio alla Luiss di Roma costerebbe lo stesso, con l’unica differenza che il college londinese si posiziona al 4° posto tra le top 10 mondiali. Nonostante i finanziamenti statali, a meno che non si tratti di studenti particolamente meritevoli, studiare in un Ateneo privato in Italia costa in media 8.000 euro l'anno. Lo sanno bene i futuri medici per ora studenti alla Cattolica di Roma o Milano, o le famiglie dei quasi economisti della Bocconi, dove la retta annuale arriva anche a 10.000 curo. Basandosi su un sistema universitario prevalentemente privato, i paesi anglossassoni, per permettere anche alle famiglie meno abbienti di mandare i propri figli all'università', mettono a disposizione dei prestiti finanziari. Il governo britannico paga infatti, agli studenti inglesi e europei che lo richiedono, tutte le rette universitarie previste per una laurea triennale, A differenza di quello che accade in America pero', dove gli studenti appena finita l'universita' devono ripagare il debito, i giovani europei dovranno riconsegnare il denaro solo una volta trovata un'occupazione che possa permetterglielo. Un sistema, quindi, che mette in evidenza la fiducia delle istituzioni nei confronti della preparazione e della possibilità occupazionale offerta dalle università del proprio paese. Ma quanto costa vivere e studiare in un'altra capitale europea? I paesi europei, sono più competitivi anche sotto questo aspetto. Se sceglie Stoccolma, uno studente dovrà spendere in media 800 curo al mese tenendo conto di affitto, libri, tasse di residenza e divertimenti vari. Anche Berlino risulta essere molto vantaggiosa offrendo ai propri studenti moderni studentati a prezzi vantaggiosi anche per coloro che non riescono a vincere la borsa di studio. A Parigi, invece, la scelta piu' conveniente per uno studente, come consiglia il sito della Sorbona, e' lo 'studettes', delle stanze-studio di circa 17mq situati in zone residenziali negli ultimi piani dei palazzi. L'unico inconveniente e' che non hanno l'ascensore, e i bagni sono spesso in comune, cosa che pero' potrebbe facilitare la conoscenza dei propri vicini. I siti delle Universita' straniere, sono molto precisi al riguardo e offrono piano dettagliato sul costo complessivo di un anno di vita universitaria mentre le maggiori universita' italiane, rimandano al sito del Miur 'Study in Italy' che non offre particolari informazione riguardo i costi e lo stile di vita che l'Italia si appresta ad offrire. Londra, sicuramente, rimane la piu' cara con un budget complessivo che si aggira intorno alle 250 sterline a settimana: sì sa, Londra e' costosa, ma forse, in confronto ai servizi offerti dalle metropoli nostrane, ne vale veramente il sacrificio. _________________________________________________ Il Sole24Ore 14 lug. ’11 PER I NEOLAUREATI MENO SOLDI IN BUSTA Retribuzioni: I dati Od&M consulting Giacomo Bassi MILANO Non siamo ancora ai livelli statunitensi, dove lo stipendio di un amministratore delegato è superiore di i5o volte a quello di un neolaureato, ma anche in Italia la forbice tra le retribuzioni dei vertici aziendali e dei giovani al primo impiego si sta allargando. Nel nostro Paese, sostiene l'analisi annuale effettuata dalla società Od&M Consulting sulle retribuzioni, un ragazzo appena uscito dall'università riceve in media uno stipendio di 24 mila euro lordi all'anno, contro il milione di euro di un Ceo. «Questo significa che per arrivare allo stipendio di un ad - spiega Mario Vavassori, docente alla School of Management del Politecnico di Milano e fondatore della società di consulenza - ne servono 45 di un neo- laureato. Quello di un dirigente, che guadagna n3mila euro all'anno, è invece 4,7 volte quello di un under 3o e quello di un quadro 2,5 volte: per arrivare ai 53mila euro di queste figure, in sostanza, servono le retribuzioni di due laureati e mezzo». Lo studio, che ha preso in esame le buste paga di oltre cinquantamila giovani lavoratori italiani con un'età compresa tra i 24 e i 3o anni, offre una doppia chiave di lettura: da un lato analizza in valori assoluti le retribuzioni dei giovani con meno di due o con più di tre anni di esperienza, dall'altro le confronta con quelle di un impiegato di un'azienda di media grandezza. Bene, nel corso dell'ultimo anno, i laureati con meno di due anni di lavoro alle spalle hanno guadagnato mediamente 24.455 euro, contro i 24.396 euro annui lordi del 2009. Ma se per loro la crescita è stata solo dello 0,2%, anche peggio è andata ai giovani con alle spalle un'esperienza in azienda tra i 3 e i 5 anni: nel 2009 questi under 3o guadagnavano 590 euro in più rispetto al dicembre del 2010 (-2,1%). Un calo degli stipendi che tra l'altro (se si eccettuano i dirigenti e gli operai considerati nel complesso, senza divisione anagrafica) non è stato registrato in nessun'altra categoria. Anzi: analizzando le buste paga dei non laureati con un'età compresa tra i 24 e i 30 anni si scopre che le retribuzioni di questi ultimi sono cresciute ben più della media delle diverse categorie di lavoratori. Nello specifico, dice il rapporto preparato da Vavassori .e dal suo staff, nell'ultimo anno chi non ha conseguito la laurea ha avuto un aumento di stipendio compreso tra l'1,4 e il 2,9 per cento, riducendo ulteriormen te la forbice tra l'importo complessivo di chi ha deciso di investire in istruzione, e che guadagna appunto uno stipendio lordo di circa 24mila euro, e chi invece ha abbandonato gli studi dopo il liceo, e che si ferma ai 22 mila euro. Cifre che mostrano anche come lo stipendio di un impiegato medio, nello stesso arco di tempo considerato, sia invece aumentato in media del 3,6%. «La colpa di questa sproporzione, che si evidenzia soprattutto nella comparazione con le retribuzioni di tutti gli altri lavoratori –prosegue Vavassori - è da ricercare nelle modalità di accesso al lavoro per i giovani, che non consentono alcuna solidità finanziaria. Le aziende devono quindi cambiare politiche retributive se non si vuole arrivare ai livelli americani di disuguaglianza». _________________________________________________ Il Giornale 16 lug. ’11 TESI SCOPIAZZATE DUE «DOTTORI» SMASCHERATI DAL PC UNIVERSITÀ DI VENEZIA Pronti per discutere la tesi, una in materia umanistica e una in economia, due studenti hanno dovuto presentarsi invece davanti alla Commissione, disciplinare per vedersi sospendere dall'Università rispettivamente sei e nove mesi per plagio. Accade all'Università CàFoscari di Venezia che per combattere la piaga del plagio ha adottato un software -apposito con cui ha cominciato a setacciare gli elaborati degli studenti e, fatte le prime 25 verifiche, ha intercettato i due aspiranti dottori che avevano pescato dalla rete uno l'80% e l'altro 1190% dei rispettivi lavori. Due casi che potrebbero allargarsi in futuro o quanto meno servire da deterrente visto che dopo le prime «vittime» il sistema controllerà sistematicamente il lavoro degli studenti. Le verifiche sulle tesi saranno fatte dai relatori stessi ma tutti gli studenti potranno farvi ricorso durante l'elaborazione del testo per verificare l'effettiva originalità di quanto prodotto. _________________________________________________ L’Unità 16 lug. ’11 I MATURI SCELGONO IL PUBBLICO Per un indagine di Studenti.it in collaborazione con Swg, ha coinvolto più di 800 giovani. Dopo la scuola il 57% dei «maturi 2011» dichiara che sceglierà l'università pubblica, il 6% degli intervistati si orienterà invece verso un ateneo privato mentre il 4% guarda all'estero e sceglierà un ateneo fuori dall'Italia. _________________________________________________ ALMANACCO DELLA SCIENZA 13 lug. ’11 RICERCA: DALLA PUBBLICAZIONE ALLA TECNOLOGIA Nelle ultime settimane si è discusso molto sull'adeguatezza dell'attuale criterio di valutazione del merito scientifico. In apparenza, un dibattito di interesse esclusivo per la comunità dei ricercatori, ma non è così: due interventi, non a caso, sono usciti su un quotidiano ad amplissima tiratura come il Corriere della sera. Giuseppe Galasso ha affrontato in modo critico sia l'Impact factor, cioè il ranking dell'Institute for scientific information (Isi) basato sul numero di citazioni ricevute da un articolo scientifico, sia il peer review, la valutazione del lavoro dei ricercatori da parte di esperti dello stesso settore. Su questo secondo aspetto, un articolo di Giuseppe Remuzzi ha posto il dubbio che il rigore delle riviste nell'accettare i contributi, con percentuali di pubblicazione anche inferiori al 10% e frequenti richieste di integrazioni e avanzamenti, sia troppo macchinoso e mal si concili con l'attività concreta, soprattutto dei ricercatori più giovani. Va ricordato che Remuzzi è uno dei dieci scienziati italiani i cui articoli sono più citati al mondo, dunque non lo si può certo sospettare di criticare per interesse personale... Su Scienza in rete è stata poi sollevata la richiesta di un adeguato sistema di misurazione in ambito umanistico. Mentre Le Scienze ha riferito di un'indagine sul peer review in alcuni enti di ricerca e agenzie di finanziamento condotta dalla European science foundation, che ha stilato una guida per la corretta applicazione. Infine, la questione è stata affrontata su Sapere da Roberto Cristiano, in particolare per l'adeguatezza di questi criteri rispetto alla "nuova scienza che sia utile anche alla società". Perché il tema dovrebbe interessare il grande pubblico? Proprio perché dalla valutazione dell'attività scientifica derivano non solo prestigio e carriera del ricercatore e del suo gruppo ma, in qualche misura, il sostegno che viene concesso alla ricerca in termini di finanziamenti. A decidere dove investire in ambito scientifico non possono essere genericamente la società civile o i decisori politici, sia per salvaguardare l'autonomia della ricerca sia per la complessità delle tematiche. Ma proprio perché servono dei parametri è indispensabile che la comunità dei ricercatori, quando si "valuta", ponga attenzione ad aspetti che i tradizionali criteri potrebbero non misurare adeguatamente. In particolare, si avverte l'esigenza di tenere in considerazione il ruolo sempre più determinante di innovazione e tecnologia nella sfida globale. Su questo piano, al nostro Paese serve uno sforzo particolare. Davanti al 'World competitiveness yearbook' 2011, che ci colloca al 42° posto, arretrandoci di due posizioni e alle spalle di Filippine e Portogallo, un esperto come Stéphane Garelli, intervistato da Affari e Finanza di Repubblica, avverte: le grandi aziende "sembrano ignorare la necessità di investimenti in infrastrutture tecnologiche. E lasciano il compito alle modeste capacità di piccole e medie imprese". Diagnosi confermata dalla classifica delle multinazionali mondiali stilata da R&S Mediobanca: la prima italiana, Eni, è al 13° posto. "Colpa di un modello troppo orientato alla compressione del costo del lavoro piuttosto che all'aumento del contenuto tecnologico", commenta il Sole 24 Ore. Certo, l'insufficienza dei finanziamenti pubblici alla ricerca e le responsabilità dello Stato per talune carenze, ad esempio in termini di rapporto tra ricercatori e lavoratori, non vanno nascoste. Ma il problema essenziale è sul piano degli investimenti privati, com'è stato ribadito nei giorni scorsi dal ministro della Sanità, Ferruccio Fazio, e dal presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, Luciano Maiani, incontratisi per siglare un accordo quadro sull'innovazione del Sistema sanitario nazionale. Il nostro Paese rischia di restare al 'Miracolo scippato', come recita il titolo di un libro di Marco Pivato in cui si raccolgono storie di imprenditoria nazionale ad alto contenuto tecnologico che non hanno trovato in Italia il terreno giusto per crescere. Per uscire da questa situazione serve uno sforzo congiunto al quale nessuno può sottrarsi: Stato e amministrazioni pubbliche devono fare di più e meglio, le imprese devono cambiare mentalità e sacrificarsi maggiormente, la ricerca deve avvicinarsi a un mondo nel quale l'innovazione tecnologica è il fattore di crescita fondamentale. Marco Ferrazzoli _________________________________________________ ALMANACCO DELLA SCIENZA 13 lug. ’11 L'ANTICHITA' STUDIATA IN 3D L'Istituto per le tecnologie applicate ai beni culturali (Itabc) del Cnr di Roma, in collaborazione con il Consorzio interuniversitario Cineca e le università di Padova e Bologna, organizza la terza edizione della 'Scuola italiana di archeologia virtuale' che si svolge a Bologna dal 19 al 30 settembre 2011. L'obiettivo è introdurre i partecipanti a una conoscenza delle metodologie e delle tecnologie digitali avanzate per la raccolta, la documentazione, la comunicazione e la valorizzazione dei beni culturali, dall'acquisizione di dati sul campo alla loro elaborazione ed integrazione in ambienti di realtà virtuale. La scuola si contraddistingue per una formazione accelerata e particolarmente intensiva grazie all'organizzazione di sessioni di lavoro su dati reali sia in laboratorio che sul campo e alla sperimentazione diretta di strumenti hardware e software. Nel programma sono previste lezioni su cibernetica, cartografia e telerilevamento, Gps, modellazione 3D, computer grafica, laboratori di ricostruzione del paesaggio archeologico e di applicazioni di realtà virtuale. Ai partecipanti ammessi al corso viene rilasciato attestato di frequenza nonché concessi i crediti universitari. Modalità di ammissione: il corso è destinato a 25 laureati in materie umanistiche, in particolare nelle discipline e indirizzi afferenti ai beni culturali, ma saranno considerate anche domande di laureati in discipline scientifiche (fisica, ingegneria, geologia). La quota di iscrizione (600 euro) comprende i materiali cartacei ed elettronici forniti, l'utilizzo dei computer, del software e degli strumenti hardware, i pranzi. La domanda di ammissione va inviata entro il 20 luglio all'indirizzo e- mail info@archeologicavirtuale.it o al fax n. 06/90672684. ___________________________________________________________ Corriere Della Sera 11 Lug. '11 PER L'ENERGIA PICCOLO È BELLO NASCE LA GENERAZIONE «FAI DA TE» La sorpresa si chiama «micro-solar boom» ed è uscita dal rapporto delle Nazioni Unite dedicato agli investimenti nelle energie rinnovabili (Global Trends in Renewable Energy Investment zon). L'indagine che fotografa l'andamento del settore ha diversi elementi d'interesse a cominciare dal record delle risorse mobilitate: complessivamente 211 miliardi di dollari; cioè il 32 per cento in più rispetto al 2010. Ad essere maggiormente impegnati sono i Paesi in via di sviluppo che sia pure dì poco superano i Paesi ricchi: 72 miliardi contro 70. La nazione leader è la. Cina con 48,9 miliardi di dollari (28 per cento oltre il valore del 2009) anche se altre consistenti risorse Pechino garantisce al nucleare. Pure l'India sale (25 per cento) ma con cifre assolute più ridotte: 3,8 miliardi L'eccezionale balzo è dovuto alla combinazione di tre fattori: gli obiettivi stabiliti dalle varie politiche, Io stesso supporto politico al loro conseguimento e gli incentivi assicurati. Gli orientamenti tra i continenti si mostrano però diversi: i cinesi credono più nel vento (windfarm) mentre gli europei privilegiano il sole (qui gli investimenti nell'eolico sono precipitati del 22 per cento perdendo 35 miliardi di dollari). Ma intanto emerge una tendenza significativa e interessante che sottolinea come la crescita non riguardi tutti i settori. La notizia è che si crede sempre meno ai grandi progetti di generazione e si preferiscono i micro-impianti. Solo nel Vecchio Continente le cifre rivelano un autentico boom dei piccoli generatori fotovoltaici cresciuti del 132 per cento rispetto al 2009 arrivando a un investimento di 34 miliardi di dollari. Su questo fronte è la Germania a guidare il mutamento aiutato da una riduzione del costo (6o per cento per megawatt generato) dei moduli fotovoltaici. Ciò dimostra come l'energia stia diventando sempre di più un mondo dove si tende a controllare in proprio sia l'erogazione, magari con «impianti fai da te», sia la fonte preferita. E un cambio di mentalità non da poco rispetto ai tradizionali grandi produttori. Giovanni Caprara _________________________________________________ MF 14 lug. ’11 PICCOLE DIGHE CRESCONO Cresce l'interesse per il mini-idroelettrico di potenza compresa tra 1 e 10 mw Garantita fino a fine 2012 la tariffa di 0,22 € per kwh DI FRANCO CANEVESIO Ce c'è un settore delle rinnovabili nel quale l'Italia non teme confronti: è quello dell'idroelettrico. Lo sostiene l' Aper, l'associazione dei produttori di energia elettrica da fonti rinnovabili, che riprende i dati Terna aggiornati all'inizio del 2010, anno nel quale il nostro Paese ha prodotto 51.743 Gwh da fonte idroelettrica. Che l'Italia sia, una volta tanto, all'avanguardia, lo conferma anche Giancarlo Giudici, docente di Finanza aziendale al Politecnico di Milano ed esperto del settore. «Ogni anno», dice Giudici, «l'Italia produce oltre 40 terawattora dall'acqua, il 12% del fabbisogno energetico nazionale e oltre il 70% della produzione totale da fonti rinnovabili. Solo Francia e Svezia ci superano». L'idroelettrico, sostiene l'esperto, si sta dimostrando la più conveniente delle rinnovabili in termini di costi tanto nella realizzazione degli impianti quanto nell'operatività. Il solare, per esempio, funziona quando c'è il sole, l'eolico se c'è vento mentre l'idroelettrico funziona sempre. E la tecnologia è quella più consolidata: i pannelli solari devono essere sostituiti ogni dieci anni, gli impianti idro durano vari decenni e, di conseguenza, diventano un ottimo investimento. Per quanto concerne il grande idroelettrico, quello sopra i dieci megawatt di potenza, gli impianti esistenti sono circa 300 e rappresentano 1'85% della potenza installata mentre gli impianti sotto dieci megawatt sono circa 2 mila ma producono solo 15% della potenza: in almeno 700 le potenze variano da 1 a 10 Mw, gli altri 1.300 sono sotto il megawatt e costituiscono il mini-idroelettrico. Per i grandi impianti, spiega Giudici, «non ci sono potenzialità significative per lo sviluppo a meno di non sacrificare grandi vallate» mentre il mini- idroelettrico ha un grande avvenire davanti a sé. Il successo è dovuto anche alla tariffa unica incentivante, oggi pari a 0,22 euro per kilowattora e destinata a rimanere tale per gli impianti che entrano in funzione entro il 31 dicembre 2012. Nemmeno il futuro — che pure è incerto, normativamente parlando — sembra influire sul comparto. A settembre, uscirà il nuovo decreto ministeriale che introduce gli incentivi per il futuro: «Ci si attendono per i mini-impianti tariffe differenziate per fascia di potenza mentre per gli impianti di grossa dimensione i certificati verdi andranno a sparire e non si sa cosa accadrà», spiega l'esperto. Si parla di aste ma cosa si voglia fare nessuno lo capisce ancora bene. «Stimiamo un potenziale di sviluppo per l'idroelettrico di piccola taglia di 1.000 megawatt», dice Giudici. Tra i player che si danno più da fare c'è E.On che in Italia serve 900 mila clienti, vanta 300 megawatt di capacità installata da rinnovabili, 3,5 miliardi di euro di fatturato (sui 93 complessivi) e 526 milioni di ebitda. «Dopo il quarto Conto energia i nostri piani vanno avanti: perché per il momento non si vedono ostacoli e perché l'Italia è un mercato importante per il gruppo», riferiscono fonti dell'azienda. Che, dal canto suo, sta completando i lavori per aumentare la potenza nell'idroelettrico di Terni, rendendo più efficiente l'impianto che si affaccia sulle cascate delle Marmore. Formato da 16 centrali, con un investimento di circa 200 milioni di euro, l'impianto dovrebbe passare entro la fine di quest'anno da 637 a 657 megawatt di potenza installata, il 3,1% in più. Un aumento di efficienza che contribuirà a soddisfare il fabbisogno di 500 mila famiglie. Inoltre, sempre in Umbria, E.On ha avviato uno studio per un nuovo gruppo di pompaggio da 200 megawatt sul canale di Drizzagno, in prossimità del nucleo di Terni, con una capacità di stoccaggio di circa un milione di metri cubi di acqua. Il nuovo impianto sarà in grado di riutilizzare sempre la stessa acqua che di notte, quando le tariffe sono più basse e i costi più competitivi, verrà pompata a monte. Da lì sarà riconvogliata a valle durante il giorno, per azionare le turbine. (riproduzione riservata) _________________________________________________ Il Sole24Ore 14 lug. ’11 ADDIO ALL'ATOMO, TOKYO ACCELERA Giappone. Kan prospetta un'uscita graduale dopo Fukushima Stefano Carrer TOKYO. Dal nostro inviato C'è un italiano dietro la svolta antinuclearista del primo ministro giapponese Naoto Kan? Il dubbio è stato sollevato dal quotidiano Nikkei e ripreso dai blogger, due giorni prima che, ieri, Kan rompesse un tabù storico dichiarando che il Giappone dovrebbe cercare di realizzare una società non dipendente dal nucleare. Pur senza indicare una tempistica, il premier ha prospettato un graduale ridimensionamento in più fasi con l'obiettivo ultimo di un Giappone "no nukes". Il Nikkei non ha fatto il nome del «notorio antinuclearista italiano» sospettato di lavare il cervello del premier. È Pio D'Emilia, corrispondente di Sky TG24. Il 29 giugno Kan ha telefonato nel corso della presentazione, all'Istituto Italiano di Cultura, del libro "Tsunami nucleare" di D'Emilia, esprimendo l'auspicio di un forte cambiamento di prospettiva diventato necessario dopo Fukushima. In serata Kan è passato in uno dei ristoranti di Salvatore Cuomo, re della pizza in Giappone e fondatore di una charity pro- terremotati. Lì, senza mangiare, ha brindato e scambiato battute con il giornalista. Poi il Nikkei ha ipotizzato un'influenza straniera su decisioni strategiche per il Paese. «Mi meraviglio che si possa pensare a una mia influenza su Kan - afferma D'Emilia - Certo siamo amici da più di vent'anni. Tra amici si parla. Quella sera gli ho detto che dopo la decisione tedesca di uscire dal nucleare e il referendum italiano, in fondo si potrebbe creare un nuovo tripartito Roma-Berlino-Tokyo, che cerchi ancora una leadership mondiale. Questa volta, però, a fm di bene: nelle energie alternative». Agli osservatori più accorti, la verità è semplice: Kan sembra ormai politicamente spacciato: i suoi giorni - o meglio settimane - da premier sono contati e così la sua leadership nel partito. L'unica possibilità di entrare nei libri di storia è lasciare un'eredità come il primo premier ad aver sug-. gerito di dire basta all'energia che, da Hiroshima a Fukushima, ha sconvolto la nazione. Se poi Kan, da lottatore, volesse cercare di rilanciarsi, l'unica possibilità che gli resta è sciogliere il Parlamento - magari il 6 agosto, anniversario di Hiroshima - e convocare gli elettori su un unico tema chiave a mo' di referendum: l'uscita dal nucleare. Koizumi l'aveva fatto, con successo, sul ben più astruso argomento della privatizzazione di Japan Post. A reattori di Fukushima ancora caldi e lontani dal "cold shutdown", la tentazione, per un politico di razza, può essere forte. _________________________________________________ La Stampa 15 lug. ’11 DALLA PADELLA ALLA BRACE MAIII0 TOZZI Soprattutto accendendo nuove centrali a carbone e non spegnendo le vecchie. Non avete voluto il nucleare? Allora beccatevi il carbone, una logica che più miope non si può. La scelta viene giustificata dalle nuove tecnologie (il carbone pulito) e dal bisogno sempre più pressante di energia, fattori che si faranno risentire anche sul nostro Paese, che dipende solo per 111% dal carbone, ma che vede diffusi tentativi di riconversione verso questo combustibile fossile. Chiunque abbia preso mai in mano un pezzo di carbone sa che il carbone pulito non può esistere, esistono semmai tecnologie più pulite (clean coal technologies) per il suo sfruttamento. Come quelle che consentono di ricavare combustibili liquidi attraverso la sua liquefazione. Polveri e ceneri volatili vengono limitate nelle nuove centrali a carbone attraverso l'impiego di dispositivi a ciclone, precipitatori elettrostatici, sistemi di lavaggio a umido e filtri di vario genere. Il problema micidiale delle emissioni di anidride solforosa (cioè delle piogge acide) viene risolto soprattutto separandola dagli altri gas combusti o desolforando direttamente il carbone. Gli ossidi d'azoto possono essere significativamente limitati (denitrificazione) agendo sul processo di combustione o rimuovendoli dai gas combusti. Non c'è niente da fare, però: il carbone inquina, comunque aumenta l'effetto-serra, produce ceneri e, alla fine, è destinato a esaurirsi. Ma sul ritorno al carbone giocano anche altre questioni strategiche industriali. Prima di tutto il fatto che ci sarebbe carbone sufficiente per altri 230 anni circa (altre stime parlano di 150 anni), molto di più di qualsiasi altro combustibile fossile si possa usare. Però, come per il petrolio, l'ultima tonnellata di carbone si estrae più difficilmente e costa molto di più da estrarre della prima: l'importante non è quando finisce, ma quando comincia a costare troppo, cioè circa a metà delle riserve sfruttate. Il secondo dato favorevole è che la distribuzione geografica del carbone è molto diversa rispetto a quella del petrolio, non interessando Paesi con gravi problemi di instabilità politica. Questo dovrebbe garantire maggiore tranquillità nell'approvvigionamento e maggiore stabilità nei prezzi. Così il carbone consentirebbe di superare l'attuale fase di transizione energetica arrivando senza traumi al suo esaurimento, prima che ci si trovi in emergenza per aver esaurito definitivamente petrolio e gas naturale. Ma i problemi connessi con l'uso del carbone sono gravissimi a partire dall'estrazione. Le miniere di carbone sono generalmente a cielo aperto e il loro scavo altera gravemente il paesaggio, sollevando polveri e altri inquinanti. In ogni caso si tratta di scavi giganteschi che comportano lo stravolgimento di una regione. Le ceneri generate dalla combustione del carbone ammontano a una percentuale in peso maggiore di quella del petrolio e, ovviamente, del gas naturale (che non ne produce). Comportano quindi gravi problemi di inertizzazione e smaltimento, aggravati dalla presenza costante di impurità metalliche, spesso tossiche o comunque nocive, che vanno trattate a parte. Bruciare carbone, poi, non libera dalla schiavitù dell'anidride carbonica, anzi, per questa via se ne produce di più che con qualsiasi altro combustibile fossile, con i relativi problemi in termini di surriscaldamento dell'atmosfera che già conosciamo bene per il petrolio (e, in misura minore, anche per il gas). Nessuna politica di opposizione al cambiamento climatico ha senso se non si rinuncia al carbone. Senza contare la sgradevole sensazione di essere finiti dalla padella nella brace. _________________________________________________ La Stampa 15 lug. ’11 LONDRA VA IN CONTROTENDENZA "AL POSTO DELLE FONTI FOSSILI ATOMO E TANTE PALE EOLICHE" ANDREA MALAGUTI CORRISPONDENTE DA LONDRA Annunciando la più radicale trasformazione del mercato dell'energia degli ultimi vent'anni vale a dire dai tempi delle privatizzazioni - il ministro liberaldemocratico Chris Huhne si è presentato martedì al Regno Unito con una questione semplice semplice: «Preferite rimanere al buio o versare il vostro contributo per investimenti rivoluzionari?». Domanda retorica. In tasca aveva un piano già approvato dal governo Cameron da 110 miliardi di sterline. Una super revisione del sistema di approvvigionamento che prevede entro il 2030 la sostituzione totale degli impianti obsoleti (un quarto di quelli esistenti) e investimenti massicci su energie rinnovabili e nucleare. «Un sistema misto che ci consentirà di non esporre i cittadini alle oscillazioni del prezzo del petrolio e di garantire a tutti forniture costanti», ha spiegato esultante il ministro. Il conto per i consumatori sarà consistente. Un aumento delle bollette di 160 sterline l'anno prima dello scadere del prossimo decennio. «Ma così terremo la luce accesa. E senza questo cambiamento profondo le sterline da pagare in più sarebbero state 200». Il piano di investimenti, in ogni caso, corrisponde alla costruzione di 20 nuovi impianti energetici, un ritmo doppio a quello dell'ultimo decennio. E soprattutto prevede «la sostituzione del petrolio con il vento». Uno slogan, certo, ma non poi così lontano dalla realtà. Le energie rinnovabili saranno portate dal 7% al 30% del totale della produzione prima del 2030. E ancora una volta le risorse saranno trovate nel Mare del Nord. Nel settembre del 2010 è stato inaugurato il più grande parco eolico «off shore» del pianeta. L'industria svedese Vattenfall ha speso 780 milioni di sterline per piazzare 100 turbine in una zona di trentacinque chilometri quadrati al largo di Thanet. E la E.On. ha previsto di collocarne 341 all'estuario del Tamigi. Enormi polmoni che anticipano di pochi mesi il Round 3, un piano per installare 1700 giganti a elica al largo delle coste orientali. Per i costruttori non sono previsti benefici economici diretti, ma i distributori saranno obbligati ad acquistare quote sempre più alte di energia prodotta da fonti rinnovabili. Ci saranno premi, e soprattutto contratti a lungo termine, per chi farà la scelta di produrre energia elettrica a bassa emissione di carbonio. Il gruppo ambientalista Amici della Terra ha accolto con entusiasmo la scelta di ridurre la dipendenza da combustibili fossili. «È un primo passo. Ma ora è necessario dare una mano a chi abita in zone isolate e spingere le comunità locali a produrre energia in proprio». Una strada segnata. Il primo ministro David Cameron ne ha approfittato per cercare di allentare la pressione dello scandalo intercettazioni- News International. «Avevamo promesso che saremmo stati il governo più verde dal dopoguerra a oggi. Beh, questa è la prova che non stavamo mentendo». Sperava in una ola riconoscente, ma il Paese era distratto. Compostamente in fila a pagare le bollette che British Gas aveva deciso di aumentare di colpo del 18%. Il giorno prima della presentazione del piano del governo. _________________________________________________ La Stampa 14 lug. ’11 E BERLINO TAGLIA I FONDI ALLE RINNOVABILI: "INVESTIAMO NEGLI IMPIANTI A CARBONE" ALESSANDRO ALVIANI BERLINO In Germania l'hanno ribattezzata «svolta energetica»: la più grande economia di Eurolandia vuole dire addio al nucleare entro il 2022 e potenziare eolico e solare. Da ieri, tuttavia, la parola «svolta» suona forse eccessiva: Berlino intende infatti usare una parte dei fondi destinati alle rinnovabili per finanziare la costruzione di nuove centrali a carbone. Una tecnologia tutt'altro che pulita sovvenzionata coi soldi per le energie pulite, nel Paese che aspira a fare da apripista verso un futuro dominato dalle fonti alternative: il controsenso ha mandato su tutte le furie l'opposizione e le sigle ambientaliste. Come se non bastasse l'Agenzia delle reti ha proposto di mantenere operativa una delle centrali nucleari già spente da Berlino, come riserva per evitare black-out nei mesi invernali. La «sorpresa» del carbone è contenuta nella risposta del ministero dell'Economia a un'interrogazione dei Verdi. «Tra 2013 e 2016 la necessaria costruzione di centrali fossili altamente efficienti, flessibili e adatte alla tecnologia CCS» dovrebbe essere «incentivata col 5% delle spese annue del fondo per l'energia e il clima», si legge nel documento. IL5% non suona esorbitante, eppure a conti fatti equivale solo per il 2013 a un massimo di 166,5 milioni di euro, che finirebbero in nuove centrali a carbone, ma anche a gas. E pazienza se lo scopo del «fondo per l'energia e il clima», finanziato coi proventi della vendita dei certificati di emissione di Co2, è sostenere in primo luogo misure di «approvvigionamento energetico a basso impatto ambientale». Al ministero dell'Economia si difendono: le nuove centrali servono a compensare le oscillazioni delle fonti rinnovabili. Resta, però, il sospetto lanciato sulla Zeit da uno dei pionieri del pensiero ambientalista tedesco, Ernst Ulrich von Weizsàcker: si parla tanto di rinnovabili, ma in realtà «il motto che non viene pronunciato da nessuna parte è: carbone al posto dell'atomo». Già oggi il carbone copre circa il 40% delle forniture elettriche tedesche e il suo ruolo è destinato a crescere: RWE e Vattenfall stanno tirando su nuove, gigantesche centrali. RWE, comunque, ha annunciato di non voler costruire in futuro centrali a carbone. A meno che - una coincidenza? - non otterrà soldi pubblici per farlo. A Berlino, per ora, frenano: a intascare le sovvenzioni per le nuove centrali a carbone e gas non saranno i big dell'energia, ma solo i gestori più piccoli. _________________________________________________ ItaliaOggi 15 lug. ’11 L'APPRENDISTATO ORA APRE ALLA P.A. Cosa prevede l'accordo siglato nei giorni scorsi dal governo e dalle organizzazioni sindacali Assunzioni con contratto di mestiere o per formazione/ricerca DILUIGI OLIVERI L’apprendistato apre , alla pubblica amministrazione. L'accordo sull'apprendistato siglato da governo e sindacati (si veda ItaliaOggi del 13 luglio scorso) prevede per la prima volta che anche gli enti pubblici potranno assumere apprendisti, in particolare in applicazione della tipologia di contratti prevista dall'articolo 1, comma 2, lettere b) e c), del testo unico, e cioè l'apprendistato professionalizzante (o contratto di mestiere), nonché l'apprendistato di alta formazione e ricerca. Resta escluso, invece, l'apprendistato per la qualifica professionale. Per le pubbliche amministrazioni si tratta certo di un'opportunità da cogliere, anche se il percorso per rendere operativo il reclutamento degli apprendisti appare piuttosto complesso. L'articolo 7, comma 8, del Testo unico intanto demanda a successivi provvedimento la soluzione del principale problema da risolvere nell'esportazione di questa tipologia di lavoro nella pubblica amministrazione: cioè le modalità di assunzione. La norma stabilisce che la regolamentazione del reclutamento e dell'accesso all'impiego nella p.a., sarà definita da un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro perla pubblica amministrazione e l'innovazione e del ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, sentite le parti sociali e la Conferenza unificata, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto. Verosimilmente, non si potrà fare a meno di condizionare il reclutamento ad un concorso pubblico, come impone l'articolo 977, comma 3, della Costituzione, come già del resto avviene per l'assunzione mediante contratto di formazione e lavoro. A maggior ragione l'assunzione di apprendisti nella p.a. non potrà prescindere dal concorso: l'articolo 2, comma 1, del Testo unico chiarisce a livello normativo e, dunque, fugando ogni residuo dubbio, che il contratto di apprendistato è a tempo indeterminato, anche se caratterizzato dalla «libera recedibilità» tra le parti. Infatti, l'ultimo periodo del citato articolo 2, comma 1, chiarisce che «se nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso al termine del periodo di formazione il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato». Il Dpcm cui rinvia il testo unico potrebbe, tuttavia, non essere sufficiente. Infatti, il testo unico rimette ai contratti collettivi la disciplina di dettaglio dell'apprendistato professionalizzante; specifiche leggi regionali, nonché, per i soli profili che attengono alla formazione, accordi con le associazioni territoriali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, le università, gli istituti tecnici e professionali e altre istituzioni formative o di ricerca, saranno il presupposto per l'apprendistato di alta formazione e ricerca. È facile constatare come attualmente la contrattazione collettiva dei comparti pubblici non preveda nulla in merito. In effetti, l'estensione alla p.a. del contratto di apprendistato appare estremamente utile, per provare a rilanciare un ringiovanimento dei ranghi dei dipendenti pubblici: l'età media in questi ultimi anni si è alzata oltre i 47 anni, anche a causa dei vincoli alle assunzioni disposti dalle varie leggi finanziarie. Non solo. Come tipico contratto a causa mista, l'apprendistato ha una duplice funzione: non solo la regolamentazione del rapporto di lavoro, ma anche una specifica funzione formativa per il lavoratore, cui corrispondono simmetrici oneri organizzativi a carico del datore, da cui discendono alcune specifiche agevolazioni tipiche del negozio. Tra queste, può rivelarsi di particolare interesse per le amministrazioni pubbliche e tanto più per gli enti locali la possibilità espressamente prevista dall'articolo 2, comma 1, lettera c), del Testo unico «di inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante, in applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al conseguimento delle quali è finalizzato il contratto ovvero, in alternativa, di stabilire la retribuzione dell'apprendista in misura percentuale e in modo graduale alla anzianità di servizio». Poiché gli enti locali debbono contenere le assunzioni entro il 20% del costo delle cessazioni avvenute l'anno precedente, sul piano finanziario le assunzioni in apprendistato potrebbero rivelarsi convenienti. Naturalmente, però, la sola valutazione del vantaggio finanziario non è sufficiente. La qualità della formazione è altrettanto importante ed occorre che gli enti assicurino un'effettiva ed efficace azione di miglioramento della professionalità degli apprendisti, perchè il sistema risponda pienamente e correttamente agli intenti del legislatore. _________________________________________________ Automazione 14 lug. ’11 SCOPERTE LE ONDE A SENSO UNICO Due ricercatori dell'Istituto dei sistemi complessi del Cnr di Firenze e dell'Università dell'Insubria (Conio) hanno dimostrato teoricamente che è possibile creare dei percorsi "a senso unico" per la luce e il suono, esplorando le nuove frontiere della fisica non lineare. La scoperta apre la strada ad applicazioni nel campo dei computer quantistici e dell'acustica che potranno essere impiegati in futuro in vari settori. Normalmente la luce non ha una direzione di propagazione preferenziale e si può trasmettere con uguale intensità, per esempio, da destra a sinistra o viceversa. Ma esistono materiali detti `nonlinearì che, al contrario di quelli tradizionali, ne permettono il passaggio da alcune direzioni e non da altre, producendo un percorso "a senso unico" per le onde luminose. Questa possibilità è stata prevista teoricamente da Stefano Lepri, ricercatore dell'Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze (Isc-Cnr), e Giulio Casati, professore presso il Centro per i sistemi complessi dell'Università dell'Insubria. La ricerca prelude al potenziale utilizzo di questi materiali per applicazioni ottiche e acustiche in diversi campi, daì computer quantistici all'insonorizzazione ambientale. «Un nostro articolo pubblicato su "Physical Review Letters" descrive, tramite un modello matematico, cosa accade facendo passare della luce attraverso un materiale not lineare», spiega Lepri. «Estendendo il nostro modello alle onde acustiche si può immaginare che un suono di una data intensità possa attraversare il materiale non lineare in una direzione, ma non in quella opposta. Così si può ipotizzare, per esempio, che nel prossimo futuro sarà possibile insonorizzare una stanza in modo "unidirezionale", riuscendo a non far sentire al di fuori i suoni prodotti all'interno, ma mantenendo la possibilità di percepire quelli esterni». _________________________________________________ Il Messaggero 15 Lug. ’11 SMEMORATI GRAZIE A INTERNET IL WEB FA IMPIGRIRE IL CERVELLO Studio Usa: la tecnologia cambia il modo di apprendere di CARLA MASSI ROMA - La calcolatrice per fare le somme, il cellulare per ricordare gli appuntamenti, la posta elettronica per conservare tutto scritto e archiviato, il navigatore in macchina per andare senza pensieri. La memoria non serve. La tecnologia è in grado di sostituire la funzione del ricordo, permette di non fare sforzi e di lasciare la testa libera. I più piccoli possono permettersi di crescere senza dover fissare nulla nell'universo della mente. Né le tabelline, né le poesie, né le strade. Gli adulti sono alleggeriti dal lavoro mnemonico ma rischiano di diventare smemorati anzitempo. Come dimostra una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Science firmata da un gruppo di neurologi della Columbia University di New York. Sotto osservazione, diversi gruppi di volontari. Molti giovani che hanno accettato di rispondere a una serie di test. Risultato: la memoria e la capacità di apprendimento sono mutate. Si sono adattate, come una specie animale o vegetale, ai cambiamenti esterni. Che in questo caso si chiamano Google, internet, sms. Appoggi ormai irrinunciabili, sostituti della memoria e tappabuchi a portata di mano. «La nostra memoria - spiega Betsy Sparrow che ha guidato la ricerca - è ormai internet. E' una banca che conserva per noi le informazioni e che è disponibile a dare quando chiediamo. Il pc conserva quel che abbiamo smesso di memorizzare. Cosi, il nostro cervello non si sforza». Una sorta di intorpidimento delle capacità cognitive. «Facciamo troppo affidamento sulla tecnologia - aggiunge la ricercatrice - e l'abbiamo trasformata nella memoria transattiva. Un magazzino, cioè, di informazioni esterne a] nostro cervello». I gruppi di giovani che hanno partecipato allo studio sono stati impegnati in un arduo lavoro di memoria: dovevano rispondere a diversi quiz e, successivamente, provare a ricordare le informazioni che avevano acquisito. A una parte di loro è stato detto che i loro appunti annotati nel pc sarebbero poi stati cancellati e a un altro gruppo che tutto gli scritti sarebbero stati immagazzinati. Interrogato, il primo gruppo, aveva memorizzato le informazioni apprese durante i test mentre il secondo aveva trattenuto poco in testa affidandosi alla possibilità di rileggere tutto. Una catena di trabocchetti nei quali i ragazzi sono caduti dimostrando la scarsa attenzione che dedicano alla funzione del ricordo e dell'elaborazione delle informazioni. Tutti, comunque, bravissimi nel tenere a mente come arrivare a trovare un file nascosto negli archivi del programma ma assolutamente incapaci di ricostruire, seppur con uno sforzo, quello che lì dentro avevano precedentemente messo. «Internet è ormai la nostra memoria - conclude la ricercatrice- Ma corriamo il rischio di un'autentica e grave amnesia nel caso in cui il contenuto venga danneggiato». Anche le emozioni e le nostalgie. _________________________________________________ Il Messaggero 15 Lug. ’11 IL NEUROLOGO: IL NOSTRO BAGAGLIO MENTALE NON VA DEPOSITATO IN UN ARCHIVIO ROMA - «La tecnologia, da sempre, ha obbligato l'uomo ad adattarsi. A cambiare il modo di immagazzinare le informazioni e le immagini. Ma non ha mai intaccato la sua intelligenza, non ha mai minato la capacità di apprendimento. In questa situazione, invece, è diverso». Paolo Maria Rossini, ordinario di Neurologia alla Cattolica di Roma e studioso di memoria, si preoccupa per le nuove generazioni. QUAL È LA DIFFERENZA RISPETTO AL, PASSATO? «Oggi si tende, in particolare i più giovani, a depositare la memoria in un archivio artificiale. Il rischio è quello di svuotare la mente anche dai ricordi». E quale danno ne deriva? «Che l'identità di una persona si forma a metà o non si forma. Noi siamo figli delle nostre esperienze, della nostra storia, di quello che abbiamo vissuto e trattenuto. Se non si trattiene nulla, nulla si crea». NELLA VITA PRATICA CHE COSA ACCADE? «Che si è meno forti, che non si è in grado di formare un giudizio o di esercitare le proprie capacità intellettive a pieno. Senza memoria viene meno la forza del giudizio, la voglia di sperimentare e di interpretare». SI È PIÙ DEBOLI? «Si è incapaci di affrontare la realtà, la vita è un limbo. Ogni giorno, per utilizzare un termine del pc, si resetta». AI BAMBINI SI PUÒ FAR UTILIZZARE UN COMPUTER? «Con attenzione. La capacità di memorizzare si costruisce dall'infanzia fino ai diciotto anni. Bisogna aiutarli». Una volta si imparavano le poesie a scuola, roba da archeologia cognitiva? «Anche oggi i bambini e i ragazzi sono costretti a fare esercizi di memoria, non sono così necessarie le poesie. Ma è certo che devono imparare a depositare e trattenere per poi utilizzare in diversi processi intellettivi». C.Ma. ___________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Lug. '11 ITALIA SENZA LEGALITÀ E SENZA RICAMBIO SOCIETÀ LE PROPOSTE DI MICHELE AINIS PER BATTERE LO STRAPOTERE DEGLI INTERESSI ORGANIZZATI Quante costituzioni ha l' Italia? Almeno due, a giudicare dal dibattito corrente. Da una parte c' è la Costituzione con la maiuscola, inapplicata in varie sue parti. Dall' altra c' è la cosiddetta «costituzione materiale», espressione che oggi serve a definire il modo distorto in cui buona parte della classe politica concepisce un sistema fondato sul principio maggioritario. Il risultato, denuncia il costituzionalista Michele Ainis, è che viviamo in una sorta di «duplice ordine giuridico», in cui alle norme formali se ne sovrappongono altre vigenti di fatto. Ragion per cui s' indebolisce la certezza del diritto e si affievoliscono le garanzie per i cittadini. Se le regole sono labili e indecifrabili, a prevalere è la legge della giungla. A questa denuncia, contenuta nel saggio L' assedio (Longanesi, pp. 271, 15), Ainis ne aggiunge un' altra, esposta in un libro più recente intitolato La cura (Chiarelettere, pp. 185, 14). Qui il fenomeno deplorato dall' autore è il potere soffocante degli interessi organizzati nella società italiana: partiti, sindacati, corporazioni professionali, gruppi di pressione, consorterie varie. Entità che perpetuano le rendite di posizione dei garantiti, spingendo ai margini l' individuo isolato, magari meritevole, che non può contare sugli appoggi giusti. Il risultato è che la mobilità sociale si è bloccata e domina una gerontocrazia inamovibile, con un ricambio delle classi dirigenti ridotto ai minimi termini. Di qui la fuga dei cervelli all' estero e il paradosso per cui da vent' anni i partiti mutano nome di continuo, ma conservano ai vertici le stesse persone. Ainis non si limita a indicare il problema, ma avanza proposte concrete per venirne a capo. Alcune sono senz' altro condivisibili, soprattutto quando parla di disarmare le lobby, annullare i privilegi della nascita, neutralizzare i conflitti d' interessi. Più opinabile è l' idea di favorire categorie svantaggiate come le donne e gli immigrati stranieri, poiché misure del genere realizzano pur sempre, come ammette lo stesso Ainis citando Norberto Bobbio, una «compressione forzata dei talenti», di cui francamente non si sente il bisogno. Inoltre va sottolineato che la cura indicata da Ainis, al di là dei giusti appelli alla società civile, richiede un forte risveglio della politica, intesa come attività volta al perseguimento dell' interesse generale di lungo periodo. Se quel fattore manca, difficilmente legalità e meritocrazia faranno passi avanti. RIPRODUZIONE RISERVATA **** L' autore Michele Ainis, editorialista del «Corriere», insegna all' università di Roma Tre. Tra i suoi libri recenti: «L' assedio» e «La cura» Carioti Antonio ___________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Lug. '11 INTERESSE COLLETTIVO, QUELLA VIRTÙ PERDUTA di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA C erte cose non si possono misurare con alcun dato statistico, con nessun grafico. Ma si respirano nell’aria. È così che nell’Italia di oggi si avverte sempre più diffusa l’impressione che il nostro futuro è ormai un futuro di declino. Che stiamo diventando un Paese di serie B. Non c’entrano (o sono solo sullo sfondo) le nostre pur difficili condizioni economiche, il debito pubblico stratosferico, la «manovra» . C’entrano piuttosto il confronto con gli altri Paesi, da tempo sfavorevole all’Italia in tutti i campi, il senso d’inadeguatezza di ogni nostra infrastruttura, le disfunzioni di quasi ogni nostra istituzione; e ancor di più c’entra l’incapacità di chi dirige la cosa pubblica d’immaginare qualche rimedio, di dare l’impressione (almeno l’impressione) di capire che cosa è in gioco; la sua incapacità di avere un sussulto che rappresenti un segno di svolta rispetto al corso fatale degli eventi. Ciò che in grande misura determina la crisi d’immagine e di consensi della destra nei confronti dell’opinione pubblica — della sua stessa opinione pubblica — è precisamente il distacco incolmabile che aumenta ogni giorno tra gli esponenti del Pdl e i sentimenti di scoramento e di sfiducia di cui ho appena detto. Sentimenti che stanno diventando sempre di più il sentire comune del Paese. È il fatto che gli esponenti della destra, i suoi ministri, non sanno mai dire una parola, mai compiere un gesto, mai trovare un’occasione simbolica che trasmetta un messaggio di serietà e di coerenza, di preoccupazione per l’interesse collettivo, magari anche contro il proprio; un gesto che sia testimonianza di sollecitudine per l’identità della nazione e il suo futuro. Prendiamo il ministro Alfano, neosegretario politico del Pdl. Ebbene, tre o quattro giorni fa succede che varie decine di avvocati e notai, parlamentari del suo partito, offesi dalla sola idea che il governo possa pensare a modificare i loro rispettivi ordini professionali, scendano sul sentiero di guerra minacciando addirittura di uscire dalla maggioranza se il loro veto non sarà accolto. Sul carattere politicamente miserabile di questi signori ha già detto quello che andava detto Antonio Polito su queste colonne. Ma che cosa, invece, ha detto o fatto Alfano? Assolutamente nulla. In altre parole: un buon numero di deputati e di senatori di un partito si ammutinano contro il loro stesso governo per difendere i propri interessi personali, e il segretario politico di quel medesimo partito non trova necessario fare la minima osservazione, lanciare loro il minimo avvertimento. Tra le parcelle dei notai e degli avvocati da una parte, e il voto di milioni di elettori dall’altra, Alfano, insomma, si è schierato con il suo silenzio dalla parte delle parcelle. È così, mi domando, che si difende la dignità della politica, l’interesse generale? È così che si dà un esempio di serietà al Paese, che gli si dà un segnale di quel rinnovamento dello spirito pubblico di cui la difficile condizione economica fa avvertire ancora di più a molti il bisogno? Certo, quello di Alfano è un dettaglio. Ma quasi sempre è proprio nei dettagli che si annida la verità più significativa. Sono un dettaglio, ad esempio, o potrebbero passare per tale, anche i criteri di valutazione per i candidati ai concorsi universitari (in realtà non si tratta più di concorsi, ma per farmi capire continuo a chiamarli così) emanati di recente dalla neo istituita Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). In particolare dove si stabilisce quale peso dare alle pubblicazioni dei candidati. Ebbene, d’ora in poi, ha stabilito l’Anvur, una monografia pubblicata presso quello che viene definito «un editore internazionale» avrà un peso 3, un articolo pubblicato su «una rivista internazionale» 1,5 , mentre una monografia pubblicata presso quello che viene definito «un editore nazionale» avrà solo un peso 1,2, e infine un peso di appena 0,5 un articolo su una rivista italiana (ma l’aggettivo italiano è sempre pudicamente omesso; viene sempre scritto «nazionale» : chissà perché). Dal che sembra inevitabile trarre le seguenti conseguenze: a) che ai fini di un concorso per insegnare in un’università della Repubblica un libro di 500 pagine pubblicato, mettiamo, da Einaudi o dal Mulino vale meno di venti pagine pubblicate su una rivista americana, spagnola o tedesca che sia; b) che per definizione gli editori e le riviste «nazionali» , cioè italiane, non possiedono né possono in alcun caso possedere un carattere «internazionale» : questo appartenendo solo a ciò che si pubblica in lingue diverse dalla nostra; c) che tutti gli studiosi nati nella Penisola sono invitati a cessare d’ora in poi dall’usare l’italiano nei loro scritti e dall’avere come referenti culturali iniziative editoriali di qualunque tipo che adoperino la lingua italiana; in sostanza la cosa più ragionevole che possono fare è di diventare inglesi. Va subito precisato che naturalmente l’Anvur agisce in piena autonomia dal ministero dell’università e della Ricerca (e la sua delibera la dice lunga su che cosa pensi del proprio Paese e della sua identità una parte degli intellettuali italiani: che lo vedrebbero volentieri diventare una regione del Canada). Ma che il ministro Gelmini non abbia trovato opportuno esprimere al riguardo la propria libera opinione è singolare e significativo (e queste righe sono un invito a farlo). Anche così, mi sembra, la destra segna la propria lontananza dal più vero e drammatico interrogativo che la collettività nazionale ha di fronte (e tanto più vero e drammatico in quanto è preliminare a tutti gli altri ma è il meno dicibile): che ci sta a fare nel mondo l’Italia? Perché, e in vista di che cosa ha un senso che continui ad esserci? _________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Lug. ’11 L'INCHIOSTRO DIVENTA LUCE La stampante ideata della Omet di Lecco fissa celle fotovoltaiche su fogli di carta. Funziona. E i ricercatori Usa vengono in Italia per studiarla I TRE ESPERIMENTI di Giuseppe Caravita II foglio che esce dalla lunga macchina di stampa della Omet di Lecco sembra solo carta. Però, una volta portata sul banco, improvvisamente si illumina. Una rete di microscopici led globulari, grandi quanto una cellula, vi è stata impressa. E ha stupito gli astanti dell'Arpa-e Innovation summit di Washington lo scorso maggio. Guadagnandosi le prima posizione tra i progetti di innovazione energetica. Bill Ray, uno degli inventori della carta a le d (Chief Scientist della neonata star- tup NthDegree) è anche docente del Sonoco Institute della Clemson University del- la Carolina del Sud. Centro d'eccellenza per lo studio delle tecnologie di stampa. Recentemente ha adottato la tecnologia "made in Italy" della Omet, la macchina di stampa più modulare esistente o, come ama definirla, «il coltellino svizzero della printed electronics». In pratica, stampare su fogli di carta o di plastica dei Ledo celle fotovoltaiche, oppu- re circuiti o sensori, significa deporre selettivamente strati sovrapposti di diversi materiali con elevata precisione. In diverse fasi di processo. E le macchine Omet, nate negli anni 6o per la stampa a colori di tovaglie, etichette e su plastica, hanno proprio questa caratteristica. La loro serie di multiple unità di stampa consente di combinare la stampa a rotocalco con la serigrafia oppure ancora con la stampa flexografica e l'inkjet. «L'intero sistema è coordinato dalla meccatronica flessibile - osserva Angelo Bartesaghi, presidente e fondatore della Omet - e in una sola macchina riusciamo a coordinare diverse tecniche di stampa. Questo la rende particolarmente interessante per i centri di ricerca, come quello della Clemson, che oggi sta provando tutte le alternative possibili per l'elettronica e il foto- voltaico a stampa. Anche con l'aiuto dei nostri tecnici. I primi risultati sono molto promettenti. Tra non molto si aprirà un mercato significativo per l'elettronica stampata». Altrettanto sta avvenendo a Milano. Qui l'Istituto italiano di tecnologia (Iit), insieme al Politecnico, ha inaugurato un mese fa un nuovo laboratorio dedicato alle nanotecnologie e nanoscienze (39 ricercatori). «E uno dei nostri obbiettivi chiave - spiega Guglielmo Lanzani, coordinatore del nuovo centro - sarà quello di sviluppare un produzione fotovoltaica su vasta scala di celle flessibili, scendendo a 30 centesimi per watt, un terzo dei prezzi di oggi». Celle a "coloranti" (dye-sensityzed cells) impresse su fogli di plastica semitrasparente. Oppure persino a film sottile in nano-silicio su polimeri, come quelle in fase di sviluppo nei laboratori St Microelectronics di Catania. Ma anche a Milano lo strumento di ricerca sarà la macchina di stampa multipla della Omet. Su cui i ricercatori proveranno la deposizione di inchiostri, sia metallici che organici. Fino a ottenere celle a buon rendimento (finora sono ancora al 5%) e processi produttivi affidabili. «Le nostra macchine sono prestate gratuitamente ai ricercatori - conclude Sartesahi - e ora ci aspettiamo anche a Milano quel clima stimolante che viviamo negli Usa. Anche per nuove collaborazioni con altre aziende». La frontiera dell'elettronica e fotovoltaico a stampa è infatti tutta aperta. E quando decollerà (questione di tempo) coinvolgerà molti attori. Non solo la lungimirante Omet. giuseppe.caravita@ilsolemore.com O FONTE DI ENERGIA La carta che si illumina nel video realizzato durante i test al Mit di Boston. www.ilsole24ore.com/nova La carta che si illumina, presentata dalla Nth Degree Technologies, altro non è che un primo esemplare di carta cosparsa da una rete regolare di micro-led deposti in altrettante cavità, connessi tra di loro. Con 8 watt elettrici una simil-lampadina in carta produce una luce piuttosto forte. Ma, secondo la startup nata alla Clemson University, c'è spazio per ridurre a 2 i watt e per aumentare la luminosità di almeno il 50 per cento. Anche il Mit è attivo sulla frontiera della printed electronics. Lo testimona la presentazione, pochi giorni fa, dei primi esemplari di fogli di carta fotovolaici annunciati in un paper su Advanced Materials da un gruppo di nove ricercatori. Il processo di stampa delle celle solari si basa su vaporizzazione a bassa temperatura, adatta alla carta normale. Le celle sono robuste ma ancora a basso rendimento, intorno all'i per cento. Il centro IIT-Politecnico di Milano, con i suoi 39 ricercatori (alcuni tornati in Italia dall'estero) punta al fotovoltaico organico e sulla printed electronics. Per esempio sulle celle a coloranti, basate su molecole fotosensibili. Un campo promettente, ma di ricerca avanzata sulla chimica. Non solo. Nel mirino vi sono anche i film sottili in silicio nanometrico ordinato per intrappolare i fotoni. Anche su fogli di plastica. O persino su carta. Stampante illuminata. La macchina di stampa modulare della Omet (a sinistra) e il foglio con celle fotovoltaiche realizzato al Mit (in alto). ========================================================= ___________________________________________________________ Il Giornale 12 Lug. '11 I MEDICI DICONO SÌ ALLA LAUREA PIÙ VELOCE LA PROPOSTA GELMINI Consensi tra gli addetti ai lavori Ordini professionali ed esperti: specializzazioni abbreviate e operative farebbero risparmiare soldi Francesca Angeli Roma Sì alla riduzione di un anno per il percorso degli studi in Medicina. La proposta lanciata dal ministro dell'Istruzione e dell'Università, Mariastella Gelmini, trova d'accordo gli esperti del settore, medici e scienziati. La Gelmini aveva annunciato, nell'intervista pubblicata ieri dal Giornale, che è stato aperto un tavolo con il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, proprio allo scopo «di valutare una abbreviazione degli anni di studio per la facoltà di Medicina». Il ministro non aveva fatto riferimento in particolare al corso di laurea che dura sei anni ma all'intero percorso che comprende 4 o 5 anni di specializzazione più altri 2 o 3 per il dottorato. L'obbiettivo, aveva concluso, è quello di «accorciare di almeno un anno questo percorso». Il taglio di un anno è un'ipotesi concreta, conferma il ministro Fazio. «Porteremo a quattro anni le specializzazioni che ora sono a cinque importando il modello europeo -spiega Fazio- Più difficile ma comunque possibile anche ridurre i corsi di laurea». Se si decidesse di ridurre il complesso del curriculum formativo sarebbe però necessario più tempo. L'ipotesi dunque potrebbe essere quella di «incorporare nell'ambito dei sei anni quello dell'esame di stato», precisa il ministro della Salute che ne sta discutendo anche con il rettore dell'Università La Sapienza di Roma, Luigi Frati. «Con il ministro Fazio effetti stiamo vedendo di ridurre di un annoia durata della specializzazione – spiega Frati -. Questo consentirebbe di recuperare soldi da utilizzare per aumentare il numero degli specializzandi». Ne risulterebbe infatti un aumento dei posti disponibili che passerebbero da 5.000 a 6.000 all'anno. Abbreviare il periodo di specializzazione però, assicura Frati, non renderebbe il percorso più facile. Al contrario si pensa anche al modo di rendere quegli anni più operativi in modo che gli specializzandi facciano esperienza sul campo nel modo più completo. «È prioritario rivedere il piano di addestramento degli specializzandi - precisa Frati -. Così come accade in altri paesi per gli specializzandi in Chirurgia è ad esempio fondamentale introdurre da subito la pratica degli atti operatori». Più complesso sarebbe invece l'iter di una eventuale riduzione dei sei anni del corso di laurea. «Per accorciare il corso di laurea - spiega Frati- si dovrebbe modificare una legge europea dal momento che la sua durata è stabilita a livello comunitario». Per Andrea Lenzi, il presidente del Consiglio universitario nazionale (Cun), invece si potrebbe intervenire anche direttamente sui sei anni di laurea non accorciandoli ma dedicando l'ultimo anno alla pratica. «Il ministro Gelmini ha affrontato con ministro Fazio un discorso politico senza coinvolgere gli aspetti tecnici - spiega Lenzi -. L'idea potrebbe essere quella di trasformare i 60 crediti professionalizzanti già esistenti e attualmente spalmati su 6 anni di corso in un anno di pratica in coda. In questo modo si potrebbero utilizzare probabilmente i giovani medici sul territorio ma le modalità di un simile percorso sono tutte da verificare». Impossibile invece pensare alla riduzione diretta un anno del corso di laurea perché, conclude Lenzi, «abbiamo vincoli imposti dall'Europa e in tutti i paesi il corso di medicina dura sei anni». Sul fatto che sia necessario accordare i tempi sono assolutamente d'accordo gli operatori del settore come conferma Amedeo Bianco, il presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici, Fnomceo. Anche per Bianco come per Frati sarebbe più opportuno intervenire dopo la laurea. «Le specializzazioni in Medicina durano in media 5 anni e si può pensare di ridurre i percorsi sempre tenendo in considerazione il problema della reciprocità dei titoli di studio nella Ue – afferma Bianco - . La riduzione si pone comunque come una necessità perchè 12 o 13 anni sono davvero tanti». ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 14 Lug. '11 SPECIALIZZANDI, LA GIUNTA STANZIA OLTRE 3 MILIONI Per la formazione nell’area sanitaria, la Giunta ha stanziato oltre 3 milioni di euro. I contratti di specializzazione per le Scuole delle facoltà di Medicina e Chirurgia finanziati saranno 93 con 2 milioni 325 mila euro: 61 per Cagliari e 32 per Sassari. I giovani medici percepiranno 25 mila euro per i primi due anni di frequenza e 26 mila per i successivi anni accademici. Sui contratti, l’assessore Liori dice che «la Giunta ha deciso di incrementarli venendo incontro alle richieste di formazione dei giovani laureati sardi ed al fabbisogno del sistema sanitario regionale». ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 12 Lug. '11 AOUCA: IL MEDICO PER GLI STUDENTI Accordo Ersu-università: assistenza per i fuori sede Investimento di 50 mila euro per un servizio innovativo e atteso da anni Siglato l'accordo che introduce l'assistenza medica per gli universitari fuorisede: potranno avere una sorta di medico di famiglia (pur mantenendo quello nei paesi di provenienza), recandosi nei presidi dell'Azienda ospedaliero-universitaria. Niente più certificati medici a pagamento o difficoltà a ottenere impegnative e ricette. È il frutto dell'intesa tra Ateneo, Ersu e l'azienda che gestisce il Policlinico di Monserrato e l'ospedale San Giovanni di Dio. Il servizio sarà erogato dal 3 ottobre. A presentare l'accordo c'erano il prorettore vicario dell'Università di Cagliari, Giovanna Maria Ledda, la presidente dell'Ersu Daniela Noli, e il Direttore generale dell'Asl Ennio Filigheddu. «Sarà un servizio in via sperimentale», ha detto Ledda, «ma che potrà essere migliorato se dovesse essere necessario». Costo complessivo del progetto è di circa 50 mila euro, metà finanziati dall'Ersu e l'altra metà dall'Università. «Era doveroso attivare questo servizio», ha ribadito invece Daniela Noli, «gli oltre 13 mila fuorisede potranno finalmente rivolgersi all'ambulatorio loro dedicato e non più ai pronto soccorso». Soddisfazione è stata espressa dal manager Filigheddu che, oltre all'utilità del progetto, ha sottolineato come la scelta dell'Azienda mista per erogare il servizio sia stata quasi d'obbligo, visto «l'attenzione verso gli studenti che fa parte del nostro compito specifico». Dal canto suo Roberto Murru (consigliere dell'Ersu) ha sottolineato come quattro anni fa, quando si iniziò a parlare dell'idea di dotare gli studenti di un medico, «la Regione non giudicò percorribile la strada della compensazione dei costi». Per usufruirne del medico gli universitari dovranno contattare lo sportello StudentJobs dell'Ersu, al numero 070 66206387 o inviare una mail a studentjobs@gmail.com. ( f. p. ) ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 13 Lug. '11 PARTE LO SCREENING CONTRO IL TUMORE AL SENO «Serve più prevenzione» ASL 8. Secondo le statistiche si ammala una donna ogni dieci Uno screening a tappeto, con quasi 80 mila donne tra i 50 e i 69 anni che verranno invitate a sottoporsi ad una visita senologica specialistica. È un progetto che, non solo in teoria, punta a salvare centinaia di vite quello presentato ieri mattina dai vertici della Asl 8 e dell'azienda ospedaliero-universitaria: entro i prossimi due anni, sarà inviata una lettera praticamente a tutte le donne di mezza età che vivono nel capoluogo e in provincia per partecipare ad una delle più vaste campagne di prevenzione mai organizzate nell'Isola. I CONTROLLI Seguendo gli esperimenti che hanno regalato ottimi risultati su altre patologie, come ad esempio quelle della tiroide, i medici eseguiranno migliaia di visite attraverso il Centro screening dell'Azienda sanitaria cagliaritana, in collaborazione con gli ospedali San Giovanni di Dio ed il Policlinico di Monserrato (che invece dipendono dall'azienda universitaria). «Questo piccolo gesto - ha raccontato Angela Maria Silvestri, radiologa, - potrà salvare la vita a tante donne. Nell'Isola una donna ogni dieci si ammala di cancro al seno: grazie allo screening sarà possibile individuare circa 140 nuovi casi di neoplasia. La diagnostica precoce aumenta le percentuali di sopravvivenza dal 27 al 35 per cento. Non si può quantificare quante donne in Sardegna muoiano per tumore al seno, ma in Italia si contano 32 vittime al giorno». L'AZIENDA L'importanza della campagna, anche per i numeri delle donne che verranno coinvolte, è stata sottolineata dai manager della Asl e dell'azienda universitaria, Emilio Simeone e Ennio Filigheddu: «Si tratta di un'iniziativa importante - ha detto il direttore generale dell'azienda cagliaritana - che inizierà col distretto di Quartu per poi proseguire in tutta la Provincia». A guidare l'attività di ricerca e prevenzione sarà Silvana Tilocca: «La campagna di prevenzione può davvero dare speranza alle donne e cambiare le sorti di questo male - ha chiarito - che resta la prima causa di morte di tumore nella popolazione femminile. Non serve mettere la testa sotto la sabbia - ha proseguito - il problema va affrontato perché, se preso per tempo, c'è ampio margine di guarigione, senza dover ricorrere nemmeno alla chemioterapia». L'ALTRA EMERGENZA Durante la presentazione del progetto è stato fatto il punto anche sull'attività di screening per il tumore alla cervice uterina che riguarda le donne dai 25 ai 64 anni: 158 mila pazienti sono già state invitate a effettuare l'esame di prevenzione. Francesco Pinna ___________________________________________________________ Tortoli Express 8 Lug. '11 ATTILIO MURRU È IL NUOVO DIRETTORE DELL' ASL DI LANUSEI Attilio Murru, neo direttore ammministrativo della Asl di Lanusei, traccia un quadro della Sanità Ogliastrina: esigenze del territorio, nuovi servizi e prospettive di sviluppo futuro. Un Servizio sanitario sempre più vicino alle esigenze dei cittadini, questo il motto per le azioni future della Asl ogliastrina. Qualche mese fa, l'Assessore Liori aveva proposto l'accorpamento della Asl di Lanusei a quella di Nuoro. Oggi, c'è ancora il rischio che l'Ogliastra perda la sua Asl? Credo sia una ipotesi scongiurata. Le peculiarità, le esigenze specifiche, la stessa conformazione del territorio dell' Ogliastra suggeriscono e richiedono I' esistenza di una ASL propria, dotata di autonomia gestionale e decisionale. Il territorio ogliastrino è molto vasto, spesso non perfettamente collegato, come è possibile garantire la capillarità dei servizi ospedalieri? Sono stati previsti interventi utili a garantire a tutti i cittadini la possibilità di accedere ai servizi in maniera agevole? L' Ogliastra è vasta e ha pochissimi abitanti. I paesi sono piccoli e sono distanti tra loro. La densità abitativa è pari a 32 abitanti per km quadrato contro i 64 abitanti per km quadrato della Regione Sardegna e contro i 2.860 abitanti per km quadrato della Provincia di Napoli! Garantire identici servizi in ogni Comune dell' Ogliastra è, evidentemente, impossibile. Tuttavia si sta lavorando molto per ampliare e migliorare i servizi dei poliambulatori nel territorio. L'annosa vicenda del Pronto soccorso a Tortolì. Il centro turistico dell'Ogliastra registra ogni anno centinaia di presenze e non è presente ancora un centro di primo soccorso attrezzato, questo problema troverà una soluzione in tempi brevi? Il completamento dei lavori di ampliamento del Poliambulatorio consentirà di aprire una "Casa della salute" che sarà un importante riferimento 24 h su 24. Sarà, senz' altro, una risposta importante per le esigenze di primo soccorso di Tortolì e dei centri vicini. Lei si è già occupato di Asl. La sua precedente esperienza presso L'Azienda Ospedaliero Universitaria di Cagliari le ha insegnato una regola d'oro nella gestione della cosa pubblica? Se si, quale? Credo che nelle aziende sanitarie, esattamente come nelle aziende private, I' efficienza ed il successo si possano ottenere solo se si riesce a stimolare e coinvolgere, in questa difficile sfida, tutti i dipendenti. E' quello che mi auguro di riuscire a fare anche qui. (Patrizia Salis) ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 13 Lug. '11 SANITÀ, SÌ ALLA “BOZZA” DI RIFORMA MA È POLEMICA La Settima commissione del Consiglio dà il via libera alla “bozza” della riforma sanitaria senza i voti dei Riformatori ed è duro lo scontro tra maggioranza e opposizione. «Non si vogliono minimizzare le difficoltà della maggioranza su un testo che deve essere più condiviso e più adeguato alle esigenze di cambiamento che arrivano sia dagli operatori della sanità che dai cittadini», sottolineano i consiglieri commissari del Pdl Nanni Campus, Domenico Gallus, Renato Lai, Giorgio Locci e Onorio Petrini. Da Franco Meloni (Riformatori) un voto contrario: «La riforma così come è stata approvata, è una boiata pazzesca. Volevamo una riorganizzazione diversa, abolire le Asl e diminuire le poltrone, di tutto questo nella legge non c'è nulla». Il centrosinistra parla apertamente di «fallimento delle politiche sanitarie» del centrodetra. Per il vicepresidente della Commissione Marco Espa (con lui anche Elio Corda e Giannetto Mariani) è «una riforma ospedalocentrica , che cerca maldestramente di tagliare fuori il territorio. Pesanti gli sprechi sul cambio di nomi e di insegne». ___________________________________________________________ La Nuova Sardegna 13 Lug. '11 SANITÀ, PASSA UNA RIFORMA A METÀ Prevista la spesa di un milione di euro per cambiare la scritta Asl in Asp Ascolta la notizia Pierpaolo Vargiu: Una legge che salvaguarda le poltrone ALFREDO FRANCHINI CAGLIARI. La riforma della sanità è stata apprrovata ieri dalle commissioni e ora è pronta per l’esame del Consiglio regionale. Non avrà vita facile: è stata approvata con sei voti a favore e cinque contrari. Oltre l’opposizione hanno votato contro i Riformatori. «Ci sembra normale chiedere che i soldi dei sardi vengano spesi bene», spiega il capogruppo dei Riformatori Pierpaolo Vargiu, «ma i numeri parlano da soli. In questa riforma non c’è niente da salvare». Sia in commissione Bilancio (per il parere finanziario) sia nella commissione competente i Riformatori hanno votato con l’opposizione. Uno strappo lacerante per la maggioranza. Pierpaolo Vargiu afferma: «Serviva una vera riforma in modo da mettere i conti sotto controllo e monitorare la spesa. Non lo diciamo solo noi, lo ha sostenuto la Corte dei conti nel giudizio di parificazione del rendiconto della Regione. Se c’è un disavanzo da 300 milioni l’anno e se la sanità costa 3.000 milioni, il Consiglio regionale deve metterci le mani, intervenire. E non si può litigare su questo visto che né la giunta Soru, né quella Cappellacci hanno risolto il rebus della sanità sarda». I Riformatori non ci stanno: «Non condividiamo la legge che è mal fatta e poco significativa e soprattutto non risolve i problemi della Sardegna», afferma Franco Meloni, «anche se in alcune parti in cui ci sono degli spunti interessanti, la normativa è difficilmente applicabile». Il Centrosinistra e i Riformatori chiederanno la bocciatura del passaggio alla votazione in aula. Marco Espa (Pd) che sarà relatore di minoranza spiega: «La riforma sanitaria rischia di costare cara ai sardi: un milione di euro solo per il cambio del nome da Asl ad Asp, con le modifiche a targhe, insegne da sedi e automezzi, carta intestata. Soldi si aggiungono all’aumento dei centri di costo, ovvero più poltrone, mentre sulla macroarea nulla si sa di definitivo perché la maggioranza non ha trovato ancora nessun accordo». Per i commissari dell’opposizione Espa, Elio Corda e Giannetto Mariani, è passata «una riforma ospedalocentrica» che cerca di tagliare fuori il territorio e nulla dice sulla qualità della vita dei sardi e sulla loro salute. «Questa pseudoriforma interessa solo le burocrazie. Non sono stati coinvolti i territori. Autorevoli esponenti della maggioranza dicono pubblicamente in aula, con noi, che il deficit quest’anno sarà record, circa 450 milioni di euro», obietta il centrosinistra. «È triste constatare che in un momento così difficile per la sanità sarda in cui sarebbe servito migliorare le riforme lasciate in campo dal centrosinistra e dare risposte ai cittadini, il governo regionale abbia sbagliato strategia e si sia preoccupato di procedere ad affossare ciò che di buono era stato fatto negli anni precedenti». Ottimista il presidente della commissione Sanità, Felice Contu, che spera di poter superare in aula le riserve del partito alleato e parla di un disegno di legge che «per la delicatezza ed importanza degli argomenti ha avuto bisogno di diversi mesi di lavoro. I Riformatori», afferma, «potranno migliorare il testo della legge con gli emendamenti». ___________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Lug. '11 DA LUNEDÌ IL CONTO DEL TICKET SALE A 46 EURO Per alcuni esami più conveniente rivolgersi ai privati Dieci euro in più sui ticket già previsti dalle Regioni. Da lunedì almeno 15 milioni di italiani (quelli senza esenzioni per età, malattie, reddito) pagheranno una sovrattassa sugli esami diagnostici e le visite specialistiche. Regione per Regione. I ticket regionali s' aggirano sui 36 euro in tutta Italia, tranne che in Calabria e Sardegna, dove raggiungono i 46 euro. È la cosiddetta compartecipazione alla spesa sanitaria dei malati. Un esborso che ora aumenta di 10 euro. Il costo di una risonanza magnetica col servizio sanitario nazionale lieviterà a 46 euro (56 in Calabria e Sardegna). Lo stesso vale per tac, mammografie, colonscopie e per tutti gli accertamenti medici complessi per i quali la compartecipazione dei cittadini si fermava al massimo a 36/46 euro. E le tasche dei malati saranno colpite anche sulla lunga lista di prestazioni mediche che finora avevano prezzi inferiori: 22,50 euro per le prime visite cardiologiche, oculistiche, ginecologiche e dermatologiche; 17,50 euro per i controlli successivi; 4,05 euro per un esame del sangue base (emocromo); 2,30 euro per le urine; 15,65 per una radiografia al polso. Il ticket di 10 euro previsto dalla Finanziaria andrà, infatti, a sommarsi ai costi attuali indicati sopra (ripresi dal tariffario delle prestazioni sanitarie della Lombardia, ma simili in tutta Italia). L' effetto, soprattutto all' inizio, può rivelarsi paradossale: «Il malato che vorrà fare questi esami con il servizio sanitario nazionale - denuncia Sara Valmaggi del Pd lombardo - rischia di trovarsi a pagare di più di chi sceglie di rivolgersi ai laboratori privati». L' emocromo col servizio sanitario nazionale costerà 14,05 euro (4,05 più 10), quello negli ambulatori privati, al momento, resta di 4 euro o giù di lì (per essere competitivi i laboratori privati hanno allineato le tariffe agli ospedali). Certo, in futuro verosimilmente anche i privati aumenteranno i prezzi. Stangata a macchia di leopardo. Tutti pagheranno di più insomma, ma restano significative differenze a livello regionale. Oltre agli abitanti della Calabria e della Sardegna, saranno particolarmente colpiti gli abitanti del Molise: già oggi pagano, infatti, in aggiunta ai 36 euro di ticket regionale, altri 15 euro di sovrattassa per le risonanze magnetiche e le Tac e 4 euro per specifici pacchetti ambulatoriali. In Campania c' è una quota fissa di 10 euro per ricetta. Quello del superticket di 10 euro, comunque, è un ritorno. Il suo debutto fu nel 2007 sotto il governo di Romano Prodi. Ma dopo cinque mesi di polemiche ci fu una retromarcia: la copertura degli introiti che sarebbero dovuti pervenire alle Regioni con i 10 euro - pari complessivamente a 834 milioni annui - venne assicurata con fondi statali (la norma, però, non è mai stata cancellata). Si è sempre andati avanti così: con coperture statali stabilite di anno per anno. Fino ad oggi. Previsto dalla manovra Finanziaria, anche il ticket da 25 euro per chi si presenta al Pronto soccorso in codice bianco (i casi meno gravi): ma, in realtà, le Regioni lo incassano già da anni. Tranne la Basilicata. Simona Ravizza sravizza@corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA Ravizza Simona ___________________________________________________________ La Nuova Sardegna 15 Lug. '11 «DIREMO SÌ AI TICKET» L’ASSESSORE CAGLIARI. «Sono contrario al ticket, è una misura socialmente ingiusta che andrebbe a colpire sopratutto la fasce più deboli della società sarda. Però devo dire che per la Regione sarà difficile tirarsi indietro, anche se ritengo opportuno valutare la possibilità di una copertura finanziaria». Lo afferma l’assessore regionale della Sanità, Antonello Liori, dopo il varo della manovra Tremonti. «Voglio ricordare che quando sono stato nominato assessore regionale», dice Liori, «data la pesante situazione deficitaria dei conti della sanità, si prospettò l’ipotesi di imporre l’aumento dell’Irap e dell’Irpef ed il ritorno al ticket sanitario. Mi sono battuto con il Ministro Fazio per ottenere fiducia nell’azione della Giunta, riuscendo ad evitare ulteriori tassazioni per i cittadini sardi». ___________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 Lug. '11 TICKET, NO DELLA REGIONE L'assessore Liori: è una imposizione ingiusta, colpisce i deboli Confronto in Giunta per arginare gli aumenti: «Sardegna virtuosa» VEDI TUTTE LE 3 FOTO «La Sardegna non pagherà altri ticket sanitari, sono ingiusti e colpiscono i più deboli». L'assessore alla Sanità respinge il nuovo balzello imposto dalla manovra finanziaria nazionale, divenuta legge a tempo di record. Antonello Liori è sicuro: «Non si possono chiedere ticket aggiuntivi a una regione che già si paga da sola la sanità», ha detto l'assessore, esponente del Pdl, «la prossima settimana è in programma un incontro con l'assessore al Bilancio, Giorgio La Spisa, per decidere come scongiurare l'introduzione di questa misura nella nostra Isola, che paga già la tariffa più alta». LE ALTRE REGIONI «I ticket in Sardegna sono elevati, dobbiamo capire come porre un freno - ha detto Liori - a una norma che sarà valida e applicabile già nelle prossime 24 ore». Intanto, nel resto d'Italia il fronte del “no” si allarga: i nuovi ticket non scatteranno, per ora, in Toscana. Le province autonome di Trento e Bolzano non introdurranno il ticket perché finanziano da sole il comparto sanità, così come la Valle d'Aosta. Il Trentino Alto Adige non introdurrà il ticket di 10 euro, ma farà pagare ai cittadini il ticket sui codici bianchi. I nuovi ticket, per ora, non saranno introdotti neanche in Emilia Romagna, dove il ticket sui codici bianchi è già attivo. SANITÀ VIRTUOSA Intanto, Liori esibisce con orgoglio i numeri della sua gestione, relativamente all'anno scorso: «Nel 2010 abbiamo ottenuto il migliore risultato degli ultimi dieci anni», dice l'esponente della Giunta, «con una crescita della spesa sanitaria del 2,2 per cento rispetto al 5 e anche 6 per cento degli anni precedenti». Liori sottolinea: «Siamo davanti a un'inversione di tendenza nella gestione dei conti». La precisazione: «Ho assistito per mesi all'esibizione di magìe contabili, ecco perché ho deciso di fornire dati certificati e dimostrare che il 2010 rappresenta un deciso cambio di passo nel controllo del sistema regionale». I COSTI «Ho ereditato il fallimento del Piano di rientro triennale 2007/09, ma proprio a partire dai costi della produzione ( acquisto di beni e di servizi più costo del personale) si può evidenziare nel 2010 il minor incremento si spesa, il dato migliore degli ultimi dieci anni». I PAGAMENTI Liori ha diffuso anche i risultati raggiunti nei tempi medi di pagamento ai fornitori: «La Sardegna, nell'ultimo trimestre, ha il dato più significativo con una diminuzione da 247 a 188 giorni di media (- 23,9%), lo dicono i dati ufficiali elaborati da Farmindustria». LE OMBRE L'assessore della Sanità ha voluto chiarire che «il dato biennale dell'incremento di spesa del 4,3 per cento, evidenziato dalla Corte dei Conti, scaturisce dall'andamento negativo del 2009, durante il quale fino a settembre hanno governato i direttori generali nominati dalla Giunta di centrosinistra con una percentuale molto superiore al 5 per cento». Liori ha ammesso: «La maggiore ombra nella sanità sarda è rappresentata dalla spesa farmaceutica, soprattutto quella ospedaliera, dove non siamo ancora riusciti a imprimere un adeguato miglioramento. Un problema che si riflette su tutta la sanità nazionale», ha concluso, «l'obiettivo anche in questo caso è invertire la tendenza». S. A. ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 15 Lug. '11 «IN SARDEGNA I TICKET PIÙ ALTI D'ITALIA» «La Regione dovrà chiedere l'apertura di un tavolo di confronto con lo Stato per definire la questione dei ticket sanitari», dice Carlo Sanjust, consigliere regionale Pdl, «in Sardegna, infatti, si paga la tariffa più alta fra i ticket regionali imposti dalla legge finanziaria nazionale del 2007». Sanjust chiede l'abolizione dei ticket stabiliti dalla Giunta, ma non solo: «La Sardegna dovrà essere autorizzata a non recepire la parte della manovra del Governo relativamente alla parte sui ticket sanitari: nell'Isola, infatti, non si può pagare il doppio per le prestazioni di servizio sanitario specialistico». L'ASSESSORE «Sono contrario al ticket, nonostante abbia un indiscutibile effetto dissuasivo sulle prescrizioni inappropriate, perché si tratta di una misura antipopolare e socialmente ingiusta, che andrebbe a colpire soprattutto la fasce più deboli della società sarda», dice l'assessore alla Sanità, Antonello Liori, «però, in occasione di questa imposizione governativa, per la Regione sarà difficile tirarsi indietro, anche se ritengo opportuno valutare la possibilità di una copertura finanziaria». ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 15 Lug. '11 La piramide della salute PRIMO COMANDAMENTO: NON AMMALARSI Ora, è vero che nel nostro Paese ognuno parla, disquisisce come fosse l'allenatore della nazionale di calcio. Ma tutto ciò resta confinato in un mondo fantastico nel quale le parole volano leggere, non pesano. Ciò che sta avvenendo nella vita pubblica, invece, assume i caratteri di un caos totale, di una incredibile prevaricazione del più elementare buon senso. Progettare la nostra società, il nostro futuro necessita di competenze, di cultura, immaginazione, visione del domani. Un compito difficile, arduo. Ora anche i sindaci, contando sulla loro elezione popolare, che non certifica nulla delle loro capacità, pensano di essere titolari del diritto di decidere su tutto. Anche di politica sanitaria, anzi di come devono essere strutturati gli ospedali del loro territorio, della loro città. I bisogni di salute sono un tema complesso. In genere una società determina, attraverso un piano sanitario, come, in che misura, con quali risorse si possono affrontare. Infatti la programmazione dei bisogni di salute non può essere affidata alla estemporaneità di figure a tempo, nemmeno ai Direttori generali delle ASL e tantomeno ai sindaci. Se fossimo meno presuntuosi sceglieremmo, fra i nostri medici, ingegneri, economisti, urbanisti, epidemiologi, statistici il gruppo di persone che deve delineare la sanità dei prossimi anni, che come tutti sanno è di tutti, non di una parte politica. La politica ha il compito di fare scelte coerenti ai bisogni e agli indirizzi. La sanità è in grande cambiamento. Gli ospedali avranno meno posti letto, saranno più efficienti perché i ricoveri dovranno essere molto brevi. Stanno sparendo i reparti tradizionali per essere sostituiti da aree mediche e chirurgiche ad alta intensità di cure. La medicina ripartiva è alle porte e non ammalarsi dovrà essere il nostro maggiore impegno. Nel caos generale però tutti cercano spazio, anzi voti; ma in tutto il mondo sono i medici che studiano i bisogni di salute e propongono come affrontarli. Antonio Barracca _________________________________________________ Il Corriere della Sera 13 lug. ’11 TEST DI COMUNICAZIONE PER MEDICI L'ESEMPIO CHE VIENE DAGLI STATI UNITI Che tipo di dottore può essere uno che non sa ascoltare gli ammalati e che non gli sa parlare? Il tempo in cui i medici si tenevano la diagnosi per sé («lei faccia l'ammalato, il medico lo faccio io») è passato. 11 governo inglese chiede ai medici di trattare gli ammalati con cortesia di informarli sulle loro condizioni di salute e di rispettare sempre le loro decisioni. Da noi essere gentili con gli ammalati è ancora considerato un obiettivo da raggiungere. Ma nessuno insegna agli studenti a parlare con gli ammalati e pochi si pongono il problema che il dottore non lo possono fare tutti, bisogna essere portati, almeno un po'. «Vogliamo precludere l'accesso a medicina a quegli studenti che magari fanno bene l'esame ma non sanno comunicare», ha detto in questi giorni Stephen Workman, rettore di Tech Carilion University in Virginia, negli Stati Uniti. Per fare il medico poi non basta saper parlare con gli ammalati .e con i familiari, bisogna rapportarsi con i colleghi di tante altre discipline, e poi con gli infermieri e con i tecnici, condividere decisioni e angosce e quando serve saperli entusiasmare. Insomma ci sono dei requisiti minimi per fare il dottore. Chi è troppo introverso o troppo scontroso o troppo facile a seccarsi è bene che non ci provi nemmeno. Brevi interviste bene articolate come quelle che si fanno in Virginia potrebbero aiutare a scegliere tra chi è portato e chi non lo è (è molto complicato ma da qualche parte si deve cominciare). Chi dimostra di saper interagire con gli altri in situazioni che richiedono garbo, sensibilità e buon senso viene ammesso. Sennò si è fuori. E da noi? Sforzi in questa direzione non ne sono stati fatti mai. Da noi uno che vuole entrare a medicina deve sapere il nome di battesimo di Mameli, l'origine della tragedia greca, di cosa è morto Gandhi, chi ha scritto Barbablù e tanto d'altro. Tutte cose importanti, o quasi. Ma essere capaci di spiegare ai genitori di un bambino di sette anni che gli hai trovato una leucemia acuta senza spaventarli a morte è ancora più importante. Giuseppe Remuzzi ___________________________________________________________ Ansa 12 Lug. '11 MEDICINA: UN ROBOT INNOVATIVO PER LA NEUROCHIRURGIA E' ACTIVE', PROGETTO EUROPEO COORDINATO DA POLITECNICO MILANO (ANSA) - MILANO, 12 LUG - Si chiama 'Active' e nasce al Politecnico di Milano la nuova sfida tecnologica per ideare e sviluppare una suite chirurgica intelligente per l'assistenza robotica di delicati interventi neurochirurgici. Si tratta di un progetto cofinanziato dalla Comunita' Europea con circa 6 milioni di Euro per 4 anni e coordinato dal Politecnico di Milano, che permettera' al neurochirurgo di operare nelle strutture cerebrali con l'assistenza di due bracci robotici guidati da sistemi di controllo innovativi basati su algoritmi di intelligenza artificiale. L'obiettivo - riferisce un comunicato del Politecnico - e' quello consentire la rimozione di lesioni cerebrali evitando la compromissione di altre aree importanti (come quelle che controllano la memoria, il movimento e il linguaggio), aumentando cosi' le possibilita' di riuscita di complessi e delicati interventi al cervello 'a paziente sveglio'. In particolare, grazie al sistema Active, la compensazione del movimento permettera' al chirurgo - che potra' sedersi a una consolle di comando remota - di operare nel cervello del paziente come se questo fosse fermo, mentre in realta' e' soggetto a deformazioni dinamiche conseguenti alle variazioni della pressione sanguigna, ai movimenti respiratori, ai possibili movimenti per crisi o attivita' di risveglio". Active si avvale della collaborazione di strutture universitarie e industriali di spicco nel panorama medico e tecnologico internazionale. Per l'Italia oltre al Politecnico di Milano, anche il Cnr, l'Istituto Italiano di Tecnologia, l' azienda di consulenza CFc, l'Istituto Neurologico Besta, l' Ospedale Niguarda, il Policlinico, l'Istituto clinico Humanitas e l'Ospedale San Paolo. (ANSA). ___________________________________________________________ MF 12 Lug. '11 BIMBI, OBESITÀ, SOTTO LA LENTE Salute Al via uno studio internazionale sui comportamenti a rischio alla base della patologia L'indagine analizzerà il ruolo della tv e degli spot sulle abitudini alimentari di Cristina Cimato Un accordo tra l'Italia e il Messico darà vita a uno studio della durata di due anni che si pone l'obiettivo di analizzare fattori culturali, circostanze e condizionamenti ambientali alla base dell'obesità infantile. A margine dell’XI Congresso interamericano di pediatria del Colegio de pedriatia a Manterrey, è stato firmato un accordo tra i due stati per l'organizzazione di questa sperimentazione, che si attuerà con la realizzazione di questionati da sottoporre a 60 studenti del collegio Montessori di San Luis Potosi, in Messico, e ad altrettanti alunni di una scuola Montessori di Torino. «Abbiamo scelto di operare il confronto in soggetti con un background educativo simile così da colmare un po' il divario tra mondi così lontani», ha spiegato Dario Gregori, direttore del laboratorio di epidemiologia e biostatistica del dipartimento di medicina ambientale e sanità pubblica dell'Università di Padova e coordinatore dello studio italiano. «Lo studio ha l'obiettivo di indagare più a fondo le abitudini alimentari e il condizionamento di tv e pubblicità sulle scelte alimentari dei bambini», ha commentato Gregori, «anche alla luce di recenti indagini che abbiamo condotto su bambini in Argentina, Brasile, Italia e che non hanno suggerito una così stretta correlazione tra l'esposizione agli spot e l'obesità, in contrasto con quanto era emerso da studi analoghi condotti in Nord America». LI fine è anche quello di ottenere informazioni su come le madri e i padri possano influenzare la forma fisica dei figli, visto che l'imprinting della famiglia sembra essere determinante non solo nei primi anni di vita Da uno studio condotto dall'Ospedale Bambino Gesù su bimbi in età prescolare e scolare è infatti emerso che la maggiore fonte di influenza alimentare è rappresentata dai genitori, sia M termini di quantità sia di selettività del cibo prescelto, dato questo che rappresenta uno dei problemi principali del bambino sovrappeso. Va detto che nell'insorgenza dell'obesità concorrono più fattori, quello genetico e quelli legati alla sedentarietà e alla cattiva alimentazione. «Attualmente in Italia un bambino su tre è sovrappeso e il dato è variabile per regione e all'interno delle stesse aree geografiche», ha commentato Giuseppe Molino, responsabile della dietologia dell'Ospedale Bambino Gesù, «i momenti più importanti sono la nascita, l'età intorno a quattro-sei anni e la pubertà, Se fino a poco tempo fa si riteneva che il bimbo nato con un peso elevato fosse più a rischio, ora si è visto che invece quello sottopeso o prematuro che aumenta molto in fretta è più so etto a sviluppare obesità grave, generata da un problema metabolico». Intorno ai quattro-sei anni, invece, può esserci un precoce incremento di massa grassa, anch'esso indice di criticità «Fino a sei-sette anni la massa grassa sviluppata intorno a tm anno si stabilizza o decresce, per poi aumentare di nuovo. Un incremento anticipato può influire sullo sviluppo dell'obesità», ha aggiunto MOrint. Nell'età adolescenziale, poi, subentrano una riduzione dell'attività fisica, soprattutto nelle donne, e altre cattive abitudini. L'équipe di epatopatia metabolica e autoimmune del Bambino Gesù ha analizzato infatti un fenomeno che spesso va a braccetto con i disturbi alimentari, ossia l'abuso di alcol già in età precoce. Lo studio, pubblicato sulla rivista Alchol and Aleholism, ha preso in esame l'associazione e l'amplificazione dei danni al fegato generati da alcol e obesità insieme, due cause che moltiplicano il danneggiamento. Dalle ultime statistiche dell'Istituto superiore di sanità è emerso, inoltre, che già i giovanissimi si avvicinano all'alcol e che anche i bambini ne sono sedotti, tanto che 18 su 100 al di sotto di 16 anni hanno adottato un comportamento alcol-correlato. (riproduzione riservata) _________________________________________________ ALMANACCO DELLA SCIENZA 13-07-2011 LE REGOLE D'ORO PER SALVARSI DAI FULMINI La bella stagione è il momento migliore per recuperare un po' di spazio per sé e riavvicinarsi alla natura, magari organizzando escursioni in montagna. Tuttavia, come al mare, ci sono regole da seguire prima di lanciarsi verso l'avventura, specie se si è colti da un improvviso e violento acquazzone. "Le piogge che spesso colpiscono le nostre montagne in estate", spiega Giampiero Maracchi dell'Istituto di biometereologia (Ibimet) del Cnr, "sono determinate dalle frequenti zone di conversione forzata tipiche dei rilievi e dovute alla topografia, con innalzamenti bruschi di aria umida che determina la formazione di nubi e, quindi, di temporali". Questi ultimi possono rivelarsi insidiosi soprattutto a causa dei fulmini. "Il fulmine", precisa Maracchi, "è determinato dalla scarica elettrica tra la superficie inferiore di una nube e il suolo, che sono caratterizzati da segni opposti, negativo e positivo, per cui si crea un arco elettrico di grande intensità, per un brevissimo tempo". Cosa è bene fare per difendersi da queste scariche? "Bisogna evitare la sosta nei pressi di oggetti a punta, quali antenne e strutture metalliche, e di indossare oggetti metallici appuntiti. È sconsigliato anche fermarsi sotto gli alberi: il luogo più sicuro per ripararsi è l'autovettura perché è isolata dal terreno per mezzo delle gomme. Se non si è nei pressi della macchina, va cercato un riparo naturale, ad esempio una roccia". Poco sicura è anche la vicinanza dell'acqua che è "un ottimo conduttore elettrico", continua il ricercatore, "mai, dunque, immergersi o metter i piedi in laghi o torrenti quando piove". I corsi d'acqua possono rivelarsi pericolosi anche in assenza di fulmini. "Se il temporale è violento", conclude Maracchi, "questi possono esondare, causando gravi problemi. Inoltre, bisogna considerare eventuali smottamenti e frane. Quindi, se si campeggia, è consigliabile piantare la tenda in prossimità di una zona sopraelevata rispetto a un fiume, per evitare di essere coinvolti in caso di uscita dagli argini". Emanuele Grimaldi Fonte: Giampiero Maracchi, Istituto di biometeorologia, Firenze, tel. 055/3033711, email g.maracchi@ibimet.cnr.it _________________________________________________ ALMANACCO DELLA SCIENZA 13 lug. ’11 LO IODIO? A TAVOLA CE N'E' PIU' CHE IN SPIAGGIA Lo iodio ha effetti benefici sull'organismo, ma il modo per incrementarne l'assunzione non è tanto il soggiorno al mare quanto una dieta adeguata. "Il mare e l'inalazione naturale dello iodio fanno senz'altro bene", osserva Giorgio lervasi, medico dell'Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa, "così come le passeggiate in riva al mare possono contribuire alla cura di malattie dell'apparato respiratorio quali bronchiti e sinusiti. Va ricordato però che è un elemento volatile, parzialmente solubile in acqua e, come tale, evapora. Per coloro che vivono e lavorano nelle zone di mare, la quantità di iodio assorbita dall'organismo deve comunque essere integrata con il cibo Lo iodio viene regolarmente captato da alcuni organi e rimesso in circolo, principalmente dalla ghiandola tiroidea (il 60-70% dei suoi ormoni, tiroxina T4 e triodotironina T3, sono costituiti da iodio), ma anche dalla mucosa gastrica, dalle ghiandole mammarie e salivari, che hanno la funzione di veri e propri depuratori. "L'organismo, per poter funzionare bene, ha bisogno di assumere una certa quantità di iodio anche dall'esterno", aggiunge il ricercatore dell'Ifc-Cnr, "circa 150-200 microgrammi al giorno, pari alla quantità che quotidianamente eliminiamo con le urine. L'apporto principale si ha con l'acqua, con gli elementi addizionati di iodio, come il sale, e con l'assunzione di alimenti che lo contengono: pesci (orate, branzini e saraghi), mitili (ottimi filtratori dell'acqua di mare), crostacei e molluschi. I pesci dei mari del nord, come la platessa, ne sono tra i più ricchi in assoluto: 100 grammi possono contenere oltre 500 microgrammi di iodio"."."" La carenza di iodio, con la conseguente ipofunzione tiroidea, è una delle patologie reversibili più comuni nel mondo che, se non curata, può degenerare nell'ingrossamento del volume ghiandolare tiroideo, gozzo, e soprattutto nel deficit di sviluppo psicofisico del bambino: il cosiddetto cretinismo da carenza iodica è una forma di deficienza intellettiva largamente diffusa specie nei paesi con scarsa sorveglianza medico-sanitaria. Una dieta ricca di pesce, sommata, quando possibile, all'antico rimedio delle nonne, lunghe passeggiate in riva al mare, in questi casi è la miglior medicina. Francesca Nicolini Fonte: Giorgio lervasi , Istituto di fisiologia clinica, Pisa, tel. 050/3152017, email iervasi@ifc.cnr.it _________________________________________________ Avvenire 14 lug. ’11 MEDICINA RIGENERATIVA: IL FUTURO PASSA DAI DENTI Sempre alta l'attenzione alla medicina rigenerativa: un dente completo è stato ricostruito in laboratorio e trapiantato in un topo. L'unità ottenuta dalle staminali delle gemme dentali è stata innestata nell'osso dell'animale, dimostrando di essere funzionale nella masticazione ed occlusione. La ricerca, pubblicata online sulla rivista Plos One, ha la firma di Takashi Tsuji dell'Università delle scienze di Tokyo che già nel 2009, con il suo gruppo, aveva provato nel topo che il dente poteva nascere direttamente dal trapianto della gemma dentale. Le prospettive che si aprono sono tante e il filone di ricerca è vivo: in Italia, l'équipe di Gianpaolo Papaccio della seconda Università di Napoli, aveva ottenuto da staminali della polpa dentale vere e proprie protesi dentarie da reimpiantare. Su venti pazienti sottoposti a estrazione dei denti del giudizio, le staminali estratte da ognuno sono state espanse in laboratorio su un supporto di spuma di collagene. Il biocomplesso ottenuto è stato poi reimpiantato nel sito del dente rimosso ottenendo una completa rigenerazione del tessuto osseo in almeno sette pazienti che hanno completato il cido. Alessandra Turchetti _________________________________________________ L’Espresso 14 lug. ’11 TUMORI AL SENO: MENO BISTURI L'intervento chirurgico per tumore al seno spesso comprende lo svuotamento dell'ascella, per rimuovere possibili metastasi ai linfonodi, almeno quando l'ormai celebre linfonodo sentinella" dimostra che ci sono. Ma d'ora in poi le donne operate potranno risparmiarsi anche questa piccola mutilazione: il braccio spesso rimane gonfio e non è solo una questione estetica, ma di debolezza e fragilità. Uno studio americano pubblicato su "Dama" dimostra che se si fa la radioterapia e la chemio dopo l'intervento si possono lasciar stare i linfonodi, anche con metastasi, e non cambia né fa sopravvivenza a cinque anni (che è ormai altissima, al 92 per cento) né il rischio di ricadute. Sono ormai purtroppo rarissimi, su migliaia di trial, i risultati come questi, che producono effetti pratici immediati, rilevanti e apprezzabili direttamente dagli interessati. E paradossalmente rischiano di sfuggire al sistema dei media, molto sensibili al luccichio delle nuove tecnologie e invece distratti quando si tratta di spiegare che in medicina talvolta "less is more". Eppure sono proprio queste le circostanze in cui l'informazione può fare la differenza, in questo caso mettendo le donne malate in condizione di essere protagoniste di scelte dalle quali dipende non solo la vita, ma la sua qualità. _________________________________________________ Il GIornale 17 lug. ’11 CARDIOCHIRURGHI SOTTO ACCUSA TRIBUNALI Nonostante i progressi della cardiochirurgia Si misconoscono i grandi risultati ottenuti anche in casi ad elevato rischio Luigi Cucchi Negli ultimi 20 anni, la cardiochirurgia italiana ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza. Sta crescendo però un clima di sfiducia. Incontriamo Lorenzo Meni- canti, vicepresidente (futuro presidente) della Società italiana di chirurgia cardiaca (Sicch), una associazione con 700 iscritti. Menicanti con Alessandro Frigiola (cardiochirurgia pediatrica) dirige il team cardiochirurgico del Policlinico San Donato di Milano, un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico. Con 42milainterventi dal 1989 al dicembre 2010, di cui 175010 scorso anno, è una vera eccellenza sul piano europeo. Oltre 140 cardiochirurghi statunitensi hanno compiuto stage a San Donato per specializzarsi sul trattamento chirurgico dello scompenso. «I cardiochirurghi - afferma Menicanti - hanno conseguito risultati straordinari sul fronte della sicurezza e dell'efficacia al punto da far apparire banale una chirurgia complessa. Si è così diffusa, nell'immaginario collettivo, l'idea falsa di una pratica chirurgica priva di rischi. Nella società dei nostri giorni, l'unico vero tabù è rappresentato dalla morte che, se non spettacolarizzata e quindi emendata dalla sua realtà profonda, viene percepita come un estremo oltraggio e pertanto allontanata, rimossa. Si vuol negare la malattia e la morte. Derivano da questo distorto comune sentire una serie di sfavorevoli conseguenze che coinvolgono la vita professionale del cardiochirurgo. Per il nostro sistema giuridico quando si ha una denuncia l'onere di provare la colpa del medico non ricade sul denunciante , ma è il medico stesso che deve provare di aver agito correttamente. Questo è un abominio giuridico che, nella pratica medica quotidiana, viene considerato ed accettato come del tutto regolare». Tutti sono pronti alla denuncia, ma non al riconoscere i risultati che ogni giorno si registrano anche in molti casi che sono in realtà disperati. Si operano sempre più i grandi anziani in precarie situazioni di salute, con più malattie gravi, dal diabete alla obesità, ma si fa fatica ad accettare possibili gravi complicanze che si possono manifestare dopo l'intervento. «Molte perizie chieste dai tribunali si basano sull'arrogante presunzione della infallibilità del chirurgo e non su riscontri oggettivi, sulla conoscenza delle complicanze proprie di determinati interventi. Si devono creare in seno alle Società scientifiche dei gruppi di esperti a cui i chirurghi denunciati possano ricorrere per un pare - re qualificato e autorevole , una maggiore trasparenza, un supporto alla propria attività, come avviene nel Regno Unito attraverso la Medical Defence Union. Infine bisogna supportare il progetto di legge per la depenalizzazione della colpa medica: è così in tutti i paesi civili ed in particolare in Europa. Depenalizzare l'atto medico è secondo alcuni giuristi contro la Costituzione e così ci troviamo in compagnia di due soli paesi al mondo : Polonia e Messico. É una realtà sconsolante». Una indagine della Società italiana di chirurgia cardiaca rivela che su 70 cardiochirurgie italiane il100% dei chirurghi apicali ha in corso o ha avuto denunce per omicidio colposo. Nemmeno la camorra è in queste condizioni. Per queste ragioni e per i costi sempre più insostenibili delle assicurazioni professionali per un giovane diminuisce il numero degli iscritti alle scuole di specializzazione chirurgiche. Il giovane chirurgo non trova lavoro facilmente negli ospedali, si sente frustrato, soccombente sotto una realtà amministrativa che lo affossa, alle prese con i Drg più che con il malato. I manager amministrativi, nominati dalla politica, si atteggiano a grandi protagonisti della realtà ospedaliera e non perdono occasione per far sentire ai medici la loro sudditanza. Per la nostra società edonistica il sacrificio di un lungo apprendistato va evitato. «Fare il cardiochirurgo - afferma Menicanti -vuol dire accettare grandi stress psico-fisici e se non vi è lapassione lo sforzo è rifiutato». MENICANTI Molte perizie chieste dai tribunali si basano sulla arrogante presunzione di infallibilità del chirurgo. l'onere di provare la colpa non è del paziente. _________________________________________________ Il GIornale 17 lug. ’11 UNA VALIDA CURA PER I DIABETICI È RAPPRESENTATA DALLA CHIRURGIA IgnazioMonnino La chirurgia bariatrica dovrebbe essere considerata in prima istanza nel trattamento dei pazienti diabetici e obesi, al fine di aiutare a limitare le gravi complicanze che possono derivare dal diabete: questa è la posizione dell'International Diabetes Federation (IDF) presentata su The Lancet. La combinazione di obesità e diabete di tipo 2 si profila come la più grande epidemia e problema di sanità pubblica nella storia umana. Il diabete di tipo 2 è una delle malattie a più rapido incremento oggi, con quasi 300 milioni di persone colpite in tutto il mondo e con la previsione che 450 milioni di persone soffriranno di diabete entro il 2030. L'International Diabetes Federation è la piu autorevole organizzazione internazionale nel campo del diabete, rappresentando 200 societa diabetologiche da 160 nazioni. Secondo 1' IDF vi è una crescente evidenza che la salute delle persone obese con diabete di tipo 2 possono trarre, in determinate circostanze, notevole beneficio dalla chirurgia bariatrica. La task force dell'IDF su Epidemiologia e Prevenzione del Diabete ha convocato un gruppo di 20 esperti Internazionali diretto da Paul Zimmet (Melbourne), George Alberti (Londra), Francesco Rubino (New York e Roma) e JohnDixon (Melbourne), autori dell'articolo pubblicato su Lancet. Obiettivi specifici della iniziativa: Sviluppare raccomandazioni pratiche per i medici sulla selezione e gestione dei pazienti; Identificare le barriere all'accesso chirurgico; Suggerire politiche per la salute che garantiscano un accesso egualitario alla chirurgia; Identificare le priorità perla ricerca. Secondo il professor Francesco Rubino, direttore del programma di chirurgia gastrointestinale metabolica del New York presbyterian hospital - Weill Cornell medical center, e ricercatore dell'Università Cattolica di Roma, «Il riconoscimento del ruolo della chirurgia da parte dell'International Diabetes Federation, è motivato dalla richiesta urgente di un orientamento specialistico a livello mondiale di fronte al crescente uso della chirurgia bariatrica. «L'introduzione della chirurgia come legittima opzione nei protocolli terapeutici del diabete di tipo 2 cambia il modo di concepire la cura di questa malattia», dice Rubino. _________________________________________________ Il Sole24Ore 17 lug. ’11 STRESS POSTRAUMATICI: PROGRESSI PRIMA DI FREUD di Gilberto Corbellini Il libro di Liotti e Farina sulla natura e gli effetti patologici delle esperienze traumatiche- non soffre di nessuna delle due forma di fallacia astorica che colpiscono il dibattito neuropsichiatrico: che sono l'inconsapevolezza che la storia della neuropsichiatria è ricca di stimoli teorici originali ed euristicamente utili, e che la storia evolutiva della specie condiziona le manifestazioni disadattative del comportamento. Gli autori prendono posizione in merito allo sviluppo storico del pensiero psichiatrico sugli effetti delle esperienze traumatiche a livello dell'organizzazione neuropsicologica delle funzioni mentali. E si richiamano esplicitamente a due gigantesche figure della psichiatria e della neurologia dell'Ottocento, messe in ombra, immeritatamente, da Freud: Pierre Janet e John Hughlings Jackson. Il quadro storico viene completato da John Bowlby, visto che uno degli autori è Giovanni Liotti, tra i primi in Italia a capire il significato epistemologico e pratico dell'impianto evoluzionistico della teoria dell'attaccamento. «La tesi centrale del libro - scrivono con decisione gli autori - è che la teoria dell'attaccamento di John Bowlby, insieme all'ampia mole di ricerca che ne è conseguita e nel contesto di una compiuta teoria neojacksoniana dell'organizzazione mentale, possa costituire l'asse portante trama concettuale unitaria, capace di offrire coerenza e organizzazione ai dati di ricerca su trauma e dissociazione che continuano ad accumularsi». Quindi, per degli autori, quell'8% di persone circa che sviluppano un disturbo poà-traumatico da stress - cioè una sindrome che dal 1980 circa fa parte della nosologia psichiatria ufficiale e che è caratterizzata da intrusioni a livello della coscienza dei ricordi dell'evento, dall'esperienza cosciente di stati di intorpidimento ed estraniazione e da un'ipervigilanza (insonnia, allarme immotivato, ansia, irritabilità) - come conseguenza di un evento traumatico grave, risulta predisposta in ragione di una storia di attaccamento disorganizzato. In altri termini, il quadro clinico fortemente invalidante che queste persone manifestano - con un rischio doppio per le donne - dipenderebbe da un collasso delle strategie difensive di controllo a livello dei rapporti intersoggettivi, attraverso cui si sono tenuti a bada gli effetti dissociativi di esperienze traumatiche infantili, soprattutto abusi familiari. L'ipotesi che gli effetti sul piano della sofferenza psicologica riguardino le dimensioni dell'intersoggettività, e quindi il ruolo delle esperienze integrative e metacognitive, lascia aperti spazi di intervento per le psicoterapie cognitivo- comportamentali, che sono peraltro quelle che danno i migliori risultati nel trattamento del disturbo post- traumatico da stress. Liotti e Farina trovano significativi supporti biologici, cioè modificazioni riscontrare dell'organizzazione del cervello come conseguenza dello sviluppo traumatico, soprattutto a livello delle strutture che regolano le emozioni, e mediano le risposte difensive e il loro controllo, a favore di un modello del tutto plausibile. E i dati neurobiologici rafforzano le indicazioni cliniche di una irriducibile variabilità, che invita lo psichiatra a lavorare in modo pragmatico, facendo cioè uso di tutti gli strumenti di intervento inclusi i farmaci, per abbattere le sofferenze del paziente. L'approccio di Liotti e Farina migliora sul piano della coerenza, cioè riconoscendo nel sistema motivazione dell'attaccamento un fattore funzionalmente protettivo rispetto agli effetti degli sviluppi e degli eventi traumatici, l'interpretazione evoluzionistica circa l'origine del disturbo da stress postraumatico, che viene attribuita a un'eccessiva attivazione del sistema motivazionale di difesa e al fatto che questo sistema, che si è evoluto per difenderci da predatori, viene abnormemente stimolato dalla minaccia distruttiva di altri esseri umani. Non prevista, evolutivamente, nelle forme così massicce e sistematiche introdotte dall'evoluzione cognitiva e culturale, non a caso i tratti nosologici del disturbo da stress post-traumatico sono stati messi in evidenza nei soldati e reduci. _________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Lug. ’11 LA GUERRA DEI 30 ANNI CONTRO VIRUS E PREGIUDIZI Oltre alla malattia la ricerca ha contrastato scomuniche del condom, scontri tra Cia e Kgb e cure governative a base di aglio e barbabietola di Sylvie Coyaud Al Forum delle associazioni non governative riunito a Roma prima della VI Conferenza mondiale sulla patogene - si, il trattamento e la prevenzione dell'Hiv, si parlava di «guerra del Trent'anni» perché nel 1981 sono stati osservati i primi casi di malattie rare concentrati tra i giovani omosessuali di Los Angeles e di New York. In realtà l'Hiv si diffondeva da decenni nell'Africa sub- sahariana, precisava il mese scorso nel suo bollettino dal fronte il programma delle Nazioni Unite per la lotta all'Aids. Nel 2010, ci sono stati 2,1 milioni di morti, nel 1997 erano 6 milioni. Una vittoria? Non ancora, i sieropositivi sono 34 milioni rispetto a 22 milioni nel 1997, i due terzi dei quali nell'Africa subsahariana e uno su sei senza alcuna forma di terapia, in maggioranza donne e bambini. La metafora bellica ricorre anche fra i ricercatori. Per 15 anni hanno visto il virus invadere le cellule che dovrebbero debellarlo, lasciare il sistema immunitario devastato, alla mercè di altri invasori e delle loro infezioni opportunistiche. Quando dal 1996 nuovi farmaci, oggi sono più di venti, hanno preso di mira una serie di proteine indispensabili alla sua replicazione, l'Hiv si è ritirato nelle proprie Tora Bora, i "serbatoi nascosti" e inespugnabili dei linfonodi e delle cellule dendritiche. Se viene sospeso il cocktail della Highly Active Antiretroviral Therapy (Haart) riemerge blindato con nuove mutazioni. Dall'inizio, l'Hivha avuto alleati che hanno ostacolato ogni strategia preventiva: la distribuzione di preservativi nei luoghi di ritrovo dei giovani, di siringhe nuove contro quelle usate dai tossicodipendenti; il proibizionismo in materia di droga, prostituzione e omosessualità; pregiudizi, discriminazioni, politici e ciarlatani più opportunisti di un'infezione; leggi del libero mercato e norme sui brevetti; le rivalità trai ricercatori, l'immoralità di alcuni di loro e di certe case farmaceutiche durante gli esperimenti clinici nel terzo mondo. Era inevitabile che qualcuno negasse l'origine naturale dell'Hiv, la sua acquisizione probabilmente a più riprese da scimmie che ospitano un virus di immunodeficienza al quale resistono grazie a mutazioni genetiche studiate da Guido Silvestri all'università di Atlanta (si veda l'articolo a pagina 43, ndr). Nel 1992, il primo ministro russo Primakov ha ammesso che era stato il Kgb, con l'operazione "Infektion", a falsificare documenti secondo i quali la Cia aveva costruito e disseminato il virus. Peter Duesberg ha abusato della prepria fama mediatica, conquistata con lavori sull'origine virale di alcuni tumori, per spiegare al presidente del Sudafrica Thabo Mbeki che l'Aids era causato dalla droga e soprattutto dall'Azt, il primo farmaco autorizzato contro l'Aids che sarebbe stato propagandato da scienziati corrotti e dall'avida Big Pharma. Già convinto che l'epidemia fosse un'invenzione dei bianchi per costringere gli africani all'astinenza e quindi all'estinzione, per quattro anni Mbeki rifiutò i farmaci offerti dagli organismi internazionali e raccomandò "terapie alternative": una condanna a morte per 3oomila persone. Altri governanti hanno negato la presenza dell'Aids nel proprio regno dove una superiorità ideologica o razziale immunizzava i sudditi dalle perversioni. In Francia come in Giappone e in Cina, han- no negato la trasmissione del virus agli emofiliaci con le trasfusioni di sangue infetto. Sporca guerra. Sull'altro fronte intanto, le comunità più colpite schieravano star del cinema e dello sport, intellettuali, piccoli e grandi eroi. Grazie a loro l'epidemia è diventata il banco di prova di quella che oggi viene chiamata «citizen science», di una ricerca alla quale partecipano i non addetti, pazienti, amici, parenti, i volontari delle Ong superinformati e attenti a far rispettare le regole etiche. Hanno aiutato i ricercatori a riprendersi dalle ripetute mazzate, vaccini inefficaci, gel topici che dovevano prevenire l'iniezione e invece la favorivano, molecole promettenti in vitro e tossiche in vivo. «La cura ancora non c'è», dice Alessandra Cerioli, presidente della Lega italiana per la lotta all'Aids (Lila) che a Roma ha organizzato il forum delle associazioni. Però ricorda che oggi più di venti farmaci rendono cronica una sindrome letale fino «al 1996, quando la Haart mi ha salvata per il rotto della cuffia. La svolta del trentennio». Una più recente? «I risultati dell'Hptn il 7 maggio scorso: nella vita non sono mai stata così felice». Si riferisce agli esperimenti dell'Hiv Prevention Trials Network condotti in Africa, Amerìca e Asia con 1.763 coppie, in maggioranza eterosessuali, in cui un partner era sieropositivo e l'altro no. Sei anni fa, tutti hanno ricevuto preservativi e Visite mediche gratuite. In metà delle coppie, al partner sieropositivo sono stati offerti farmaci benché non avesse alcun sintomo di Aids. In tutto, le nuove infezioni sono state 28 e solo una quando il partner sieropositivo ha preso i farmaci. Alessandra se lo aspettava, per la Lila aveva aderito al protocollo presentato dalla Svizzera al vertice mondiale di Città del Messico tre anni fa. All'epoca molti ricercatori erano ancora scettici, i dati erano pochi, riguardavano solo 93 coppie brasiliane. «Visto? Sopravviviamo, non siamo pestiferi, potete toccarci, abbracciarci, amarci». _________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Lug. ’11 L'EMPATIA VIAGGIA SULLA RETE Il sito italiano più popolare è quello di Nadir-Onlus. Online il confronto sulla vita scandita dalle terapie di Federico Mereta Prima le mail per condividere le esigenze primarie delle persone con Hiv in Italia e nel mondo e l'elaborazione di un documento strategico sviluppato da una quindicina di associazioni, la "dichiarazione di Roma", che mette le istituzioni di fronte alle loro responsabilità. Poi la nascita di due siti, uno dei quali porta lo stesso nome del documento (www.dichiarazionediroma.it) per mettere in comune i risultati del gruppo di lavoro e diffonderli nella comunità. La rivoluzione del web diventa tangibile nel mondo delle organizzazioni impegnate per far crescere la cultura sull'infezione da virus Hiv. E se per gli anglofoni esiste un indirizzo di riferimento (www.nam.org), reso particolarmente semplice nel linguaggio per favorire la massima fruibilità in tutto il mondo, in Italia ci sono diversi siti web che offrono informazioni in uno spazio di condivisione aperto a tutti. «Il sito della nostra associazione conta circa 750mila accessi l'anno - spiega Filippo Von Schloesser, presidente di Nadir Onlus -. Molti visitatori si concentrano peraltro nelle ore notturne tra mezzanotte e le cinque, a conferma dell'utilizzo di questo mezzo anche da parte di italiani che vivono in altri paesi del mondo». Tra gli argomenti maggiormente "cliccati" ci sono sicuramente le informazioni sulle terapie e richieste specifiche su patologie che si correlano all'infezione da virus Hiv. «Sono di particolare interesse - fa notare Von Schloesser - i dati più recenti sulle combinazioni farmacologiche, gli effetti collaterali e l'eventuale tossicità dei trattamenti, oltre che ovviamente sul successo terapeutico». Se il classico sito e i diversi blog danno modo di approfondire specifiche tematiche che richiedono tempo, la complessità della patologia e del vissuto della persona sieropositiva riducono gli spazi per i social media più diffusi, come Facebook e Twitter. _________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Lug. ’11 MA L'EPIDEMIA NON E ANCORA SCONFITTA di Mario Clerici Alla fine degli anni Ottanta l'epidemia di Aids sembrava inarrestabile. L'Istituto superiore di sanità (Iss) decise di creare un finanziamento ad hoc per gli studi sulla infezione da Hiv. Era una svolta radicale Per la prima volta in Italia venne usato il sistema della "peer-review", per il quale la validità della proposta di ricerca è valutata da un gruppo di esperti del settore, e per la prima volta venne adottato un sistema strettamente meritocratico. L'applicazione di questo criterio permise a molti di noi, che allora erano all'estero, di vincere finanziamenti e di rientrare. Nel momento di massimo fulgore il programma di ricerca sull'Aids disponeva di quasi 25 milioni di euro all'anno, che poi iniziarono a diminuire progressivamente. Nel 2009 fu trasferito dall'Iss al ministero della Salute con una dote finale di lo milioni; dal prossimo anno cesserà di esistere e verrà assorbito nel Programma nazionale per la ricerca sanitaria (Pnrs) che finanzierà tutta la ricerca sanitaria italiana con un budget di circa 85 milioni. Questa scelta, seppur punitiva per tutti noi ricercatori del settore, non è in totale contrasto con quanto si sta verificando a livello mondiale: se il budget dell'Office of Aids Research degli National institutes of health (Nih) è sostanzialmente immutato da qualche anno, la pipeline delle industrie farmaceutiche non prevede lo sviluppo di nuovi farmaci per l'Hiv: l'infezione non fa più paura, è passata di moda. Il problema è se questa percezione sia corretta. La situazione sanitaria è molto cambiata: l'infezione da Hiv è oggigiorno trattabile anche se non esistono cure nè vaccini, e ciò potrebbe giustificare la cessata esigenza di mantenere un finanziamento specifico. D'altro canto, l'incidenza, ossia il numero di nuove infezioni, non è diminuita; l'aspettativa di vita dei pazienti trattati nel migliore dei modi e che rispondono perfettamente ai farmaci è, comunque, ridotta di circa 15 anni e, infine, anche se la mortalità per Aids è notevolmente diminuita, sono in costante aumento i decessi per tutta una serie di patologie (tumorali, cardiocircolatorie, renali, eccetera) che, per motivi non del tutto noti, sono molto più frequenti nei pazienti Hiv-infetti. L'epidemia è lungi dall'essere finita, e la disponibilità di cure efficaci e vaccini preventivi è ancora illusoria. Anche se la ricerca sull'Aids potrà essere finanziata attraverso altre vie, la decisione di cancellare il programma nazionale di ricerca dedicato a questa malattia appare non del tutto condivisibile. Università degli Studi di Milano e Fondazione Don Gnocchi, Irccs _________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Lug. ’11 IL MAGNETISMO DEI BATTERI Lo scopritore del virus Hiv, il premio Nobel Luca Montagnier, non ha perso la passione per virus e batteri. Ma in una chiave compietamete diversa, che si rifà alla fisica quantistica. Nella sua ultima ricerca Dna waves and water, appena pubblicata sulla rivista scientifica «Journal of Physics» e che ha visto coinvolto anche un pool di.fisici teorici italiani dell'Infn, Montagnier getta le basi teorico-fisiche per comprendere le propietà dell'acqua di trasmettere informazioni di valenza biologica. in particolare, ha scoperto che alcune sequenze di Dna batterico possono indurre segnali elettromagnetici di bassa frequenza in soluzioni acquose. Il fenomeno, nell'ambito della medicina di frontiera, potrebbe portare allo sviluppo di sistemi diagnostici molto sensibili per malattie quali Aids, Alzheimer, sclerosi multipla e a terapie basate sulle proprietà "informative" dell'acqua biologica. (fr.ce.) _________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Lug. ’11 LA «SANITÀ ELETTRONICA» DEI CAMICI BIANCHI Un contributo fino a 900mila euro per realizzare uno studio sull'impiego delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione tra i medici generici europei. È l'oggetto del bando Smart 2011/0033, la cui domanda di partecipazione va presentata entro il 10 agosto. La ricerca sulla "sanità elettronica" dovrà prendere in considerazione, oltre che i 27 paesi membri dell'Unione europea, anche la situazione dei medici generici in Turchia, Croazia, Islanda e Norvegia. Verrà scelta l'offerta economicamente più vantaggiosa in base ai criteri indicati nel capitolato d'oneri, nell'invito a presentare offerte o a negoziare oppure nelle specifiche. Per informazioni rivolgersi alla Commissione europea, Direzione generale della Società dell'informazione e dei media, direzione C, scrivendo alla mail lucilla.sioli@ec.europa.eu. http://tinyuricom/62whoae ___________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Lug. '11 AL SAN RAFFAELE FINITA L’ERA DON VERZÉ I poteri al Vaticano Profiti alla guida con Enrico Bondi MILANO — E alla fine la svolta storica all’ospedale San Raffaele è arrivata, don Luigi Verzé rinuncia a tutti i poteri. Le redini del colosso sanitario da ieri le tiene in mano la Santa Sede. Le deleghe operative vanno a Giuseppe Profiti, presidente del Bambin Gesù e uomo di fiducia del cardinale Tarcisio Bertone. Come super consulente per il risanamento è stato chiamato, invece, Enrico Bondi. Via libera anche alla cordata guidata dall’Università Vita Salute, con i finanziamenti di una charity internazionale. Così, sotto i colpi di quasi un miliardo di debiti, finisce l’era di don Luigi Verzé, il prete manager che in 42 anni di sfide ha creato un polo di ricerca e cura, nonché una galassia di business paralleli con jet, hotel, coltivazioni di mango e meloni in Brasile. Il nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione Monte Tabor, che guida il gruppo ospedaliero, è durato quattro ore: oltre a Profiti (vicepresidente operativo), hanno debuttato ufficialmente in rappresentanza della Santa Sede, il presidente dello Ior (la banca vaticana) Ettore Gotti Tedeschi, il giurista ex ministro Giovanni Maria Flick, l’imprenditore Vittorio Malacalza. Confermati i consiglieri di amministrazione della charity internazionale, Massimo Clementi (Università Vita e Salute del San Raffaele) e Maurizio Pini (Bocconi). In gioco non c’è solo il salvataggio del San Raffaele: quello di ieri virtualmente è anche il primo passo per la nascita di un mega polo sanitario cattolico tra l’ospedale di Milano, il Bambin Gesù e il Gemelli di Roma e l’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo. Un progetto importante che ha convinto don Verzé a fare un passo indietro, anche se formalmente rimane presidente. «Con l’espressa volontà del presidente sac. prof. Luigi Maria Verzé, il consiglio di amministrazione ha deliberato il conferimento al consiglio stesso di tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione — si legge nel comunicato di ieri del San Raffaele —. Il presidente ha delegato al vicepresidente prof. Giuseppe Profiti e al consiglio tutti i poteri, rinunciando all’esercizio degli stessi» . Tra i primi obiettivi dichiarati dal nuovo cda, quello di operare una ricognizione precisa della situazione aziendale e contabile della Fondazione Monte Tabor. Di qui il compito affidato al super advisor Enrico Bondi, chiamato con ogni probabilità dallo stesso presidente dello Ior, Gotti Tedeschi, per mettere a punto un piano di risanamento. Rinviate le due decisioni clou. Appare rimandata, almeno per il momento, la richiesta di concordato preventivo di continuità. È l’accordo in Tribunale con i fornitori, previsto dal piano dell’advisor Arnaldo Borghesi, ma che per ora sembra congelato. Il tempo, in ogni caso, stringe: i decreti ingiuntivi dei fornitori non pagati incombono. Slittata, per adesso, anche la nascita della newco dove dovrebbero confluire i finanziamenti necessari a saldare i debiti (almeno 200/250 milioni di euro) più urgenti. «Il consiglio di amministrazione è fiducioso di avere il tempo e di essere in grado di portare avanti con serenità l’attività di risanamento al fine di salvaguardare le risorse umane impegnate nell’Opera San Raffaele e gli interessi di tutti gli interlocutori coinvolti nell’attuale crisi — si legge nel comunicato —. È altresì convinto che il San Raffaele continuerà ad esercitare il ruolo internazionalmente riconosciutogli nelle attività di clinica e di ricerca» . Soddisfazione dal mondo scientifico del San Raffaele che aveva fatto quadrato intorno al progetto Vaticano charity internazionale. Del resto, il risultato raggiunto è anche frutto dei mesi di lavoro dello stesso Massimo Clementi (preside della facoltà di Medicina) e di Alberto Zangrillo, alla guida del dipartimento di Anestesia e Rianimazione, nonché medico personale del premier. Uno strenuo lavoro di contatti e diplomazia che segna l’inizio di una nuova epoca per il San Raffaele. Mario Gerevini Simona Ravizza ___________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Lug. '11 L’EX UFFICIALE DELLA FINANZA NELL’EX IMPERO DI DON VERZÉ Chi è Profiti, le ambizioni e la fiducia di Bertone CITTÀ DEL VATICANO — Nel 2009, per capire il tipo, spiegò all’Osservatore Romano: «L’obiettivo del Bambin Gesù è diventare il centro di riferimento della ricerca pediatrica e dell’assistenza in Europa. E, perché no, anche uno dei centri mondiali di riferimento. Può sembrare ambizioso, ma io credo sia un obiettivo ragionato e razionale» . Giuseppe Profiti, nuovo vicepresidente con pieni poteri del San Raffaele, anche Oltretevere ha la fama di un uomo capace, prudente e riservato, uno che si fa vedere poco, parla ancora meno e sgobba tantissimo, la pausa pranzo ridotta a un caffè. Tenace, magari un po’ freddo, però non è il tipo del secchione né gli difetta l’ironia: a maggio di tre anni fa, agli arresti domiciliari per qualche giorno nell’inchiesta genovese sugli appalti delle mense comunali, attese imperturbabile l’interrogatorio del gip leggendo «Il processo» di Franz Kafka, tanto per chiarire— con discrezione— come si sentiva: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato» . Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, lo aveva voluto da pochi mesi, gennaio 2008, alla presidenza dell’ospedale Bambin Gesù. E, poiché nella Chiesa i segnali sono importanti, fece colpo l’udienza privata dal Papa che gli fu concessa il 19 maggio 2008, durante la visita di Benedetto XVI a Genova e nel pieno dell’indagine nella quale Profiti sarebbe stato coinvolto di lì a poco. La «piena solidarietà» della Santa Sede, con nota ufficiale, fu immediata, la fiducia non gli è mai mancata in seguito. Le cronache giudiziarie parlano di un coinvolgimento tutto sommato marginale (l’accusa si riferiva a quando era direttore delle Risorse finanziarie in Regione), nel frattempo è arrivata una condanna a sei mesi con la condizionale per concorso in turbativa d’asta, nel 2010, confermata il mese scorso in appello. E lui, che ha un fratello magistrato, non ha mormorato una parola polemica contro i giudici: si è sempre detto estraneo, ricorrerà in Cassazione, tutto qui. «Nei cinque anni in cui ho collaborato con il cardinale Bertone prima e con il cardinale Bagnasco poi, tutti i nostri colloqui non hanno mai fatto riferimento direttamente o indirettamente ad attività commerciali» , si limitò a precisare uscito dal gip. Disciplinato, riservato, abituato a gestire il potere con cautela. E stimatissimo dal cardinale Bertone che, da arcivescovo di Genova, lo aveva chiamato alla fine del 2004 per guidare l’ospedale Galliera. Il professor Profiti — docente di contabilità degli enti pubblici all’università di Genova — era già stato direttore amministrativo al Gaslini. Ma fu allora che la sua carriera decollò: divenuto segretario di Stato, Bertone lo chiama in Vaticano al Bambin Gesù, nel 2010 Profiti entra pure nel Cda dell’università Cattolica, ora si aggiunge il San Raffaele. Un’accelerazione folgorante, per il manager nato a Catanzaro nel 1961, ufficiale della Guardia di Finanza dall’ 85 all’ 87 e poi, tra l’altro, consigliere alla Ragioneria generale dello Stato e vice commissario straordinario dell’istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Genova. La fama di competenza si è consolidata negli ospedali della Chiesa genovese e al Bambin Gesù. Sotto la regia del Segretario di Stato Vaticano, l’operazione San Raffaele è affidata a un gruppo calibratissimo: impostata dal presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi e con un luminare del diritto (Giovanni Maria Flick), un imprenditore (Vittorio Malacalza) più, appunto, un esperto di sanità: di qui il compito di Profiti, mentre il superconsulente Enrico Bondi lavorerà al risanamento. Gian Guido Vecchi ___________________________________________________________ Le Scienze 16 Lug. '11 UNA CORRELAZIONE TRA TELOMERI E RISCHIO DI ENFISEMA Invecchiamento degli organi Sebbene i topi non avessero patologie polmonari di base, dopo l’esposizione al fumo hanno sorprendentemente sviluppato un enfisema I telomeri, gli “orologi” cellulari” nostro organismo, possono essere un fattore cruciale per lo sviluppo dell’enfisema, secondo un nuovo studio dei ricercatori della Johns Hopkins University. “Il primo risultato che abbiamo trovato è che nei topi con telomeri più corti si riscontra un significativo incremento del rischio di sviluppare un enfisema dopo l’esposizione al fumo di sigaretta”, ha spiegato Mary Armanios, professore di oncologia della Johns Hopkins School of Medicine e primo firmatario dell’articolo di resoconto apparso sulla versione online dell’American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine. I telomeri sono sequenze ripetute di DNA poste sulla parte terminale dei cromosomi, con la funzione di proteggerli dalla degradazione. La loro lunghezza è geneticamente determinata, ma vengono progressivamente accorciati durante le successive replicazioni cellulari. Per questo telomeri corti sono considerati un marker biologico di età avanzata delle cellule. “Con l’età i telomeri corti si accumulano e interrompono la divisione cellulare, per questo possono essere considerati come ‘orologi biologici’”, ha aggiunto Armanios. “Il nostro obiettivo era quello di determinare se la lunghezza stessa del telomero fosse la ragione alla base dell’aumento della suscettibilità all’enfisema con il progredire dell’età”. Armanios e colleghi hanno esaminato il ruolo dei telomeri nella patologia del polmone con lo studio di topi che presentano telomeri accorciati. Gli stessi animali sono poi stati esposti al fumo di sigaretta per sei ore al giorno, cinque giorni alla settimana e per sei mesi. I ricercatori hanno poi esaminato il tessuto polmonare e la funzionalità polmonare nei topi. “Sebbene i topi non avessero patologie polmonari di base, dopo l’esposizione al fumo hanno sorprendentemente sviluppato un enfisema. Per contro, topi con telomeri lunghi non hanno sviluppato patologie polmonari nel corso degli esperimenti”. Nell’enfisema, gli alveoli polmonari colpiti perdono in modo permanente la loro funzionalità. La patologia insorge generalmente nei soggetti più anziani e in rari casi può colpire soggetti che non hanno mai fumato. (fc) ___________________________________________________________ Le Scienze 15 Lug. '11 COME TI RISCRIVO TUTTO IL GENOMA Utilizzando un nuovo approccio di correzione del genoma, un gruppo di ricercatori ha sistematicamente sostituito un sequenza di tre lettere con un altra in un genoma di E. coli Un nuovo metodo per apportare modifiche precise in tutto un genoma, utilizzando il materiale genomico di una cellula vivente come modello è stato sviluppato da un gruppo di ricercatori della Harvard Medical School, che lo illustra in un articolo pubblicato suScience a prima firma Farren Isaacs. La possibilità di modificare i geni è qualcosa di rivoluzionario, con risvolti di utilità immediata e dalle potenzialità illimitate, osservano i ricercatori. La maggior parte degli strumenti di modifica del DNA attualmente in uso è però lento, costoso e difficile da usare, un po' come l'invenzione della macchina da stampa di Gutenberg, una tecnologia geniale ma ancora nella sua infanzia. Ora, i ricercatori di Harvard hanno iniziato a sviluppare uno strumento di "editing" del genoma più semplice e veloce, che ha permesso loro di riscrivere il genoma di cellule viventi usando l'equivalente genetico di quello che in un programma di elaborazione testi corrisponde al comando "cerca e sostituisci". "La posta in gioco non è quella di fare una copia di qualcosa che già esiste", ha detto George Church, che insieme a Joe Jacobson ha diretto lo studio. "Si tratta di cambiarla, funzionalmente e radicalmente." Questo cambiamento, ha detto Church, serve a tre scopi. Il primo è quello di aggiungere funzionalità a una cellula così da codificare nuovi utili aminoacidi. Il secondo è quello di introdurre misure di protezione che impediscono la contaminazione incrociata tra organismi geneticamente modificati e varietà selvatiche. Un terzo obiettivo è quello di stabilire multi-resistenza ai virus alla rioscrittura del codice operata dai virus. Negli impianti usati per la coltura di batteri, per esempio al fine di produrre farmaci o energia, questi virus colpiscono fino al 20 per cento delle culture: la sola biotech Genzyme, per esempio, stima che i danni che essa subisce a causa delle contaminazioni varino fra alcune centinaia di milioni a un miliardo di dollari. Usando questo approccio, i ricercatori hanno sistematicamente sostituito un sequenza di tre lettere con un altro in un genoma di E. coli. Questo metodo differisce radicalmente dall'approccio più convenzionale che prevede di sintetizzare il genoma in provetta, poi trasferirlo nelle cellule. Gli autori dicono che, anziché introdurre cambiamenti individuali in uno specifico genoma - un'operazione che può avere effetti estremamente negativi se un singolo allele non è progettato o posizionato correttamente la loro - la nuova tecnica tratta il cromosoma come un modello modificabile e passibile di evoluzione a cui è possibile apportare modifiche in molti genomi insieme. In questo studio, i ricercatori hanno in particolare sostituito tutti i codoni di stop "TAG", che rappresentano il segnale di arrestare il proprio lavoro all'apparato cellulare di traduzione delle proteine, con altrettanti nuovi codoni di stop "TAA" in 32 ceppi di E. coli. Successivamente hanno fuse i segmenti cromosomici modificati in ottenendo un nuovo singolo ceppo contenente 80 precise variazioni genetiche. (gg) ___________________________________________________________ Le Scienze 13 Lug. '11 Sulla rivista Neuron LEPTINA: L'ORMONE ANTIOBESITÀ I risultati portano a ipotizzare che il ruolo di modulazione dei neuroni GABA sia un aspetto cruciale dell'azione della leptina Nel cervello, l'ormone leptina agisce in modo da prevenire l'obesità, ma finora gli esatti meccanismi neurologici di questo fenomeno sono rimasti sconosciuti. Ora una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Neuron sembra aver colmato la lacuna. “La leptina è un ormone secreto dalle cellule adipose e agisce su specifici recettori presenti nel cervello per inibire l'introito di cibo e per promuovere il consumo di energia”, ha spiegato Bradford B. Lowell, ricercatore del Beth Israel Deaconess Medical Center e della Harvard Medical School e autore senior dello studio. “Tuttavia, nonostante le intense ricerche, vi era finora una conoscenza molto limitata dei neuroni sensibili a questo ormone”. Precedenti studi dello stesso gruppo di Lowell e di altri hanno individuato nel nucleo arcuato i componenti chiave per il controllo dell'obesità: in particolare, i neuroni pro-opiomelanocortina (POMC) - che si è dimostrato abbiano un ruolo nella soppressione dell'appetito - risiedono in tale regione. Sebbene molti neuroni POMC esprimano recettori per la leptina, l'azione diretta di questo ormone su tali neuroni non sembra avere un ruolo importante nei meccanismi di regolazione del peso. Ciò suggerirebbe l'esistenza di altri neuroni critici per l'azione antiobesità della leptina. In quest'ultimo studio, Lowell e colleghi hanno adottato un approccio innovativo per identificare i neuroni coinvolti nei meccanismi di interesse e per controllare se gli effetti della leptina fossero mediati in prima battuta da neuroni glutammaterergici o gabaergici. “Il risultato notevole è che gli effetti antiobesità sono mediati in modo predominante dai neuroni gabaergici, mentre quelli glutammatergici rivestono solo un ruolo di secondo piano”, ha aggiunto Linh Vong, primo autore dello studio. Inoltre si è potuto chiarire che i neuroni GABA sono a monte dei neuroni POMC, e che in risposta alla leptina i neuroni GABA sono meno attivi. Per converso, una riduzione dei livelli di leptina, che si verifica per esempio durante il digiuno, incrementa l'attività di questi neuroni gabaergici. Complessivamente, i risultati portano a ipotizzare che il ruolo di modulazione dei neuroni GABA sia un aspetto cruciale dell'azione della leptina. “La leptina, agendo direttamente sui neuroni gabaergici, riduce il tono inibitorio dei neuroni POMC”, ha concluso Lowell. “Poiché i neuroni POMC prevengono l'obesità, la loro disinibizione da parte della leptina a monte dei neuroni GABA probabilmente media, almeno in parte, gli effetti antiobesità della leptina stessa. Inoltre, la regolazione indiretta dei neuroni POMC da parte della leptina mette in accordo l'importate e già noto ruolo dei neuroni POMC nella regolazione dei peso corporeo con il ruolo relativamente poco importante rivestito dall'azione diretta della leptina sugli stessi neuroni POMC”. (fc) ___________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Lug. '11 UN TEST SULLA SALIVA PER SVELARE LA CELIACHIA NASCOSTA Gli intolleranti al glutine sono tanti e crescono sempre di più. Il problema è che il 90%di loro non sa di essere celiaco, un guaio soprattutto se il paziente in questione è un bambino: l'intolleranza al glutine provoca infatti malassorbimento e può dare disturbi della crescita, durante il periodo dello sviluppo. È per questo che alcuni pediatri dell'Università di Roma «La Sapienza» , guidati dalla responsabile del Centro Celiachia, Margherita Bonamico, hanno deciso di provare a svelare quel che c'è sotto la punta dell'iceberg celiachia proponendo uno screening per la malattia, semplice e non invasivo, a oltre 7 mila bimbi della capitale, fra i 6 e gli 8 anni di età. Per il test è stata raccolta una piccola quantità di saliva, analizzata per la presenza degli anticorpi anti-transglutaminasi tipici della celiachia. I bimbi risultati positivi sono stati invitati a fare un'endoscopia di conferma e, una volta avuta la diagnosi, hanno iniziato la dieta senza glutine e sono stati seguiti nei tre anni successivi per capire se la tolleravano bene e se questa aveva ripercussioni sul loro sviluppo. Dai risultati della ricerca, presentati di recente a Chicago durante la Digestive Disease Week, è emerso che l'1,3%dei bimbi soffre di celiachia: in un caso su tre si tratta di una forma tipica, in due terzi dei bimbi si tratta di una forma silente che non dà sintomi molto evidenti. I bimbi positivi al test della saliva sono risultati positivi anche ai test degli anticorpi nel sangue e all'endoscopia. «I bambini diagnosticati, sottoposti a una dieta priva di glutine, in tre anni hanno avuto un significativo miglioramento nella crescita, senza complicazioni» . Il test salivare potrebbe essere quindi un buon mezzo per scovare i casi non diagnosticati; durante il congresso americano si è molto discusso dell’opportunità di provvedere a screening generali della popolazione, proprio perché il problema pare in continuo aumento e la maggioranza dei pazienti non si accorge di avere la celiachia perché i sintomi sono blandi e vengono scambiati per cattiva digestione. Una ricerca finlandese presentata a Chicago ha dimostrato che i test di screening sarebbero opportuni se non altro per la popolazione ad alto rischio, ovvero per i familiari di celiaci: i ricercatori, del dipartimento di gastroenterologia dell’Università di Tampere, hanno infatti osservato che se questi soggetti si riscontrano positivi agli anticorpi anti-endomisio tipici della celiachia possono giovarsi molto di una dieta priva di glutine, anche se non hanno sintomi. «I soggetti positivi ai marcatori di celiachia ma asintomatici hanno tratto notevole vantaggio dalla dieta: riferivano di stare meglio e di avere una qualità della vita migliore, inoltre erano spariti i sintomi gastrointestinali sotto-soglia che pativano quando si alimentavano in maniera standard— racconta il coordinatore dello studio, Katri Kaukinen —. Una volta conclusa la sperimentazione, l'85%dei pazienti che avevano seguito la dieta senza glutine pur essendo inizialmente senza sintomi evidenti di celiachia ha dichiarato di volerla continuare, perché si sentiva meglio. Tutto questo indica che lo screening con test non invasivi, come quelli della saliva o sul sangue, può essere opportuno nella popolazione a rischio: chi è positivo può infatti trarre vantaggio dall'eliminazione del glutine» . Carlo Sartorio ___________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 Lug. '11 «IO, CHIRURGA SARDA AL CENTO PER CENTO» Lanciatissima in Francia (dopo una laurea a Cagliari e un master a Bologna), Barbara Melis ha deciso all'improvviso di rimettersi in gioco. Personalissimo e meditato master & back. Dopo una vita tra Lione e Nizza, ha rinunciato a stipendio e carriera per rientrare in Sardegna dove, detto per inciso, non l'aspettava un lavoro. Trentasei anni, chirurgo della spalla (una decina in tutto il Paese), ha deciso di ricominciare da zero: libera professione, sperando che funzioni. Perché l'ha fatto? Innanzitutto il «richiamo irresistibile della mia terra». La scelta francese era sbagliata? «No, è la Sardegna che è la cosa giusta». scelta francese di Barbara, un bisturi tra nostalgia e ritorno di GIORGIO PISANO Ha deciso presto di alzare le vele e partire verso il mare aperto. Dice che voleva vedere cosa c'è «oltre la Sardegna, oltre l'Italia». In valigia, una laurea in medicina col massimo dei voti, lode e abbraccio accademico, ma soprattutto la voglia di stare al timone del destino. Ha messo il naso a Lione dove funziona un centro d'eccellenza mondiale di chirurgia della spalla. Siccome desiderare in grande non è peccato, ha poi sperato di incrociare il professor Gilles Walch, che è una sorta di Maradona del settore. Conclusione: la pausa in Francia è durata sei anni. Non solo: è approdata a un regolare stipendio (più di tremila euro netti al mese), a una vita ormai pensata e programmata in francese. Peccato che a un certo punto un vecchio tarlo abbia ripreso a farsi sentire fino a diventare insopportabile. È stato così che Barbara Melis, 36 anni, cagliaritana, ha riazzerato tutto: adieu, au revoir, saluti e baci, è rientrata in Sardegna. Quotatissima, supertitolata ma senza un lavoro. «Si ricomincia», dice lei senza buttarla sul drammatico. Anzi. Significa che fa la libera professione, pendolare tra gli ambulatori della provincia, corvée quotidiana di visite su visite. Come un qualunque dottorino che tenta di stare a galla agli inizi della carriera. Il suo è stato un personalissimo master & back iniziato durante gli anni della specializzazione nella scuola diretta dal professor Claudio Velluti e concluso a livelli altissimi. Figlia di un piccolo imprenditore e dunque senza santi in camice bianco che potessero accompagnarla verso magnifiche sorti e progressive, ha fatto tutto da sola. Con un coraggio e un'energia che lasciano senza parole. Ma perché tornare, perché rimettersi in gioco? «Non ho ambizioni di cattedra, non devo soffiare il posto a nessuno». Insomma, non è rientrata per una vendetta a freddo e nemmeno per un trionfo tardivo. La patologia della spalla ha bersagli arcinoti: muratori, elettricisti, imbianchini, parrucchieri e tutti quelli che lavorano tenendo in alto le braccia. Secondo le (opinabili) statistiche, è una delle cause d'assedio ai medici di base. Dopo i settanta, i guai della spalla si chiamano spesso artrosi: creano difficoltà di movimento, impotenza funzionale (per dirla col linguaggio dei medici), dolori ricorrenti. Come uscirne? La chirurgia ha fatto passi da gigante ma non sempre c'è bisogno del bisturi, a volte basta quella che si chiama artroscopia. Barbara Melis, che per non negarsi niente ha conquistato anche un master di secondo livello all'università di Bologna, vanta un medagliere che - a dispetto dell'età - le consentirebbe fin d'ora di avanzare in corsia con codazzo adorante al seguito, secondo le regole istituzionali della baronia accademica e ospedaliera. La cosa, però, non l'affascina. «Nella sanità pubblica ci sono posti occupati da decenni ma non mi è mai passata per la testa l'idea di scendere in campo. Avevo altri obiettivi, guidati dalla malattia che mi ha fatto partire e mi ha fatto tornare: la passione per questo lavoro». Dalla Sardegna ha portato in dote una buona preparazione? «Ho portato soprattutto molto entusiasmo ma, come tanti italiani all'estero, avevo una preparazione teorica, non associata alla pratica. Nei Paesi anglosassoni e in Francia gli specializzandi sono molto più autonomi di noi». Cioè? «Noi ci possiamo formare, anche molto bene, ma soltanto sui libri. Mai nella pratica. E questo pesa». Non poteva specializzarsi in Italia? «A Lione ci sono uno, massimo due specializzandi per reparto, in Italia si arriva tranquillamente a sei. Troppi: non ci può essere spazio per tutti». L'incontro col mitico professor Walch? «Stavo seguendo un corso in Chirurgia del ginocchio. Ho chiesto al mio primario se durante le ferie potevo essere autorizzata a stare nel reparto del professor Walch, che si occupava di chirurgia della spalla. Me l'hanno concesso. Alla fine di quel periodo ho chiesto timidamente: posso tornare? Walch mi ha guardato: mettiti in lista d'attesa». Poi? «Ho aspettato solo sei mesi. Mi hanno proposto uno stage di due mesi. E lì ho dato tutta me stessa, il resto della vita trasferito nei ritagli di tempo: studio, attività di reparto, sala operatoria». A mettere divaricatori. «In fase iniziale non è disonorevole mettere divaricatori. L'importante è stare in sala, poter guardare il chirurgo al lavoro, imparare, capire». Premiata? «Alla fine dei due mesi Walch mi ha proposto un fellowship, ossia un corso di formazione, della durata di un anno. Mi ricordo che l'ascoltavo in silenzio, sospesa tra l'incredulo e la felicità. Perché proprio a me questa fortuna? Dopo un anno sono stata riconfermata. Poi ho continuato la pratica a Nizza in una clinica universitaria dove opera il presidente della società internazionale di chirurgia della spalla». Gli anni francesi, nel bene e nel male. «Sono stati difficili, non lo nego. Ero sola, per nulla facile trovare amici, compensare l'assenza della mia famiglia. Trascorrevo gran parte del tempo in ospedale. A parte questo, i francesi sono molto individualisti e quindi stabilire un rapporto non è facilissimo». Battutine razziste? «No, questo no, mai stata oggetto di discriminazione in quanto italiana. L'antagonismo c'era ma in termini propositivi». Sgambetti? «A Lione avevo colleghi americani, giapponesi, irlandesi, canadesi. La competitività era altissima: capisci subito che in un ambiente così sopravvivono soltanto i migliori. Gli altri, inevitabilmente, vanno fuori pista. Faticosissimo, a lungo andare». Pause? «Impensabili. In un centro di eccellenza non te le puoi permettere perché ti sorpassano in un attimo. C'è ressa. Devi sempre stare in campana, concentratissima». E i capi? «I capi sono i primi a lavorare a mille all'ora. Sono vulcanici. Non si fermano un attimo perché hanno un nome e un'autorevolezza da difendere». Punti in comune coi nostri baroni? «Non ne ho colto. È diverso lo stile, il modo di lavorare». Cosa le è mancato in quei sei anni? «Posso dirlo senza vergognarmi? Avevo nostalgia della mia terra, della Sardegna. Qualcosa di struggente, di profondo: non ho mai pianto ma ci sono andata molto vicino. Rientrare per una vacanza a Cagliari e poi ripartire per Lione mi ha messo ogni volta a dura prova». Nostalgia canaglia. «Non solo. C'è anche un problema di ritmo di vita. Che qui da noi ha ancora una dimensione umana. Lione è al centro della Francia ma vive e pensa come una città del nord Europa. Con tutto quello che questo comporta». Ossia? «Ci devi essere. Sempre. In ospedale, dove arrivavano pazienti da tutto il mondo; ai convegni; alle riunioni con i colleghi. Nessuno ti chiama, nessuno chiede di te: non ce n'è bisogno, sai che non puoi mancare. Mai. Per resistere occorre uno sforzo enorme, devi attingere energia in ogni momento». E lei? «Ho un difetto che non m'aiuta: sono eccessivamente perfezionista. Inoltre, se mi pongo un obiettivo non mollo la presa». Queste scelte hanno danneggiato la sua vita privata? «Se ti trasferisci armi e bagagli all'estero, devi sapere cosa vuoi e, soprattutto, cosa stai cercando. Rinunce? Messe in conto, inevitabili. Per le donne tra l'altro è sempre più difficile perché siamo divise tra un orizzonte professionale e la voglia di fare la mamma». Mamma e professione sono incompatibili? «In quella fase, certamente sì. Difatti allora non sentivo affatto l'esigenza di metter su famiglia. Oggi sì, invece. A fine mese mi sposo e spero di riuscire a conciliare due ruoli, due mondi. Il mio fidanzato, che fa l'ingegnere, mi aiuterà su questa strada». Quando ha deciso che non ce la faceva più? «Niente di tutto questo. Sono partita per fare esperienza ma l'intenzione di tornare non è mai stata archiviata». Neppure davanti a uno stipendio, a un'esistenza ormai francese? «Ogni tanto capitava di riflettere, domandarmi: che ne faccio, ora, di tutto questo bagaglio? Lo utilizzo qui, dove sono stata accolta e accettata senza avere santi in paradiso, oppure lo trasferisco in Sardegna?». Com'è finita lo sappiamo. «No, aspetti. Ho fatto un bilancio definitivo una sera qualunque dell'autunno scorso, all'uscita dall'ospedale. Mi sono detta: in Italia i chirurghi della spalla sono pochi...». Pochi, quanti? «Una decina al massimo. Quindi ho pensato che poteva esserci spazio anche per me. In fondo, si trattava di rimettermi in discussione, iniziare una nuova battaglia». Lei non si scoraggia neanche per sbaglio? «Sono stati mille i momenti in cui ho pensato che non ne potevo più, che mi veniva voglia di gridare basta e saltare sul primo aereo per Cagliari. Aggiungeteci la stanchezza, la nostalgia della mia famiglia, la tensione permanente. Ogni volta che mi arrivava una crisi di questo genere, e sono state tante, mi dicevo: Barbara, resisti». Alla fine ha alzato bandiera bianca. «Nel modo più assoluto. Io ho deciso di partire per la Francia, io ci ho studiato sei anni, io ho stabilito che quell'esperienza era conclusa. E pochi mesi fa, a freddo ma in realtà era tutto pianificato, ho annunciato che me ne andavo». Come l'hanno presa? «Con rispetto, tanto è vero che continuo a collaborare con la clinica universitaria di Nizza e l'ospedale di Lione. Niente strappi. Direi che dietro la mia decisione c'è un 50 per cento di richiamo della terra e un altro 50 per cento di ambizione e testardaggine». Testardaggine, perché? «Perché mi piace l'idea di una sfida costante con me stessa. Aiuta a sentirmi vitale, a non adagiarmi». Che certezze ha lasciato in Francia? «L'organizzazione e un percorso stabilito che nessuno avrebbe potuto modificare o sabotare. Ero incanalata in una direzione precisa. Rientrando qui, ho dovuto (e voluto) ricominciare da zero». Era così insopportabile l'idea di un futuro all'estero? «Non so se a lungo andare sarei esplosa o entrata in depressione. Non avrei avuto alcun problema a continuare a vivere in Francia, tra l'altro con la certezza di uno stipendio da ritirare a fine mese. Qui, invece, gli euro me li devo conquistare uno per uno. Ma non è questo che mi spaventa, sapevo a cosa sarei andata incontro». È sicura di aver fatto bene? «Diamoci appuntamento tra un anno e mi rifaccia la domanda. Ora non saprei rispondere, salvo il fatto che ero al corrente di quali sarebbero state le difficoltà nella libera professione». Perché non cercare uno spazio nella sanità pubblica? «Il settore pubblico non offre spazi a una disciplina così specialistica. La stragrande maggioranza dei posti letto di Ortopedia è occupata da traumatizzati. Fare chirurgia d'elezione, come la mia, in una struttura pubblica sarebbe veramente difficile. Non c'è alternativa al privato, alla libera professione». Praticata magari a tariffe spropositate. «Direi il contrario, decisamente popolari. Ho detto che faccio medicina, non speculazione». Ha senso che una come lei vada a inseguire clienti come un esordiente? «Ho l'abitudine a mettermi in discussione ogni giorno. Il mio obiettivo oggi non è quello di guadagnare quanto mi riusciva in Francia, altrimenti sarei rimasta lì». Progetto finale? «Spero di poter fare il chirurgo della spalla e contemporaneamente la madre di famiglia. Per il momento, mi muovo dentro il miglior scenario possibile: la Sardegna». pisano@unionesarda.it