RASSEGNA STAMPA 01/05/2011 LA SCURE DEL GOVERNO SU SCUOLA E UNIVERSITÀ TROPPI LAUREATI: LA FAVOLA REAZIONARIA DEL MINISTRO TREMONTI PERCHÉ DOBBIAMO FINANZIARE NOI L'ATENEO? TI NOMINO PROF A VITA PROMOZIONE NEGATA ALLE UNIVERSITÀ VIA WEB RICERCA, GELMINI PROVA LO SPRINT con 1,7 MLD SEI MILIARDI ALLA RICERCA IN DUE ANNI PER LA RICERCA TREMONTI PUNTI SUL CREDITO FISCALE. SE 1,2% DEL PIL VI SEMBRA ABBASTANZA I CAMPIONI DELLA RICERCA IN ITALIA: CNR SOLO TERZO UNIVERSITÀ CARICHE DI ORO IN TEXAS CERVELLI: GLI SCIENZIATI AMERICANI ORA FUGGONO IN EUROPA "VIVRETE SOLTANTO DI NUMERI" VITTORIO GALLESE E I NEURONI SPECCHIO D.STERN: NOI CI RIFLETTIAMO NEGLI ALTRI È UN MASTER SENZA PIÙ BACK ECCO LE PROFESSIONI DEL 2017 E IL CORSIVO DIVENNE INDECIFRABILE UN CANDIDATO SU 10 RIFIUTA IL POSTO NESSUN COMPUTER POTRÀ MAI SOSTITUIRE L’INTELLIGENZA UMANA LO SCIENZIATO DELLA MEMORIA L'ITALIANO È DI MODA IN GERMANIA L'ANNO TORRIDO DI MARIE CURIE ========================================================= STOP AL NUMERO CHIUSO A MEDICINA» DESTINATI AD AUMENTARE I POSTI PER I CAMICE BIANCO A CACCIA DI MEDICI FORMIGONI: «SUBITO IN CORSIA GLI SPECIALIZZANDI» SANITÀ, NUOVA INCHIESTA. NEL MIRINO LA SCELTA DEL MANAGER DEL BROTZU MEDICI DI FAMIGLIA, SCIOPERO SANITÀ, NUOVO STOP ALLA RIFORMA LAZIO: OK ALLA RIFORMA: ACCREDITATI I PRIVATI ALLA LOMBARDIA 17 MILIARDI PER OSPEDALI E ASL SEDICI MILIONI DI PERDITE: VIA LIBERA AL BILANCIO ASL 2010 LA GIUNTA APRE LA SFIDA PER RIDURRE I TEMPI D'ATTESA NELLA SANITÀ. NIENTE SOLDI PER IL NUOVO OSPEDALE DI SAN GAVINO PRESTIGIOSO RICONOSCIMENTO PER GAVINO FAA, GUERRA TRA MEDICI DI UROLOGIA A CAGLIARI LO STUDIO DEL MEDICO DI BASE DIVENTA UN MINI-OSPEDALE ALLA SCOPERTA DEL DIAMANTE CHE SCONFIGGE IL TUMORE VERZÈ VENDE AEREO, HOTEL E PIANTAGIONI IL SESSO FA BENE (O NO?) L'ORTOPEDICO RIGENERA LE CARTILAGINI ANCHE LE CELLULE DEL SANGUE FANNO TIC-TAC VACCINI: TRE MILIONI DI VITE SALVATE OGNI ANNO LA RETE DELLA SANITÀ COSÌ INTERNET AIUTA A COMBATTERE LE MALATTIE VARONESI: LETTERA APERTA SU UNA LEGGE SBAGLIATA TALASSEMIA: MALATI IN AUMENTO SERVE UNA STRATEGIA GLOBALE ASSOCIAZIONE TRA I BAGNI CALDI D'INVERNO E IL RISCHIO INFARTO L’INSIEME DEI MICROBI È UN «MARCHIO» ========================================================= _____________________________________________ Il Manifesto 21 apr. ’11 LA SCURE DEL GOVERNO SU SCUOLA E UNIVERSITÀ TAGLI 13,5 miliardi in meno nel triennio Roberto Ciccarelli per carità, non chiamateli tagli alla scuola e all'università, sono solo «minori spese» per 4,5 miliardi di euro nel 2012, 4,5 miliardi per il 2013 e per altri 4,5 miliardi nel 2014. Sono le cifre stampate nella tabella contenuta nel Documento di economia e finanza (Def) che è stato presentato dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti l'altro ieri a Bruxelles. Li possono osservare tutti su internet, mentre il vicesegretario Pd Enrico Letta li sventola in faccia al ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini nel corso di Ballarò andato in onda martedì su Raitre. Uno scoop clamoroso che ha fatto sorridere un Letta beffardo e pugnace, mentre la Gelmini saltava come un grillo dalla sua poltrona. «Non sono tagli, Tremonti me lo avrebbe detto! Lei Letta, vuole creare inutilmente del panico». Abituata a mettere la polvere sotto il tappeto e a recitare a soggetto, grazie al suggerimento di un occhialuto collaboratore seduto dietro di lei, il ministro Gelmini si è affrettata a dire che queste cifre sono «cifre computate rispetto al 2008». Abbiamo verificato sul sito del ministero dell'Economia dov'è possibile consultare il Def. E in effetti è vero, la cifra di 13,5 miliardi per il prossimo triennio somma i tagli della legge 133 del 2008. Ma c'è un punto da chiarire. Rispetto alle cifre conosciute, a decorrere dal 2012 c'è uno scarto di almeno 600 milioni all'anno. E non è chiaro dove il governo prenderà queste risorse, ma di sicuro sta pensando ad un'altra operazione ragionieristica che farà crollare il sistema dell'istruzione pubblica a favore di quello privato tanto caro al Presidente del consiglio Berlusconi. Nella scena madre di Ballarò non è stata purtroppo menzionata la notizia più devastante. Abbiamo appreso che nel prossimo trentennio il governo ha deciso che la ricchezza prodotta verrà progressivamente spostata dall'istruzione pubblica a settori di spesa non ancora precisati. La quota attuale del Pil impegnata nella scuola e nell'università è del 4,2 per cento, calerà al 3,7 per cento nel 2015 per raggiungere il 3,2 entro il 2030. Siamo certi che a questo punto persone ben informate, e competenti, si sono già messe al lavoro per quantificare la cifra. Quello che ad oggi possiamo dire è che i «risparmi» (cioè i tagli) previsti sono senz'altro più alti di quello che si legge nel Def. Nell'immediato il contenimento della spesa provocherà la progressiva riduzione degli stipendi degli insegnanti e dei ricercatori che sono già oggi i più bassi d'Europa. Il Def conferma inoltre che gli scatti stipendiali congelati da Tremonti nella manovra estiva del 2010 non verranno restituiti nel 2013 e che per il personale della scuola non è previsto alcun rinnovo del contratto. Ma non è finita qui. Nel testo si continua ad affermare una falsità. Si parla ancora di un reintegro di 800 milioni del Fondo ordinario di finanziamento delle università (Ffo), quando invece è universalmente noto che si tratta solo di un parziale reintegro di un taglio di 1,3 miliardi previsto sin dal 2008. Sempre nella memorabile scena il ministro Gelmini si è soffermata sull'immissione in ruolo di 30 mila docenti precari prevista per il prossimo anno «in accordo con i sindacati», cioè con Cisl e Uil. Una tesi contestata da Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil, che apostrofa il metodo seguito dalla Gelmini come quello che si segue «al Bar degli amici». «Questo numero — sostiene - non garantisce alcuna aggiuntività rispetto ai posti disponibili che sono oltre il doppio ed è insufficiente per garantire stabilità ai precari». «Se il Ministro non è in grado di interpretare da sola le tabelle del Def — ha rincarato la dose la responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi - se li faccia spiegare con esattezza da Tremonti». «Quello che è certo — afferma Alessandro Ferretti, fisico a Torino e esponente della Rete 29 aprile — è che per 3 anni non si investirà un euro nella ricerca come nella scuola. I costi però continueranno ad aumentare e l'unico modo per sostenere l'istruzione pubblica in questo paese sarà quello di diminuire il numero degli studenti, delle sedi e dei servizi». _____________________________________________ L’Unità 20 apr. ’11 TROPPI LAUREATI: LA FAVOLA REAZIONARIA DEL MINISTRO TREMONTI OCCUPAZIONE GIOVANILE Pietro Greco GIORNALISTA E SCRITTORE E’ una favola. Reazionaria. È una favola quella che in questi giorni vanno raccontando non solo il (recidivo) ministro dell'Economia, ma anche sociologi ed economisti di grande notorietà, secondo cui nel nostro Paese ci sono «troppi» laureati e che un giovane italiano su tre è disoccupato perché, a causa della sua cultura, rifiuta il lavoro manuale. Che, invece, ci sarebbe. Basta fare una banale analisi comparata— sulla base di dati dell'Ocse o di Eurostat — per verificare, invece, che è esattamente il contrario. In Italia i laureati sono troppo pochi: appena il 13% della popolazione tra i 25 e i 64 anni. Contro il 24% della Germania, il 26% della Francia, il 28% della Spagna, il 31% della Gran Bretagna. Anche i giovani laureati sono troppo pochi: i ragazzi italiani di età compresa tra i 25 e i 34 anni con la laurea sono il 19%, contro il 30% degli altri Paesi europei e il 60% della Corea del Sud. Non è vero che la laurea è un fattore frenante dell'economia. Nel 1980 la Corea vantava una percentuale di laureati (meno del 10%) inferiore a quella italiana (poco più del 10%) e un reddito pro capite pari a un quarto di quello italiano. In 30 anni la ricchezza in Corea è aumentata a una velocità superiore a quella di ogni altro Paese al mondo (esclusa la Cina) e 4 volte superiore a quella dell'Italia: tanto che oggi il reddito medio pro capite di un coreano ha superato quello di un italiano. Ciò è avvenuto anche perché Seul ha puntato come nessun altro su una cultura universitaria di massa: oggi la Corea detiene il record mondiale di laureati tra i suoi giovani. Siamo, infatti, entrati nella società e nell'economia della conoscenza. E la Corea lo ha capito prima e meglio degli altri. Ma non si tratta di un pensiero economico isolato, se l'Unione europea invita i suoi stati membri a raggiungere almeno il 40% di giovani laureati. Tutti gli altri Paesi dell'Europa (e del mondo) si stanno adeguando, solo da noi il numero di iscritti all'università diminuisce: proprio come chiede (e non solo a parole) Tremonti. I laureati italiani, dunque, non sono troppi. Sono troppo pochi. Ma anche l'altra parte della narrazione è una favola senza agganci con la realtà. Un recente rapporto di Alma Laurea dimostra sia che l'occupazione tra i laureati (77%) è più alta che tra i diplomati (66%), sia che lo stipendio medio di un laureato anche in Italia è del 55% superiore a quello di un diplomato. Quindi se avete dei figli, malgrado tutto, fateli laureare. Ma perché è reazionaria, la favola di Tremonti? Per due motivi. Perché prefigura un'Italia ottocentesca, con il lavoro intellettuale destinato a pochi ricchi e il lavoro manuale a bassi salari per tutti gli altri. Ma soprattutto perché un'Italia così sarebbe fuori dall'economia della conoscenza — l'unica possibile, oggi — e dunque sarebbe destinata a un declino economico, oltre che sociale, civile, ecologico, ancora più profondo di quello attuale. ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 29 apr. ’11 PERCHÉ DOBBIAMO FINANZIARE NOI L'ATENEO? UNIVERSITÀ. Risposta degli studenti al rettore, che ha chiesto il 5 per mille Risposta al rettore Giovanni Melis - che con una lettera ha chiesto a studenti e loro famiglie di destinare il 5 per mille all'Università - da parte degli studenti del collettivo studentesco “Entula Arrubia” della facoltà di Scienze politiche. Gli universitari si chiedono perché mai le loro famiglie debbano «destinare il loro 5 per mille, che lo Stato decide di non trattenere affinché possa essere destinato alle organizzazioni no profit, per colmare un qualcosa che lo stesso Stato ha deciso di non finanziare più». Il j'accuse degli universitari su tutta la politica messa in atto dal rettore è tagliente: «La sua lettera si conclude affermando che i primi risultati del suo lavoro (leggasi: applicazione dei tagli) sono confortanti. Per parte nostra», scrivono, «ci sentiamo di poter affermare il contrario: il calo degli iscritti e la consistente migrazione verso altri atenei lo dimostra». Nella sua missiva Melis ha chiesto agli iscritti “fiducia” e “aiuto”. La prima gli studenti non sono intenzionati a concederla: «Come si può dare fiducia a chi l'ha già tradita?». Il riferimento è «al tentativo di coprire posti vacanti di ricercatore assumendo persone non retribuite». Poi i ragazzi si chiedono retoricamente: «È questo il modo attraverso il quale ha deciso di far fronte alla crisi e migliorare la qualità dei servizi didattici?». E citano come prova i tagli a tutoraggi ed esercitazioni come quelli di «Statistica, Politica economica e Sociologia, tutte materie fondamentali in Scienze politiche». Gli studenti chiedono anche «chiarezza e impegno» a Melis su tre questioni: il campus di viale La Playa, quello diffuso e sul college di Sant'Efisio. «E una presa di posizione su tutte le questioni poste nella lettera». Si attende la replica da via Università. _____________________________________________ L’Epresso 5 Mag. ’11 TI NOMINO PROF A VITA DI ROBERTA CARLINI Dopo gli anni dell'Onda, sono tornati quelli delle pantere. Pantere grigie, però: l'esercito dei professori pensionati, messi a riposo e subito dopo reclutati dalle università per coprire gratis i posti dei giovani che non entrano. Un bel paradosso, nell'università più vecchia del mondo, i cui prof ordinari hanno un'età media di 59,2 anni. A Roma poi, nella più anziana tra le università anziane, La Sapienza, il paradosso raddoppia: l'ateneo si è inventato un meccanismo - la nomina a "professore senior" - per non perdere alcuni dei pensionati eccellenti; per scoprire subito che in troppi vogliono diventare senior, anche quelli ched così eccellenti non sono, e veder naufragare il nuovo titolo tra nobili discussioni e ripicche accademiche, scontri tra generazioni e tra facoltà, misure di eccellenza e misure delle stanze da liberare. La guerra delle stanze. Partiamo da qui, dalle stanze. Una risorsa scarsa, nella nostra università senza risorse. C'è l'anziano professore di economia che la sera chiude la sua stanza e si porta pure le chiavi a casa, e i ricercatori, più o meno giova-ni, stipati nei bugigattoli. C'è chi ha una stanza tutta per sé e ci lascia dentro anche le pantofole, e chi non ce l'ha mai avuta e aspira a salire di status e metri quadri. Anche questo conta, eccome. Tant'è che la questione degli spazi era lì, messa nero su bianco nel regolamento con il quale La Sapienza ha istituito la figura del professore senior: il quale va in pensione, non prende più un euro (o quasi), ma mantiene «l'uso degli spazi, servizi e attrezzature», la titolarità dei fondi di ricerca in corso e - se vuole - l'insegnamento. Una figura di passaggio, pensata in un anno nel quale La Sapienza, come la maggior parte delle università italiane, ha subito un'emorragia di docenti: dalla prima università di Roma se ne sono andati in 415. Tutti concentrati in pochi mesi, per la chiusura definitiva di quelle finestre e finestrelle che mantenevano i professori in cattedra e al potere fino ai 75 anni. Mentre adesso devono per forza andare via appena compiuti i 70: un'età comunque più alta rispetto alle università pubbliche europee, dove solo in Portogallo e in Ungheria si arriva ai 70, mentre tutti gli altri mandano i prof in pensione tra i 65 e i 67 anni. Perché farli restare, dopo tanti sforzi e dibattiti per abbassare l'età della pensione ? «Siamo in una situazione eccezionale, con un'ondata di pensionamenti», spiega il prorettore Bartolomeo Azzaro. Che precisa: «Il ruolo di senior era un modo per tenere legate all'università le eccellenze: perché regalare professori di fama, al top della carriera, alle università private?». Senonché, quando si è arrivato al dunque, cioè a decidere quali sono questi casi rari, «ogni dipartimento ha usato criteri differenti di valutazione», dice Azzaro. Chi ha privilegiato le ricerche importanti in corso, in particolare quelle legate a finanziamenti esterni; chi ha dato una sorta di premio alla carriera; chi ha messo criteri rigidi e chi invece ha guardato di più al numero dei posti da coprire. Insomma, il caos. Di fronte al quale alcune facoltà hanno rinunciato: «Avevamo posto criteri scientifici rigidi, poi abbiamo visto che ciascuna facoltà andava per sé, allora abbiamo deciso di non infilarci in questa diatriba e non chiedere nessun senior. Tanto un contratto esterno si può sempre fare, senza formalizzare questa figura», racconta Giancarlo Ruocco, direttore del Dipartimento di Fisica. Emeriti tappabuchi. Ma il casus belli è scoppiato a Lettere, dove la pratica dei due illustri archeologi Andrea Carandini e Paolo Matthiae si è arenata nel di-partimento, che ha chiesto al rettore chiarimenti sui criteri da seguire per valutare le domande. La cosa ha fatto scalpore, data la fama dei personaggi e dei loro scavi (il Palatino ed Ebla), tant'è che alla fine il rettore Frati ha tagliato il nodo, nominandoli senior per sua decisione diretta. Cos'è successo nel tempio degli studi sull'antichità, per arrivare a mettere in discussione due glorie nazionali? Uno scontro tra baroni, o tra giovani e anziani, o una banale lotta per le stanze? «Certo, siamo sovraffollati... Ma non è questo il problema», dice Giorgio Piras, ricercatore del Dipartimento di Scienze dell'Antichità: «E figuriamoci se mettiamo in dubbio il valore di Matthiae e Carandini: la facoltà li ha proposti al titolo di professore emerito». E allora? «Il problema era la figura del senior in sé, che è ambigua. Da un lato, serve a mantenere i contatti con persone che hanno ricerche importanti; dall'altro però serve alle università per coprire i corsi». Da emeriti a tappa buchi, insomma: pratica consentita dalla riforma Gelmini, che mentre taglia il personale permette alle università di contare, nel calcolo del rapporto tra docenti e corsi, anche i contratti esterni. E cosa c'è di meglio, allora, di un professore appena andato in pensione e che non chiede soldi? «Conviene all'università, ma dai più giovani è stato avvertito come un ostacolo a salire di ruolo», dice Piras. «Le eccellenze vanno tenute, persino venerate», dice un altro ricercatore di Scienze dell'Antichità, Alessandro Vanzetti, « ma attenzione agli aspetti formali che riguardano spazi, fondi di ricerca, potere, in una situazione come la nostra già così bloccata». Porte chiuse. Dopo il caso di Lettere e il diluvio di candidature, il rettore ha deciso a fine marzo di chiudere la lotteria dei senior: ne sono stati nominati una cinquantina, pendono almeno 30 altre domande, ma il tutto è formalmente sospeso. L'idea di premiare le eccellenze in pensione è naufragata in pochi mesi. Non che fosse una novità della Sapienza, il "senior": ce l'avevano già il Politecnico di Torino e, tra le private, la Bocconi. Però il suo sbarco sui grandi numeri è stato problematico. Molti dei più anziani l'hanno vista come un ritorno ai vecchi tempi del fuori-ruolo, i più giovani come un tappo o, nel migliore dei casi, un modo per non far deflagrare una situazione altri-menti esplosiva: nell'anno appena passato, dall'università sono usciti in più di 4 mila e sono entrate poche centinaia di persone. Una situazione bloccata. «Come si fa? Si aumenta il carico didattico di ciascun professore, o si cerca l'escamotage dei contratti esterni», dice Alberto Silvani, direttore amministrativo della Statale di Milano (250 pensionamenti contro meno di 50 ingressi in tre anni). «Noi i contratti ai docenti pensionati li facciamo solo in casi limitati, se hanno ricerche in corso che siano finanziate dall'esterno». Ma in tutt'Italia »sono molti gli atenei che stanno ricorrendo ai contratti ai pensionati, che hanno il pregio di essere molto economici», constata Guido Fiegna, ex membro del Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario (organismo anch'esso pensionato per dar luce alla nuova, e ancora inattiva, Agenzia di valutazione). Per il 2011 si prevedono altre 1.500 uscite, mentre le porte d'accesso sono di fatto chiuse, per il combinato disposto di riduzione di fondi, ritardi nell'attuazione della riforma e regole-tagliola. Come quella famosa per cui, se si supera il 90 per cento nel rapporto tra spesa per il personale e fondi pubblici, non si può più assumere: entro breve quel numeretto sarà superato da molte università italiane, per colpa del denominatore e non del numeratore, ossia della riduzione dei fondi statali che supera la stessa riduzione delle spese. Numeri cruciali, spesso misteriosi: «Nel 2010 i valori definitivi del fondo di finanziamento ordinario sono stati assegnati a Natale, a tutt'oggi non si sa ancora niente di quelli del 2011». In queste condizioni, conclude Fiegna, non si assume nessuno: «E un posto in cui non entrano giovani è destinato a morire». ? POCA SAPIENZA 238 ordinari, 92 associati, 85 ricercatori: le uscite dall'università di Roma La Sapienza, anno 2010, sono da record. Molto minori le assunzioni: 128 nuovi ricercatori, più 28 associati e 20 ordinati (in questi casi, si tratta per Io più dl avanzamenti dl carriera). Saldo negativo, dunque, che continuerà nel 2011, anno nel quale si prevedono 200 uscite e una quindicina di entrate. Ma tanto risparmio non migliora, formalmente, i conti dell'università, sui quali nel frattempo si è abbattuto, per tratto di penna ministeriale, il costo di tutto il personale del Policlinico prima conteggiato solo per due terzi. Mentre il Fondo di finanziamento ordinarlo, quello che arriva dal ministero, scende a precipizio: 573 milioni di euro nel 2009, 543 nel 2010, 511 nel 2011. Per questo I conti peggiorano, anche in presenza di così massicci pensionamenti, rapporto tra spesa per li personale e finanziamento pubblico supera Il 90 per cento e l'università non può più assumere: come si dice in gergo, «entra in blocco. Come le vecchie caldaie che non funzionano. E che rischiano di esplodere. _____________________________________________ Il Sole24Ore 22 apr. ’11 PROMOZIONE NEGATA ALLE UNIVERSITÀ VIA WEB Stop di Corte conti alla trasformazione Gianni Trovati MILANO Non si possono creare nuove università statali, ma si possono «statalizzare» le non statali. Su questo scioglilingua, previsto dal decreto sulla programmazione triennale degli atenei appena varato definitivamente dal ministero dell'Università, la Corte dei conti si è limitata a storcere il naso. Sull'articolo successivo, invece, la magistratura contabile ha agito di forbici, bloccando la norma che avrebbe consentito di trasformare in università tradizionali gli undici atenei telematici: un panorama complesso, che accanto a grandi realtà come la Nettuno conta atenei "virtuali" come E-Campus (59 immatricolati nel 2010/2011, e altrettanti docenti, tutti a tempo determinato) o la Giustino Fortunato (48 matricole, 9 docenti). Secondo la proposta del Miur, un regolamento avrebbe dovuto individuare i criteri per far transitare questi atenei, su proposta degli interessati, dal mondo "virtuale" a quello reale. I magistrati hanno cancellato il meccanismo perché il Dm dettava indirizzi per un regolamento successivo, ma servirebbe una legge. Nella tagliola è finita anche la frase successiva, che avrebbe bloccato l'attivazione di nuovi corsi a distanza fino all'emanazione del regolamento per il quale però non si prevedono termini. Anche se ammaccato, comunque, il decreto sulla programmazione triennale arriva al traguardo, «con notevole ritardo» come puntualizza la Corte dei conti. In effetti, il «triennio» in questione è il 2010-2012, ma quasi metà se n'è già andata. Il via libera al decreto sblocca anche le risorse da distribuire fra gli atenei che migliorano «la qualità e l'efficacia» della propria offerta formativa. In relazione al 2010 si tratta di 65 milioni di euro, ma già da quest'anno la fetta si assottiglia anche perché una quota è già stata dirottata per lo sblocco parziale degli scatti di stipendio congelati dalla manovra estiva. Lo stesso ministero, del resto, richiama più volte la «restrizione delle risorse disponibili» per l'università, e per questa ragione blocca per (almeno) due anni la creazione di nuovi atenei. Non tutti, però: le università non statali potranno crescere, purché le nuove realtà offrano «prevalentemente» corsi in inglese o siano filiazioni di università straniere con titoli riconosciuti da almeno tre anni Rimandato, intanto, anche il decollo ufficiale dell'Anvur. I sette membri del direttivo si sono riuniti per la prima volta martedì, ma per l'insediamento occorre aspettare la pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» del decreto istitutivo _____________________________________________ Il Sole24Ore 20 apr. ’11 RICERCA, GELMINI PROVA LO SPRINT con 1,7 MLD Progetti bandiera da 1,7 miliardi, corsa contro il tempo sui fondi Ue Corsa contro il tempo sulla ricerca. Agli 1,7 miliardi stanziati da qui al 2013 per realizzare i 14 «progetti bandiera» presentati ieri il ministero dell'Istruzione conta dí aggiungerne a stretto giro altri 900 milioni tra fondi europei e non, per il finanziamento di due nuovi bandi su distretti e infrastrutture e una "fiche" aggiuntiva di 500 milioni sulla ricerca industriale. Tutto ciò in attesa del pacchetto semplificazioni che dovrebbe vedere la luce con il decreto sviluppo atteso agli inizi di maggio. Il primo atto della strategia con cui l'Esecutivo punta a portare gli investimenti pubblici in R&S dall'attuale 0,56% del Pil all'1,53% entro il 2013 è costituito dal programma nazionale per la ricerca (Pnr) 2011- 2013. Che il Cipe ha approvato tre settimane fa e che la responsabile di viale Trastevere, Mariastella Gelmini, ha illustrato in mattinata nella Sala capitolare del Senato alla presenza di rettori, tecnici e scienziati. Oltre che del commissario Ue all'Industria, Antonio Tajani, del sotto segretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, e dei ministri Ferruccio Fazio (Salute), Stefania Prestigiacomo (Ambiente) e Raffaele Fitto (Affari regionali). Tutti coinvolti in maniera più o meno diretta nelle 14 iniziative giudicate prioritarie dal Miur. Molteplici i settori interessati dai «progetti bandiera». Si va dall'aerospazio alla fisica, dalla formazione nel nucleare all'epigenomica, dall'ingegneria marina alla fisica fino alla formazione in campo nucleare. Definite anche le risorse a disposizione:1.772 milioni, provenienti dai bilanci degli enti interessati e dal Fondo agevolazione e ricerca (Far). Che rappresentano una prima fetta dei 6 miliardi che il Miur conta di destinare al comparto R&S nei prossimi tre anni. Con la speranza che gli altri dicasteri e le Regioni facciano altrettanto utilizzando il piano per il Sud che Fitto sta mettendo a punto. Nel presentare i contenuti del piano il ministro Gelmini ha commentato: «Dopo molti anni finalmente l'Italia può avere uno strumento di pianificazione volto al rilancio della ricerca». Riconoscendo che c'è ancora «un gap da colmare» rispetto ai nostri competitor europei e ancora di più nei confronti di quelli d'oltreoceano, la responsabile del Miur ha assicurato che nell'immediato futuro ci si concentrerà su «pochi grandi progetti per il rilancio del Paese e del Mezzogiorno». Senza contare, ha spiegato, che ulteriori spinte innovative giungeranno dall'Agenzia di valutazione (Anvur) che si insedierà oggi e dalla abbinata semplificazioni- agevolazioni annunciato nel pacchetto sviluppo (su cui si veda l'articolo qui sotto). Per ammissione della Gelmini il secondo strumento per il rilancio passerà dai fondi europei. E in particolare dal programma operativo nazionale (Pon) Ricerca e competitività 2007-2013 che da solo vale quasi metà dei 6 miliardi indicati dal Pnr. Per impegnare entro il 31 maggio tutto l'impegnabile e spendere entro il 31 dicembre tutto lo spendibile, l'Istruzione proverà uno sprint in tre tappe. A cominciare da un addendum da 500 milioni sul bando per la ricerca industriale (da 465 milioni) per cui sono in corso le procedure di valutazione. Una volta che i governatori di Campania, Calabria, Sicilia e Puglia avranno dato il loro assenso, la dote per le imprese aggiudicatarie sfiorerà quindi il miliardo di euro. Imminente è anche una duplice novità sui distretti industriali e i laboratori pubblici-privati. Ai 915 milioni già banditi e suddivisi in due azioni - da un lato le realtà già esistenti (perle quali si è in fase di validazione), dall'altro le nuove strutture (per cui le domande scadranno il 23 aprile), ndr - seguirà un nuovo bando da 400 milioni rivolto ai distretti del Centro- Nord. Utilizzando le risorse nazionali del Far anziché quelle comunitarie e coinvolgendo le Regioni con appositi accordi di programma. Dalla dote Ue si attingerà infine per destinare altri 500 milioni alle infrastrutture territoriali. Il bando è praticamente pronto e dovrebbe arrivare entro fine mese. Sarà destinato a università ed enti di ricerca. Ma la speranza del Miur è quella di dar vita a dei grandi laboratori che possano poi essere utilizzati anche dalle aziende del circondario. _____________________________________________ Italia Oggi 19 apr. ’11 SEI MILIARDO ALLA RICERCA IN DUE ANNI Voucher alle pmi per il trasferimento tecnologico in azienda DI ROBERTO LENZI Ammontano a 6 miliardi di euro i fondi a sostegno della ricerca che saranno resi disponi- bili tra il 2011 e il 2013. Una parte dei fondi del Programma operativo nazionale (Pon), su un totale di oltre due mld di fondi, sarà destinata a tutto il territorio nazionale, anziché alle sole regioni del Mezzogiorno. È prevista l'introduzione di un voucher a favore delle pmi per sostenere le attività di trasferimento tecnologico. Saranno privilegiati i progetti di rilevante importanza, capaci di avere una valenza che vada oltre l'interesse dei singoli proponenti, al fine di ottimizzare risorse, concentrandole per ridurre la frammentazione dei finanziamenti. Sono questa alcune delle note interessanti per le imprese che emergono dal Programma nazionale della ricerca 2011 2013, predisposto dal ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca con l'obiettivo di fornire una programmazione pluriennale alle azioni di sostegno alla ricerca. Il programma si pone l'obiettivo di colmare il notevole gap formatosi negli ultimi 15 anni nei confronti dell'Europa sull'indice relativo agli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione rispetto al pil nazionale. Per fare questo, la strategia prioritaria, secondo il Programma, è quella di ridurre la distanza esistente tra attori della Ricerca e mondo industriale e sopperire alla mancanza di una visione globale di sistema che possa sollecitare e aiutare l'incontro, la conoscenza e la collaborazione tra le due parti. Voucher per favorire il trasferimento tecnologico. Le piccole e medie imprese potranno presto contare su un nuovo strumento di agevolazione per sostenere il trasferimento tecnologico. Le azioni interessate saranno la gestione della proprietà intellettuale, la margine, sarà studiato anche un particolare voucher per favorire la mobilità dei ricercatori tra le aree geografiche Nord e Sud. Favorire la collaborazione internazionale. Continuerà lo sviluppo della partecipazione ai programmi ERA-NET e JTI. Le ERANET, in particolare, sono azioni di coordinamento e supporto del Programma Quadro di ricerca il cui obiettivo è favorire la cooperazione e il coordinamento di attività di ricerca su una determinata area tematica gestite a livello nazionale e regionale negli stati membri e associati, attraverso una rete di attività di ricerca. Esse mirano quindi a migliorare la sinergia tra programmi nazionali ed il programma quadro comunitario, favorendo l'internazionalizzazione delle attività di ricerca. L'iniziativa comunitaria JTI (Joint Technology Initiatives) è stata lanciata per la prima volta nel 2007 al fine di promuovere la partnership internazionale tra imprese e centri di ricerca pubblici e privati di lungo periodo. Adottare un unico modello di valutazione. Uno degli obiettivi più ambiziosi del Programma è quello di favorire l'adozione un modello univoco di valutazione delle iniziative progettuali di Ricerca e Sviluppo tecnologico, nazionali e regionali. Il modello dovrà essere applicabile sia ai piccoli progetti che ai grandi progetti di ricerca e innovazione. Si prevede l'utilizzo coordinato di strumenti automatici, valutativi e negoziali. Anche a fronte di questa esigenza, il Pnr sottolinea nuovamente l'importanza dell'utilizzo dei voucher, che garantiscono la tempestività d'intervento, in connessione con un meccanismo di sigla di protocolli di qualità con centri di Ricerca pubblici e privati, che fissino i servizi e le relative caratteristiche qualitative al fine di assicurarne efficacia ed efficienza. margine, sarà studiato anche un particolare voucher per favorire la mobilità dei ricercatori tra le aree geografiche Nord e Sud. Favorire la collaborazione internazionale. Continuerà lo sviluppo della partecipazione ai programmi ERA-NET e JTI. Le ERANET, in particolare, sono azioni di coordinamento e supporto del Programma Quadro di ricerca il cui obiettivo è favorire la cooperazione e il coordinamento di attività di ricerca su una determinata area tematica gestite a livello nazionale e regionale negli stati membri e associati, attraverso una rete di attività di ricerca. Esse mirano quindi a migliorare la sinergia tra programmi nazionali ed il programma quadro comunitario, favorendo l'internazionalizzazione delle attività di ricerca. L'iniziativa comunitaria JTI (Joint Technology Initiatives) è stata lanciata per la prima volta nel 2007 al fine di promuovere la partnership internazionale tra imprese e centri di ricerca pubblici e privati di lungo periodo. Adottare un unico modello di valutazione. Uno degli obiettivi più ambiziosi del Programma è quello di favorire l'adozione un modello univoco di valutazione delle iniziative progettuali di Ricerca e Sviluppo tecnologico, nazionali e regionali. Il modello dovrà essere applicabile sia ai piccoli progetti che ai grandi progetti di ricerca e innovazione. Si prevede l'utilizzo coordinato di strumenti automatici, valutativi e negoziali. Anche a fronte di questa esigenza, il Pnr sottolinea nuovamente l'importanza dell'utilizzo dei voucher, che garantiscono la tempestività d'intervento, in connessione con un meccanismo di sigla di protocolli di qualità con centri di Ricerca pubblici e privati, che fissino i servizi e le relative caratteristiche qualitative al fine di assicurarne efficacia ed efficienza. 1. Sei miliardi disponibili nel triennio 2011-2013 2. Obiettivo primario: avvicinare mondo delle imprese alle strutture di ricerca 3. Sarà favorita la concentrazione di fondi su finalità di cluster 4. Circa 240 milioni di euro del Pon andranno a finanziare progetti nel centro-nord 5. L'utilizzo dei voucher garantirà procedure più rapide 6. Sarà adottato un modello di valutazione univoco per gli strumenti nazionali e regionali 7. Via al voucher per favorire il trasferimento tecnologico alle Pmi 8. Il 25% delle risorse Miur andrà a giovani ricercatori 9. Saranno implementate le iniziative ERA-NET e JTI 10. Utilizzo coordinato di strumenti automatici, valutativi e negoziali _____________________________________________ Il Sole24Ore 30 apr. ’11 SE 1,2% DEL PIL VI SEMBRA ABBASTANZA Ritardi. Il confronto sulla spesa tra Italia e resto del mondo Marco Magrini IL DIVARIO La Germania destina in R&S il doppio di noi E da qui al 2015 la Cina ha in programma una dote dei 2,2% annuo sul Pil Per numero di pubblicazioni scientifiche, ovvero il metro più usato nel misurare le dimensioni della ricerca scientifica di un Paese, l'Europa sta davanti a tutti. Tuttavia, sentenzia l'ultimo Science Report dell'Unesco, quando si parla del risultato ultimo degli investimenti in ricerca e sviluppo - l'innovazione - il Vecchio continente perde ai punti con gli Stati Uniti, col Giappone e presto anche con la Cina. In Italia, le cose vanno un po' peggio. Pur sempre occupando un posto fra le top ten in ogni disciplina scientifica, come si conviene a un Paese del G-8, l'Italia investe meno dei diretti concorrenti. E, al contrario di quanto avviene in Cina, dove la relazione fra ricerca e Pil è ben chiara nei programmi dirigisti del Partito comunista, gli investimenti in ricerca e sviluppo stanno calando. Nel 2008, ammontavano all'1,23 del Pil, contro il 2,68 del (ben più grande) Pil tedesco, e contro il 2,2% che Pechino prevede di investire da qui al 2015. «In Italia la spesa pubblica non tiene íl passo - osserva Roberto Artoni, ordinario alla Bocconi - e quella privata arretra: la nostra presenza nei settori avanzati è modesta e si sta riducendo. E le piccole dimensioni delle imprese non aiutano». In realtà, il sistema nazionale è costellato di centri d'eccellenza, tanto nella ricerca pubblica che in seno alle imprese. «Ma lo Stato non ha i soldi - sentenzia il collega Giuseppe Berta, anche lui alla Bocconi - e le imprese non hanno le dimensioni». Sotto il profilo squisitamente industriale, l'Italia non è presente nei settori avanzati delle economie più avanzate e le dimensioni aziendali, assicura Berta, si stanno ulteriormente restringendo. «Nei 28 distretti manifatturieri del Piemonte, che conosco bene - aggiunge-la vocazione tecnologica è bassa e gli investimenti sono al lumicino». E poi c'è un problema. Come dimostralo studio Unesco sul caso europeo, non c'è certezza che l'input (la spesa in ricerca) dia in proporzione lo stesso output (l'innovazione). E c'è anche un lasso temporale tanto lungo quanto indefinito. «Gli studi che valsero il Nobel a Giulio Natta nel 1963 risalgono a prima della guerra», rammenta Artoni. «In un contesto di ristrettezza delle finanze pubbliche e di ripiegamento dell'industria - dice Berta -non si può che cercare di usare meglio le risorse disponibili. A dire il vero, gli incentivi facili di una volta, mascherati sotto la voce "ricerca", non ci sono più: è un esempio di razionalizzazione». Lo Science Report dell'Unesco dice che «gli scienziati europei, le agenzie di finanziamento, i Governi e le imprese hanno capito che, quando si parla di ricerca e innovazione, a volte è meglio mettere insieme le risorse e le capacità». La raccomandazione è che l'Europa razionalizzi, concentri e condivida gli sforzi nella ricerca, come la federazione americana riesce a fare benissimo. Sarebbe nell'interesse dell'Europa. E, fatalmente, anche dell'Italia. _____________________________________________ MF 28 apr. ’11 PER LA RICERCA TREMONTI PUNTI SUL CREDITO FISCALE. In Francia ha funzionato DI EDOARDO NARDUZZI L’Italia, è noto da tempo, ha un tasso di innovazione non da prima della classe. Al pari della produttività, ben al di sotto della media Ocse, il Paese deposita pochi brevetti e sono troppo rare le nuove imprese high- tech. L'Italia ha meno start-up rispetto alle nazioni concorrenti. Meno imprese giovani nate da idee originali e incubate in un garage negli Usa o in un ufficio essenziale in Scandinavia. Avere poche start-up nell'economia di oggi significa essere meno competitivi: si producono meno nuovi prodotti immateriali e meno lavori a valore aggiunto. In Italia, dove la disoccupazione giovanile è prossima al 30%, le nuove imprese sarebbero quanto mai importanti. In pratica un giovane su tre fra i 15 e i 24 anni non trova lavoro. Si tratta di un significativo patrimonio sprecato dall'economia, che non valorizza le energie e le capacità che questi giovani hanno e potrebbero mettere a disposizione della crescita del pii. Per di più è anche possibile provare a spiegare questo fenomeno passando logicamente per il dato rappresentato dalla scarsità di nuove imprese tecnologiche che l'Italia è stata in grado di creare negli ultimi decenni. Nei paesi più avanzati le cosiddette start-up sono un elemento importante dell'occupazione, soprattutto di quella giovanile. Secondo quanto calcolato dalla Fondazione Kaufman, un'organizzazione non profit americana specializzata in studi sull'imprenditorialità, tra il 1980 e il 2005 praticamente tutti i nuovi posti di lavoro creati dall'economia statunitense sono attribuibili ad imprese con meno di cinque anni di vita. Come Google, per esempio, che oggi ha poco più di dieci anni e che occupa più di 20 mila persone in giro per il mondo di età media di poco superiore ai 30 anni. O come Facebook che, fondata nel 2005, ha già superato da tempo la soglia del migliaio di dipendenti. Le nuove imprese creano occupazione giovanile in due diversi modi. Anzitutto hanno bisogno di competenze che solo i giovani hanno o che è meglio far apprendere a quelli con poca anzianità lavorativa, perché° si tratta di nuove tecnologie o di nuovi processi tecnici. Poi perché commercializzano servizi che di solito i professionisti più giovani sanno vendere meglio. Il ruolo delle start-up è quindi centrale nella creazione di occupazione giovanile, perché queste imprese rinnovano continuamente la domanda di lavoro sul piano tecnico-professionale, creando opportunità per í nuovi entranti che prima non esistevano. Ma quando si tratta di passare dall'analisi ai fatti, in Italia tutto si fa complicato. «Paralysis by analysis», verrebbe da dire. Basti pensare che dopo circa due anni è ancora nel limbo il primo bando pubblico di supporto alle start-up. Il 7 luglio 2009 il ministero dello Sviluppo Economico pubblicò il bando con ben 35 milioni «a favore di progetti proposti da start-up in settori di alta e medio-alta tecnologia». Due anni dopo purtroppo nulla ancora è accaduto. Il bando è ancora aperto e le start-up con idee originali e competitive ancora in attesa dei possibili finanziamenti. È pensabile che la burocrazia nel contesto tecnologico e competitivo di oggi impieghi più di un anno per finalizzare l'assegnazione di fondi in favore di giovani imprese innovative? Ovviamente no, perché in un anno e più quella che era una buona idea o è diventata un'offerta credibile e robusta oppure qualche altro in giro per il mondo l'ha già realizzata. In un anno, oggi, i colossi della tecnologia mettono sul mercato vari nuovi prodotti o servizi. È un tempo infinito. In Israele, con il meccanismo del fondo di venture capital pubblico che finanzia fondi privati, il processo si chiude in 60 giorni. In Scandinavia í finanziamenti pubblici alle start- up vengono erogati al massimo in tre mesi. In Italia, invece, tutto è fuori contesto, a causa dello iato esistente tra le dinamiche del mercato e quelle della Pubblica amministrazione, talmente ampio da farsi ormai non più spiegabile con razionalità. Sprechiamo occasioni e risorse senza forse neppure averne la consapevolezza. Peccato, perché il Paese ha delle potenzialità concrete per poter fare bene nella nuova ondata dell'innovazione legata alle tecnologie mobili, appena partita. Ma con rari fondi di venture capital privati operativi e con una macchina pubblica che necessita di tempi quattro o cinque volte superiori alle best practice internazionali per assegnare i fondi alle start-up, le opportunità restano sugli alberi. Bei frutti lasciati marcire mentre la disoccupazione giovanile è al massimo storico. È questo il vero declino. Per tale motivo farebbe molto bene il ministro Giulio Tremonti a introdurre in maniera permanente un credito di imposta, da lui annunciato, in favore degli investimenti in ricerca. Il credito di imposta ha funzionato bene in Francia, dove tra il 2007 e il 2010 è raddoppiato il numero dei nuovi imprenditori, e pare davvero la migliore soluzione possibile anche per l'Italia. Perché dribblerebbe i ritardi impossibili della burocrazia che gestisce e assegna i contributi pubblici a fondo perduto o in conto interessi, affiderebbe direttamente aí singoli imprenditori il tempo e le peculiarità dell'investimento da effettuare, introdurrebbe un meccanismo automatico di recupero dalle altre imposte dovute, quindi con immediati effetti sul capitale circolante soprattutto delle Pmi. _____________________________________________ La Repubblica 18 apr. ’11 ECCO I CAMPIONI DELLA RICERCA IN ITALIA E A SORPRESA IL CNR ARRIVA SOLO TERZO ROMA Eppur ci siamo. Nonostante uno dei finanziamenti per la ricerca più bassi al mondo (1,14% del Pil), l'Italia è al sesto posto per produzione scientifica. L'ultima classifica della Royal Society britannica ci attribuisce il 3,7% delle pubblicazioni che vengono citate in altri studi al mondo (uno degli indici usati per misurare la qualità della scienza), con gli Usa in testa al 30%. Ma il panorama del paese è tutt'altro che omogeneo, e a scavare tra eccellenze e inefficienze sono andati Francesco Sylos Labini, astrofisico del Centro Fermi e del Cnr e Angelo Leopardi, docente di idraulica all'università di Cassino. Il loro articolo "Enti di ricerca e lit: dov'è l'eccellenza" è stato pubblicato da "Scienza in rete" la rivista online del "Gruppo 2003 per la ricerca scientifica" che comprende alcuni fra gli studiosi italiani col maggior numero di citazioni. Incrociando i dati fra personale, finanziamenti e pubblicazioni sulle riviste scientifiche, la loro analisi offre un quadro ragionato di quali sono gli enti che muovono la ricerca scientifica in Italia. Il gigante Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) ha 6.600 dipendenti e ottiene dallo Stato 566 milioni di euro all'anno per 6.300 pubblicazioni. Ogni studio in media costa dunque 89 mila euro e il rapporto fra scienziati e articoli è praticamente pari a uno (0,96). Il rapporto Scimago un database internazionale che misura le performance dei vari istituti di ricerca - piazza il Cnr al primo posto in Italia e al 23esimo al mondo su un totale di quasi 2.900 enti di ricerca, ma tiene conto solo del numero delle pubblicazioni e non dei costi sostenuti. Più efficienti del Cnr - secondo l'analisi di Sylos Labini e Leopardi - sono Infn e Inaf. L'Istituto nazionale di fisica nucleare ha 1.900 dipendenti e gli alti investimenti che i suoi esperimenti richiedono sono finanziati ogni anno dallo Stato con 270 milioni. La produzione scientifica è molto alta: 2.423 pubblicazioni all'anno. Ogni studio costa in media 111mila euro e ciascun ricercatore è autore di 1,27 articoli. Nel rapporto Scimago 2010, l'Infn si è piazzato al 181esimo posto. I più parsimoniosi in assoluto fra gli scienziati italiani lavorano all'Inaf, Istituto nazionale di astrofisica, posizione 397 nella classifica Scimago. In 1.130 ogni anno producono 1.356 articoli (1,2 a scienziato) con un finanziamento di 91 milioni di euro. Ogni loro pubblicazione costa al paese in media 67 mila euro. Un'inezia rispetto all'ultimo ente della classifica, quell'Istituto italiano di tecnologia che venne fondato nel 2003 per ricoprire il ruolo di "Mit italiano", ma che ancora non riesce a decollare. Con 100 milioni all'anno di finanziamenti fissati dalla legge 363/2003 fino al 2014, I'lit fa lavorare 811 scienziati, che nel 2009 (anno a cui si riferiscono i dati) hanno pubblicato 274 ricerche. La produttività di ogni ricercatore è di appena 0,34 articoli, ognuno dei quali costa ai contribuenti 363 mila euro, oltre il quintuplo rispetto all'Inaf. Nella classifica Scimago, il "Mit italiano" che ha sede a Genova, un'età media dei ricercatori di 34 anni e solo 2 dei 374 scienziati con un contratto a tempo indeterminato secondo il principio della competitività anglosassone, si piazza nella casella 2.823 su un totale di 2.833. Il direttore scientifico Roberto Cingolani, un fisico esperto di nanotecnologie, spiega che "l'Istituto italiano di tecnologia è nato di recente e ha bisogno di tempo per raggiungere criteri sufficienti per la valutazione". Ma di certo all'In - a differenza degli altri enti di ricerca che nuotano nelle ristrettezze - non sono mai mancati i mezzi, inclusi 128 milioni di euro provenienti dalla liquidazione dell'Iri nel 2008 e il lampante conflitto di interessi di un Vittorio Grilli che è allo stesso tempo direttore generale del ministero del Tesoro e presidente dell'In. Non stupisce con queste premesse che il 15 marzo la Corte dei Conti abbia lodato l'Istituto per il suo avanzo di bilancio di 60 milioni di euro. Si attende ora che questi soldi siano usati per migliorare ancora la posizione dell'Italia nella ricerca del mondo. _____________________________________________ Il Sole24Ore 23 apr. ’11 UNIVERSITÀ CARICHE DI ORO IN TEXAS Grandi atenei Usa dedicano il 5% del portafoglio al metallo giallo Che un investitore prudente, come sono le grandi università americane, abbia deciso di investire il 5% del suo portafoglio in oro, per un valore di 1 miliardo di dollari, è già una notizia che fa drizzare le orecchie. Ma la University of Texas non si è limitata a questo. 11 suo acquisto non ha riguardato futures o Etf, bensì lingotti: 6.643 per la precisione, che ha affidato a Hsbc perché li custodisca in un caveau di New York «Era la soluzione più facile e meno costosa», ha banalizzato sugli schermi della Cnbc Bruce Zimmerman, ceo del fondo che sostiene l'ateneo, la University of Texas Investment Management Company. Ma le giustificazioni fornite al momento dell'acquisto la dicono lunga su che cosa stia succedendo sul mercato dell'oro, dove i prezzi — in ascesa da un decennio — viaggiano ormai sopra 1.510 dollari per oncia. «Le banche centrali stanno stampando più denaro di quanto ne abbiano», ha spiegato Kyle Bass, hedge fund manager che siede nel board dell'università e che è stato il principale ispiratore del maxi-investimento. «Che valore ha ormai il denaro in termini di acquisto di beni e servizi? L'oro non è che un'altra valuta Ma non si può stamparne altra». La University of Texas potrebbe fare proseliti, magari anche tra i fondi pensione, altri investitori tradizionalmente prudenti, che all'oro dedicano in genere non più dell'1-2% del portafoglio. Per le quotazioni del lingotto sarebbe come benzina sul fuoco. Ma in fondo ad Austin non hanno fatto che replicare in grande ciò che moltissimi risparmiatori nel mondo stanno facendo da tempo. Gli investimenti continuano a essere il motore principale del rally dell'oro, ma le posizioni lunghe (all'acquisto) al Comex stanno diminuendo e il declino dei flussi verso gli Etf è ancora più marcato: nel primo trimestre gli asset dell'Spdr Gold Trust hanno subìto il calo più marcato dal suo debutto, nel 2004. In compenso, gli acquisti di lingotti volano (+66% nel 2010) e la richiesta di monete è tale che le Zecche non riescono a starvi dietro. _____________________________________________ Repubblica 27 apr. ’11 CERVELLI: GLI SCIENZIATI AMERICANI ORA FUGGONO IN EUROPA Il taglio dei finanziamenti negli Usa sta portando centinaia di studiosi a collaborare con il centro di Ginevra. Così la battaglia per scoprire le particelle potrebbe vincerla il Vecchio Continente ELENA DUSI Gli esploratori della natura ora seguono la rotta inversa di Cristoforo Colombo. Lo studio dei segreti più intimi della materia attraverso i grandi acceleratori di particelle sta migrando dagli Stati Uniti all'Europa. E centinaia di fisici percorrono in questi mesi un sentiero inedito perla storia della scienza: dalla sponda ovest a quella est dell'Atlantico. Chiuderà a fine anno per il mancato rinnovo dei fondi pubblici la storica macchina americana Tevatron, del laboratorio Fermilab di Chicago. Funziona invece a pieno ritmo, con ottimi risultati e un ottimismo alle stelle l'acceleratore Lhc del Cern di Ginevra. Da cui è appena trapelata la notizia di una possibile traccia del bosone di Higgs. L'unica fantomatica particella che mancherebbe ai fisici per completare il quadro dei componenti fondamentali della materia — e la cui caccia è oggetto di competizione fra Ginevra e Chicago — potrebbe aver lasciato una traccia in uno dei rivelatori di Lhc: Atlas. Si tratta di un'impronta poco chiara, la cui interpretazione è a livello molto embrionale. La portavoce di Atlas, l'italiana Fabiola Gianotti, ha smentito in maniera categorica di aver messo le mani sul bosone di Higgs (soprannominato la "particella di Dio" perché spiegherebbe come mai la materia attorno a noi è dotata di una massa). E il fatto che la notizia sia trapelata per vie poco ortodosse (in forma anonima attraverso un blog) ha creato malumori fra gli scienziati di Atlas. Ma nessuno a Ginevra si perita di dire che la scoperta del bosone di Higgs potrebbe arrivare entro l'anno. Il tramonto del laboratorio americano (Tevatron aveva effettuato le prime collisioni di particelle nel 1985) e la fioritura di quello europeo (l'attività scientifica di Lhc è partita nel 2009) alimenta la migrazione dei fisici. «Da mesi è iniziato il trasferimento. Già alcune centinaia di scienziati del Fermilab hanno ottenuto anche l'affiliazione a uno degli esperimenti del Cern. È chiaro infatti che Lhc sarà la macchina del futuro» spiega Sergio Bertolucci, direttore della ricerca al Centro di Ginevra ed ex vice-presidente dell'Istituto nazionale di fisica nucleare italiano. «L'amarezza c'è, non possiamo nasconderla» commenta da Chicago uno dei pionieri di Tevatron, Giorgio Bel- lettini, professore emerito all'università di Pisa e scienziato dell'Istituto nazionale di fisica nucleare. «Eravamo alle soglie di scoperte importanti, in procinto di poter dare indicazioni sul bosone di Higgs. Fermarci ora, a poca distanza dal traguardo, è molto triste. Sorprende che l'America decida di ammainare la bandiera in uno dei campi più prestigiosi della scienza, si tratta di una scelta inedita per questo paese. Se negli anni Venti eTrenta il cuore della fisica era infatti l'Europa, alla vigilia della guerra l'asse della ricerca si era spostato negli Stati Uniti». Non è un caso che il laboratorio di Chicago sia intitolato a Enrico Fermi. A Lhc d'altronde oggi c'è lavoro per tutti. «E la competizione non mancherà neanche dopo la chiusura di Tevatron» spiega Paolo Giubellino, portavoce di Alice, un altro esperimento di Lhc. Alle collisioni fra protoni alla velocità della luce che avvengono nel grande anello di 27 chilometri al confine franco-svizzero guardano infatti quattro immensi rivelatori (oltre ad Atlas e Alice, anche Cms e LHCb). «I dati raccolti da un esperimento — spiega Giubellino — vengono continuamente confrontati con gli altri, e questo dà validità ai nostri risultati». C'è poi il futuro lontano a cui guardare. «La fisica di oggi va avanti per grandi progetti ed è naturale che sia globalizzata» spiega Bertolucci. «Nessun paese da solo può sostenere sforzi come la costruzione e il mantenimento di Lhc, per non parlare dell'analisi dell'enorme mole di dati scientifici. Con le sue scoperte, l'acceleratore del Cern ci indicherà la strada da seguire in futuro. A quel punto saranno forse gli Stati Uniti a realizzare l'apparecchio della prossima generazione. E noi fisici non ci faremo problemi a fare le valigie per l'ennesima volta». _____________________________________________ TST 27 apr. ’11 "VIVRETE SOLTANTO DI NUMERI" Matematica Le previsioni della "star" Sturmfels: un boom globale, dalle aziende ai governi 'Le dimostrazioni teoriche non bastano, questa è l'era dei test realizzati con i supercomputer" FRANCESCO VACCARINO POLITECNICO DI TORINO Esiste, soprattutto in Italia, una forte diatriba tra chi fa matematica «pura» e i matematici che si occupano di applicazioni e modellistica. Per quanto ridicolo dal punto di vista culturale, spesso i matematici «puri» assumono un atteggiamento di vaga superiorità nei confronti degli «applicativi». L'idea, più o meno, è che i teoremi, in una sorta di cosmogonia medievale, si trovino più lontani dalle lordure della terra che i modelli matematici, sviluppati ad esempio per studiare fenomeni naturali, sociali o biologici. Questa posizione - com'è noto - è priva di fondamento scientifico. I teoremi sono risposte a problemi posti internamente alla matematica, cioè sono applicazioni infra disciplinari, mentre ì modelli sono risposte a questioni esterne, cioè sono prodotti inter e multi disciplinarì. Sarebbe come dire che l'introversione è superiore all' estroversione. Chi conosce bene la questione è Bernd Sturmfels, professore a Berkeley, vincitore del Von Neumann Prize 2010: è considerato uno dei massimi matematici e si occupa di algebra, geometria algebrica, statistica, biologia e ottimizzazione. Professore, che cosa ci fa un'algebrista e geometra ìn mezzo a questioni «reali» come catene fosfolipidiche, inferenze e problemi di consegne della posta? «Io lavoro nel campo della geometria algebrica e della combinatoria. Mi occupo di enti definiti da sistemi di equazioni polinomiali e di problemi di conteggio di configurazioni complesse». Sembrano questioni astratte e invece non è così: che cosa hanno a che fare con la biologia o la statistica? «Facciamo un esempio: consideriamo una serie di specie animali e il loro albero filogenetico. Siamo dì fronte a una sorta di mappa in cui ciascuna specie è connessa solo con quella che gli è più vicina. Supponiamo, a questo punto, di dedurre tra due specie contigue la probabilità che una sia discendente dell'altra: perché questa co struzione abbia senso è necessario che le probabilità soddisfino le equazioni di una "superficie" multidimensionale detta Grassmanniana tropicale. Ecco come geometria, filogenetica e statistica si combinano tutte insieme!». Una delle rivoluzioni degli ultimi decenni è stata la possibilità di realizzare esperimenti matematici grazie ai computer. Cosa ne pensa? «Lo standard massimo della matematica è sempre stato la dimostrazione dei teoremi. Io ho una fiducia limitata in questa come verità assoluta. Gli umani fanno errori e, a volte, una dimostrazione viene presa per buona, ma, in realtà, nessuno ne ha controllato tutti i dettagli. Preferisco quindi un approccio in cui, usando il computer, si possano effettuare esperimenti per sostenere oppure rigettare un'ipotesi. Certo, le dimostrazioni rimangono, ma bisogna fare anche gli esperimenti». Quale futuro spetta quindi alla matematica? «La matematica continuerà a crescere come disciplina, ma penso che vedremo dissolversi la tradizionale divisione tra matematica pura e applicata. L'esplosione di una civiltà globalizzata, caratterizzata da fenomeni e problematiche complesse, costringerà i governi e le grandi multinazionali ad usare sempre più risorse che abbiano competenze matematiche superiori». E la ricerca scientifica come verrà influenzata? «Nel secolo appena passato la matematica ha tratto grande spunto dalla fisica. Credo che, invece, il XXI secolo sarà quello in cui il ruolo- chiave verrà preso dalla biologia e la matematica pura salirà verso nuove altezze». Qual è il consiglio che si può dare a un giovane che voglia avventurarsi nel mondo dei numeri? «A un giovane dico: segui l'istinto e rimani con la mente aperta. Non diventare il super- specialista di una sotto disciplina. Mantieni, invece, una prospettiva ampia e arriva alla massima profondità che puoi nel maggior numero di aree. Parla del tuo lavoro con scienziati, ingegneri, finanzieri, medici e con tutti quelli che sono ansiosi di sapere come la tua matematica potrà aiutarli». C'è un problema che non ha risolto e che continua ad appassionarla o a ossessionarla? «Quando ero studente di dottorato, il mio relatore, Victor Klee, mi spinse a lavorare sulla congettura di Hirsch sui politopi convessi. Era un problema molto famoso, nato negli Anni 50. Ci lavorai per un anno senza risultato. Era semplicemente troppo difficile per me. Ma, qualche mese fa, Francisco "Paco" Santos, un mio postdoc, ha trovato la soluzione: ha costruito un contro-esempio alla congettura in uno spazio a 43 dimensioni. Sono infinitamente felice per Paco: è stato più acuto di me e la sua ingegnosa costruzione ha dato una soluzione al problema che io non avevo risolto!». Non mi era mai successo che un famoso matematico mi parlasse del successo di un suo allievo là dove lui aveva fallito! ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 29 apr. ’11 VITTORIO GALLESE E I NEURONI SPECCHIO: la ragione è emozione, il corpo è mente Una scoperta che apre una nuova alleanza tra psicoterapia e neuroscienze L'EVENTO. Dopodomani a Cagliari, al Teatro Massimo, il convegno internazionale promosso dall'Iefcostre Sapete quando siamo davvero irrazionali? Quando agiamo convinti di non esserlo, e crediamo di non farci condizionare dalle emozioni che ci provengono dagli altri. Ma noi non siamo computer, il nostro cervello non è un elaboratore di dati che provengono dall'ambiente, è parte integrante di quell'ambiente. Proprio per questo, tanto più crediamo di agire in base a modelli di razionalità, tanto più siamo “irrazionali”. La mente non è svincolata dalla corporeità, la ragione dal sentimento, ma al contrario il corpo è parte integrante di quei movimenti che descriviamo come “mentali”. A dare un colpo ulteriore alle teorie del cognitivismo classico - «stelle morte che continuano a mandare luce anche quando non ci sono più», le definisce Vittorio Gallese - è la scoperta dei neuroni specchio, che è stata per la psicologia (come dice un illustre neuroscienziato indiano) quello che il dna è stato per la biologia. Protagonista di questo fondamentale passo avanti, negli anni Novanta, è stato il team di neuroscienziati dell'Università di Parma diretto da Giacomo Rizzolatti che ha proprio in Gallese un punto di riferimento fondamentale. Il neuroscienziato ha individuato come alcune aree del nostro cervello, che hanno il compito di guidare il movimento, siano dotate di neuroni che si attivano sia quando si compie un'azione sia quando si osserva un altro mentre la compie. Il neurone di chi osserva, insomma, rispecchia il comportamento di chi viene osservato, come se stesse compiendo l'azione egli stesso. Questi neuroni, individuati nei primati e nell'uomo, hanno una importanza fondamentale per una nuova alleanza tra psicoterapia e neuroscienze. E sarà lo scienziato dei neuroni specchio, dopodomani al Teatro Massimo di Cagliari, uno dei protagonisti di una giornata memorabile organizzata dall' Iefcostre (Istituto Europeo di Formazione Consulenza Sistemica e Terapia Relazionale, riconosciuto dal Ministero dell' Università), di cui è presidente il neuropsichiatra e psicoterapeuta Luigi Onnis. Durante il convegno, che si aprirà in mattinata per concludersi nel pomeriggio, si parlerà di intersoggettività e neuroni specchio, e si tracceranno le linee di un appassionante rapporto di scambi e confronti tra le due discipline. Con Gallese ci sarà Daniel Stern, psichiatra e psicoanalista di fama mondiale. Professor Gallese, la scoperta dei neuroni specchio può rappresentare un colpo alla separazione cartesiana corpo-mente che tanto ha condizionato il nostro modo di pensare? Insomma, Spinoza, con la sua mappa delle emozioni, è più attuale di Cartesio? «Sì, senz'altro. Se questa concezione di una mente svincolata dalla corporeità lascerà il campo all'idea di un corpo che nella sua espressività è parte integrante di quei contenuti “mentali”, si apriranno orizzonti molto nuovi. Quanto alla filosofia, li perlustra da tempo. Lei cita Spinoza, io citerei Husserl, la fenomenologia, e il duplice aspetto del corpo: che è oggetto materiale, Körper, ma anche Leib, espressione dell'esperienza vitale. Ormai la convinzione per cui solo risalendo alle idee si può spiegare compiutamente il comportamento sembra fare acqua da tutte le parti. Il cognitivismo classico mi fa pensare a quelle stelle morte che continuano a mandare la luce anche quando non ci sono più. Diciamo che i neuroni specchio, (ma non solo loro) approdano a risultati che suggeriscono come questa tripartizione tra azione, percezione e cognizione non regga più. I neuroni specchio dimostrano che la percezione è una modalità dell'azione e che questa integrazione tra aspetti dell'azione e della percezione svolge un ruolo cruciale nei nostri processi cognitivi». Spesso si parla di Quoziente Intellettivo riferendo l'intelligenza alla pura logica, ma l'intelligenza è anche altro, è emozione... «Certamente, il contributo di Antonio Damasio e della sua scuola dimostra come il nostro comportamento diventa veramente “irrazionale” proprio quando viene meno il connotato emozionale. Ma anche due grandi economisti come Daniel Kahneman e Amos Tversy dimostrano come anche le nostre decisioni non siano mai frutto della pura razionalità ma siano condizionate da come ci sentiamo valutati dall'altro». Siamo simili ai nostri genitori per via del dna, ma quanto la gestualità delle persone con cui viviamo, l'empatia che creiamo con loro, è più forte della voce dei geni? «Qui mi verrebbe da dire che la distinzione netta tra innatismo geneticamente determinato e apprendimento è messa in discussione quando si dimostra che l'espressione di un gene è condizionata non solo dal gene, ma anche dalla progenie. Diciamo che la teoria dell'evoluzione sta recuperando elementi del lamarckismo, nessun direbbe che la giraffa ha il collo lungo perché a ogni generazione le allungavano il collo, ma non siamo molto lontani... Nella misura in cui i neuroni specchio sono fondamentali per le nostre competenze empatiche, si può dire che a parità di predisposizione genetica uno se la gioca sul fronte dell'ambiente umano in cui agisce». Siamo esseri sociali sin dal ventre materno? «Il comportamento dei gemelli in utero è un'ulteriore dimostrazione che il nostro sistema motorio si sviluppa tanto precocemente da permettere in una fase prenatale di organizzare i movimenti in modo diverso a seconda di dove siano diretti. Una gravidanza gemellare dimostra quanto siamo predisposti all'interazione sociale. La vecchia intuizione di Martin Buber per cui nel principio è la relazione non è una metafora, è un dato di fatto». Neuroni specchio e condizionamento politico: si può ipotizzare di imporre una dittatura attraverso un processo indotto di rispecchiamento? E i mass media stanno uniformando le nostre emozioni? «Stiamo attenti a non fare semplificazioni. Io non vedo connessione diretta tra l'esposizione alla violenza attraverso i media e comportamenti conseguenti nella vita quotidiana. Non dimentichiamoci che viviamo in una società meno violenta rispetto a quattro-cinque secoli fa, e allora non c'era la tv. Il discorso è più complicato, ed è vero che una costante esposizione a certe tematiche può portare a fenomeni di desensibilizzazione. E poi, senza tirare in ballo i neuroni specchio, è altrettanto vero che la cornice di significato che viene proposta può essere condizionante. Ma questo non è una novità, la manipolazione dell'opinione pubblica è vecchia quanto l'Ars retorica, bastano Quintiliano o Cicerone. Diciamo che i media amplificano la possibilità di manipolare le opinioni e quindi c'è bisogno di un pensiero critico. Quanto alle neuroscienze cognitive, possono essere un'arma a doppio taglio: forniscono ulteriori strumenti di manipolazione, ma anche i mezzi per smascherarle..». Maria Paola Masala ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 29 apr. ’11 DANIEL STERN, NOI CI RIFLETTIAMO NEGLI ALTRI L'altro grande protagonista della giornata di studi di sabato è uno dei massimi psicoanalisti viventi Nel campo della psicologia e della psicoterapia quando si parla di “mondo interpersonale del bambino”, “costellazione materna”, “intersoggettività”, il punto di riferimento è lui. È Daniel Stern, uno dei massimi psicoanalisti viventi, per quanto il suo rapporto con la psicoanalisi ortodossa non sia stata, spesso, senza contrasti. Nei suoi studi sullo sviluppo psicologico del bambino, (nel filone della cosiddetta “infant research”) Stern ha messo in evidenza che sulla costruzione del mondo psichico, più che le istanze pulsionali di cui aveva parlato Freud, giocano un ruolo essenziale i rapporti interpersonali concretamente sperimentati con le figure significative di riferimento, in particolare la madre. Stern mette, dunque, al centro dello sviluppo psicologico e della stessa funzione della mente, la relazione intersoggettiva: «Non vi è mente - afferma - senza continua interazione con l'altro». Questa concezione è stata oggi ampiamente confermata dalle neuroscienze, attraverso l'importante scoperta dei “neuroni specchio”, che onora la ricerca italiana perché è stata compiuta da Rizzolatti, Gallese e altri ricercatori dell'Università di Parma. Si tratta di neuroni che hanno una funzione di rispecchiamento delle azioni, delle percezioni e delle emozioni degli altri. Indicano, quindi, una sorta di predisposizione neurobiologica dell'individuo umano all'intersoggettività. Ma come si esprime l'intersoggettività? Non si tratta, naturalmente, solo di scambi verbali, ma di esperienze emozionali condivise, che utilizzano linguaggi impliciti, come quelli che permettono al bambino di apprendere e comunicare con la madre, attraverso i gesti, gli sguardi, la mimica, il contatto fisico. O, ancora, come quella sintonizzazione e sincronizzazione emotiva che consente a due innamorati di lanciarsi l'uno nelle braccia dell'altro e di unirsi in un bacio appassionato con un “atterraggio morbido” senza rischiare di compromettere la reciproca integrità dentaria. Questa “conoscenza relazionale implicita”, attraverso cui anche inconsapevolmente le menti si incontrano, ha per Stern un'enorme importanza ed è l'elemento fondante dell'intersoggettività. Essa svolge un ruolo essenziale anche in psicoterapia, perché solo se la relazione terapeutica diventa veicolo di empatia può produrre efficacemente cambiamento. Le tecniche terapeutiche (le interpretazioni verbali) da sole non bastano. È necessario quel “qualcosa in più” di cui parla Stern, che coincide con una reciproca circolazione affettiva, che implica altri linguaggi mediati dal corpo. Questa concezione, dunque, riaggrega la mente al corpo riprendendo le intuizioni anticipatrici della filosofia fenomenologica. Dà alla mente quella dimensione “embodied” (incarnata) che oggi le neuroscienze le riconoscono; e fa della corporeità la base della intersoggettività e il centro di emanazione di quelle “forme di vitalità” di cui Stern parla nel suo ultimo libro ( Le forme vitali , Ed. Cortina, 2011). Tutto ciò non significa sottovalutare l'importanza del pensiero razionale, ma sottolineare (come confermano le neuroscienze) che la razionalità non può essere svincolata dalle emozioni, e queste sono legate ai linguaggi del corpo. «La natura - scrive Stern - ( Il momento presente , 2006), ha avuto la saggezza di non iniziare i bambini all'uso del linguaggio verbale prima di un anno e mezzo di età, per dar loro il tempo di apprendere come funziona veramente il mondo umano, senza la distrazione e le complicazioni delle parole, ma solo con l'aiuto della musica del linguaggio». Luigi Onnis ___________________________________________________________ L'Unione Sarda 29 apr. ’11 È UN MASTER SENZA PIÙ BACK «Lo avevano promesso per marzo, ora slitta ancora» I laureati specializzati attendono da molti mesi il bando per i “Percorsi di rientro” Hanno studiato fuori dalla Sardegna, sono tornati nell'Isola dove speravano di mettere a frutto le loro conoscenze. E si ritrovano con un pugno di mosche. Sono i ragazzi che attendono il bando “Percorsi di rientro 2010”, in pratica, l'inserimento lavorativo del “Master & back”. Molti di loro sono tornati da un anno e oltre e ancora non riescono a trovare una collocazione nel mondo del lavoro. Perché il bando, promesso per il primo trimestre 2010, ancora non è uscito. LA SITUAZIONE E, da quello che raccontano i laureati del “Comitato Master & back”, la situazione è ancora molto lontana dal trovare una soluzione. «Dall'Urp dell'Agenzia per il lavoro», scrivono, «ci è stato recentemente comunicato che il bando uscirebbe a giugno o, ancora più tardi, in autunno». Il tempo passa e l'ingresso nel mondo del lavoro si allontana. «Anche perché», raccontano i laureati, «ultimamente siamo venuti a sapere che c'è l'intenzione di unire il bando 2010 con quello 2011». I NUMERI Un problema molto serio per i giovani che hanno frequentato master o corsi di specializzazione. E, sia chiaro, non si parla certo di pochi eletti: a seguire i percorsi di “Alta formazione” sono stati in 450 mentre hanno partecipato a “Tirocini” altri 614 giovani; a questi devono aggiungersi i 31 che hanno seguito “Percorsi artistico-musicali”. Un totale di 1.095 giovani, senza contare un altro migliaio di assimilati (quelli che hanno seguito percorsi alternativi). Tutti fermi, forse in attesa dei circa duecento che dovrebbero partecipare ai “Percorsi di rientro 2011”. IL LAVORO Un'attesa snervante. Anche perché, tra il bando e l'effettivo ingresso nel mondo del lavoro, passa molto tempo. Basti pensare che l'ultimo back dell'ottobre 2009, chiuso a dicembre dello stesso anno, si concluso, in molti casi, con l'attivazione dei contratti nel luglio del 2010. Dunque, se il bando 2011 avesse seguito gli stessi tempi, i laureati avrebbero dovuto cominciare a lavorare quest'estate. Invece, sono ancora in attesa e non sanno niente. «L'Agenzia per il lavoro ha fatto tutto quello che doveva. Ma, visto che manca il bando, il ritardo è dovuto alla Regione», affermano gli studenti. I FONDI Non soltanto: molti di questi giovani avranno difficoltà anche dopo il bando. Perché in tanti erano destinati a lavorare nelle fondazioni o nelle università. Ma i tagli fatti dal governo hanno tolto ossigeno alla ricerca. Al tempo stesso, c'è stato un ridimensionamento anche dei finanziamenti per i “Percorsi di rientro” da parte della Regione: quest'anno, ci sono circa 15 milioni di euro, una cifra che non è in grado di soddisfare le esigenze. Dunque, molti giovani non saranno in grado di poter utilizzare nell'Isola le conoscenze che hanno appreso durante i percorsi di “Alta formazione”. «Ci dicono che il back non è nostro diritto. Magari hanno anche ragione. Ma il back è, certamente, un dovere delle amministrazioni. E queste non stanno adempiendo al loro dovere». La conclusione? Imprevedibile, è ovvio. Ma per molti ragazzi la conclusione potrebbe essere quella più amara. «Siamo andati via dalla Sardegna per un anno per specializzarci. Rischiamo di dovercene andare definitivamente per poter trovare lavoro». Marcello Cocco ___________________________________________________________ Corriere della Sera 29 apr. ’11 ECCO LE PROFESSIONI DEL 2017 PER I MATURANDI L' ANALISI DEGLI ESPERTI DELLE RISORSE UMANE PER CHI DEVE SCEGLIERE LA FACOLTÀ Una guida ai profili più gettonati nei prossimi anni Quali saranno le "professioni calde" del 2017? Abbiamo chiesto una previsione a un gruppo di esperti in materia. Risultato: nessun architetto galattico o hacker del pensiero umano, ma sicuramente qualche novità interessante per curricula diversi. Partiamo dall' ambito green: l' attenzione all' ecosistema è vista in crescita all' unanimità o quasi. Figure nuove nel campo? «I Sustainability Engineer, tecnici specializzati in tematiche legate alle fonti rinnovabili, che affiancheranno il Chief Sustainability Officer, la posizione al top su questo fronte in azienda - risponde Stefano Griccioli, responsabile in Accenture della service line Talent & organization performance -. E, per chi ha competenze più soft, i Change Sustainability Ambassador, agenti di cambiamento che si relazionano con la business community». Altra possibile new entry è l' Energy Auditor, «un esperto in certificazione dei bilanci in campo energetico» spiega Giovanna Brambilla, ad di Value Search. Ma anche l' Ingegnere focalizzato sul project financing ambientale ed energetico potrebbe essere molto richiesto. «Ci sarà un' evoluzione dei grandi progetti impiantistici nel settore» prevede Fabio Ciarapica, senior partner di Praxi. Non meno importante la "rivoluzione web" su marketing e comunicazione. E un' ipotesi è che le aziende avranno bisogno di Social Media Manager per gestire più adeguatamente la loro presenza su Facebook & Company. «E chi può aiutarle meglio dei ragazzi che escono dall' università e ne fanno già uso come consumatori?» sottolinea Stefano Griccioli. «L' ecommerce accountant, poi, diventerà quasi pervasivo: consente di contattare con grandi masse di consumatori senza la mediazione di reti di vendita fisiche» aggiunge Francesco Lamanda, chairman di Mercer Italia. Marina Pastorelli, associate partner Kpmg advisory executive search, vede grande sviluppo sul tema delle piccole e medie aziende. «Oggi puntano sulla ricerca di nuovi mercati - afferma - quindi, per esempio, chiederanno ai profili alti commerciali di conoscerne i meccanismi». Sempre legato all' internazionalizzazione delle nostre multinazionali tascabili è, poi, il General Counsel: «un legale che dovrà, però, avere una grossa sensibilità al business» riassume l' esperta. Non è tutto. Più richiesta di figure a cavallo tra ingegneria di produzione, qualità e controllo di gestione: «la metodologia Lean Six Sisma diventerà di processo nelle aziende» immagina Fabio Ciarapica. E gettonatissimi saranno anche gli specialisti di robotica e nanotecnologie, ma pure i giovani che sviluppano contenuti per la formazione a distanza. Una buona notizia per i laureati umanistici arriva da Mercer. «In prospettiva si accentuerà la terziarizzazione dell' economia italiana e l' importanza della sua globalizzazione» afferma Francesco Lamanda. Mentre Giovanna Brambilla dà una speranza agli amanti dell' arte. «Serviranno manager del turismo dei Beni culturali - dice -. Per rilanciare il sistema Paese dobbiamo ricorrere al nostro petrolio». Iolanda Barera Barera Iolanda ___________________________________________________________ Corriere della Sera 29 apr. ’11 E IL CORSIVO DIVENNE INDECIFRABILE Il caso l' america lancia un allarme: vittime di stampatello e computer. Franzen: ma io l' ho sempre odiato Le generazioni digitali non sanno più leggere diari e lettere NEW YORK - La Dichiarazione di Indipendenza americana, redatta nel 1776 dalla Commissione dei Cinque, composta da Thomas Jefferson, John Adams, Benjamin Franklin, Robert Livingston e Roger Sherman, venne scritta, dall' inizio alla fine, in corsivo. Ma in un futuro forse non lontano nascerà una generazione di allievi americani che non saranno più in grado di leggerla, tanto meno di ricopiarla a mano. A lanciare l' allarme è il «New York Times», in un lungo articolo dedicato al tramonto del corsivo, chiamato «Italic» dagli anglosassoni poiché fu introdotto per la prima volta in Italia nel 1501 dal principe degli stampatori, Aldo Manuzio, che lo usò per poche parole (Iesu dolce Iesu amore) in una xilografia dalle epistole di Santa Caterina; quindi, per esteso, nel famoso Virgilio «in ottavo», capostipite dei suoi libelli portatiles, i primi tascabili della moderna editoria. «Per secoli la scrittura corsiva è stata un' arte», scrive l' autorevole quotidiano, «ma per un crescente numero di giovani, oggi, è ormai un mistero». I suoi caratteri sinuosi ed eleganti, con leggera inclinazione a destra, sono stati immortalati in innumerevoli lingue per tramandare ai posteri documenti storici, manoscritti d' autore e lettere d' ogni genere, dando vita, in Italia, ad una delle forme giornalistiche più alte. Proprio per questo è doloroso pensare che anche quest' ennesimo tesoro della memoria umana sia destinato al museo degli oggetti antichi, come la penna e l' inchiostro o la macchina per scrivere. La colpa è di smartphone e computer, sulla cui tastiera oggi si tende a scrivere tutto, dalla lista della spesa ai compiti in classe, dai romanzi ai documenti legali. Ma responsabile è anche e soprattutto una scuola che non esige più l' uso del corsivo, chiedendo agli alunni, fin dalle elementari, di usare lo stampatello, anche quando scrivono a mano anziché al computer. Una ricerca svolta dall' Università di Portland già nel 2006 puntava i riflettori sull' inarrestabile trend. Lo studio americano analizzava la scrittura di un milione e mezzo di studenti di 16-17 anni attraverso temi, test e altri compiti in classe: soltanto il 15 per cento erano scritti in corsivo. Quella che era nata come una sfida estetica e tecnica ai canoni del tempo, evolvendo poi in un modello di eleganza e stile, è diventata insomma la Cenerentola dell' alfabetizzazione. Jimmy Bryant, direttore degli Archivi e collezioni speciali presso la Central Arkansas University, è convinto che in un futuro non lontano milioni di documenti potrebbero essere off-limits. Quando, durante una lezione, il professor Bryant ha chiesto quanti dei suoi studenti scrivessero in corsivo, nessuno di loro ha alzato la mano. Uno di loro, il ventiduenne Alex Heck, ha raccontato al «New York Times» la propria frustrazione per non essere riuscito a decifrare il diario della nonna defunta, rinvenuto in solaio. «Era come leggere dei geroglifici», ha spiegato, «un linguaggio in codice imperscrutabile». Oltre a deplorare la morte di una forma d' arte coltivata per secoli da esperti calligrafi, gli psicologici e gli educatori puntano il dito sui risvolti negativi del fenomeno per le capacità di apprendimento, di studio e di sviluppo delle nuove generazioni. «Il corsivo aiuta gli studenti a perfezionare le proprie capacità motorie», spiegano gli esperti, secondo i quali lo stampatello è anche molto più facile da falsificare. Ma non tutti piangono la morte di questo tipo di scrittura. «A me il corsivo non è mai piaciuto», racconta al «Corriere» Jonathan Franzen, «L' ho sempre trovato visivamente ostico ed eccessivamente solenne e a diciotto anni, quando sono arrivato al college, ho smesso completamente di usarlo». Perché quest' avversione? «Mia madre lo usava esageratamente», replica l' autore di Freedom, «e ciò mi irritava, in quanto simbolo di quella formalità manieristica che ho sempre cercato di evitare». **** Le firme Alessandro Manzoni (1785-1873) è l' autore dei «Promessi sposi» Jonathan Franzen (1959) è autore, tra l' altro, de «Le correzioni» e «Libertà» (Einaudi) Thomas Jefferson (1743-1826), tra i «padri» della Dichiarazione di Indipendenza Usa Farkas Alessandra ___________________________________________________________ Corriere della Sera 29 apr. ’11 UN CANDIDATO SU 10 RIFIUTA IL POSTO La scelta Dire di no a un' offerta? Una mossa sconsigliata in periodi così difficili per l' occupazione Il profilo Rifiutano spesso le persone con una certa sicurezza economica, per lo più garantita dai genitori Un candidato su dieci rifiuta la proposta di lavoro. Secondo i dati forniti dall' agenzia per il lavoro Page Personnel, il 10% delle persone, al termine del percorso di selezione, declina l' offerta. In molti casi si tratta di giovani (neodiplomati o neolaureati) alla ricerca della prima occupazione. Le motivazioni sono svariate. C' è chi adduce l' eccessiva distanza tra il posto di lavoro e l' abitazione, chi ritiene l' azienda da cui proviene la proposta troppo piccola o poco conosciuta e chi pensa che il ruolo prospettato non sia abbastanza qualificato. Ma sono davvero queste le vere ragioni? «Dal mio osservatorio ho notato che a rifiutare sono soprattutto persone che hanno alle spalle una certa sicurezza economica, per lo più garantita dai genitori» afferma Francesca Contardi, amministratore delegato di Page Personnel. «Per questo sono poco disponibili a fare qualche sacrificio oppure a mettersi alla prova in un contesto diverso da quello che avevano immaginato». Non bisogna, poi, dimenticare che i giovani alle prime esperienze non hanno sempre una visione realistica del sistema lavorativo e possono, perciò, compiere delle valutazioni errate. Spiega Piergiorgio Argentero, docente di Psicologia del lavoro presso l' Università di Pavia: «Può accadere che i giovani neolaureati abbiano percezioni di sé o aspettative poco realistiche. Inoltre le loro motivazioni professionali potrebbero essere incerte oppure non ancora del tutto mature. Tali aspetti possono impattare in maniera tanto più significativa sulla scelta finale nei casi in cui viene formulata una proposta di inserimento non ben definita in termini di contenuto e di prospettive». Tuttavia lasciar trascorrere troppo tempo tra la fine degli studi e l' ingresso nel mondo del lavoro può essere controproducente, in quanto si rischia di perdere il contatto con il mercato. Conferma Contardi: «Rifiutare un' opportunità professionale è una strategia che sconsiglio, tanto più in periodi così difficili dal punto di vista occupazionale. Quello che viene proposto può non essere il lavoro ideale, ma sicuramente è un' opportunità concreta per muovere i primi passi. Ed è un' occasione per imparare, instaurare delle relazioni professionali interessanti e magari scoprire delle capacità e delle competenze che neppure si sospettava di possedere». Anna Zinola Zinola Anna ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 28 apr. ’11 «NESSUN COMPUTER POTRÀ MAI SOSTITUIRE L’INTELLIGENZA UMANA» MAURO LISSIA Professor Hitch, che cosa sono i ricordi? «Lo psicologo sperimentale Endel Tulving li definisce un viaggio della mente e nel tempo, quindi un modo per tornare nel passato. E’ una definizione che condivido». - Che cosa determina la durata dei ricordi nella mente umana? «Sicuramente l’interferenza, ad esempio la similitudine tra due o più fatti o esperienze è un fattore che interferisce negativamente sul ricordo chiaro e distinto e che quindi può portare l’individuo a fare confusione, a ricordare male. Ma se un evento è particolarmente importante e significativo da un punto di vista personale, allora il ricordo rimarrà impresso nella nostra memoria per un tempo lungo, anche per tutta la vita». - Sta parlando di un’emozione, un dolore, la gioia di un momento? «Certo, le emozioni giocano un ruolo fondamentale sulla durata dei ricordi. Ad esempio quando si è tristi o depressi i ricordi spiacevoli riemergono molto più rapidamente. Quando ci sentiamo tristi tendiamo a ricordare molto più facilmente cose tristi e questo porta a sentirci ancora più tristi rinforzando così il nostro malessere interiore. Ed è proprio su questo meccanismo di rinforzo che gli psicoterapeuti cercano di intervenire». - Il grande scrittore Philip Dick immagina nei suoi romanzi, tra gli anni Cinquanta e Settanta, la possibilità di trasferire i ricordi da un individuo a un altro attraverso innesti di memoria. Pensa che un giorno questa visione possa divenire realtà? «E’ un’idea molto affascinante e anche se al momento non esiste alcuna prova sperimentale è lecito pensare che un giorno si potrà fare». - I sogni entrano a far parte della memoria, come se fossero vissuto? «Credo di sì. Il problema è riuscire a scoprire cosa si è sognato, entrare nel sogno. Un problema complesso». - Che cos’è un deja-vu? «E’ qualcosa di familiare, quando si verifica un deja-vu noi avvertiamo una sensazione di familiarità tale da farci credere di aver già vissuto quell’esperienza. Lo definirei un’illusione della memoria che avviene senza la percezione dell’illusione». - Perché le sensazioni, la musica, i sapori, gli odori ci aiutano a ricordare? «La nostra esperienza è molto ricca e multidimensionale, è il risultato di informazioni derivate da diversi ambiti sensoriali: uditivo, visivo, olfattivo, emotivo. Noi non facciamo altro che coordinare e collegare queste informazioni ottenendo così il significato globale di una data esperienza e il contesto in cui essa si è verificata. Quanto più risulta significativa per noi la singola dimensione sensoriale coinvolta, ad esempio quella uditiva, tanto più questa contribuirà ad aiutarci nel futuro a ricordare quel particolare vissuto. La musica, ad esempio, normalmente ha una valenza straordinaria e ci aiuta molto a ricordare». - L’emozione della musica cementa il ricordo. Ma come si impara invece a dimenticare? Esistono meccanismi di rimozione dei ricordi? «Questo è un problema molto sentito nell’ambito della psicologia clinica e in modo particolare nella terapia del disturbo post-traumatico da stress in cui si verificano di frequente dei flashback, attraverso i quali riaffiora un insieme di ricordi ed eventi spiacevoli, anche violenti, associati al trauma che si è subito. In questo caso i clinici applicano tecniche di tipo immaginativo per desensibilizzare il soggetto di fronte ai ricordi spiacevoli». - Esistono differenze tra la memoria degli uomini e quella delle donne? «Sicuramente esistono differenze di genere. Gli uomini tendono ad avere una memoria visuo-spaziale migliore rispetto alle donne, hanno migliori capacità di orientamento, nel disegnare o nell’utilizzo di una mappa. Mentre le donne memorizzano meglio le informazioni». - E’ vero che i bambini hanno una maggiore capacità di memoria e sono superiori agli adulti nei compiti di attenzione? «E’ vero, perché hanno meno interferenze. Ad esempio nell’utilizzo del pc normalmente un adulto deve badare contemporaneamente anche ad altre cose come rispondere al telefono, ricordarsi di andare ad un appuntamento o svolgere altre attività. I bambini invece sono meno disturbati, quando usano un pc o fanno i compiti di scuola si dedicano solo a quello. Anche nell’apprendimento di una seconda lingua i bambini riescono con molta più facilità, anche solo attraverso il gioco». - Può dare una definizione di intelligenza e spiegare che rapporto c’è tra memoria e intelligenza? «L’intelligenza è la capacità di risolvere problemi nuovi e di ragionare a nuove soluzioni. Sul rapporto tra memoria e intelligenza c’è da fare una premessa: esiste una parte della memoria che chiamiamo working memory (memoria di lavoro) su cui io faccio ricerca che ha una capacità di immagazzinamento limitata e che, mentre ci si focalizza su un qualcosa, ci consente di mantenere per un breve lasso di tempo questo qualcosa nella mente. Ed è proprio questo tipo di memoria fluida ad essere maggiormente implicata nel trovare soluzioni a problemi nuovi». - Sarà possibile un giorno creare un computer capace di pensare? «Forse tra qualche centinaio di anni. Le mie ricerche si fondano sul modello di stampo cognitivista dello Human information processing secondo cui il funzionamento della mente umana viene paragonato a quello di un computer e pertanto la mente è intesa come filtro che seleziona, riorganizza e trasforma i dati che le provengono dall’esterno attraverso operazioni prevalentemente di tipo computazionale. Ma mentre un computer è fatto di silicone e plastica, gli esseri umani sono biologicamente determinati e in questo senso possiamo stare tranquilli ancora per parecchio tempo. Abbiamo ancora qualcosa in più dei computer». - Se lei fosse il direttore di un giornale quale strumento utilizzerebbe per fare in modo che i lettori ricordino le notizie? «In Inghilterra esiste un campo della ricerca che si occupa di capire come nonostante tutti guardino le previsioni del tempo nessuno se le ricordi. Si potrebbe prima di tutto provare su noi stessi per vedere quali e quante informazioni si riesce a ricordare. Potreste farlo voi giornalisti, una sorta di test: quali notizie restano impresse nella vostra mente? Probabilmente le stesse che lo saranno in quella dei vostri lettori». - E’ opinione diffusa che le tecnologie di cui disponiamo oggi - palmari, computer, telefoni cellulari, registratori - limitino la nostra capacità di ricordare perché la demandiamo a questi strumenti. Secondo lei questo è vero? «Prima che venisse inventata la scrittura la memoria veniva utilizzata sicuramente di più, poi abbiamo iniziato a servirci della tecnologia per bypassare il sovraccarico della memoria ma al tempo stesso non basta utilizzare questi strumenti esterni. E’ vero che demandiamo molto alle tecnologie ma siamo comunque obbligati a fare affidamento sul nostro sistema mnestico, senza il quale la memorizzazione di informazioni e contenuti non sarebbe comunque possibile». - Quindi bisogna allenare la memoria? «Non proprio. Gli strumenti ci vengono in aiuto ma perché ciò sia possibile dobbiamo avere noi stessi una traccia mnestica interna del contenuto o dell’informazione che vogliamo recuperare». LO SCIENZIATO DELLA MEMORIA CAGLIARI. Graham Hitch è professore ordinario di psicologia sperimentale all’università di York. Scienziato di fama mondiale, è autore di un centinaio di pubblicazioni. Una di queste, che riguarda gli studi sulla memoria di lavoro, è uscita nel 1974 ed è stata giudicata tra i cento contributi più influenti del secolo nel campo delle scienze cognitive. Hitch è da un mese a Cagliari grazie al contributo della Regione e a una collaborazione consolidata con Maria Petronilla Penna, professore ordinario di psicologia generale a Scienze della Formazione. Dopo una serie di lezioni magistrali sul ruolo della memoria nel ricordo seriale, Hitch ha inaugurato il primo master di secondo livello sui disturbi di apprendimento, diretto dalla professoressa Penna. Il 30 aprile aprirà il primo congresso regionale sulla psicopatologia dello sviluppo e dell’apprendimento organizzato dalla sezione sarda dell’Aripa, che si svolgerà al corpo aggiunto della facoltà di Scienze della Formazione, a Sa Duchessa. Abbiamo chiesto al professor Hitch di spiegarci alcuni aspetti della memoria umana e le prospettive degli studi nella comunità scientifica che riguardano i ricordi in rapporto alle emozioni e ai sogni. _____________________________________________ Italia Oggi 20 apr. ’11 L'ITALIANO È DI MODA IN GERMANIA Viene studiato soprattutto dalle donne tedesche che amano l'Italia, la sua storia e la sua cultura Ma i lettori universitari sopravvivono solo con fondi tedeschi da Berlino ROBERTO GIARDINA perché studiare l'italiano? Lo spagnolo offre un'area più vasta e chi vuole trovare lavoro, anche grazie alla conoscenza di una lingua, ha più chance. Inoltre gli italiani lo capiscono. Eppure l'italiano è di moda in Germania. I corsi sono affollati, sia quelli privati che quei pochi organizzati dalle nostre istituzioni. L'italiano si impara per amore. E non è una facile battuta. Soprattutto le donne lo studiano per poter comunicare con i loro partner, d'una estate o d'una vita. A quanto pare, gli italiani sono restii a imparare la lingua di Goethe, considerata a torto troppo difficile. O per amore dell'Italia e della nostra cultura. Sarà un luogo comune, ma non è falso. I milioni di turisti tedeschi, che scendono ogni anno in Italia, desiderano comunicare, e non solo al ristorante. Amano la nostra cultura, e quindi la nostra lingua. È una minoranza, ma qualificata. Bisogna aggiungere che facciamo poco per la diffusione dell'italiano. Gli istituti di cultura, sette come i Goethe Institut in Italia, fanno quel che possono con gli scarsi mezzi a disposizione. A Berlino si è dovuto chiudere la biblioteca e, dato che l'istituto q,. si trova nell'edificio dell'ambasciata, per ragioni di sicurezza è costretto a chiudere la sera, quando gli aspiranti studenti avrebbero più tempo libero Rimane la Dante Alighieri che, almeno nella capitale, è stata anni fa quasi distrutta dall'allora direttore dell'Istituto italiano di cultura, per ragioni tutte sue. Siamo, come sempre, i migliori nemici di noi stessi. I lettori di italiano all'università sopravvivono grazie ai tedeschi. L'Italia non contribuisce per nulla. E, quando anche la Germania taglia i fondi, i primi a subirne le conseguenze siamo noi. Secondo gli ultimi dati reperibili, tra le università e le scuole secondarie, a studiare l'italiano quest'anno sono circa in 52 mila. Pochi? Molti? Potrebbero essere certamente di più. Sono in parte i figli dei nostri immigrati, di seconda e terza generazione, ma anche ragazzi tedeschi che sperano un domani di lavorare in Italia o in aziende tedesche che hanno scambi con il nostro paese. Molti anni fa, quando mi lamentai con un nostro ministro in visita in Germania perché non potevo mandare mia figlia in una scuola elementare bilingue, come era possibile per inglesi o francesi o spagnoli, mi rispose che «volevo difendere l'italiano come Mussolini». Sono passati gli anni, ma sembra che le cose non siano cambiate. Leggo sul Corriere d'Italia, unica pubblicazione per gli italiani di Germania, che un giovane residente nella Ruhr e aspirante carabiniere è stato respinto all'esame da un colonnello «perché non aveva chiesto il doppio passaporto». La sua resistenza a «diventare anche tedesco» provava la sua incapacità di integrazione. Prova soprattutto la grande confusione nella testa dell'esaminatore. Imparare bene la lingua madre, e difendere le proprie radici, è la condizione essenziale per integrarsi in un'altra cultura. Infine, i giovani che vogliono imparare l'italiano trovano scarsa accoglienza da noi. Enormi difficoltà burocratiche per far riconoscere i titoli di studio e problemi per pagarsi un soggiorno in Italia: vivere a Roma o a Milano è molto più costoso che a Ber-lino. Non offriamo borse di studio né una minima assistenza. Cultura a parte, sarebbe un buon investimento sul futuro. I politici tedeschi amano il Chianti e gli spaghetti, ma nessuno di loro parla italiano. Quando avvennero le nozze tra Unicredito e Hypovereinsbank, prima e dopo si parlò di tutto: dalle azioni agli utili, dalle strategie globali ai posti di lavoro. Si è parlato poco di come parlare: tedeschi e italiani messi insieme avevano creato la più forte banca di Germania, la quarta del continente, ma come si sarebbero intesi tra di loro? I dipendenti tedeschi, preoccupati di essere dominati dai milanesi, misero le mani avanti: almeno si parli come desideriamo noi. Come? Nella lingua di Goethe? Niente affatto: i tedeschi non sono arroganti e sciovinisti come i francesi, che vietano i termini stranieri. Parliamo inglese, proposero. E furono accontentati. Peccato. Queste nozze, oltre che alle finanze, avrebbero potuto far bene anche alla comprensione europea: tedeschi che parlano italiano e italiani che parlano tedesco. _____________________________________________ Il Sole24Ore 1 Mag. ’11 L'ANNO TORRIDO DI MARIE CURIE Cent'anni fa la grande scienziata si aggiudicò il suo secondo premio Nobel. Ma era anche al centro delle cronache rosa di Sylvie Coyaud E’ l'anno internazionale della chimica perché per celebrare il centenario del secondo premio Nobel che Marie Curie ricevette, da sola, dopo quello del 1903 condiviso con il marito Pierre e Henri Becquerel per la fisica e i lavori sulla radioattività. Il governo italiano ha decretato una pausa di riflessione sulle applicazioni delle sue ricerche, non su quella dei raggi X che lei applicò alla medicina durante la Prima guerra mondiale, per poi inventare, progettare e far costruire l'ambulanza radiologia; detta