RASSEGNA 13/03/2011 MELIS E MASTINO INCONTRANO FELMINI E FITTO CAGLIARI: ESAMI ANNULLATI,IL TAR DÀ RAGIONE ALL'UNIVERSITÀ AUMENTANO GLI ISCRITTI ALLE FACOLTÀ SCIENTIFICHE SARDE CONTI IN ROSSO PER LE UNIVERSITÀ SARDE COM'È DIFFICILE CAMBIARE L'UNIVERSITÀ CAGLIARI: SE LA SCIENZA NON È ROSA UNIVERSITÀ A DIETA, AL VIA LE FEDERAZIONI CONGEDI, STRETTA DELLA GELMINI CONCORSI, SI CAMBIA RIORGANIZZATI I SETTORI SCIENTIFICI RICERCATORI NON PIÙ IN CATTEDRA GRATIS UNIVERSITÀ: VIETATO L'ACCESSO AI NON RICCHI COME SI RIGENERA LO SPIRITO SCIENTIFICO NEOLAUREATI SENZA LAVORO: IL 16% RESTA DISOCCUPATO LAUREA IN CRISI STUDIARE SERVE SEMPRE DI MENO ANCORA POCHI I LAUREATI ITALIANI ECCO COME NON PERDERSI PER STRADA GLI UNIVERSITARI LAUREARSI SERVE SEMPRE (E SI GUADAGNA DI PIÙ) RAGAZZI, STUDIARE PAGA VE LO SPIEGO IN TRE MOSSE PIÙ QUALIFICATI MA MENO OCCUPATI QUELLE COMPETENZE DA CAMBIARE LE UNIVERSITÀ SI SVUOTANO E LA RIFORMA GELMINI NON C' ENTRA LAVORO: O I DELFINI O NIENTE LAUREE L’AFFOLLAMENTO DIVENTA CONTAGIOSO 5xMILLE:LA LUISS HA FATTO FLOP COME NON PERDERSI PER STRADA GLI UNIVERSITARI TREMONTI: IL SUD VERO LIMITE, BASTA RETORICA DEL DECLINO PIATTAFORME DIDATTICHE CURRICULUM «SGONFI» PER TROVARE LAVORO I NEOPIRATI INFORMATICI LIBERATORI DEL SAPERE O USURPATORI DI DIRITTI LA SOLITUDINE DIGITALE È UN PERICOLO SERIO IL RATTO NEL ROBOT FAGIN: L'UOMO DEI MICROPROCESSORI TRA 20 ANNI ROBOT PIÙ INTELLIGENTI DELL'UOMO RIPENSARE LA 554, IL PROGETTO C'È GIÀ IL VIADOTTO TRA MONSERRATO E SESTU ========================================================= LA CORTE DEI CONTI BACCHETTA IL POLICLINICO UN VOLUME PER CONOSCERE I FARMACI CHE NON FANNO MALE AI FABICI STOP ALLE AMBULANZE PRIVATE: SONO UN VERO E PROPRIO BUSINESS ANDI: RIVEDERE I TEST D'INGRESSO ORA SONO UN TEMO AL LOTTO» VINCE LA BATTAGLIA CONO I BARONI MA NON PUÒ ESSERE ASSUNTO INFERMIERI, NE SERVONO 37 MILA ECCO LA FIRMA GENETICA DEL DIABETE IL RISCALDAMENTO GLOBALE ACCELERA PRESBIOPIA E CATARATTA LA SPORCIZIA FA BENE AI BIMBI EVITA LO SVILUPPO DELL'ASMA NELLA MENTE DEL NATIVO (DIGITALE) E L'ALBA DELLA GENOMICA PERSONA TEMPI E COSTI IN CADUTA LIBERA UNA RICERCA SUL DNA L'UOMO HA PERDUTO LE SPINE DEL PENE IL CANCRO È SEMPRE PIÙ CURABILE IN ITALIA GRANDI PASSI AVANTI NELLE DIAGNOSI MIRATE» LA MALATA, CHE DIVENTÒ IMMORTALE COLON, TEST DNA PIÙ VICINO TUMORE AL SENO: INTERROMPENDO I SEGNALI C'È MENO PROGRESSIONE ARTRITE REUMATOIDE DOLORE E RIGIDITÀ COMPROMETTONO LA QUALITÀ DI VITA IL FEGATO? SI “PRODUCE” DALLA PLACENTA PRIMO PASSO VERSO STRATEGIE ALTERNATIVE AL TRAPIANTO MAMME LAVORATRICI, C'È IL TELELAVORO GLI OSPEDALI FERMINO LE DIMISSIONI AFFRETTATE PER TAGLIARE I COSTI DIMISSIONI DEL MALATO .REGOLE TROPPO RIGIDE TUBERCOLOSI: UNA PAURA ANTICA I MILLE INGEGNERI CLINICI CHE MANCANO SUL MERCATO PERCHÉ E COME LA TUBERCOLOSI SI È RIAFFACCIATA IN ITALIA QUANTE MEDICINE COMPRIAMO? MILIONI DI SCATOLE SENZA ETÀ LA GIOVINEZZA DILATATA: NON CONTA PIÙ L’ANAGRAFE SCOPERTO A SASSARI COME SI TRASMETTONO LE INFEZIONI VAGINALI IL DDL FAZIO "SPERIMENTAZIONE CLINICA E FSE ========================================================= _________________________________________ Sassari Notizie 10 Mar.’11 MELIS E MASTINO INCONTRANO FELMINI E FITTO Si è svolto ieri a Roma un incontro tra i rettori degli atenei del Sud e i ministri Mariastella Gelmini e Raffaele Fitto. Il rettore dell'Università di Sassari, Attilio Mastino, nel corso del suo intervento ha posto all'attenzione dei due ministri il tema delle Università sarde nei tempi di un federalismo che rischia di essere poco solidale e ha parlato della necessità di un accordo federativo tra i due Atenei dell'Isola. «È necessario recuperare i Fondi FAS a favore delle Università della Sardegna - ha aggiunto il rettore Mastino anche a nome del rettore Melis - che non sono stati spesi non certo per responsabilità degli Atenei. Per Cagliari sono necessarie le risorse per il completamento del complesso di Monserrato. Per Sassari, in particolare, erano disponibili da oltre due anni i fondi per la facoltà di Medicina e Chirurgia e per l'Aou: oltre 50 milioni per il nuovo ospedale. Servono 20 milioni anche per il terzo lotto del complesso bionaturalistico di Piandanna e 50 milioni per il polo agro veterinario, da rimodulare a favore dell’Ateneo. Le Università di Sassari, Napoli e Messina dovranno inoltre difendere le facoltà di Medicina veterinaria sottoposte a breve a una decisiva valutazione della Commissione europea». Sugli esiti della riunione, il ministro Gelmini ha diffuso il seguente comunicato: «Il ministro dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini e il ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, hanno incontrato ieri i rettori di tutte le università del Mezzogiorno. L’obiettivo dell’incontro è stato l’approfondimento delle questioni legate all'attuazione della riforma universitaria e del Piano Nazionale per il Sud. Nel corso della riunione sono state affrontate le criticità specifiche del sistema universitario meridionale per comprendere meglio come queste possano essere affrontate sfruttando appieno le opportunità che deriveranno dall'attuazione della riforma. I ministri hanno illustrato i contenuti del Piano nazionale per il Sud per la ricerca e l'innovazione. Ai rettori è stato richiesto un contributo di proposte da inserire in un Contratto Istituzionale di Sviluppo per realizzare una sinergia virtuosa tra governo centrale, Regioni e sistema universitario. Il ministro Gelmini e il ministro Fitto hanno espresso un giudizio ampiamente positivo sui contenuti della riunione e sul generale apprezzamento dell'iniziativa manifestato dai rettori». _________________________________________ L’Unione Sarda 11 Mar.’11 CAGLIARI: ESAMI ANNULLATI, IL TAR DÀ RAGIONE ALL'UNIVERSITÀ I giudici: «Legittimo dare una scadenza a corsi di laurea ormai obsoleti» LA SENTENZA. Respinto il ricorso presentato da 256 studenti contro il nuovo regolamento sulle carriere Lo avevano decretato gli organi universitari, lo ha confermato il Tar: se non danno esami, gli studenti fuoricorso potranno decadere, vedendosi annullare anche le prove che avevano già sostenuto. I giudici della prima sezione del Tar Sardegna hanno respinto il ricorso presentato dai 256 universitari che chiedevano l'annullamento del regolamento sulle carriere amministrative degli studenti, varato di recente dall'ateneo cagliaritano. Assieme a Pierpaolo Batzella, primo firmatario del ricorso, un piccolo esercito di studenti si era rivolto agli avvocati Carlo Tack, Mauro Barberio e Stefano Porcu, contestando la nuova norma che prevedeva la decadenza degli esami anche in forma retroattiva. Ieri il collegio della prima sezione presieduto da Aldo Ravalli (assistito da Alessandro Maggio e Gianluca Rovelli) ha definitivamente respinto il ricorso, dando ragione al Rettore che aveva firmato il decreto il 28 maggio 2010, emanando il nuovo regolamento. «Nel merito il ricorso è infondato», scrivono i giudici nella sentenza depositata ieri in segreteria. «La pretesa dedotta in giudizio è, in sostanza, quella di mantenere senza termine finale (perché di questo trattasi) una serie di corsi di laurea che sono invece, come è fisiologico, ad esaurimento. Seguendo il ragionamento, pur brillantemente esposto dalla difesa dei ricorrenti, tali corsi dovrebbero essere mantenuti in vita fino al termine che scaturirebbe dalla volontà dei singoli studenti di ultimare gli stessi. Ciò», aggiungono i giudici amministrativi, «porterebbe all'assurdo risultato di mantenere in vita corsi completamente obsoleti e non più rispondenti alle attuali esigenze didattiche». E sul richiamo al diritto allo studio sancito dalla Costituzione, il Tar è lapidario: si tratta del «diritto di ognuno a ricevere un'adeguata istruzione indipendentemente dalle sue condizioni economiche e sociali. Non vi è alcuna negazione di tali principi nella volontà di razionalizzare una situazione negativa venutasi a creare per l'eccessivo protrarsi di corsi di laurea non più rispondenti alle attuali esigenze». I giudici amministrativi riconoscono all'Università il diritto a porre un limite temporale «dettando congrue disposizioni transitorie» agli studenti che dopo molti anni dall'iscrizione e dopo l'introduzione di nuovi corsi, si trovano a non avere ancora ultimato il loro percorso di studi. «Le pur rispettabili vicende personali di ogni studente», conclude la sentenza, «che possono avere negativamente influito sulla possibilità di concludere il corso di laurea, non possono incidere sulla complessiva organizzazione dell'Università». Le norme transitorie inserite nel regolamento, d'altronde, «consentono con ampio spazio la possibilità di passare ad altro corso di studi o, ancor meglio, di ultimare il proprio». Ragion per cui: il ricorso è stato respinto. FRANCESCO PINNA _________________________________________ L’Unione Sarda 11 Mar.’11 AUMENTANO GLI ISCRITTI ALLE FACOLTÀ SCIENTIFICHE SARDE UNIVERSITÀ. Accordo sui giochi di matematica Studenti sardi all'assalto dei Campionati internazionali di giochi matematici. In provincia di Cagliari saranno quasi duemila gli universitari e i ragazzi delle medie e delle superiori che il 19 marzo si confronteranno alla Cittadella di Monserrato. Parallelamente a Sassari si cimenteranno nei test altri mille giovani. La finale nazionale si disputerà il 14 maggio a Milano sotto l'egida dell'Università Bocconi e i più bravi entreranno a far parte della rappresentativa azzurra che a fine agosto volerà a Parigi per la finalissima mondiale. I dettagli dell'edizione 2011 della competizione sono stati illustrati ieri mattina in Rettorato, dal rettore, Giovanni Melis, affiancato dalla direttrice del Crsem (Centro di ricerca e sperimentazione per l'educazione matematica), Maria Polo, dal responsabile del Comitato Scuola Città, Mario Rocca, e dal direttore dell'Ufficio scolastico regionale, Enrico Tocco. I rappresentanti dei quattro enti hanno siglato un protocollo d'intesa che li impegna a operare in sinergia per divulgare la cultura matematica e incentivare l'accesso alle facoltà scientifiche. Tra le finalità, anche il miglioramento dell'apprendimento della matematica attraverso il gioco. «Negli ultimi anni», spiegano Polo e Rocca, «il numero dei partecipanti sardi è aumentato ed è migliorata la loro preparazione, col risultato che l'Isola ha ottenuto piazzamenti di tutto rispetto». Soddisfatto il rettore Melis che ha rivelato come quest'anno le immatricolazioni nelle facoltà scientifiche siano passate da 342 a 477, «anche grazie a iniziative come questa che accrescono l'interesse dei giovani verso la matematica». ( p. l. ) _________________________________________ La Nuova Sardegna 5 Mar.’11 CONTI IN ROSSO PER LE UNIVERSITÀ SARDE Il caso di Alghero e delle facoltà gemmate CAGLIARI. Le università sarde hanno l’urgenza di recuperare poco più di dodici milioni di euro per evitare di finire nel gruppo degli atenei «non virtuosi». È quanto hanno sostenuto ieri i rettori di Cagliari, Giovanni Melis, e Sassari, Attilio Mastino, sentiti dalla Commissione Bilancio del Consiglio, presieduta da Paolo Maninchedda. Le difficoltà sono enormi - hanno spiegato Melis e Mastino alla commissione che sta esaminando il disegno di legge collegato alla finanziaria - perché le risorse ministeriali arrivano in base a parametri di competitività che penalizzano le università «generaliste» e non specializzate del Sud e delle isole.  «Siamo costretti», ha affermato Melis, «a un fortissimo programma di riorganizzazione e di ridimensionamento, da 11 a 5-6 facoltà, da 44 a 18-20 dipartimenti, da 115 a una novantina di corsi». Mastino ha aggiunto che senza i 6,2 milioni del Fondo regionale per le università, Sassari avrebbe subìto il blocco delle assunzioni e il taglio del 10% dei finanziamenti ordinari. «E adesso», ha affermato Mastino, «nonostante le buone prestazioni, le prospettive sono terrificanti. Senza l’aiuto dalla Regione, insieme all’aumento delle tasse e al risanamento del bilancio, non avremo la possibilità di restare autonomi. È un momento di passaggio. Sono convinto che dal prossimo anno i condizionamenti cadranno e allora potremo agire per rilanciare le università sarde». Sono stati segnalati i ritardi nel versamento dei finanziamenti perché alla fine dell’anno scorso avevano ricevuto il saldo del 2009 e ancora aspettano l’acconto del 2010. Parallelamente i rettori hanno sollecitato fondi pubblici per adeguare le infrastrutture edilizie e tecnologiche. Al riguardo, Maninchedda ha fatto presente la necessità di attendere il recupero dei residui da riprogrammare con l’assestamento di Bilancio.  Alla domanda del capogruppo Pd Mario Bruno sul futuro dell’università decentrata, il rettore di Cagliari, Melis, ha spiegato che attualmente, in base alla legge Gelmini, non si possono attivare nuovi corsi di laurea: «Lavoriamo, però, per cercare altre forme di intervento, come i master o le scuole di perfezionamento». Mastino ha affermato: «Difenderemo con le unghie le sedi gemmate dove l’attività è in corso». Infine il caso della facoltà di Architettura di Alghero che - come ha ricordato il presidente del gruppo Misto Franco Cuccureddu - «è una eccellenza in Italia». Mastino ha risposto che, in base ai vincoli sul numero dei docenti, si trasformerà in un dipartimento: «Potrà restare Facoltà nel caso si crei un raccordo con un dipartimento straniero. Ma questo è un punto interrogativo». (a.f.) _________________________________________ L’Unione Sarda 04 Mar.’11 COM'È DIFFICILE CAMBIARE L'UNIVERSITÀ di Gaetano Di Chiara Gli ostacoli alla Riforma Gelmini L'Università di Cagliari, come le altre università italiane, è alle prese con la Riforma Gelmini, una riforma indigesta per coloro, molti in verità, che temono di perdere le rendite di posizione di cui avevano ususfruito con l'attuale ordinamento e che la Riforma, almeno nel suo spirito, intende eliminare. L'attuazione della Riforma Gelmini non sarà facile per la difficoltà di una larga parte dell'università italiana a modificare un assetto consolidato ma ormai inadeguato all'attuale condizione culturale e socio-economica. La Riforma infatti, toglie alle Facoltà il compito di fornire e reclutare i docenti per ricoprire gli insegnamenti dei vari corsi di laurea, trasferendo questa funzione direttamente ai docenti di ciascuna disciplina riuniti in uno stesso dipartimento. Riuscire a far rientrare in uno stesso dipartimento tutti i docenti di una stessa disciplina non sarà facile, dato che nell'ordinamento attuale quei docenti sono stati "separati in casa", distribuiti nelle varie facoltà, vere e proprie riserve, dove agisce un principio di selezione del tutto artificiale rispetto a quello naturale. Le facoltà hanno infatti creato un ambiente nel quale le varie discipline si sono sviluppate in maniera non necessariamente corrispondente alle esigenze della didattica e della preparazione professionale dei laureati di quella Facoltà. Così è successo che discipline non caratterizzanti per i corsi di laurea o discipline storiche ma ormai prive di importanza per la professione dei laureati, abbiano acquisito o mantenuto, grazie alla Facoltà, una supremazia, sia come numero di docenti che di materie presenti nell'ordinamento degli studi. Viceversa, discipline assolutamente essenziali per una moderna preparazione professionale e scientifica, hanno avuto uno sviluppo del tutto inadeguato. Le Facoltà, da motori dello sviluppo delle università, sono così diventate un impedimento alla sua evoluzione. La Riforma Gelmini dovrebbe invertire questa deriva involutiva, semplificando e rendendo più efficente la distribuzione dei docenti tra i vari corsi e il loro reclutamento, cioè, la formazione e l'assunzione di nuovi docenti. Siamo ben consci che, per molti docenti, non sarà facile abbandonare i vecchi schemi e uscire allo scoperto, fuori dalle facoltà, privi del loro scudo protettivo. Ma se le facoltà spariranno, la nuova governance imposta dalla Riforma renderà possibile l'attuazione di un meccanismo virtuoso che premierà la ricerca di eccellenza, responsabilizzando i docenti nella scelta dei ricercatori da avviare alla carriera universitaria. Infatti, dato che, secondo la Riforma Gelmini, i dipartimenti riceveranno una quota dei fondi statali sulla base della loro produttività in ricerca, sarà interesse di tutti i docenti di uno stesso dipartimento che il reclutamento dei giovani ricercatori avvenga sulla base del merito e della capacità di produrre ricerca ad alto livello. Ci vorrà un po' di tempo, almeno una generazione, prima che i benefici di questa riforma si faranno sentire. Perciò, non saranno i docenti attuali ad avvantaggiarsene, ma i giovani. _________________________________________ La Nuova Sardegna 11 Mar.’11 CAGLIARI: SE LA SCIENZA NON È ROSA Una ricerca Cird: ragazze migliori dei maschi ma non si iscrivono alle facoltà tecniche BETTINA CAMEDDA CAGLIARI. Oltre due terzi dei laureati dell’Ateneo cagliaritano sono femmine. Tuttavia persistono i fenomeni di segregazione di genere che si riflettono sul posto di lavoro. Una delle principali cause è l’orientamento agli studi. È ancora limitato il numero di ragazze che si iscrivono a facoltà scientifiche dove è maggiore la richiesta di lavoro. Ad esempio: la facoltà di Ingegneria viene scelta dal 25,4 per cento dei maschi e dall’11,5 per cento delle ragazze. Sono dati emersi dalla ricerca svolta dal Cird, condotta su un campione di 1035 studenti delle quinte classi di 18 scuole della provincia. Una ricerca presentata ieri all’Istituto “Eleonora d’Arborea” e promossa dalla Consigliera di Parità della Provincia, Tonina Dedoni, in collaborazione con Maria Rosaria Maiorano dell’Ufficio Scolastico Provinciale. Una giornata di studio per discutere e confrontarsi sul tema delle “Pari opportunità nell’educazione e nel lavoro” a partire dal difficile processo di transizione scuola-università e l’orientamento verso le facoltà scientifiche. «La ricerca ha dimostrato che le ragazze studiano di più, ottengono maggiori risultati ma hanno difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro perché spesso la loro preparazione è legata a professioni che oggi sono meno richieste dal mercato. Frequentano meno facoltà scientifiche - spiega la Dedoni - Sono scelte che derivano da stereotipi e da condizionamenti familiari. Ancora oggi certe professioni sembrano riservate alle donne ed altre agli uomini. Per abbattere gli stereotipi è importante costruire un ponte tra scuola e università». __________________________________________________ Italia Oggi 1 mar. ’11 UNIVERSITÀ A DIETA, AL VIA LE FEDERAZIONI Gli atenei decidono di unire le forze DI BENEDETTA PACELLI Da un'università in ogni campanile a un solo mega-ateneo per più campanili. La cura dimagrante Gelmini-Tremonti non solo ha inciso su una decisa e progressiva sforbiciata dell'offerta formativa, ma anche delle sedi. E se in alcuni casi è stato sufficiente chiudere quelle distaccate, in altre i rettori hanno deciso di operare accorpamenti o meglio federazioni improntate per lo più a mere ragioni di budget. Via, dunque, al primo piano di snellimento del sistema accademico territoriale. A farlo per prime in via ufficiale sono state le sette università campane (Federico II, Seconda università degli studi di Napoli, L'Orientale, la Parthenope, Salerno, Sannio, Suor Orsola Benincasa) che hanno appena firmato un accordo di programma con il ministero dell'istruzione, università e ricerca per favorire il coordinamento tra gli atenei della regione. L'obiettivo? Razionalizzare l'offerta formativa e ottimizzare l'utilizzo di strutture e risorse. Il Piano sarà operativo dal 2011/2012 e avrà una durata di cinque anni In questo arco di tempo, quindi, si andrà verso un'azione di contenimento dei corsi doppione, disattivandone per esempio 34 per coordinare le offerte didattiche tra diversi atenei e chiudendo 6 sedi decentrate, si promuoveranno percorsi di studio che prevedano l'interazione fra atenei, si rivedranno i dottorati. Ma non solo le università campane perché qualcosa di simile sta avvenendo in altri sei atenei del sud. Bari, Salento, Foggia, Basilicata e Molise e Politecnico di Bari hanno infatti iniziato un progetto federativo che punta ai medesimi obiettivi: migliorare i servizi e le offerte didattiche. Il primo protocollo d'intesa risale allo scorso giugno: da ora prende avvio la riorganizzazione delle amministrazioni di tutte le università aderenti. E a muoversi verso un modello simile anche gli atenei del Veneto: l'università Cà Foscari e Iuav di Venezia, di Padova e di Verona hanno allo studio un progetto simile __________________________________________________ Italia Oggi 1 mar. ’11 CONGEDI, STRETTA DELLA GELMINI Salta la proroga al personale che deve discutere la tesi DI FRANCO BASTIANINI Nuovo intervento ministeriale in tema di disciplina giuridica ed economica relativa alle borse di studio e al dottorato di ricerca nelle università fruite dal personale della scuola. Riguarda chi è in servizio sia con contratto a tempo indeterminato che a tempo determinato e che chiede, a tal fine, di fruire del congedo straordinario previsto dalla normativa vigente La materia era già disciplinata dalla circolare ministeriale n. 120/2002 con la quale erano stati evidenziati alcuni precetti fondamentali quali: la concessione del congedo straordinario non è subordinata all'effettuazione dell'anno di prova, mentre la richiesta di congedo non è commisurata a mesi o ad un anno, ma all'intera durata deì dottorato; il periodo di congedo straordinario è utile ai fini della progressione di carriera, del trattamento di quiescenza e di previdenza. Una serie di chiarimenti, con riferimento alla proroga del congedo oltre l'effettiva durata del corso (che ora è vietata); ai dottorati di ricerca indetti da università straniere; congedi al personale cono nomina a tempo determinato e alla ripetizione degli stipendi percepiti, oltre ai limiti esistenti per l'autorizzazione alla frequenza dei dottorati, vengono ora forniti dal ministero dell'istruzione con la circolare n. 15 del 22 febbraio 2011. Con riferimento alla possibilità di prorogare il congedo oltre l'effettiva durata del corso (per la preparazione e la discussione della tesi), la nota ministeriale precisa che tale proroga non è consentita, anche in considerazione dell'aggravio di spesa che ne deriverebbe. Quanto al congedo da riconoscere al personale con nomina annuale o fino al termine delle attività didattiche, viene chiarito che nei confronti di tale personale il congedo è limitato alla durata del rapporto di lavoro ed è concesso secondo le disposizioni in materia di ferie, permessi ed assenze stabilite la contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto scuola in vigore.Importante è, invece, la precisazione che le predette disposizioni esplicano la propria validità sotto il profilo giuridico ma non sotto quello economico. Si esclude, pertanto, la conservazione (come avviene per il personale di ruolo) della retribuzione durante il periodo di frequenza del dottorato. Un ulteriore chiarimento, anche questo di notevole rilevanza, è quello relativo alla interpretazione dell'ultimo periodo del comma 52, art. 52, della legge 448/2001. Il comma, come è noto, dispone che qualora, dopo il conseguimento del dottorato di ricerca, il rapporto di lavoro con l'amministrazione pubblica cessi per volontà del dipendente nei due anni successivi, è dovuta la ripetizione degli importi stipendiali liquidati per la durata del periodo di dottorato di ricerca. La circolare n. 15 precisa, infatti, che il termine amministrazione pubblica deve essere riferito alla pubblica amministrazione in generale, per cui la ripetizione degli emolumenti percepiti dalla scuola è dovuta se il dipendente cessi volontariamente dal rapporto intrattenuto con la scuola( ad es. dimissioni volontarie o per assumere servizio in altro ente non rientrante nell'ambito di qualsiasi pubblica amministrazione). __________________________________________________ Italia Oggi 12 mar. ’11 CONCORSI, SI CAMBIA RIORGANIZZATI I SETTORI SCIENTIFICI UNIVERSITÀ/Arriva il secondo dm attuativo della riforma DI BENEDETTA PACELLI Un altro tassello si aggiunge alla riforma dell'università. È quello di revisione dei settori scientifico-disciplinari Che saranno raggruppamenti per materia simili in macroaree. Ciò al fine di aggregare più docenti chiamati a valutare gli aspiranti alla cattedra. La nuova disciplina è contenuta in una bozza di decreto ministeriale, di attuazione della legge 240/10, che ItaliaOggi è in grado di anticipare e che rappresenta il secondo passaggio delle regole per salire in cattedra. Dopo il primo dei provvedimenti attuativi (si veda IO del 19/1/2011) relativo alle procedure per conseguire l'abilitazione manca, infatti, sta per arrivare il secondo dm in commento. E ne arriverà un terzo (solo per il capitolo reclutamento) con i parametri di produzione scientifica per presentarsi ai concorsi da ricercatore e gli indicatori di qualità per accedere ai ruoli della docenza. Nel progetto di revisione la classificazione del sapere e, quindi, dei docenti sarà praticamente dimezzata. Una sforbiciata che, secondo le intenzioni ministeriali, dovrebbe non solo eliminare quei settori che non possono in generale costituire comunità scientifiche autosufficienti, ma anche puntare a evitare che cordate ristrette abbiano troppo potere. Dai 370 attuali settori scientifico disciplinari si arriverà quindi a circa 190 settori concorsuali con 50 macrosettori. In sostanza d'ora in poi i concorsi per conseguire l'abilitazione nazionale si terranno in determinati «settori concorsuali», ognuno dei quali dovrà garantire un minimo di 30 ordinari per costituirsi come settore concorsuale e avere una totale autonomia nella composizione delle commissioni. Chi non raggiungerà questa numerosità sarà costretto ad aggregarsi ad altri settori oppure a partecipare nelle commissioni all'interno del macrosettore. La verifica della numerosità sarà effettuata ogni anno, 60 giorni prima che il ministero dell'università bandisce il concorso nazionale per l'abilitazione. Il tutto servirà non solo a garantire congruità tra le esigenze didattiche e di ricerca, ma anche ad allargare la platea di giudici e di giudicati in sede concorsuale, sia per il reclutamento che per le progressioni di carriera. Una quadratura del cerchio non facile per gli atenei visto che il mondo accademico è composto di settori scientifico-disciplinari privi di professori associati, o addirittura di ordinari e di ricercatori che, come è ovvio, non possono essere valutati, così come settori più numerosi composti però non solo da professori ordinari ma da cosiddetti docenti straordinari, vincitori di concorso ma in attesa per tre anni di conferma. Ogni docente che, per motivi di interessi di ricerca, vuole cambiare settore scientifico disciplinare lo può fare, non prima però di avere avuto il via libera del Cun. Per i settori concorsuali per i quali è prevista «la corrispondenza univoca con i settori scientifico- disciplinari, il rettore provvede all'inquadramento dei professori di I fascia nei settori concorsuali con appositi decreti ricognitivi». Per i settori concorsuali per i quali invece la corrispondenza non è univoca l'inquadramento è disposto a domanda dell'interessato da presentare al rettore. __________________________________________________ Avvenire 10 mar. ’11 RICERCATORI NON PIÙ IN CATTEDRA GRATIS la svolta decisa dalla Sapienza di Roma MILANO. Basta didattica gratis a carico degli assegnisti di ricerca dell'università Sapienza di Roma. Come reso noto ieri da un comunicato dell'Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani), il Senato accademico dell'ateneo capitolino ha deciso di abolire un comma del regolamento interno che "permetteva" agli assegnisti di ricerca di "fare richiesta" di assegnazione di incarichi di didattica integrativa a titolo gratuito. Il risultato di questo cambiamento, si legge nella nota dell'Adi, è che «gli assegnisti di ricerca della più grande università italiana potranno finalmente compiere appieno il loro dovere, dedicandosi alle attività di ricerca». Inoltre, prosegue il comunicato, «se la Sapienza avrà bisogno del contributo degli assegnisti per completare l'offerta formativa dovrà stipulare con loro dei contratti per la didattica che prevedono una retribuzione». Un cambiamento importante e, secondo l'Adi, un «precedente di vitale importanza per il mondo del precariato, che potrebbe cambiarne le sorti a livello nazionale». Come spiega, a riguardo, Francesco Vitucci, segretario di Adi Roma: «Un primo importante passo è stato dunque compiuto per limitare lo sfruttamento e per tutelare alcune delle figure più deboli nella piramide del potere accademico». (P. Fer.) Esulta l'Adi: «Svolta storica. Si limita lo sfruttamento di una categoria debole» __________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 13 mar. ’11 UNIVERSITÀ: VIETATO L'ACCESSO AI NON RICCHI A FURIA DI TAGLI, LAUREARSI RISCHIA DI DIVENTARE UN PRIVILEGIO PER POCHI. STASERA SU RAITRE, A "PRESA DIRETTA" di Riccardo lacona I dati ufficiali sono stati resi pubblici pochi giorni fa e ci dicono che per la prima volta in Italia diminuiscono gli iscritti alle università pubbliche, del 9 per cento, mentre aumentano le immatricolazioni agli atenei privati, più 2 per cento. Ed è una pessima notizia, perché meno studenti significa meno laureati, in un paese che già ne ha pochi rispetto alla media europea. CERTO , pesa la crisi economica, oggi infatti costa migliaia di curo all'anno mantenere un figlio all'università. Ma dietro questi dati c'è anche la sfiducia delle famiglie nella possibilità di migliorare la propria posizione sociale grazie agli studi. E qual è la strategia del governo? Tagli, tagli e ancora tagli. Quest'anno le università pubbliche riceveranno dallo Stato 700 milioni di curo in meno rispetto all'anno scorso e questa sera vi faremo vedere da vicino cosa significa: accorpamento dei corsi, aule strapiene perché non ci sono i soldi per pagare i docenti, laboratori di ricerca fermi perché mancano persino i materiali di consumo, centinaia di studenti che si accalcano nei corridoi e nelle aule per sostenere gli esami, aule di informatica chiuse perché non ci sono fondi per pagare i "tutor" che dovrebbero tenerle aperte e aule che rimangono chiuse semplicemente perché non sono a norma, tanto per portare un esempio, questa è la situazione del 50 per cento delle aule di Medicina dell'università pubblica di Torino, mancano infatti i soldi per rimetterle a posto. Il governo ha tagliato persino i fondi per il diritto allo studio, quest'anno il segno meno vale 62 milioni di curo, tutti soldi che sarebbero serviti a mantenere agli studi gli studenti più meritevoli, ma socialmente sfavoriti. E già sono a rischio in Piemonte cinque mila borse di studio per il prossimo anno, cinque mila tra ragazze e ragazzi che rischiano di non laurearsi. E LA RIFORMA Gelmini? Tante affermazioni di principio e di buoni intenti, ma come si dovranno realizzare concretamente ancora nessuno lo sa. Per entrare in vigore, infatti, la legge ha bisogno di ben 47 decreti attuativi. Abbiamo provato a chiederlo direttamente al ministero e... non ci hanno neanche risposto, mentre tutto il mondo accademico è letteralmente terrorizzato dalla vera e propria valanga di regole, regolette e provvedimenti che stanno per abbattersi sulla vita già difficile delle università pubbliche italiane. Una riforma a costo zero, una scatola vuota, che non ha avuto neanche il coraggio di chiudere le tante università inutili che pure sono sorte come funghi negli ultimi anni, altro che lotta ai "baroni" e appelli alla "meritocrazia"! Eppure, come vi faremo vedere stasera, il nostro futuro, sta lì, dentro le università, tra i professori, i ricercatori e gli studenti che da mesi sono in mobilitazione, gli stessi che ieri a centinaia di migliaia hanno riempito tutte le piazze di Italia per difendere il bene comune, il diritto all'istruzione sancito dalla Costituzione. Ma questa sera vi porteremo anche dentro il nuovo scandalo che ha scosso Roma e la sua classe politica e vi faremo vedere la casa comprata da Gabriele Visco, il figlio dell'ex ministro Vincenzo Visco, 900 e passa milioni di curo per 150 metri quadri nel cuore della capitale: è stato favorito, come sostengono gli uomini di Alemanno e le campagne dei giornali della destra? Insomma che cosa c'è dietro la nuova "affittopoli" romana? Grazie e a stasera. __________________________________________________ Il Sole24Ore 13 mar. ’11 COME SI RIGENERA LO SPIRITO SCIENTIFICO Incontro con i giovani di quattro città sulle modalità delle scoperte biomediche e sui valori della conoscenza e della democrazia. Ignoranza madre della ciarlataneria e dei viaggi della speranza L'eccessiva enfasi sulle applicazioni fa perdere di vista il ruolo decisivo della conoscenza «pura» nelle società avanzate Ai ragazzi non si insegna il ruolo degli esperimenti clinici per capire l'efficacia dei trattamenti terapeutici di Elena Cattaneo e Gilberto Corbellini La ricerca sulle cellule staminali è un'occasione per parlare di scienza ai giovani. Un soggetto di grande interesse da cui prende vita un incontro preparato da docenti di quattro Università in collaborazione con professori delle scuole superiori e con esperti di comunicazione. Si tratta di un evento per ricordare l'impegno civile - anche se non sempre adeguatamente apprezzato e valorizzato - degli scienziati, attraverso il loro lavoro ordinario. Insieme ovviamente a ingegneri, medici, insegnanti e tanti altri la cui attività consiste nell'utilizzare o insegnare i metodi della scienza e le possibilità delle tecnologie per migliorare le condizioni umane. Un incontro per suggerire di intraprendere anche da noi la strada del «capire per decidere consapevolmente», verso quale futuro andare. Un'opzione che forse non è stata sempre praticata nell'Italia degli ultimi 150 anni. La ricorrenza celebrativa assegna, all'iniziativa, la funzione di ricordare a tutti che «i progressi della Scienza e della Società», attraverso l'educazione a un senso civico laicamente connotato, sono fattori di unificazione. Per cui il sentimento stesso dell'unità del paese, potrebbe riprendere forza propulsiva da una intensificazione del dialogo tra scienza e società. Se oggi e nel passato - a volte - hanno prevalso in Italia chiusure culturali e localistiche (più volte stigmatizzate dagli intellettuali umanisti), forse, è il caso di chiederci se questo non sia stato anche a causa dello scarso interesse politico per gli investimenti nella formazione e nella ricerca scientifica. Uno scenario alla cui realizzazione hanno concorso tutte le forze politiche, e che ha determinato uno sviluppo profondamente disomogeneo della scienza italiana, che la penalizza a livello internazionale. In questo senso, l'iniziativa a cui abbiamo dato vita vuole stimolare la realizzazione di ripetute occasioni d'incontro tra studenti e docenti delle scuole superiori, e ricercatori e docenti universitari, per provare a suscitare e a tener vivo l'entusiasmo e la volontà di costruire un futuro sociale e culturale più ricco. Dunque, staminali come motivo per parlare di scienza. Ragazzi e docenti potranno esaminare e confrontare con specialisti le loro attese e curiosità. Si discuterà dell'enfasi eccessiva rispetto alla ricerca scientifica cosiddetta «applicata». Senza che sia ben chiaro come si debba procedere nelle applicazioni, nei diversi campi, in modo da non creare problemi o peggio, danni. Gli incontri preparatori hanno mostrato che i ragazzi non sanno che per stabilire l'efficacia di un trattamento terapeutico, da mezzo secolo circa, si devono fare degli "esperimenti" clinici. E ancor meno hanno chiaro che esistono delle procedure internazionalmente standardizzate per garantire l'eticità e la qualità della sperimentazione clinica. Si può aggiungere che anche a livello politico questa consapevolezza, soprattutto in tema staminali, stenta a farsi strada. Un aspetto da comprendere è, infatti che, quando qualcuno afferma di poter curare o diagnosticare meglio e con minor rischi di altri una malattia (ma anche se vuole intraprendere un'attività produttiva o di ricerca più promettente), deve poterlo dimostrare empiricamente. Non si può solo «dichiararlo e pretendere d'esser creduti sulla fiducia». Così si procedeva quando la medicina non aveva una base scientifica e abusava sperimentalmente dei pazienti, soprattutto a causa della diffusa credulità e ignoranza. Né, da quando l'etica medica ha superato i limiti del paternalismo, si può consentire che chiunque faccia esperimenti con qualunque preparato. Prima, deve dimostrare su modelli animali o in vitro che il trattamento che si propone non causa danni e promette di essere efficace. Quando si illustra ai giovani come si deve procedere per stabilire l'efficacia di una terapia, e a quali vincoli etici si deve attenere il medico, risulta loro subito chiaro la natura immorale del "turismo delle staminali". Cioè dei viaggi della speranza, che alcune famiglie occidentali compiono in paesi dove non ci sono controlli istituzionali sulla qualità delle prestazioni sanitarie, per far somministrare (al costo di decine di migliaia di euro) miscugli di staminali adulte (o pseudo tali), dietro la promessa propagandistica che tal trattamento guarirà un loro congiunto da una grave malattia degenerativa. I giovani che abbiamo incontrato sono colpiti anche dal fatto che in tutti i paesi democraticamente più avanzati, il peso politico- culturale della comunità scientifica è superiore rispetto a quanto non sia in Italia. E non trovano pretestuoso, come certi politici, ragionare sull'ipotesi che potrebbe non essere un caso che i paesi che stanno al di sopra di una certa soglia di investimenti in ricerca e sviluppo, e dove la comunità scientifica è più libera e influente, sono anche quelli che crescono di più economicamente. Non solo. Sono anche quelli dove i livelli di corruzione sono minori, c'è più libertà economica e libertà di stampa e, guarda un po', c'è anche più fiducia nella democrazia e in chi l'amministra. Quando discutono con gli scienziati, spesso i politici li liquidano dicendo che «la scienza è fallibile». Come se si trattasse di un limite. In realtà, se avessero almeno sentito parlare di Popper, saprebbero che la scienza è l'unica attività conoscitiva umana che avanza perché è possibile confutare empiricamente quello che viene sostenuto. In questo senso è di gran lunga più affidabile della politica, della letteratura o della religione. L'auspicio è che le giovani e future generazioni tornino a capirlo presto, come lo compresero le generazioni di scienziati e politici che secoli addietro hanno creato le condizioni per raggiungere un benessere che non era mai esistito prima. __________________________________________________ Il Sole24Ore 8 mar. ’11 NEOLAUREATI SENZA LAVORO: IL 16% RESTA DISOCCUPATO Gianni Trovati Aumenta ancora il tasso di disoccupazione ma a ritmi più lenti rispetto al 2009: in crescita contratti flessibili e posti in nero A volerli cercare, i dati meno negativi si nascondono nel confronto con il passato recente: il tasso di disoccupazione iniziale dei laureati cresce ancora, ma con una dinanica più morbida rispetto all'anno scorso, e i redditi di chi ha appena debuttato nel mondo del lavoro hanno subito un'altra limatura, meno pesante rispetto a quella registrata 12 mesi fa. Il cuore della 13esima indagine sulla condizione occupazionale dei laureati, il consorzio interuniversitario che monitora ormai il 77% dei laureati italiani, è qui; i numeri disegnano un'uscita dalla gelata dell'economia che per chi ha un titolo di dottore si prospetta lunga, ma con qualche chance in più rispetto a chi una laurea nel curriculum non ce l'ha: l'occupazione dei diplomati si ferma infatti n punti sotto, e in busta paga la differenza media viaggia ancora intorno al 55 per cento. «I problemi sono due», ragiona Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea: «Nei finanziamenti a università, lo 0,88% del Pil, facciamo meglio nell'Ocse solo di Ungheria e Repubblica Slovacca, e in quelli a ricerca e sviluppo siamo ultimi tra i paesi europei più avanzati. In questo quadro i giovani laureati italiani sono ancora un numero modesto, ma sono poco appetibili per il mercato del lavoro: le difficoltà di incontro fra domanda e offerta di occupazione acuiscono il problema». Sul punto, i dati di AlmaLaurea possono addirittura consegnare una fotografia un po' più "ottimista" del reale, perché più di un'indagine ormai conferma il ruolo delle banche dati dei curricula come acceleratore dell'occupazione. I numeri, comunque, non nascondono le difficoltà: a un anno dalla tesi, l'anno scorso ha trovato lavoro il 71,4% dei laureati triennali che non hanno proseguito gli studi, e il 55,7% degli specialistici (nelle magistrali a ciclo unico come medicina e architettura il dato scende al 37,1%). Il dato chiave è il confronto con i due anni precedenti: in tutti i livelli il tasso di occupazione ha lasciato sul terreno in due anni tra il 6 e 1'8,5%, ma la caduta ha quasi sempre ridotto il ritmo nell'ultimo anno. Non deve ingannare, invece, il raffronto tra lauree triennali e quinquennali, perché chi ha un titolo speciali-stico spesso imbocca strade diverse (tirocini, praticantati, dottorati) che abbassano il dato sull'occupazione «tradizionale». In modo speculare, continua la crescita della disoccupazione, a ritmi più lenti che in passato: in un anno la ricerca di lavoro è stata vana per i116% dei laureati triennali (+1%, contro il +4% dell'indagine 2010), il 18% degli specialistici (+2%; era +5% l'anno prima) e il 16,5% dei laureati «a ciclo unico» (+2,5%, invece del +5% della rilevazione precedente). Numeri alti anche tra i laureati, quindi, che però rimangono lontani dal 30% di disoccupazione giovanile rilevato dall'Istat. Insieme al successo degli aspiranti occupati, continua a declinare anche la qualità dei posti che si riescono ad agguantare dopo la laurea: solo il 46,2% di chi trova lavoro nei primi 12 mesi dal titolo di studio può vantare un contratto stabile (era il 50,7% due anni fa), si allarga la fascia dei contratti atipici (tra il 4o e il 46,4% a seconda della laurea) e soprattutto si accentua il peso del lavoro nero: tra il 6% (laurea di primo livello) e il 10,6% (specialistica a ciclo unico) dei neodottori lavora senza contratto. Le difficoltà crescenti dell'economia sembrano iniziare a scoraggiare gli studenti dall'investimento nella laurea, come denunciato ieri dal Consiglio universitario nazionale.. Nel 2010, mentre i diplomati crescevano dell'1%, le iscrizioni all'università sono diminuite del 5%, soprattutto le pubbliche (le non statali hanno guadagnato il 2% nel 2010, ma perso lo o,6% rispetto al 2006) e al Centro-Sud. Tengono Politecnici e facoltà scientifiche, mentre arretrano i corsi di area umanistica e sociale, cioè proprio quelli più deboli nell'appuntamento con il lavoro. __________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 8 mar. ’11 LAUREA IN CRISI STUDIARE SERVE SEMPRE DI MENO Tra i laureati aumentano i disoccupati e crollano gli stipendi di Stefano Feltri Perché torciamo i giovani? Perché obblighiamo tutti a studiare?" si chiede la professoressa Paola Mastrocola nel suo ultimo libro, Togliamo il disturbo - saggio sulla libertà di non studiare. Il rapporto del consorzio di atenei Almalaurea sulla situazione dei laureati - il primo che racconta gli effetti della crisi economica - non offre risposte molto incoraggianti. DALLE ANALISI di un campione di 400 mila laureati si arriva a una conclusione semplice e un po' deprimente: in Italia studiare conviene sempre meno. E non per colpa della qualità della formazione: secondo le indagini a livello comunitario di Eurobarometro, ricorda il rapporto Almalaurea, l'89 per cento dei dirigenti aziendali responsabili delle risorse umane pensa che i laureati italiani possiedano le competenze richieste. Eppure fanno sempre più fatica a trovare un posto e, quando lo tro-vano, hanno stipendi sempre più bassi. Premessa: i dati mensili dell'Istat che parlano di una disoccupazione giovanile al 29,4 per cento (a gennaio) con i laureati c'entrano poco. Perché per l'Istat i giovani sono quelli tra i 15 e i 24 anni, età alla quale in pochi in Italia hanno già completato l'intero percorso di studi universitari (conseguendo cioè la laurea specialistica)i. I dati Almalaurea sono quindi utili perché raccontano le difficoltà degli altri giovani, quelli che hanno continuato a studiare o che non si sono laureati perfettamente in corso. Il tracollo per i laureati c'è stato nel 2008, quando la crisi ha iniziato a farsi sentire nell'economia reale, e la situazione è peggiorata ancora nel 2009, quando il Pil è crollato di quasi il 6 per cento. Se consideriamo il tasso di disoccupazione, cioè la percentuale di laureati che cerca lavoro e non lo trova, i risultati sono questi: per quelli con la laurea triennale nel 2009 il tasso passa dal 15 al 16 per cento, per quelli con la specialistica va peggio, dal 16 al 18 per cento (ma l'anno precedente l'aumento era stato di cinque punti). Non va meglio se si considera il tasso di occupazione, cioè la percentuale di laureati che sono entrati nel mercato del lavoro: tra il 2007 e il 2009 scende di sei punti tra i laureati di primo livello (triennali), di sette tra quelli con la specialistica e di 8,5 tra quelli a ciclo unico (per le facoltà dove non c'è la laurea intermedia, tipo Ingegneria). Le spiegazioni sono due: i laureati di secondo livello possono scegliere tra lavoro e dottorato, quelli triennali no, e in un momento di crisi ci sono più incentivi a continuare a studiare sperando che il peggio sia passato quando si entra nel mercato del lavoro. Seconda spiegazione: i laureati triennali costano meno. LA PROVA SEMBRA essere nei dati sugli stipendi: quelli dei laureati con la specialistica sono in caduta libera negli anni della crisi. Se i laureati di primo livello, tra il 2007 e il 2009, hanno visto il guadagno mensile medio passare da 1.210 euro a 1.149 (-5 per cento), i laureati con la specialistica hanno perso il doppio, il 10,5 per cento (da 1.205 a 1.078). Che gli stipendi dei laureati siano in calo di anno in anno, però, non è tutta colpa della crisi: a cinque anni dalla laurea uno studente che ha finito i suoi studi nel 2000 guadagnava 1.461 euro. Un suo omologo che si è laureato cinque anni più tardi, nel 2005, sempre prima dell'introduzione della lauree brevi, soltanto 1.321 curo. Una riduzione di quasi il 10 per cento che, come sempre, pesa più sulle donne che sugli uomini: cinque anni dopo la laurea un uomo guadagna 1.562 euro in inedia, una donna 1.275. Fatica sprecata, quindi? Meglio fermarsi a un diploma, magari di un istituto tecnico? Non proprio. Intanto perché secondo i dati Istat elaborati da Almalaurea, durante l'intera vita lavorativa, i laureati hanno un tasso di occupazione del 77 per cento contro il 66 dei diplomati. E soprattutto perché una laurea permette ancora di avere un buon stipendio, a condizione però che si sia di-sposti ad andare all'estero. Qui i numeri di Almalaurea sono impietosi: chi si è laureato nel 2009 se è rimasto in Italia un anno dopo riceve 1.054 euro al mese, se è fuggito 1.568. E più passa il tempo, più la differenza si fa pesante: un laureato del 2005 rimasto ha una busta paga inedia inchiodata a 1.295 euro, l'emigrante nel frattempo è arrivato a 2.025 euro. Oltre 700 euro di differenza. "È uno spreco di risorse che li avvilisce e intacca gravemente l'efficienza del sistema produttivo", ha detto di recente il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. E Almalaurea avverte: "Sarebbe un errore imperdonabile sottovalutare la questione giovanile o tardare ad affrontarla in modo deciso". Finita la stagione delle proteste contro la riforma Gelmini dell'università, però, il tema sembra quasi scomparso dall'agenda della politica. __________________________________________________ Il Giornale 8 mar. ’11 ANCORA POCHI I LAUREATI ITALIANI In Italia i laureati sono ancora pochi rispetto alle necessità del mondo del lavoro, eppure non vanno a ruba sul mercato. È quanto emerge dal XIII rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. Nel periodo 2004-2009, la quota di laureati nella popolazione di età 30-34 è cresciuta di 3,3 punti percentuali, partendo da un valore inferiore al 16%. Un livello molto lontano da quello, pari al 40%, che la Commissione Europea ha individuato come obiettivo strategico da raggiungere entro il 2020. Almalaurea sottolinea quindi, sulla scorta di alcuni dati, la necessità di maggiori investimenti nel nostro Paese in istruzione, ricerca e sviluppo. Ma sottolinea anche lo scarso peso degli investimenti privati: in Italia il concorso del mondo imprenditoriale è pari allo 0,65% del Pil mentre nella gran parte dei Paesi più avanzati il contributo delle imprese è almeno doppio. Il problema dell'Italia non è tanto quello dei «cervelli» in fuga, ma lo scarso appeal dei nostri atenei e centri di ricerca per studenti e ricercatori d'oltre confine. Per ogni cervello che entra, infatti, ne esce uno e mezzo. Secondo l'indagine del Consorzio interuniversitario, i laureati specialistici biennali con cittadinanza italiana del 2009 che lavorano all'estero, a un anno dal titolo, sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29% degli occupati all'estero proviene da ingegneria, il 16,5% dal gruppo linguistico, 11 16% da quello economico-statistico e il 12% dal politico-sociale. A un anno dalla laurea, ha un lavoro stabile il 48% degli italiani occupati all'estero, 14 punti percentuali in più rispetto al complesso degli specialistici italiani occupati in patria __________________________________________________ Il Foglio 11 mar. ’11 PUBBLICO PIÙ PRIVATO, ECCO COME NON PERDERSI PER STRADA GLI UNIVERSITARI Oxford. I dati dell'ultimo rapporto di Almalaurea sull'università italiana sono tragici per quel che riguarda l'occupazione dei laureati perché si certifica che le prospettive lavorative arridono più ai dottori triennali che ai quinquennali. Ciò implica il fallimento della riforma di Luigi Berlinguer, che volle applicare il 3+2 all'università italiana sostenendo che avrebbe garantito l'immissione continua dei triennali sul mercato del lavoro e mantenuto una classe di quinquennali che non avrebbe incontrato difficoltà a far valere professionalmente la propria specializzazione. Stando ai numeri, però, prendere una laurea breve non conviene in quanto la percentuale di occupazione è in caduta libera; sacrificarsi per una laurea lunga conviene ancor meno in quanto trovare lavoro dopo cinque anni anziché tre è più improbabile. Non si capisce tuttavia come mai l'opinione pubblica abbia accolto questi dati con rassegnazione stracciandosi invece le vesti per il calo degli iscritti alle università. Alla luce della disoccupazione dei laureati la diminuzione degli iscritti è l'unica buona notizia del rapporto di Almalaurea: meno iscritti significa più laureati che potranno trovare lavoro nel proprio settore. Lamentarsi per questo calo vuol dire ignorare il dato di fatto che le università italiane sono sovente affollate di gente indegna, impaccio agli studenti migliori e zavorra ai professori. E' improbabile che il 5 per cento di iscritti in meno appartenga alla fascia di studenti dal merito alto; ragion per cui ben venga la scrematura. L'ideale sarebbe che ogni facoltà fosse a numero chiuso, onde evitare schiere di laureati così così che passano anni ad attendere il lavoro fatto apposta per loro (nel sud ogni famiglia coltiva un laureato in Lettere che aspetta di divenire professore). Il guaio è che in Italia, a differenza di Inghilterra o Spagna, gli esami di maturità non sono valutati univocamente da una commissione nazionale; si crea così una disparità di voti che non permette alle università di porre uno sbarramento che consenta di iscriversi soltanto agli alunni usciti dal liceo con un determinato voto minimo. Senza possibilità di selezione molti atenei vengono lasciati in balia dei propri iscritti e risultano incapaci di imprimere loro una precisa direzione accademica e quindi professionale. Leggendo tra le righe i dati di Almalaurea gli italiani dovrebbero accantonare due luoghi comuni. Il primo è la coincidenza fra laurea e cultura, che suggerisce l'idea che chi scansi l'università sia un inadeguato e fa sottovalutare la laurea quale ponte funzionale fra studio e lavoro. Il secondo è la privatofobia. L'aumento degli iscritti nelle università private dovrebbe far sorgere il sospetto che dietro il privato non si annidi sempre del malsano, e far aprire gli occhi su una realtà già esistente in Italia, di forte incisività per quanto numericamente limitata: la cooperazione virtuosa fra pubblico e privato. Esistono università pubbliche i cui iscritti più meritevoli possono accedere a collegi d'eccellenza privati previo esame d'ingresso: solo a Pavia ce ne sono quattro, ma se ne trovano in altre 13 città. L'alunno paga una retta che solitamente varia a seconda del reddito e che pure al livello massimo copre circa la metà di quanto egli costi effettivamente al collegio in termini di benefit immediati: vitto, alloggio, acqua-luce-gas, Internet, personale di servizio, infrastrutture e borse di soggiorno all'e-stero. II resto della retta viene coperto da istituzioni private o dalla rendita del collegio stesso. L'unico criterio di selezione è il merito poiché ogni anno l'alunno, per conservare il posto, deve mantenere la media del 27 agli esami. Si instaura così un circolo virtuoso per il quale i collegi privati licenziano, gli alunni più meritevoli dell'università pubblica, costoro trovano più facilmente lavoro, assurgono magari a ruoli di alto livello, tengono in auge il nome del proprio collegio che grazie alla loro fama verrà scelto dai migliori fra i nuovi diplomati liceali. Costoro tenderanno a privilegiare le università che ospitano i migliori collegi, garantendo automaticamente un significativo beneficio al pubblico da parte del privato. Antonio Gurrado __________________________________________________ La Stampa 9 mar. ’11 LAUREARSI SERVE SEMPRE (E SI GUADAGNA DI PIÙ) Nonostante il calo delle iscrizioni, per Almalaurea il titolo universitario resta il miglior investimento Se un diplomato guadagna 100, il laureato arriva a 155. Ed è anche più facile trow .e il lavoro giusto RAFFAELLO MASCI ROMA Sia chiaro: studiare serve e laurearsi serve ancora di più. Ieri abbiamo pubblicato i dati del consorzio Almalaurea sul destino dei laureati italiani negli ultimi cinque anni, e abbiamo sottolineato come la laurea, il famoso pezzo di carta agognato dalle mamme e poi tenuto incorniciato nel tinello, avesse perso gran parte del suo potere di attrazione. Nelle patrie università, insomma, negli ultimi cinque armi si era assistito ad una diminuzione sistematica delle immatricolazioni, superiore al 9%: 26 mila studenti in meno. Almalaurea ribadisce oggi che, comunque, laurearsi è ancora oggi la via più certa per trovare un lavoro prima e meglio. «Il calo delle immatricolazioni non deve meravigliarci - dice Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea - in quanto è il frutto di tre fattori concomitanti. Primo, negli ultimi 25 anni i diciannovenni sono diminuiti del 38%. C'è stato un oggettivo calo demografico. Secondo, il tasso di passaggio tra scuola superiore e università è crollato di 9 punti (dal 75 al 66 per cento) a motivo della controversa immagine che l'università italiana ha dato di sé: dalle parentopoli, agli sprechi, alla moltiplicazione dei corsi inutili. Terzo, la laurea triennale (mantenere un figlio agli studi 3 anni invece di 5) ha aperto gli atenei a fasce di popolazione prima escluse, ma poi queste stesse si sono trovate di fronte al problema dei costi aumentati e non ce l'hanno fatta più». Da qui il calo degli iscritti. Ma l'università paga. Tutti i dati statistici confermano - infatti- la diretta proporzionalità tra laurea, occupazione e reddito. Se prendiamo i diplomati e i laureati usciti dai rispettivi corsi di studio nel 2004 e li andiamo a rivedere nel 2009 (a cinque anni di distanza), scopriamo che esiste uno zoccolo duro di persone non ancora occupate, pari al 14,8% dei diplomati e al 12,1% dei laureati triennali Ma mentre un lavoro continuativo (anche se non fisso) ce l'ha il 37% dei diplomati, questo dato sale al 67% tra i laureati. Un impiego a tempo indeterminato ce l'hanno il 18% dei diplomati, ma ben il 37% dei laureati. Complessivamente, quindi, i laureati lavorano molto di più e con maggiore stabilità rispetto a chi ha studiato di meno, come conferma il tasso di occupazione complessivo che, nel caso dei laureati, presenta un vantaggio di 11 punti sui diplomati (66 contro 77 per cento). Si ribatte che, però, i dottori guadagnano poco. «Se noi consideriamo le retribuzioni sull'arco dell'intera vita lavorativa, un diplomato oggi guadagna 100 quando un laureato arriva a 155: il divario è enorme - spiega Cammelli - e l'abbaglio che molti prendono quando osservano che un diplomato prende più di un laureato, dipende dal fatto che osservano le retribuzioni iniziali, e quando il laureato si mette sul mercato del lavoro il diplomato c'è già da almeno quattro anni Sui tempi medi e lunghi la differenza appare invece evidente e tutta a vantaggio dei laureati». Ciò detto non tutte le lauree sono uguali e altrettanto spendibili. Uno studio di Confindustria ha rilevato il numero dei laureati di un anno accademico e quello richiesto dal sistema delle imprese nello stesso anno: alla luce di questi dati si nota come l'Italia abbia bisogno ancora oggi di 20 mila ingeneri in più, 15 mila economisti e statistici, 8 mila medici e sanitari. Per contro c'è un esubero annuo di 4 mila psicologi, quasi 17 mila laureati in lettere o lingue, 4 mila architetti, 3 mila geologi, eccetera. «Non c'è, dubbio - continua Cammelli - che le lauree scientifiche, tecnologiche ed economiche danno una possibilità di impiego più rapida delle altre. Tuttavia, valutati i laureati a distanza di 5 anni, anche quelli delle lauree generaliste hanno trovato un lavoro. Impiegando solo più tempo». _________________________________________ Il Corriere della Sera 10 Mar.’11 RAGAZZI, STUDIARE PAGA VE LO SPIEGO IN TRE MOSSE Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio. Certo: in Italia c' è qualcuno, particolarmente dotato, che riesce a unire le due cose. Ma il poeta aveva capito. Quando entriamo nell' età dei padri, diventiamo paternalisti. Perdonate quindi se, dopo aver letto i dati (Almalaurea) sull' università italiana, esprimo un' opinione. Non è proprio un consiglio. Diciamo un suggerimento strategico. Un laureato 2005 ha oggi una busta-paga media di 1.295 euro; fosse andato all' estero sarebbe a 2.025 euro. I laureati che hanno trovato lavoro in Italia, un anno dopo la laurea, sono scesi del 7% (periodo 2007/2009). Il calo delle iscrizioni (meno 9% in quattro anni) mostra un cambiamento demografico (meno diciannovenni), ma anche la scarsa fiducia delle famiglie nello studio come mezzo di avanzamento. Posso dirlo? Sbagliano. Se un ragazzo ha voglia di studiare, ed è portato per gli studi, non deve farsi spaventare. Per il bene suo e del Paese. L' università è un investimento su noi stessi, come ha ricordato Irene Tinagli sulla Stampa. E, insieme alla scuola pubblica, resta l' ultimo grande frullatore sociale, capace di mescolare redditi, censo e geografia. Se si ferma quello, siamo fritti. È vero che i giovani connazionali hanno motivi di protestare («Uno spreco di risorse che li avvilisce e intacca gravemente l' efficienza del sistema produttivo», ha riassunto Mario Draghi). Ma studiare paga, anche in senso letterale. «Non bisogna guardare solo le retribuzioni iniziali - spiega Andrea Cammelli, presidente di Almalaurea -. Se consideriamo l' intera vita lavorativa, un diplomato guadagna 100 e un laureato 155». Voi direte: d' accordo, studiare. Ma dove, quanto, cosa? Semplifico (e mi scuso con i ragazzi). Dove. In una buona università lontano da casa (a diciannove anni fa bene!). Vivere e studiare in una T Town (Trieste, Trento, Torino) o in una P City (Pavia, Pisa, Parma, Piacenza, Padova, Perugia, Palermo) cambia la prospettiva. Una laurea al Politecnico di Milano ha lo stesso valore legale di una laurea all' università di Bungolandia: ma un valore intellettuale, morale, sociale, pratico ed economico molto diverso. Le «università tascabili» fondate per accontentare sindaci, governatori, partiti e docenti hanno il destino segnato. Quanto. Con ragionevole urgenza. I «fuori corso» sono malinconiche figure del XX secolo. Deve studiare chi sa farlo e ha voglia di farlo. Le università sono laboratori per il cervello, non parcheggi per natiche stanche. Cosa. Quello che volete. Rifiutate il giochino, caro ai genitori, «quale facoltà offre più opportunità di lavoro». Tutte ne offrono, se avete attitudine, grinta, entusiasmo e successo. Nessuna ne offre, se vi rassegnate alla mediocrità. Scegliere per esclusione - magari giurisprudenza, rifugio degli indecisi - è una follia. Nei concorsi e negli studi professionali troverete ragazze e ragazzi che l' hanno scelta per passione e predisposizione; e vi faranno a fette. Un destino da salami, interamente meritato. RIPRODUZIONE RISERVATA Severgnini Beppe _________________________________________ Il Corriere della Sera 10 Mar.’11 PIÙ QUALIFICATI MA MENO OCCUPATI QUELLE COMPETENZE DA CAMBIARE Il calo delle iscrizioni all' università italiana rilancia le preoccupazioni in merito alla nostra incapacità di formare un numero sufficiente di lavoratori attrezzati per l' economia del futuro, sempre più affamata di cervelli. Ma questa fame esiste davvero? A giudicare dal tasso di disoccupazione dei neolaureati è lecito dubitarne, almeno per il presente e, secondo alcuni economisti che parlano di sovrainvestimento in capitale intellettuale, il dubbio vale anche per il futuro. Né riguarda solo l' Italia: Martin Ford, collaboratore dell' Huffington Post e fondatore di una impresa di software della Silicon Valley, ha appena pubblicato un libro, The Lights in the Tunnel, nel quale dipinge uno scenario inquietante. In un articolo che anticipa le tesi del libro, Ford cita la profezia che l' economista Paul Krugman aveva azzardato quindici anni fa sul New York Times, sostenendo che, sulla lunga distanza, la Information Technology non avrebbe aumentato la domanda di lavoro altamente qualificato ma, al contrario, l' avrebbe drasticamente ridotta. La realtà, scrive Ford, sta dando ragione all' eresia di Krugman, criticata da quasi tutti gli altri economisti, perché i fatti stanno confermando che l' automazione, dopo avere contribuito a sostituire le mansioni puramente esecutive, oggi sta sempre più invadendo il campo di quelle che richiedono elevate competenze professionali. Ma se l' occupazione cala al vertice della piramide, i neolaureati cercheranno lavori meno qualificati di quelli per cui sono stati formati, entrando in concorrenza con coloro che stanno alla base della piramide. A peggiorare ulteriormente il quadro, contribuisce il fatto che le società transnazionali trovano tutti i cervelli che vogliono - a costi contenuti - nei Paesi emergenti, e scommettono sul fatto che la crescita delle loro economie generi una classe media in grado di bilanciare il calo dei consumi in Occidente. Strategia miope, sia perché potrebbe aggravare la crisi, sia perché rischia di indurre i nostri giovani a investire meno soldi, tempo ed energie in formazione, il che sarebbe un tragico errore, perché chi non studia è comunque destinato ad avere meno chance. Carlo Formenti RIPRODUZIONE RISERVATA Formenti Carlo _________________________________________ Il Corriere della Sera 9 Mar.’11 LE UNIVERSITÀ SI SVUOTANO E LA RIFORMA GELMINI NON C' ENTRA Il Cun (Consiglio universitario nazionale) e il Consorzio Almalaurea hanno diffuso dati molto negativi sulla salute dei nostri Atenei. C' è un calo generale nelle iscrizioni ai corsi accademici: nel 2010 un 5% in meno rispetto all' anno precedente; un complessivo 9,2% negli ultimi quattro anni. Va sottolineato, per non fare confusione, che sull' attuale situazione non pesano ancora gli ultimi tagli della riforma Gelmini, che resta estranea a questo fenomeno ormai ben consolidato. La causa viene molto più da lontano: dalla riforma precedente che ha dato totale autonomia alle singole Facoltà e ha finito con l' incentivare la proliferazione di sedi periferiche poco attrezzate, con una ricaduta grave sulla qualità nell' insegnamento che non solo ha declassato gli studi, ma li ha anche definitivamente allontanati dalla realtà del lavoro, tanto da indurre i giovani d' oggi a cercare alternative. Solo un paio di considerazioni. Uno dei cardini fondamentali della riforma era quello di rendere completamente autonome le Facoltà nel gestire il proprio patrimonio culturale ed economico. Il ministero, salvo qualche rara eccezione o piccolo aggiustamento, garantiva di mantenere il budget consolidato (gli stipendi del personale di ruolo esistente e qualche spicciolo per la ricerca scientifica) e lasciava libera ogni Facoltà di reperire fondi per badare a sostentarsi con i suoi mezzi, salvo incentivarli con premi a quelle sedi che riuscivano a far laureare gli studenti negli anni previsti in corso. Questo ha significato per moltissime Facoltà sopravvivere con le tasse degli studenti: da qui una proposta formativa di richiamo, ma non solo senza sbocchi reali sul lavoro, ma anche priva di una reale competenza. A ciò si è accompagnato il tacito invito di presidi in tante sedi universitarie di «facilitare» gli esami ai giovani per non fare andare gli studenti fuori corso e usufruire dei previsti incentivi. Il gioco è durato poco: le magagne sono presto venute a galla e i giovani giustamente hanno cominciato pian piano a guardare con diffidenza a un' Università tanto degradata. Giorgio De Rienzo RIPRODUZIONE RISERVATA De Rienzo Giorgio __________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 9 mar. ’11 LAVORO: O I DELFINI O NIENTE Unica offerta di lavoro allo sportello di Roma per studenti e laureati: addestratore di animali Un milione di persone cerca occupazione nella Capitale e provincia ma gli annunci sono pochi di Carlo Tecce Cercare lavoro è un lavoro. Il più difficile. E una caccia al tesoro con pochi e confusi indizi. Non hai una mappa né una meta precisa. Devi provare. Nascosto tra la mensa universitaria e l'aula informatica, nel quartiere San Lorenzo di Roma, c'è un centro per l'impiego per laureati, diplomati, studenti. Per tutti. C'è una ragazza gentile e graziosa che ti fa accomodare, ti guarda in faccia, e tu speri che sia la migliore possibile, condivide con te l'ansia, calma la tua foga. TU CHIEDI senza sapere le risposte, ma lei già conosce le tue domande. Non è un esame, peggio. Hai istruzioni per l'uso sul sito: dieci consigli per il disoccupato perfetto. Numero 1: "Un curriculum ben preparato e ben argomentato rappresenta il 50 per cento della selezione". La lista è spietata. C'è un capitolo finale che può scoraggiare i più timidi e indecisi: come gestire le emozioni? Bel dilemma. Come fai a prevedere le tue reazioni, a fermare le mani che mulinano, a bloccare il rossore, a garantirti una salivazione costante? Fatti tuoi. Ti mettono in guardia: "Grande importanza riveste l'atteggiamento che si assume. State proponendo la vostra professionalità!". Punto esclamativo, e via. Entri che non sei nessuno: mai visto, mai archiviato, Un disoccupato per esistere deve tuffarsi nel cervellone di Roma e provincia: 26 sportelli, 6 in città, un milione di iscritti, residenti, domiciliati, a distanza. La ragazza inserisce i tuoi dati nel cervellone, numeri e studi tracciano il tuo profilo. Apre la bacheca che inghiotte decine di annunci di aziende private, messaggi criptici con l'inganno incorporato. Sempre tirocini, mai un contratto, soltanto promesse: "Adesso puoi valutare - dice - le offerte a casa, riflettere con calma e tornare qui per candidarti. Poi verrai contattato, se ti va bene. Altrimenti, rifai il percorso daccapo". C'è una parola che suona stonata: calma. Il tempo è nemico per chi cerca un lavoro: "Per piacere, puoi dirmi ora, proprio ora, cosa potrei fare?". La ragazza ripiega il suo sorriso di ordinanza, si fa seria, quasi sconsolata. MI OSSERVA mirando lo sguardo dal basso verso l'alto: "Mi spiace, c'è solo un corso per addestratore di delfini. Hai una laurea, non serve. Parli inglese? Non interessa molto. Sai nuotare?". Poi fa un giro con la sedia e mi indica le aule universitarie. C'è l'antica e popolosa Sapienza, 130 mila iscritti. E per loro, e per un milione di persone, l'ufficio di San Lorenzo propone tre posti a zero euro al mare di Torvajanica: "E se sarai bravo un anno con stipendio. Ti lanci?". Leggiamo le richieste. Età massima: 26 anni. Titolo di studio: "preferibile" laurea triennale in oceanografia, acquariologia, biologia, veterinaria o scienze ambientali. Requisiti: buona condizione fisica, ottimo livello di nuoto e apnea, presenza scenica e predisposizione teatrale. Un ragazzo accanto mi consola: "Non è adatto a te, puoi tentare. Che ti costa?". E la sua amica: "Puoi esercitarti con l'apnea sotto la doccia.„", ride. E forza: vediamo se chiamano un giornalista per far saltare i delfini tra i cerchi. Esco, tocca a Claudio: "Come e andata? C'è molto?". Claudio è un ingegnere, simpatico, meridionale. Abita a Roma da sette anni, i suoi gli passano 700 euro al mese, il resto è un insieme di soldi raccolti qua e là: ristoranti, pizzerie, consegne. Ha adocchiato un annuncio, l'unico, del centro di Torre Angela: segretario di amministrazione, ordini di acquisti, fatture e documenti. Ci sa fare con i conti: "Meglio una scrivania, seppure piccola, che spaccarti la schiena come magazziniere, no?". NON C'È TANTO tra decine di inserzioni su informa serviLit che resistono un paio di settimane a volte un mese: nig ,n( rie c >ntabile, addetto stipendi e paghe, commesso di vendita, parrucchiere per signora, agente assicurativo. Ecco, il tesoro: 50 posti da telefonista, un generico cali center in periferia, il pezzo più grosso di un centinaio di occasioni. Cento, esatto, contese da un milione di persone. Fuori dal centro per l'impiego, sembra che il lavoro ti salti addosso. Manifesti enormi che annunciano concorsi pubblici, "che vincono sempre loro": un collaboratore uno per l'Agenzia del farmaco, un tecnico uno per il Comune di Pomezia, un borsista uno per il Consiglio nazionale delle ricerche. Forse ha ragione Claudio: "Meglio una scrivania, seppur piccola, che spaccarti la schiena". Oppure addestrare i delfini senza saper nuotare. _________________________________________ Il Corriere della Sera 11 Mar.’11 LAUREE L’AFFOLLAMENTO DIVENTA CONTAGIOSO Troppi veterinari. Abbiamo 15 delle 69 facoltà d’Europa Redditi bassi. Le proposte: tirocinio e specializzazione DI ISIDORO TROVATO I l tema è ormai diventato trasversale: certe aree del mondo professionale sono troppo affollate. E il sovrannumero sta facendo calare opportunità di inserimento e crescita tra i più giovani, mentre intere categorie stanno vedendo restringersi il loro giro d’affari. Succede agli avvocati, agli architetti, ai giornalisti e anche ai veterinari. Quest’ultimi hanno diramato un po’ di dati sulla crisi della loro professione e i numeri sono impressionanti: in Italia ci sono 27.537 veterinari, il 32,9 %in più negli ultimi 10 anni, 20.000 sono liberi professionisti e il 40%di questi ha un reddito pari a zero. E non si tratta di disoccupazione. «Sono perlopiù giovani che lavorano quasi a titolo gratuito — spiega Angelo Troi, segretario nazionale del sindacato italiano veterinari liberi professionisti (Sivelp) —. Il reddito medio dei veterinari di un'età compresa tra i 25 e 34 anni è pari a 800 euro al mese. Mentre, il reddito medio dei veterinari non raggiunge i 15.000 euro annui. È tra i redditi più bassi dei neolaureati» . L’accesso E così capita che siano sempre più frequenti i casi di 40enni che, dopo un lungo percorso formativo, lavorano nel team di una clinica veterinaria con uno stipendio di 1.000 euro al mese. E dopo avere dovuto aprire la partita Iva e pagando su quei mille euro anche tutti gli oneri fiscali. «Ma il vero nodo all’origine di simili, profondi disagi — secondo il Sivelp — sembra essere quello dell’affollamento se è vero che ogni anno in Italia si laureano in veterinaria circa 1.200 giovani che coprirebbero il fabbisogno del nostro paese per un decennio. «Basta confrontare i nostri numeri con quelli del resto d’Europa — osserva Troi —. In Italia abbiamo 15 delle 69 facoltà dell'intera Europa allargata: in Germania ce ne sono cinque, in Francia quattro e in Inghilterra sei. E da noi si susseguono ancora i tentativi di aprire nuove facoltà o di creare corsi paralleli per i quali non ci sono sbocchi professionali» . Ed ecco che torna, anche per i veterinari, il tema dell’accesso programmato alla professione, lo stesso che hanno già chiesto ufficialmente anche gli avvocati e quello a cui stanno pensando da tempo gli architetti. Il problema è che i veterinari il numero chiuso d’ingresso ai corsi di laurea lo hanno già al punto che da poco l’Antitrust ha chiesto di aprire l’accesso a veterinaria. «È un falso problema con una falsa soluzione — attacca il segretario del Sivelp — attualmente il numero è limitato, ma su 100 che entrano se ne laureano 99 per il semplice motivo che ormai i corsi vengono valutati anche in base al numero di persone che arrivano al traguardo finale. Ai miei tempi ne entravano 200 ma se ne laureavano 60. Si è persa la selezione durante il corso ed è a quello che bisogna puntare per rimettere in sesto le sorti di questa professione» . Per riuscirci però bisogna trovare soluzioni alternative, magari evitando strappi generazionali o sbarramenti all’ingresso come sta accadendo in altre categorie (avvocati su tutti). «Il Sivelp — continua Troi — si è fatto promotore presso le istituzioni dell’introduzione di un tirocinio obbligatorio. I medici veterinari sono gli unici per i quali non si prevede ancora un tirocinio obbligatorio. Si intende un vero tirocinio previsto per legge e riconosciuto come periodo di formazione. Le cui spese per assicurazione e iscrizione all’albo siano a carico del medico o del datore di lavoro. Questo sarebbe funzionale a completare la formazione e risponderebbe alle commissioni di controllo europee che hanno chiesto spesso più pratica. Obiettivo finale: avere un quadro normativo di riferimento chiaro» Il tirocinio Ma inserire il tirocinio non è semplice e altri professionisti (per primi i commercialisti) ci stanno provando da tempo. «L’ipotesi del tirocinio è percorribile — conferma Troi— perché darebbe maggiore competenza sul campo ai nostri giovani laureati e due anni in più per inserirsi nel mondo professionale. È indubbio comunque, che bisognerà trovare anche altre soluzioni per favorire l’occupazione. Per esempio la creazione di percorsi di specializzazione all’interno del corso di laurea. Oggi quasi tutti pensano di lavorare con i piccoli animali e in giro ci sono pochissimi professionisti specializzati in animali da allevamento, in sanità pubblica. Forse creare specializzazioni potrebbe far salire il livello occupazionale della categoria» . __________________________________________________ Italia Oggi 5 mar. ’11 5xMILLE:LA LUISS HA FATTO FLOP Fra gli atenei, l'Aquila stravince con 11 mila scelte Solo in 158 le hanno dato il 5 per mille DI STEFANO SANSONETTI Un flop, senza troppi giri di parole. La Luiss, l'università confindustriale guidata da Emma Marcegaglia, è stata seccamente snobbata dai contribuenti italiani. Soltanto in 158, infatti, hanno deciso di destinare il 5 per mille del loro reddito Irpef 2009 all'ateneo degli industriali, che ha incassato 48.442 euro. Non che dalle parti di viale Pola avessero poi tanto bisogno di questo sostegno pubblico. E appena il caso di ricordare, del resto, che dall'ultimo bilancio disponibile risultano in pancia alla Luiss partecipazioni e liquidità per la bellezza di 50 milioni di euro (vedi ItaliaOggi del 30 giugno 2010). Ma tant'è, la legge consente anche ai ricchi atenei privati di poter accedere alla ripartizione delle risorse derivanti dal 5 per mille Irpef. Peccato però che per la Luiss il confronto con le altre strutture, pubbliche o private, sia assolutamente impietoso. Facciamo qualche esempio, preso dalla griglia di enti e università, pubblicata sul sito dell'Agenzia delle entrate, che hanno avuto accesso ai finanziamenti nella categoria della ricerca scientifica e delle università. Ad aggiudicarsi il primato è stato l'ateneo dell'Aquila, città funestata dar terremoto, che ha ottenuto ben 11.373 preferenze per un totale di 509.016 euro. Esito più che condivisibile, vista la tragedia che ha colpito a suo tempo il capoluogo abruzzese. Al secondo posto troviamo l'università La Sapienza di Roma, forte di 6.873 preferenze che si sono tradotte in un sostegno di 501.985 euro. Anche in questo caso la cifre non sorprendono più di tanto, se si considera che l'ateneo romano è il più grande d'Europa, con i suoi 130 mila iscritti. Medaglia di bronzo, invece, per la prima università privata in classifica, la Cattolica di Milano, che ha ottenuto 7.901 preferenze per un totale di 501.062 euro. A ben vedere, i contribuenti che hanno finanziato la Cattolica sono più numerosi di quelli che hanno indirizzato il loro 5 per mille Irpef alla Sapienza di Roma. Nonostante questo l'università romana ha avuto incassi maggiori, per il semplice motivo che le dichiarazioni Irpef dei contribuenti che l'hanno scelta sono risultate leggermente più ricche. Il 5 per mille, infatti, si applica al reddito: più questo è alto, più cresce la corrispondente erogazione di risorse. Ad ogni modo, anche il confronto con gli altri atenei privati è piuttosto amaro per la Luiss. L'università campus biomedico di Roma, vicina all'Opus Dei, ha ottenuto 8.086 preferenze, che hanno portato in dote 472.785 euro. L'università Vita-salute San Raffaele ha visto esprimersi in suo favore 3.952 contribuenti, con incassi complessivi di 229.388 euro. La Bocconi di Milano, seppur distanziata rispetto alle altre, si è guadagnata la fiducia di 552 contribuenti, per un totale di 74.207 euro. Insomma, in tutti questi casi appare piuttosto chiaro come le performance ottenute facciano impallidire le 158 preferenze assegnate alla Luiss. Peggio dell'ateneo confindustriale, andando a verificare all'interno della griglia, hanno fatto solo lo Iulm, con 74 preferenze e 5.542 euro di incasso, e la Libera università di studi San Pio V, con all'attivo 21 preferenze e 1.273 euro portati a casa. Insomma, in questa edizione del 5 per mille l'ateneo confindustriale, diretto da Pier Luigi Celi, non è proprio riuscito a far breccia nei cuori dei suoi sostenitori. __________________________________________________ Il Sole24Ore 1 mar. ’11 TREMONTI: IL SUD VERO LIMITE, BASTA RETORICA DEL DECLINO BRESCIA «Il drammatico problema del nostro Paese, il nostro vero problema, è il Mezzogiorno. Lì non è avvenuto il meglio ma spero che lì ci possa essere il meglio». Il ministro dell'Economia Giuri() Tremonti è tornato a parlare di Sud, ieri, e lo ha fatto intervenendo all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università di Brescia, rivolgendosi quindi tanto ai giovani studenti quanto al Nord Italia. La ripresa dell'economia italiana, per il ministro, deve passare necessariamente per la risoluzione della questione meridionale, che lui pone ricorrentemente come questione nazionale. «Siccome non vogliamo che un paese duale sia anche diviso, dobbiamo guardare empiricamente e moralmente agli impegni che abbiamo in quella parte d'Italia», ha affermato convigore ancora ieri. Ma ha anche aggiunto: «Non credo alla retorica del declino del nostro paese: ne conosciamo, naturalmente, i limiti, ma dobbiamo avere una visione più equilibrata». Di declino infatti non si può parlare, riferendosi al Nord Italia. «Siamo l'unico Paese in Europa - ha sottolineato Tremonti - ad avere una struttura duale e le nostre statistiche soffrono di questa asimmetria». Così ha ricordato che «il Nord Italia è la regione più ricca d'Europa, e quindi del mondo» e che il Nord insieme al Centro «come aggregato fanno 4o milioni di persone, la sesta potenza economica del mondo». Per il ministro, il Centro e il Nord aggregati «sono più ricchi di Francia, Germania e Gran Bretagna». ANSA Riguardo al fatto che il Nord Italia sia la regione più ricca d'Europa, Tremonti ha rilevato anche che «non è possibile questo stock strutturale e consolidato da decenni senza avere produttività e università. Questo è un dato di fatto che dobbiamo considerare e non possiamo ignorare» In occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico dell'ateneo di Brescia, Tremonti ha parlato anche dei problemi del mondo delle università proponendo il modello tedesco per «il rapporto molto stretto tra ricerca, industria e università che da sempre é esistito in Germania». «Questo non vuol dire per forza che si vuole privatizzare l'Università - si è affrettato a precisare -. Nessuno vuole ricavare dividendi dalle Università». Tuttavia «é necessario un sistema nel quale industria e scienza stiano un pò più vicine, ci vuole uno sforzo maggiore per coniugare industria e ricerca». In questo senso il ministro ha richiamato la riforma della scuola tecnica «come un buon passo in quella direzione». Il ministro ha infine sottolineato come quasi nessuno usufruisca della detassazione per gli investimenti in ricerca fatti dalle imprese e come nessuno nemmeno sappia che nell'ultima Finanziaria era previsto un voucher per la ricerca. «Bisogna fare di più e fare molto», ha esortato, riferendosi soprattutto al Mezzogiorno. Tanto che, rivolgendosi alla platea riunita all'Università di Brescia, a rettori e professori, Tremonti ha aggiunto con una battuta: «Non mi sembra che Brescia soffra così tanto dei tagli...». __________________________________________________ Il Sole24Ore 10 mar. ’11 PIATTAFORME DIDATTICHE La rete di blog usata al Politecnico di Torino rilancia il ruolo di internet nell'insegnamento Ormai è cosa banale affermare che internet sta cambiando le regole del gioco dello scrivere e del leggere, dell'ascoltare e del parlare. Di conseguenza anche la scuola, prima o poi, si dovrà adattare a questi nuovi scenari, come lo è stato con l'invenzione della stampa. Nel frattempo, se da un lato il web ci incanta, seducendo tutti nel bene e nel male, dall'altro è ben difficile invogliare gli studenti, ma soprattutto i docenti a usare la Rete come strumento di insegnamento. Sinora internet nelle scuole è servita essenzialmente per scaricare a costo zero materiali, per assemblare ricerche e tesine spesso di dubbia qualità. E così subiamo il contagio della "sindrome del download". Anche nei casi più fortunati in cui la struttura didattica fornisce spazi e portali a disposizione degli studenti dove scaricare materiali e pacchetti per l'apprendimento online non mancano le difficoltà, dovute alle rigidità del sistema. Esistono anche altre strade e per percorrerle bisognerebbe rileggere II pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss e declinare nei contesti che ci riguardano le sue considerazioni intorno al bricolage, alla tecnica e alla scienza. Un'esperienza ormai pluriennale maturata da chi scrive nell'ambito di alcuni corsi svolti al Politecnico di Torino potrebbe essere utilizzata per sfruttare "a costo zero" ciò che oggi la rete mette già a disposizione. Il corso di Storia della cultura materiale per la laurea specialistica in Disegno industriale del prodotto ecocompatibile è frequentato da una sessantina di studenti con una buona percentuale dì stranieri, soprattutto cinesi e latino-americani, ma non mancano scandinavi e baschi, giapponesi e giovani di lingua araba. La grande varietà di pubblico ha imposto la necessità di condurre lezioni ed esercitazioni in inglese, e in lingua di conseguenza è necessario presentare gli elaborati finali. Solo in questo caso si sono potuti attivare elementi di collegamento tra gruppi che altrimenti si sarebbero rinchiusi in isolamento totale, in modo assolutamente improduttivo. Il corso è affiancato da un blog (storiamateriale.blogspot. com) che è diventato un vero e proprio log-book, ovvero un diario di bordo delle lezioni dove si possono trovare anche le fotografie delle lavagne. Tutto questo sarebbe una banalità se il blog non fosse diventato un Hyperblog, ossia un hub di coordinamento di una trentina di blog, curati dai gruppi degli studenti che utilizzano queste tecnologie per mettere in rete, in tempo reale, i propri elaborati. I vantaggi sono enormi, primo fra tutti quello di non sprecare carta e dischi di supporto per depositarvi le relazioni, con conseguenti vantaggi anche nei tempi di lettura e archiviazione dei materiali, in questo modo sempre accessibili a tutti e facilmente aggiornabili. Ne consegue che il download (o se si vuole la "copiatura") diventa inutile perché si entra direttamente nella logica del link, e questo fornisce ulteriormente una nuova ragione di interconnessione del singolo elaborato con la rete. Per chi non è pratico del blog va ricordato che ogni post (cioè ogni pagina depositata sul blog) è associato a una o più parole chiave che automaticamente entrano in un indice analitico, facilitando così l'accesso alle informazioni, che come in ogni diario di bordo seguono la sequenzialità temporale della loro scrittura. In questo modo chi scrive non solo può entrare in contatto con gli elaborati dei propri studenti in ogni istante, ma soprattutto può richiamarli durante le lezioni completando "dal vivo" quella rete di interazioni che è propria di una conoscenza multipla e parallela. L'intero processo è stato condotto in un ambiente tipicamente multiculturale e multilingue. Non deve stupire, quindi, se a fianco dell'inglese talora sono presenti gli ideogrammi cinesi, che proprio per la loro natura "visiva" entrano a pieno diritto nel mondo iconico di internet. Il blog, a differenza di molti altri spazi messi a disposizione su internet dalle scuole, è per sua natura aperto a tutti e con ciò, ancora una volta, si riafferma il ruolo pubblico dell'università, e della Rete. Vittorio Marchis _________________________________________ Il Corriere della Sera 9 Mar.’11 CURRICULUM «SGONFI» PER TROVARE LAVORO GIOVANI E IMPRESE IN TEMPO DI CRISI, I CANDIDATI SONO SPESSO TROPPO PREPARATI PER I POSTI. E LE AZIENDE HANNO PAURA CHE VADANO VIA PRESTO La tendenza dalla Spagna all' Italia. «Una volta facevano i furbi, oggi è il contrario» La docente Bauer (Bocconi): «È il momento di accontentarsi aspettando l' occasione» La dirigente Anna Bogatto, Adecco: «Lo fa il 20 per cento dei candidati. Noi lo sconsigliamo» MILANO - In tempo di crisi, anche il curriculum fa economia. Colpa delle poche offerte e delle troppe domande, gli spagnoli hanno invertito la tendenza (furba) a gonfiare preparazione e competenze per un posto di lavoro. Se una volta le lingue parlate «perfettamente» erano almeno tre, i master mai meno di due (compresi corsi di specializzazione in non meglio identificate università straniere e tirocini in antichissime aziende a conduzione familiare, solitamente la propria), adesso vince la linea della sobrietà. Anzi, dell' astinenza. Perché per scongiurare la diffidenza di potenziali datori di lavoro restii ad assumere candidati troppo bravi, che potrebbero andar via non appena spunta un' occasione migliore, i laureati disoccupati di Zapatero stanno giocando al ribasso: meno so, meno costo, più possibilità ho di essere scelto. El País scrive che in Spagna negli ultimi tre anni è triplicato il numero delle persone qualificate disoccupate. Due su cinque sono senza impiego da un anno. Risultato: l' agenzia di lavoro interinale Adecco ha calcolato che su 900 mila disoccupati, il 10 per cento oltre ad avere un curriculum tradizionale, ne ha un altro più «leggero». Il piano B scommette sull' impreparazione. «È una conseguenza della crisi, che non risparmia gli italiani. La cosa che notiamo noi sono i curricula differenziati, a seconda del tipo di colloquio, mirati sull' offerta. Non viene dichiarato il falso, semmai sono omesse parti del proprio percorso professionale. È un atteggiamento che sconsigliamo, perché tendiamo a valorizzare un profilo per quello che è. Se è sovrastimato per l' occupazione da coprire, diciamo che si tratta di un investimento per il datore di lavoro. Ma ormai questa nuova formula è praticata dal 10-20 per cento dei pretendenti», interviene Anna Bogatto, responsabile della gestione candidati di Adecco Italia, database da quattro milioni di curricula, 400 filiali da Torino a Palermo e rapporti commerciali con 18 mila aziende. «Ma non accade solo in Spagna e in Italia, è un fenomeno generalizzato. Un tempo si tendeva a fare i furbi, "gonfiando" le competenze. Adesso succede il contrario», aggiunge Mario Bianco, autore de Gli indirizzi che contano per trovare lavoro. Insiste: «Si va subito al punto con una pagina meno ampollosa e più diretta». Barare non è mai una buona idea. I cacciatori di teste lo proibiscono. «Falsare al ribasso o al rialzo inficia il rapporto di fiducia. Quello che conta è la trasparenza», spiega Giovanna Brambilla, amministratore delegato di Value Search. E Riccardo Romano, direttore risorse umane in Danone, racconta: «Noi selezioniamo anche gli stagisti con gli stessi criteri delle altre figure professionali, e i curricula eccellenti sono preferibili. In fondo bisogna "accontentarsi" all' inizio, ma la carriera è ormai più rapida. Non è un caso che l' età media dei nostri dirigenti sia di 33 e 34 anni». Se Antonio Lombardi, ad di Ali - Missione lavoro, osserva che il problema non si pone sulle offerte di fascia bassa, regolarmente disertate dai «dottori» italiani («Siamo reduci da una cultura del posto fisso e della laurea costi quel che costi»), Beatrice Bauer, docente di comportamento organizzativo alla Bocconi di Milano incoraggia a non rifiutare nessuna offerta: «È psicologicamente difficile sminuirsi da soli. Però in questo momento è fondamentale essere flessibili, curiosi, disposti a muoversi. Il "familismo" tutto italiano scoraggia i compromessi, i giovani sono poco propensi a lavorare per un progetto. Invece bisogna essere leggeri, accettare un livello inferiore alla propria formazione e aspettare l' occasione per rilanciarsi». Elvira Serra RIPRODUZIONE RISERVATA **** Il curriculum perfetto Precisione e semplicità Lineare, senza fronzoli. Mai più di due pagine. Mai scriverlo a mano. Mai oltre 2-3 righe sulle passioni personali Il segreto della lettera d' accompagnamento Il suo scopo è attirare l' attenzione, incuriosire chi legge e invogliarlo ad approfondire il profilo La disponibilità alla mobilità La disponibilità a spostarsi, anche all' estero, è sempre apprezzata. Quindi va valorizzata nel «cv» Conoscere l' inglese (ma veramente) Mai barare. Perché può capitare che durante il colloquio l' esaminatore prosegua la conversazione nella lingua indicata sul «cv» Serra Elvira _________________________________________ Il Corriere della Sera 6 Mar.’11 I NEOPIRATI INFORMATICI LIBERATORI DEL SAPERE O USURPATORI DI DIRITTI SOCIETÀ GLI ANTICHI CORSARI E I TEORICI «NO COPYRIGHT» A OGNI SVOLTA TECNOLOGICA RICOMPARE IL CONFLITTO TRA CHI DIFENDE LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE E CHI L' ACCUSA DI FRENARE IL PROGRESSO. UNA CANZONE DEL ' 700 DICEVA CHE SE I FRATELLI DELLA COSTA FOSSERO STATI CACCIATI DAI MARI SAREBBERO TORNATI VOLANDO. QUASI UNA PROFEZIA AL TEMPO DEGLI HACKER E DI WIKILEAKS Si deve arrivare a un' economia ibrida tra ricerca del profitto e condivisione. Il futuro del diritto d' autore dovrebbe essere la sua progressiva estinzione a vantaggio di una regolamentazione che alimenti l' intera gamma della creatività consentita da Internet È stata l' invenzione di Gutenberg a porre le basi della pirateria. Perché la stampa - salutata da Lutero come strumento per propagandare la Riforma - poteva mettere a disposizione del pubblico tanti esemplari dello stesso libro F ebbraio 2007, ovvero... i turbamenti del piccolo Holden: sentendo un trascinante brano di Prince, Holden Lenz, età 18 mesi, si è messo a ballare. La madre Stephanie, trovando la scena irresistibile, l' ha registrata in formato digitale e ha caricato il video su YouTube. Quattro mesi dopo l' Universal Music Group, che controlla una parte dei diritti d' autore del cantante, ha minacciato la signora Lenz di pesanti sanzioni economiche e giuridiche, ottenendo infine che YouTube rimuovesse il video incriminato. Sapevamo che, al tempo della pirateria classica, non mancavano donne energiche almeno quanto i colleghi maschi; ma arruolare una madre di famiglia tra le «sorelle della costa» oggi pare decisamente eccessivo! Questo, almeno, è il parere del giurista Lawrence Lessig, che apre con i dolori di Stephanie e Holden Lenz la sua ultima fatica, Remix. Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni). Non senza ricordare che da decenni negli Stati Uniti «i tribunali civili federali sono stati usati per fare la guerra alla pirateria» senza esclusione di colpi. Ma non mancano i precedenti. Nel 1898 un raid della polizia di Chicago rinvenne delle macchine per la duplicazione dei cilindri fonografici dietro a una porta contrassegnata da teschio e tibie incrociate. Nel 1906 John Philip Sousa, direttore di bande musicali nonché compositore di marce di successo, invitava il Congresso degli Stati Uniti a mettere fine all' attività dei fabbricanti e rivenditori di dischi che si appropriavano «delle migliori opere degli artisti americani a fini di profitto senza pagare un centesimo». Circa mezzo secolo dopo, un intraprendente newyorkese, Dante Bolletino, dava vita a una propria etichetta che, infischiandosene di qualunque diritto d' autore, rimetteva sul mercato - in 33 giri - brani jazz prima relegati su introvabili 78: l' impresa era stata battezzata Jolly Roger, con allusione allo stendardo (prima rosso poi nero) che un tempo sui mari aveva mosso guerra a tutte le bandiere. Altri facevano lo stesso con le incisioni operistiche: a queste scorrerie non era sfuggito Il pirata di Vincenzo Bellini! Attaccati dalle majors dell' epoca, i «fuorilegge del microsolco» ribattevano con orgoglio: «Noi pirati - se proprio dovete chiamarci così - siamo i custodi della storia vocale». A ogni svolta tecnologica compare in nuove forme il conflitto tra coloro che difendono la proprietà e quelli che l' accusano di frenare una scienza migliore o una vita più felice. «Privato, participio passato di privare», ha scritto Raf Valvola Scelsi, uno dei più brillanti teorici italiani del No copyright. E in un' antologia così intitolata, pubblicata nel 1994 e ormai diventata un classico, troviamo la straordinaria testimonianza di John Perry Barlow («ex allevatore di bestiame nonché scrittore, seccatore elettronico e compositore di testi per i Grateful Dead»), che nel 1992 non sembrava aver dubbi: «Ogni volta che un governo incontra una nuova tecnologia per l' espressione, la prima cosa che fa è immaginare modi per controllarne la libertà. Un governo non è ciò che ti dà libertà, ma ciò che te la porta via». Militante nel Partito repubblicano, Barlow è stato uno dei fondatori della Electronic Frontier Foundation, nata negli Usa per difendere una libera telecomunicazione. Nel 1976 Bill Gates aveva «spedito» una lettera aperta sulla pirateria contro tutti i ragazzi che teorizzavano che «se l' hardware del computer va pagato, il software è qualcosa che va condiviso». Il corso degli eventi non è andato come il fondatore di Microsoft auspicava (i neopirati «dovevano venir cacciati a pedate» dal cyberspazio) e la società di Gates ha corso, solo pochi anni fa, un serio rischio di smembramento come conseguenza delle accuse per «abuso di posizione dominante» formulate dal governo degli Stati Uniti, che sorprendentemente aveva riscoperto la vocazione antimonopolistica dei Padri fondatori. Forse Barlow era stato troppo pessimista. Da buon allevatore aveva comunque compreso la differenza tra il marchio del bestiame e il copyright! «Se rubo il vostro cavallo voi non potete più cavalcare, ma posso rubare la vostra informazione e riprodurla un migliaio di volte; e voi ce l' avrete ancora, e ciò che potrete fare di essa sarà differente da ciò che qualcun altro ne otterrà». Del resto, era stato ammaestrato dall' esperienza dei componenti del suo gruppo musicale, i quali avevano imparato sulla loro pelle quanto fosse dannoso arruolare dei «gorilla» per buttar fuori coloro che ai concerti facevano registrazioni abusive: meglio autorizzare tale «pratica illecita» con soddisfazione di tutti, e ciò aveva finito col giovare assai alla popolarità della band. E Lessig, che è stato repubblicano in gioventù per poi avvicinarsi ai democratici del presidente Obama, tesse l' elogio di tutti coloro che mescolano testi, suoni e immagini, usando tale materiale «come vernici sparse su una tavolozza». Certo, «tutta la vernice è stata grattata via da altri quadri», sicché ogni opera di remix potrebbe sembrare un caso di parassitismo. Ma ragionare così è un po' come pretendere che, per esempio, tutto il valore dei Girasoli provenga dalla vernice e che Van Gogh non sia stato altro che un profittatore della fatica dei fabbricanti di pigmenti! Per Lessig si deve arrivare a un' economia ibrida tra ricerca del profitto e condivisione. Il futuro del diritto d' autore dovrebbe essere... la sua progressiva estinzione, a vantaggio di un diverso tipo di regolamentazione «che alimenti l' intera gamma della creatività e della collaborazione consentita da Internet». Invece, il rafforzamento «estremistico» del copyright in una singola nazione o a livello internazionale rischia di «corrompere intere generazioni, poiché anche le persone oneste diventano pirati in un mondo in cui le regole appaiono assurde». Come ricorda infine Adrian Johns nel suo monumentale Pirateria. Storia della proprietà intellettuale da Gutenberg a Google, apparso ora in italiano, la parola pirata «deriva da una radice indoeuropea che significa tentativo o anche esperimento». Soprattutto il moralismo latino - da Cicerone ai padri della Chiesa - aveva fatto degli scorridori del mare il prototipo dei nemici del genere umano o il flagello di Dio. Secoli dopo, Daniel Defoe definiva piratate quelle opere che venivano ristampate «in una riduzione, in un compendio o semplicemente in caratteri più piccoli». E lo scrittore inglese di pirati «veri» se ne intendeva, visto che è stato identificato - anche se non da tutti - con quel «Capitano Charles Johnson», autore (1724) di una Storia generale delle rapine e degli omicidi perpetrati dai più notori pirati, destinato a diventare un bestseller (e a sua volta immancabilmente «piratato»). A parere di Johns, è stata l' invenzione di Gutenberg a cambiare le cose. L' arte della stampa, salutata da Lutero come il migliore strumento per la propagazione della Riforma e da Galileo come il mezzo più adatto per la diffusione dell' immagine matematica del mondo, poteva mettere a disposizione del pubblico tanti esemplari dello stesso libro, e a costo assai limitato. Nell' Inghilterra di Elisabetta I, detta la Regina Vergine, uno stampatore abusivo, tale John Wolfe, respingendo l' accusa di ribelle, si definiva nientemeno che «il Lutero dell' editoria». Mentre i potenti Stati atlantici autorizzavano la guerra dei corsari, considerando pirati tutti quelli che operavano per la concorrenza o addirittura «in proprio», tipi come Wolfe erano reputati «i peggiori nemici della Corona», perché potevano far circolare opere sovversive e usurpavano quella che era una prerogativa del sovrano: «peggio dei birrai, che al massimo rischiano di rubare una briciola dei guadagni della Corona eludendo le tasse», mentre loro macchiavano «non solo la reputazione del sovrano, ma anche i cuori del popolo». E il filosofo Thomas Hobbes doveva poi notare che le moderne guerre civili cominciano «con proiettili di carta» prima che intervengano cannoni e pistole. Nel periodo tra la «Grande ribellione» (che nel 1649 avrebbe portato un re, Carlo I, sul patibolo) e la «Gloriosa rivoluzione» (che ne avrebbe sostituito un altro, Giacomo II, nel 1688), i pirati dell' editoria avevano rimpiazzato il «monarchico» controllo della stampa con un' autentica «anarchia di libri»: mostruosa agli occhi dei detrattori, ma «alleata» del progresso della conoscenza per tutti coloro che ritenevano che la cultura fosse un tipo di merce che non sopporta dazi e gabelle. In questo «illuminismo piratesco» (come lo chiama Johns) era in embrione l' argomento di Barlow; una canzone del primo Settecento dice che se i pirati saranno cacciati da tutte le acque, ritorneranno volando nell' aria. La profezia si è avverata! C' è un nesso sottile tra la pirateria dell' informazione e quella classica. Si sono rispecchiate una nell' altra, creando forme inedite di associazione e di garanzia contro il monopolio della forza fisica o quello delle idee che gli Stati cosiddetti legittimi pretendevano per sé. Gli storici hanno mostrato che tale lezione è stata fatta propria dall' «esperimento democratico» per eccellenza: gli Stati Uniti, nati in America dalla lotta anticoloniale. Quei «risoluti ribelli» non avevano esitato a introdurre nelle loro costituzioni gli stessi stratagemmi che le «canaglie dei mari» utilizzavano nei loro patti scritti - per esempio, disponendo i nomi dei firmatari in circolo, sia perché un giudice non potesse individuare i maggiori responsabili sia perché meglio risultasse l' eguaglianza di tutti coloro che rischiavano la vita «tra il Diavolo e il profondo mare azzurro». Benjamin Franklin, inventore e stampatore nonché teorico dell' indipendenza americana, non solo approvava tali pratiche, ma era anche fra quanti sostenevano la liceità di copiare (senza pagare) libri e progetti tecnologici della vecchia Europa. Oggi, per dirla con Raf Scelsi, pare necessaria una «ontologia della copia»: siamo attraversati dalle informazioni più disparate e dobbiamo tramutare la passività di chi è seduto in poltrona al cinema o davanti alla televisione nella costruzione di una nostra autonoma sfera intellettuale. Copiare è scegliere. La storia della pirateria è quella della nostra modernità, e lo spettro della sovversione non è facilmente esorcizzabile, nonostante che burocrati e politici ce la mettano tutta. I nastri magnetici di qualche decennio fa sono pressoché dimenticati, eppure vennero spesso additati come una minaccia al diritto e all' economia. E Johns rammenta quanto scrisse Michel Foucault sul «Corriere della Sera» del 19 novembre 1978: sarebbero state le cassette con i discorsi di Khomeini il fattore determinante del crollo dello Scià di Persia. Adesso sotto accusa sono tutti gli «sperimentatori» che condividono in rete materiale protetto da copyright, per non dire di quegli hackers che violano i sistemi di sicurezza informatica sottraendo dati «classificati» (ovvero coperti da segreto) da agenzie governative e istituti economici e finanziari. Originariamente il termine hacker indicava chi, con l' informatica, cercava soluzioni eleganti (hacks) ai più disparati problemi; ben presto fra i «bersagli preferiti» vennero annoverati i fornitori del Dipartimento della difesa Usa! Ma oggi il pirata rischia di naufragare in quella «zona grigia» in cui non è facile distinguere fra «buoni» e «cattivi», mentre non si scorgono più i tratti ammonitori del Jolly Roger. Lo ricordava Maria Laura Rodotà sul «Corriere» del 7 febbraio, a proposito di un presunto ricatto di Assange al governo britannico: niente estradizione in Svezia in cambio dello stop a nuove indiscrezioni politiche. Un tempo il pirata liberava i gentiluomini che aveva catturato contro «oro sonante». Adesso gioca la sua partita tra privacy e segretezza, «sequestrando» le notizie che ha tecnologicamente carpito. Vale sempre la domanda di Kant (in La pace perpetua): di che cosa sarà intessuto qualsiasi piano «che deve restare assolutamente segreto per poter aver successo»? La risposta è semplice: consisterà di ingiustizie vergognose che sono potenziali minacce per tutti. RIPRODUZIONE RISERVATA Copiare è scegliere. La storia della pirateria va di pari passo con quella della nostra modernità **** **** L' autore Giulio Giorello, filosofo, matematico, epistemologo, è nato a Milano nel 1945. Insegna Filosofia della scienza all' Università degli studi di Milano. Cura la collana sulla scienza presso l' editore Cortina. Numerosi i suoi saggi, tra gli ultimi ricordiamo: «Lussuria» (Il Mulino) e «Senza Dio» (Longanesi) **** Il film L' atteso «Pirati dei caraibi 4: oltre i confini del mare» sarà nelle sale italiane dal 18 maggio: girato da Rob Marshall, prodotto dalla Disney, è stato ripreso in 3D. Come nei tre episodi precedenti, la storia è prodiga di azione. Il capitano Jack Sparrow (Johnny Depp) incontra una donna del suo passato (Penelope Cruz), e non capisce se si tratta di amore - o se lei è un' artista dell' inganno che ha deciso di usarlo per trovare la fonte della giovinezza. **** Tutti i titoli per approfondire Per approfondire con le letture in tema di pirateria informatica e il copyright: «No copyright. Nuovi diritti nel 2000» (Shake edizioni Underground) (a cura di Raf Valvola Scelsi, che contiene interventi di Bill Gates e John P. Barlow; «Il sapere liberato. Il movimento dell' open source e la ricerca scientifica» (Feltrinelli) del Gruppo Laser; «Remix. Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni)», (Etas, Rcs libri) di Lessig Lawrence e, infine, «Pirateria. Storia della proprietà intellettuale da Gutenberg a Google» (Bollati Boringhieri) di Adrian Johns. Per la pirateria vera e propria: «Sulle tracce dei pirati» (Piemme) di Marcus Rediker; «I ribelli dell' Atlantico» (Feltrinelli) di Peter Linebaugh e Marcus Rediker; «Canaglie di tutto il mondo. L' epoca d' oro della pirateria» (Eleuthera) di Marcus Rediker; «L' economia secondo i pirati» (Garzanti) di Peter T. Leeson; «Per la pace perpetua di Kant» è uscito nell' edizione dei «Classici del pensiero libero» andata in edicola con il «Corriere della Sera» il 15 gennaio. Giorello Giulio _________________________________________ Il Corriere della Sera 11 Mar.’11 LA SOLITUDINE DIGITALE È UN PERICOLO SERIO Sherry Turkle: le reti sociali non sono droga, ma strumenti molto delicati sì S tai assistendo a un funerale ma la coda dell’occhio è attratta dalla lucina rossa del Blackberry che lampeggia nel taschino. Per un po’ resisti, poi lo tiri fuori con noncuranza per leggere il messaggio appena arrivato. Un ragazzo sta per ore col cellulare in mano a scambiare testi, ma non parla mai al telefono. Perché? «Perché se conversi perdi tempo, è difficile chiudere e poi rischi di rivelare troppo, di esporre le tue emozioni» . Appuntamento a casa di una possibile baby sitter, cerchi di capire se è la persona giusta. Apre la compagna con la quale divide l’appartamento: «È in camera sua, ora l’avverto» . E digita un messaggio sull’iPhone. «Ma non si fa prima a bussare?» . «Oh no, non farei mai una cosa così intrusiva» . Scene da Alone Together («Soli insieme» ), l’ultimo libro di Sherry Turkle, una docente di psicologia che al Mit di Boston analizza l’impatto delle tecnologie digitali sui comportamenti sociali. Di studi di questo tipo— sull’alterazione dei meccanismi dell’apprendimento indotti da Internet, sulla difficoltà di concentrarsi e andare in profondità in un’era di bombardamento di messaggi aggiornamenti continui e link che ti portano altrove— ne sono già stati pubblicati tanti. Ma l’evoluzione delle tecnologie pone problemi sempre nuovi, mentre l’esplosione del fenomeno delle reti sociali sta creando, negli Usa, un dibattito infuocato nel quale prevalgono le visioni critiche: da quella di The Dumbest Generation (la generazione più superficiale), un saggio di Mark Bauerlein, docente della Enory University, allarmato dalla tendenza dei giovani a usare Internet non per apprendere ma quasi solo per comunicare in un vortice di messaggi spesso banali e redatti con un linguaggio abbreviato, al giovane studioso Evgeny Morozov che in The net Delusion sostiene che reti come Facebook impigriscono i giovani illudendoli che basti un click per diventare socialmente attivi. La Turkle merita un’attenzione particolare per il modo in cui tratta il problema della solitudine digitale— l’idea di poter socializzare restando chiusi nella propria stanza, senza un vero contatto umano —, ma anche per le sue note sull’evoluzione del concetto di simulazione. La docente del Mit parla con l’esperienza di chi ha scritto il primo saggio sociologico sulla rete (The Second Self) nel 1984, all’alba dell’era dei computer. Oggi è più pessimista di allora, ma cerca di essere costruttiva: «Non sono una luddista» , dice, «e non mi piace usare per le reti sociali la metafora della dipendenza: non sono droga, solo strumenti delicati, che dobbiamo imparare a usare bene» . Del resto quello della simulazione digitale sta diventando un problema anche fuori Internet: in rete c’è quella del «secondo io» , l’immagine diversa di sé che si dà online. Nella vita reale arrivano i robot per l’assistenza agli anziani (già diffusi in Giappone). L’illusione della compagnia meccanica. massimo. gaggi@rcsnewyork. com __________________________________________________ Il Sole24Ore 3 mar. ’11 IL RATTO NEL ROBOT Due ricercatori italiani spiegano come le neuroscienze renderanno autonome le macchine IL NEUROSCIENZIATO Richard G. Morris HA INVENTATO IL TEST PER STUDIARE LA MEMORIA SPAZIALE DI LUCA TREMOLADA Considera il ratto. Ha un cervello composto da 21 milioni di neuroni (quello umana ne ha circa 100 miliardi), pesa 2 grammi e funziona con l'energia che serve a illuminare un albero di Natale. Non gioca bene a scacchi come Blue Brain, né riesce a battere il più forte concorrente di quiz come è successo recentemente con Watson. Ma ha intuito, si adatta all'ambiente, riconosce i pericoli e improvvisa. Simulare in un robot questa "intelligenza" significa progettare computer che replichino il funzionamento del cervello animale. Grazie alle neuroscienze sono stati costruiti software capaci di replicare il funzionamento di un cervello all'interno di un elaboratore elettronico. Ma ci si è sempre scontrati con i limiti del silicio sia per quanto concerne il consumo di energia (legge di Moore) che per l'architettura (contrariamente ai chip tradizionali, definiti nel secolo scorso da von Neumann, nel cervello biologico non esiste una separazione fisica fra memoria ed elaborazione dell'informazione). Per usare una parola, ciò che rende il cervello biologico superiore a qualsiasi calcolatore è l'architettura. Due anni fa il Darpa, l'agenzia delle ricerche avanzate dell'esercito americano, mise sul piatto complessivamente so milioni di dollari per lanciare il progetto SyNAPSE. L'obiettivo era di costruire un chip neurale a basso costo e basso consumo energetico che mima il cervello animale. Per 1"'hardware" sono stati scelti partner come Hp, Ibm e Hrl. Per il software, gli algoritmi biologici ovvero i modelli del cervello che popoleranno il neuro-chip è stato selezionato il Dipartimento di Sistemi Cognitivi e Neurali dell'Università di Boston. Alla guida del team chiamato a progettare e testare la prima versione del cervello artificiale denominato MoNETA (Modular NEural Traveling Agent) ci sono due scienziati nati in Italia Ennio Mingolla e Massimiliano Versace che due mesi fa hanno raggiunto il primo obiettivo: realizzare un animale virtuale capace di riprodurre fondamentali funzioni percettive ed emotive. L'animale scelto? Un ratto, appunto. «La novità rispetto ad altri progetti di intelligenza artificiale è che lavoriamo su sistemi all brain completi, autonomi che non hanno bisogno di una programmazione a priori che dica loro cosa è bene e cosa è male». Delle macchine capaci di esplorare l'ambiente circostante, apprendere e adattarsi. Quello che studiano al Center of excellence for learning in education, science and technology (Celest) dove lavorano i due scienziati sono appunto algoritmibiologici, simulazione delle proprietà matematiche delle reti neuronali. «I nostri programmi sono molti astratti - spiega Mingolla -. Sono equazioni matematiche che definiscono neuroni e sinapsi. Attualmente stiamo lavorando sul comportamento del software-ratto utilizzando un ambiente virtuale ispirato alle "vasche di Morris" per studiare come esplorare e risolve problemi». Chiaramente, tengono a precisare gli scienziati, siamo all'inizio di questa ricerca: l'ingegneria neuromorfa lavora su chip, gli Hp Lab sono impegnati sui memristor, circuiti ad altissima densità mentre chi progetta il software lavora sugli algoritmi. Il Darpa si è dato sette anni, e naturalmente non intende partorire un topolino, bensì nuova generazione di robot capaci di risolvere problemi e reagire autonomamente. Non solo l'industria militare è interessata a hardware con architetture che replicano il funzionamento del sistema nervoso. Il team di Mingolla è stato contattato anche dalla Nasa e da industrie del settore privato come iRobot. Ma in questo momento l'attenzione si concentra nei laboratori. In tutto il mondo sono stati avviati progetti di ricerca ambiziosi e dì lungo periodo. Un esempio è Blue Brain di Ibm. Nato nel 2005 si è dato un orizzonte di 1.5 anni per simulare attraverso un supercomputer il comportamento di un cm2 di corteggia celebrale. A Stanford Kwabena Boahen lavora su chip al silicio, tra gli scopi di questa ricerca denominata Neurogrid c'è anche quello di realizzare una retina artificiale. A gennaio è partito Brainscales, un programma Ue per la realizzazione di un processore neuromorfico. «C'è una massa critica. Nel nostro caso - precisa Versace - gli esperimenti di neuroscienze, le teorie che sono state elaborate hanno trovato nei computer e quindi nella capacità di calcolo uno strumento straordinario di test e di simulazione. Ma la novità che almeno per il nostro tipo di ricerche è in grado di fare la differenza è rappresentata da robot a basso costo per sperimentare algoritmi e chip di nuova generazione. Verosimilmente i primi risultati arriveranno da chi saprà comporre software, hardware e ricerca nel giusto mix. Come avviene in Formula Uno. La macchina che vince non è quasi mai quella che ha il motore più potente». __________________________________________________ Le Scienze 3 mar. ’11 FAGIN: L'UOMO DEI MICROPROCESSORI Quarant'anni fa Federico Faggin rivoluzionò il mondo dei computer inventando i microprocessori, un'innovazione premiata di recente da Barack Obama Il suo 1968 lo ha farm in un laboratorio della Silicon Valley. Ma la sua rivoluzione è stata silenziosa e, parola di Barack Obamaa, ha davvero cambiato la storia. Federico Faggin è l'inventore del microprocessore. la minuscola unità centrale di un computer che esegue le istruzioni di un programma e gestisce la comunicazione tra memoria e unità di ingresso e di uscita. Con il microprocessore i computer sono diventati più veloci, più piccoli e più economici. Per questo Faggin è stato premiato qualche mese Lì dal presidente con la National Medal of Technology and Innovation, il massimo riconoscimento statunitense per l'innovazione tecnologica. «l risultati straordinari di questi scienziati, ingegneri e inventori sono una testimonianza per l'industria americana... I loro successi hanno ridisegnato le frontiere della conoscenza umana rafforzando allo stesso tempo la prosperità americana», ha detto Obama. Peccato che Faggio sia nato a Vicenza e si sia laureato a Padova, anche se vive negli Stati Uniti da più di quarant'anni. Che cosa le ha detto Barack Obama nel premiarla? Si è congratulato calorosamente, affermando che il microprocessore ha letteralmente cambiato il inondo. Ecco, ma come è arrivato il microprocessore? Alla metà degli anni sessanta, se si voleva costruire un piccolo computer, l'unica memoria disponibile era un tipo seriale fatto con la tecnologia MOS (metal-aride semieonductod. Insomma, una memoria troppo lenta per i computer generici. Le applicazioni erano limitate a calcolatrici da tavolo e poco altro. Poi. in qualche anno, la tecnologia MOS fece passi da gigante, grazie all'introduzione del silicon gare che sostituiva la tecnologia in alluminio: fu il mio primo progetto iniziato all'arrivo nella Silicon Valley nel febbraio 1968, nei laboratori della Fairchild Semiconductor. In poco tempo questa tecnologia basata sul silicio policristallino venne adottata dall'industria e si impose sul mercato. Sei o sette anni dopo fu possibile produrre un intero computer in un unico chip, cioè integrare processore, memorie e circuiti di ingresso e di uscita dando vita al microcontrollore che oggi è ovunque: negli spazzolini elettrici, nei telefonini, nelle automobili e cosi via. E poi, che cosa successe? Nel 1969 due aziende, una giapponese e una statunitense, cercarono di collaborare con Intel per realizzare due processori. Fui assunto da Intel per realizzare quello giapponese: avevo appena prodotto il silicon gaie, che richiedeva una metodologia di progetto logico rutta sua, ed ero la persona giusta. Cosi costruii i circuiti necessari per un processore che poteva essere integrato in un chip di 3 millimetri per 4, il famoso Intel 4004. Questa famiglia di chip fu lanciata sul mercato nel novembre 1971. Tutto questo è stato l'inizio del persona( computer. Avevate idea della rivoluzione che stavate avviando? In realtà l'inizio del personal computer avvenne dopo. con l'introduzione del microprocessore 8008. il primo a 8 bit. nell'aprile 1972. Verso la fine del 1969 anche Datapoint aveva chiesto a Intel di costruirle una memoria su misura. I miei colleghi Marciati Hoff e Stanley Mazor, anche loro premiati dal presidente Obama, convinsero Intel che era possibile integrare tutto in un singolo chip. Il progetto, cioè, era stato avviato prima che io arrivassi alla Intel. Poi però fu messo da parte perché chi ne era a capo non conosceva il silicon gale. E cosi nel 1971. dopo la realizzazione del 4004. fui messo a lavorare su quel progetto, e 1'8008 fu realizzato senza troppa difficoltà. ta. È anche uno dei pionieri della posta elettronica di massa e dei touchscreen dei nostri videofonini. E il futuro? Che cosa pensa che succederà all'informatica? Ci sono due strade fondamentali lungo le quali avremo sviluppi veramente rivoluzionari. La prima riguarda lo studio di materiali e fenomeni fisici nuovi su cui basare l'elettronica. Fino a oggi il progresso si è basato sulla riduzione delle dimensioni fisiche del transistor MOS. Ma presto diventerà difficile rimpicciolirlo ulteriormente. Cosi per continuare a produrre computer sempre più potenti dovremo usare principi fisici differenti. Per esempio potremmo trovare il modo di impiegare un solo atomo come supporto fisico per un bit di informazione, o addirittura una particella elementare conte un protone. un fotone o un elettrone. Federico Faggin é nato a Vicenza nel 1941, dove si è diplomato perito Industriale. e si laureato in fisica all'Università di Padova nel 1965. Da! 1968 risiede negli Stati Uniti e dai 1978 é cittadino statunitense Ha lavorato prima per Fairchild Semicondlictor R&D Laboratories di Palo Alto, in California, poi per Intel. Nel 1974 ha fondato ZiLOG la prima societa al mondo interamente dedicata allo sviluppo dei microprocessori. che nel 1976 ha introdotto sui menato lo Z80_ di cui tino a oggi sono stati prodotti più di due miliardi di esemplari. È stato cofondatore e presidente di altre società di tecnologia, che hanno portato alla realizzazione di sistemi di riconoscimento ottico e del touch paci. Faggin ha ottenuto oltre 40 riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui la Medaglia doro per la scienza e per la tecnologia del CNR. ne! 1988. e il titolo di Grande Ufficiale della Repubblica Italiana nel 1992. __________________________________________________ Il Sole24Ore 6 mar. ’11 TRA 20 ANNI ROBOT PIÙ INTELLIGENTI DELL'UOMO di Lara Ricci Intelligenza, per Ray Kurzweil, è «capacità di risolvere problemi usando risorse limitate, come il tempo». Ebbene, il celebre inventore è convinto che i n 20 anni costruiremo macchine più intelligenti di noi. 112045 sarà il momento della «singolarità», ovvero dell'esplosione dell'intelligenza. Rappezzandoci con le tecnologie aumenteremo esponenzialmente le nostre capacità mentali, trascendendo i nostri limiti biologici. Chi già ridacchia forse non sa che Kurzweil ha creato il primo scanner CCD, il primo sistema per riconoscere i caratteri e poi il parlato, la prima macchina che legge un testo (usata da Stevie Wonder). Ha vinto il Mit-Lemelson Priz e, il maggior premio all'innovazione, ha 18 lauree honoris causa e la sua Singularity University, fondata con Larry Page, è ospitata dalla Nasa. Può valer la pena ascoltare cosa ha da dire. La sua definizione di intelligenza comprende anche quella emotiva: «la più complessa. Far ridere, provare sentimenti, essere sexy sono comportamenti molto intelligenti. Se consideriamo solo le abilità logiche, i computer sono già superiori a noi», spiega. Quando sostiene che in 20 anni le capacità intellettive dei robot saranno pari alle nostre si basa principalmente su tre considerazioni. La prima è che le tecnologie dell'informazione progrediscono esponenzialmente (la potenza di calcolo raddoppia ogni anno); la seconda è che se stimiamo quanta capacità di calcolo serve per simulare l'intelligenza umana, questa capacità è già alla portata dei supercomputer e in 10 anni sarà in un pc. La terza riguarda l'elemento più importate di queste macchine: il software: «È una stima conservativa dire che avremo modelli di simulazione del nostro cervello funzionanti in 20 anni: la comprensione della mente fa progressi esponenziali. E ciò sarà la chiave per creare il software di simulazione dell'intelligenza umana», ha spiegato Kurzweil, ieri a Milano per un incontro organizzato da iLabs, laboratori dì ricerca privati fondati 33 anni fa da Gabriele Rossi ed Antonella Canonico e finanziati coi proventi degli spin off. «Quando, nel '98, i supercomputer batterono il campione mondiale di scacchi, la gente disse che non sarebbero mai stati capaci di capire il linguaggio umano. Ma l'estate scorsa il supercomputer Watson ha vinto il quiz tv Jeopardy, dove le domande erano ricche di riferimenti emotivi, giochi di parole, battute». Robot con le nostre capacità intellettive disporranno dell'intero scibile umano, poiché leggeranno tutto il Web e non dimenticheranno nulla: difficile immaginare come sarà il mondo tra 20 anni. E difficile accettare un tale cambiamento: «La nostra intuizione del futuro è lineare, mentre il progresso è esponenziale (inoltre i progressi iniziali sono difficili da percepire, poiché la curva logaritmica parte quasi piatta, per poi impennarsi)». _________________________________________ L’Unione Sarda 06 Mar.’11 RIPENSARE LA 554, IL PROGETTO C'È GIÀ Disponibili 60 milioni per cambiare volto alla strada-killer   Una strada statale di circonvallazione importantissima per Cagliari e tutto il suo hinterland: la 554 ha urgente bisogno di essere rivisitata. Il progetto esiste già, servono altri 30 milioni. Il primo tratto, dal Quadrifoglio all'uscita per Baracca Manna, è famigerato per le lunghissime code che si formano all'ora di punta e che costringono i pendolari ad attese di oltre mezz'ora per percorrere appena due chilometri. Il secondo, da Monserrato a Quartu, è famoso per l'eccessiva pericolosità causata dagli incroci e da una sfilza sconfinata di accessi laterali (103 lungo tutta la statale tra stradine e ingressi di aziende), da cui spuntano continuamente all'improvviso veicoli, mezzi agricoli o camion con rimorchio. Il progetto preliminare per rendere più sicura e snella la circonvallazione 554 esiste, approvato dalla Regione con un accordo di programma siglato tre anni fa (4 luglio 2008). Per trasformarlo in cantieri occorrono poco più di 90 milioni di euro, 60 dei quali già disponibili. PERICOLI Delle 19 persone che hanno perso la vista negli ultimi dieci anni lungo i 13 chilometri della statale “Cagliaritana”, la maggioranza è rimasta vittima di incidenti in prossimità di svincoli: mancate precedenze, oppure infrazioni al semaforo o manovre azzardate da parte di altri veicoli che tentavano un cambio di marcia. In misura minore, poi, c'è chi è morto in tamponamenti o perdendo il controllo della moto. Ma le due insidie maggiori, stando agli esperti, restano gli incroci e l'assenza della barriera spartitraffico centrale nel primo tratto (nel secondo tra Quartucciu e Quartu è stata realizzata). PROGETTO Redatto dalla Proiter, firmato dagli ingegneri Luigi Giglio e Lorenzo Badalacco, il progetto preliminare per la nuova statale 554 prevede, già dall'incarico, «l'eliminazione degli svincoli a raso». Nella mezzaluna d'asfalto a quattro corsie che collega Cagliari con Quartu, passando per Monserrato, Selargius e Quartucciu, scompariranno dunque gli incroci con semaforo e quasi tutti gli accessi ritenuti pericolosi. Trenta milioni di euro sono già nelle casse della Regione e altrettanti sono stati stanziati, mentre la Provincia ha già da tempo completato lo svincolo nei pressi del Policlinico universitario, dominato dal ponte strallato. Ne restano da fare altri nove, compreso quello più importante sulla nuova statale 125 (costa da solo 30 milioni di euro), gli ingressi di Su Planu e la risistemazione del quadrifoglio sulla Carlo Felice. La prima rotatoria, piccola, consentirà di entrare a Su Planu, mentre un viadotto legherà Barracca Manna con Su Pezzu Mannu, cancellando finalmente il primo semaforo del rettilineo che crea il maggior intralcio alla circolazione. Già aperto quello nei pressi della Cittadella universitaria, la seconda uscita di Monserrato (che si affaccia sulla SS 387) sarà regolata da un cavalcavia con rotatoria, così come quello al primo ingresso di Selargius. Stessa soluzione anche per il secondo svincolo selargino, mentre a Quartu (compreso Pitz'e Serra) ci saranno tre rotatorie senza sovrappasso. Discorso a parte, invece, per lo svincolo di Quartucciu sulla statale 125 che, una volta aperta, dovrà raccogliere il traffico proveniente dell'Orientale sarda. L'ultimo tratto di circonvallazione, dal Margine rosso a Pitz'e Serra, una volta completato risulterà molto simile, come viabilità, al litorale del Poetto. APPALTI I soldi per rifare da cima a fondo la strada ci sono, ma per gli appalti bisognerà capire come si concluderà la battaglia sulla classificazione della circonvallazione. Attualmente è classificata come “strada statale di interesse nazionale”, dunque l'ente appaltante dovrebbe essere il proprietario: l'Anas (che vuole chiudere gli accessi per farla diventare scorrevole come una qualsiasi quattro corsie). Ma le aziende (Confindustria, sindacati e operatori) chiedono che venga declassata, così da mantenere buona parte degli ingressi. In questo secondo caso, l'ente appaltate potrebbe diventare la Provincia. Intanto che si decide, i soldi restano fermi nelle casse della Regione. INTERROGAZIONE Due mesi fa, alla vigilia di Natale, un'interrogazione alla Giunta regionale è stata presentata dai consiglieri Simona De Francisci e Carlo Sanjust. I due esponenti del Pdl avevano sottolineato i rischi delle strade del Cagliaritano, prima fra tutti la 554. «Sarebbero previsti» scrivono i due consiglieri in una nota «interventi tampone per la messa in sicurezza, per un importo di circa 80 milioni di euro: lavori che, al momento, non avrebbero alcuna copertura finanziaria». FRANCESCO PINNA   _________________________________________ L’Unione Sarda 06 Mar.’11 IL VIADOTTO TRA MONSERRATO E SESTU Bello e avveniristico: quel ponte strallato ha eliminato l'ingorgo È stato dedicato a Emanuela Loi, l'agente di scorta del giudice Paolo Borsellino uccisa nell'attentato mafioso di via D'Amelio nel 1992. Il ponte strallato sulla strada provinciale 8, tra Monserrato e Sestu, è una delle opere più importanti mai realizzate dalla Provincia di Cagliari. TRE ANNI Pensato e finanziato durante la presidenza di Sandro Balletto, il progetto ha visto la luce solo dopo molti anni. Costato poco meno di 10 milioni di euro (9 milioni e 270 mila euro, per la precisione), per costruirlo ci sono voluti circa tre anni, dai primi del 2007 sino al dicembre 2009. Finanziato all'85% dalla Regione e per il resto dalla Provincia, l'opera ultratecnologica è stata realizzata dalla ditta Pellegrini (la stessa che ha costruito il sofisticato svincolo di Is Pontis Paris su viale Marconi a Cagliari). I TIRANTI La scelta di costruire un ponte retto da tiranti è dovuta non a questioni d'estetica, bensì alla necessità di superare alcuni problemi tecnici, primo fra tutti il fatto che sotto ci scorre la statale 554. Il viadotto, infatti, avrebbe dovuto scavalcare la quattro corsie con un'unica campata perché non era possibile inserire dei pilastri in mezzo alla strada come appoggi intermedi. In più, i progettisti hanno dovuto affrontare la questione della metropolitana leggera che collegherà la stazione Monserrato con la Cittadella universitaria, ideando un sottopasso ferroviario. LA TECNICA Il ponte è lungo 82,5 metri, ha una struttura in cemento armato con un'antenna di 59 metri. L'opera, unica nel suo genere in Sardegna, ha consentito anche di eliminare uno dei semafori della circonvallazione 554, quello che provocava lunghissime code lungo la provinciale alla fine delle lezioni universitarie in Cittadella. Di fatto, è stato il primo intervento innovativo su una strada che ora ha urgente bisogno di essere complessivamente rivisitata. E, come dimostra la realtà, quello del ponte strallato è il tratto della 554 che adesso è diventato più scorrevole. F.P. ========================================================= _________________________________________ L’Unione Sarda 05 Mar.’11 LA CORTE DEI CONTI BACCHETTA IL POLICLINICO Cacip «Atti illegittimi sulle aree». Policlinico, contestati 2,3 milioni Si apre l'anno giudiziario: nel mirino fondi pubblici, società fittizie e baronie nella sanità   Cita il caso dei terreni contesi di Giorgino, il procuratore regionale Tommaso Cottone. E lo cita tra i «segnali positivi» riscontrati dalla Corte dei conti nel 2010. Un riconoscimento alla Capitaneria di porto «che finalmente, nonostante fortissime e a volte ingiustificate opposizioni, è riuscita a completare l'operazione di delimitazione del porto industriale». Ma nell'intervento di inaugurazione dell'anno giudiziario della magistratura contabile, Cottone fa di più e bacchetta apertamente il consorzio industriale: «A seguito di ingentissimi finanziamenti statali, circa 1000 miliardi di lire, il Casic (ora Cacip) ha condotto nel tempo una serie di operazioni che, di fatto, avevano privatizzato vaste zone demaniali marittime sottraendole alla loro funzione e vocazione pubblica. Atti di cessioni a privati non consentiti e che, per di più, in alcuni casi, si riferivano a porzioni di terreno a suo tempo espropriate in virtù della loro natura demaniale pubblica». IL DISCORSO È il passaggio più attuale - che si inserisce tra le polemiche sulla titolarità di quelle aree - di un lungo discorso diviso a metà con il presidente della sezione giurisdizionale Mario Scano. I due hanno elencato il lavoro svolto durante lo scorso anno, lavoro duro e importante nonostante la Corte abbia da tempo «i ranghi ridotti». Mancano all'appello 128 magistrati in tutta Italia. E in Sardegna i giudici sono quasi dimezzati. I NUMERI La Corte ha aperto 1.413 vertenze per danni ad enti statali, regionali e locali, alle Asl, per finanziamenti pubblici ma anche per danni ambientali, per abusi edilizi e per inquinamento. Complessivamente sono state 24 le sentenze di condanna dei giudizi di responsabilità per 11 milioni e 700 mila euro di danni all'erario. Cottone ha parlato anche di finanziamenti pubblici per «l'economia assistita» che ha visto «cifre ingentissime» da Stato, Comunità europea, Regione, che avrebbero dovuto generare in Sardegna una «crescita che non c'è stata». 80% DI IRREGOLARITÀ «Quali case di tale discrasia, la Procura deve ancora confermare la sussistenza di gravissime devianze nell'erogazione e utilizzazione dei finanziamenti che, in moltissimi casi, non sono diretti alla realizzazione di alcun progetto produttivo e si risolvono in regalie agli imprenditori. Le rilevazioni a suo tempo eseguite hanno fatto emergere l'80 per cento di irregolarità. Per il Procuratore si è trattato di «soldi spesi male». Nel solo 2010 sono stati avviati giudizi per circa 34 milioni di euro. STL SARDEGNA Fra i giudizi significativi, quello relativo alla creazione nel 2004, da parte della Giunta regionale, della società Stl Sardegna per la gestione di servizi attinenti al turismo. «La società - ha spiegato Cottone - non ha mai operato ma ad oggi ha accumulato spese per un milione di euro, spese che sono ritenute un danno erariale per il quale i responsabili sono ora stati chiamati in giudizio». IL POLICLINICO Mentre sono stati contestati danni - le indagini sono appena concluse - per circa 2,3 milioni di euro ai responsabili del Policlinico universitario che pur avendo l'apparecchiatura per gli esami istologici, citologici, autoptici e di laboratorio ha stipulato convenzioni esterne per attività diagnostica e assistenziale. Anche in questo caso il giudizio è durissimo: «È emerso un uso distorto delle pubbliche risorse e modalità operative che, dall'osservatorio della Procura, si ritiene riguardino anche altri settori sanitari dominati da vere e proprie baronie e da colpose disattenzioni da parte degli organi preposti ai controlli». DEBITI FUORI BILANCIO Uno degli allarmi è quello rappresentato dai debiti fuori bilancio: ci sono 474 denunce (il 33,5 per cento del totale) quasi tutte relative a «situazioni debitorie pregresse degli enti locali, in particolare i Comuni». Il rischio è alto: «Tenuto conto del modesto livello finanziario degli enti locali sardi, si tratta di un dato che desta particolare allarme in quanto, in non pochi casi, il debito fuori bilancio genera crisi finanziaria dell'ente. Per quasi un terzo delle denunce, si è accertata la legittimità delle scelte delle amministrazioni. Negli altri casi si è aperto un fascicolo processuale. PARTECIPAZIONI Un cenno anche per le partecipazioni della Regione (oltre 333 milioni di euro al 2009) per le quali il procuratore ha parlato di «mondo avvolto nel buio» mentre ancora non si è a conoscenza per il 2010 «della reale consistenza delle partecipazioni pubbliche». Per Cottone, infine, «nonostante le pur allarmanti notizie di stampa, ancora non sono giunte, da parte degli organi di controllo, denunce di danno sulle eclatanti disfunzioni imputabili a società partecipate regionali, per tutte il caso Abbanoa». GLI INSEDIAMENTI Il neopresidente della Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti, Mario Scano, ha ricordato, fra l'altro, che nel 2010 sono calate le giacenze dei giudizi di pensione mentre i conti giudiziali giacenti sono passati dai 5.893 del 2008 ai 3.798 del dicembre 2010. E ieri si è insediata anche Anna Maria Carbone Prosperetti, nuovo presidente della Sezione di controllo per la Sardegna. È stata nominata con decreto del Presidente della Repubblica dell'11 febbraio, su designazione del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti. MICHELE RUFFI _________________________________________ L’Unione Sarda 05 Mar.’11 UN VOLUME PER CONOSCERE I FARMACI CHE NON FANNO MALE AI FABICI Chi è affetto da favismo, o per dirla in termini medici da deficit genetico dell'enzima Glucosio-6-Fosfato-Deidrogenasi (GC6PD), può condurre una vita del tutto normale purché controlli l'alimentazione e l'assunzione di determinati farmaci in modo da evitare crisi emolitiche gravi. Con lo scopo di dare una corretta informazione sui principi attivi dei medicinali potenzialmente pericolosi per i fabici, un'équipe dell'Unità complessa di farmacologia clinica dell'Azienda ospedaliero universitaria di Cagliari diretta dalla professoressa Maria Del Zompo ha realizzato l'opuscolo “Farmaci e carenza di Glucosio-6-Fosfato-Deidrogenasi”. Il libro è scaricabile dal sito www.farmaci-fc.it , utile servizio di informazione indipendente sui farmaci incentrato su comunicazione istituzionale e sicurezza. L'iniziativa nasce dall'intuizione del farmacologo sardo Roberto De Lisa che lavora a Londra presso l'Agenzia europea per i medicinali e si ispira a un lavoro analogo realizzato dall'Agenzia francese del farmaco. De Lisa ha pensato di importare l'idea in Sardegna dove il favismo ha una elevata incidenza con picchi che superano il 30 per cento. Grazie all'impegno di Paolo Carta, Arianna Deidda e Maria Erminia Stochino l'opuscolo è stato tradotto e adattato. CARLA ETZO _________________________________________ Il Corriere della Sera 5 Mar.’11 STOP ALLE AMBULANZE PRIVATE: SONO UN VERO E PROPRIO BUSINESS «Un vero e proprio business delle ambulanze private». È questo il contenuto di un esposto presentato dalla Cgil Funzione pubblica Sanità e dalla Cgil dell' Azienda regionale di emergenza sanitaria (Ares 118), che chiede alla magistratura di «verificare con attenzione le scelte gestionali della dirigenza aziendale». I mezzi privati, in sostanza, sostituirebbero quelli del 118 fermi nei pronto soccorso degli ospedali quando le barelle non si liberano per la carenza di posti letto dove trasferire i malati. Sul caso interviene anche Esterino Montino (Pd), che rincara la dose: «Le ambulanze private tornano a fare affari d' oro con il 118 che affitta i mezzi, forse anche non a norma, al modico prezzo di 12 mila euro al mese». Nella Capitale, secondo l' esponente del Pd, le ambulanze gestite da srl o onlus che lavorano con l' Ares sono circa 20. «E intanto quelle della Croce Rossa, convenzionate per presidiare le postazioni mobili nel centro storico, hanno lasciato il campo senza che siano mai state fornite le motivazioni», aggiunge Montino. Diversa la versione fornita dalla direzione del 118: «Le ambulanze a noleggio sono attivate dalla centrale operativa in base alle esigenze determinate dal blocco delle ambulanze del 118 davanti ai pronto soccorso ospedalieri - è stato fatto notare -. Ovvero, per evitare un pericoloso decremento del numero di mezzi di soccorso presenti sul territorio e garantire sempre rapidità di intervento». Peraltro «l' intervento di onlus e privati per supportare il 118 avviene in osservanza dell' ordinanza del presidente della Regione (n.20011 del 4 novembre 2009 attuata con delibera di giunta regionale n. 3690 del 6 novembre 2009), ma a firmare quel documento - ricordano i ben informati all' Ares - è stato proprio l' allora presidente della Regione Esterino Montino». __________________________________________________ La Stampa 3 mar. ’11 ANDI: RIVEDERE I TEST D'INGRESSO ORA SONO UN TEMO AL LOTTO» Gianfranco Prada presidente Andi Gianfranco Prada è il presidente dell'Andi, l'Associazione Nazionale Dentisti Italiani che, con oltre 23 mila iscritti, è la più grande corporazione di odontoiatri. Come valuta l'incremento degli studenti italiani in Romania? «Sicuramente nel nostro Paese i test d'ingresso alla facoltà di odontoiatria vanno rivisti: va bene limitare l'accesso ai più preparati, ma non l'esame non deve essere un temo al lotto. Quello allo studio è un diritto costituzionale che va tutelato. Ma non si può tuttavia raggirare il problema espatriando in Paesi stranieri senza i dovuti controlli». Molto dipende dall'università che si frequenta? «Certamente, perché in Romania non tutti gli atenei sono uguali e con le stesse garanzie di formazione adeguata». In che modo avviene il controllo? «Il compito spetta al Ministero della Salute: prima di riconoscere la loro laurea, nonostante la Romania faccia parte dell'Unione europea, fa dei controlli molto attenti e scrupolosi». Cautela e diffidenza derivano forse dalla paura di lauree false, «acquistate» senza mai mettere piede in una università? «In Romania c'è un precedente che risale però a diversi anni fa. Il più recente è di appena un paio di giorni fa: i carabinieri dei Nas hanno smascherato 26 persone che hanno acquistato in Polonia e un'altra in Ecuador una laurea senza frequentare le lezioni e senza effettuare i regolari esami. Ciò rappresenta un grave pericolo per la salute pubblica e un serio danno alla categoria odontoiatrica ed agli studenti onesti che giorno si impegnano per acquisire le competenze necessarie all'esercizio di una professione complessa ma sempre affascinante». Ma in questi casi siamo di fronte ad ipotesi di reato, il falso e la tentata truffa. Inoltre, i 27 indagati sono in maggior parte con precedenti specifici di abusivismo odontoiatrico. Quando, invece, l'università straniera è seria e gli studenti italiani frequentano i corsi, potrebbe esserci lo stesso il pericolo di un mancato riconoscimento del titolo? «L'accertamento viene comunque svolto, proprio a garanzia sia dei pazienti, sia degli studenti in generale». __________________________________________________ La Gazzetta del Mezzogiorno 1 mar. ’11 MEDICINA. VINCE LA BATTAGLIA CONO I BARONI MA NON PUÒ ESSERE ASSUNTO LUCA BARILE Un'indagine penale in corso, un'intera commissione sotto inchiesta e un docente che diventa il simbolo della ribellione al potere dei baroni. Eppure a quasi sei anni dall'inizio di un concorso per professore ordinario nella facoltà di Medicina, il protagonista di una storia di coraggio che ha fatto il giro d'Italia su giornali e libri, non può passare al nuovo ruolo per mancanza di fondi da parte dell'Università. Carlo Sabbà, professore associato dell'Ateneo e gastroenterologo del Policlinico, è uno dei vincitori fantasma di concorso, beffato dalla situazione finanziaria dell'Università di Bari, che avendo speso per il proprio personale più di quanto permesso dalla legge, si trova adesso nell'impossibilità di assumere nuovo personale. Un divieto che, in questo caso, si traduce nell'impossibilità di immettere Sabbà nel nuovo ruolo di docenza, avendo il professore partecipato e superato una selezione comparativa (così si chiamano i concorsi per i docenti) per passare da associato confermato ad ordinario. Una beffa che risulta ancor più amara se si considera la storia di questo concorso, rimasto sospeso per cinque anni e mezzo a causa della lunga serie di sostituzioni che si sono avvicendate nella composizione della commissione giudicatrice. Man mano che venivano indagati, infatti, i commissari rassegavano le dimissioni, paralizzando le procedure concorsuali. Riepiloghiamo la vicenda. Il concorso per professore ordinario in Medicina interna viene bandito nel maggio del 2005 dall'Università di Bari, per le esigenze della facoltà di Medicina. Il preside è Salvatore Barbuti e il direttore del dipartimento Giuseppe Palasciano, subito dopo finito sotto inchiesta da parte della procura con l'accusa di aver cercato di favorire un candidato, il presunto protetto di turno che avrebbe ostacolato la carriera di Sabbà e di altri associati che erano fuori dai giochi di potere. Sabbà e Palasciano sono i protagonisti, ognuno a suo modo, del grande scandalo che travolse la facoltà medica in quell'anno. Con un registratore nascosto, Sabbà incastrò il suo vecchio maestro mentre questi gli spiegava i meccanismi con cui i baroni scelgono in anticipo i vincitori dei concorsi. Poi allegò la trascrizione della conversazione agli atti dell'istanza di ricusazione con cui costrinse Palasciano, il commissario designato dalla facoltà, a dimettersi dalla commissione. Di qui, parte l'indagine della procura. A gennaio 2007 i carabinieri sequestrano la documentazione del concorso, in un blitz all'Università di Milano dove nel frattempo si era spostata la commissione. In successione si ritirano tutti gli altri commissari: Carmelo Erio Fiore dell'Università di Catania, Giorgio Emanuelli di Torino, Federico Calligaris Cappio del San Raffaele di Milano ed Emanuele Altomare, preside della facoltà di Medicina di Foggia. La procura ipotizza i reati di associazione, abuso di ufficio e falso, nel tentativo di portare avanti il presunto favorito di turno. Tra mille difficoltà il concorso riprende, lentamente, e a novembre dello scorso anno il rettore, Corrado Petrocelli, firma il decreto di approvazione degli atti all'esito della selezione: sono idonei a ricoprire il ruolo di professore associato in Medicina interna Paolo Gobbi, dell'Università di Pavia e Carlo Sabbà, il candidato di Bari. Un trionfo. Poi la facoltà di Medicina sceglie tra i due idonei e chiama Sabbà in ruolo, ma l'Università non può permettersi un altro professore ordinario. Almeno fino a quando non avrà i conti in ordine. __________________________________________________ Italia Oggi 1 mar. ’11 INFERMIERI, NE SERVONO 37 MILA DI BENEDETTA PACELLI Le strutture sanitarie hanno bisogno di almeno 37 mila professionisti. Ma il sistema formativo sarà in grado di formarne circa 28 mila. Ad essere ottimisti. Perché dal prossimo anno accademico alla consueta avara programmazione per la formazione delle future leve delle 22 aree sanitarie, si aggiungeranno gli effetti della riforma universitaria che porteranno a un'ulteriore riduzione dei posti messi a disposizione dagli atenei. È questa la fotografia scattata dalle categorie sanitari e dalle regioni ai fini della rilevazione del fabbisogno di professionisti, inviata al ministero della salute. In particolare, spiega Angelo Mastino, rappresentante della Conferenza dei corsi di laurea delle professioni sanitarie, le professioni denunciano una richiesta di 37 mila per il prossimo anno, da 35.632 (+4%) dello scorso anno, con i 1.350 posti in più, la maggior parte dei quali (1000) solo destinati agli infermieri. La Federazione Ipasvi dal canto suo ha di-chiarato che all'appello mancano 23.600 infermieri, contro i 22.620 dello scorso anno. Diminuisce invece dell'8% la richiesta delle regioni, da 33.764 dello scorso anno a 31.100 per il 2011-2012. Nel totale delle 22 professioni, a fronte della richiesta media di circa 34.000, resterebbe ancora insufficiente l'offerta delle università che lo scorso anno fu di 28.142, con differenza in meno di circa 6 mila (-21%). Resta da vedere cosa succederà con l'entrata in vigore, dal prossimo anno accademico, del futuro assetto definito dai nuovi ordinamenti didattici (secondo il decreto interministeriale 19/02/09) presentati dagli atenei e che entro il 15 marzo dovranno avere il parere del Consiglio universitario nazionale. Un restyling che, come per gli altri corsi di laurea, ha costretto gli atenei a tagliare i corsi, rivedere gli esami e riconteggiare i crediti. Uno degli obiettivi principali dei nuovi ordinamenti è quello di aver definito ordinamenti e regolamenti didattici uniformi in tutto il territorio nazionale. E questo al solo fine di garantire alle rispettive professioni sanitarie livelli di preparazione adeguati alle esigenze assistenziali, riabilitative, e tecniche del Servizio sanitario nazionale. In questa ottica sono stati quindi vincolati almeno 60 Crediti formativi universitari (Cfu che corrispondono a 25 ore di impegno per studente) di tirocinio sul totale di 180 in tre anni. __________________________________________________ La Stampa 8 mar. ’11 ECCO LA FIRMA GENETICA DEL DIABETE La scoperta scientifica segue davvero percorsi inaspettati. Lo sanno bene i ricercatori dell'Università Magna Graecia di Catanzaro che, dalla ricerca sulle malattie rare, sono arrivati a svelare la causa di una delle malattie metaboliche più diffuse nel mondo, il diabete matto di tipo 2. Grazie al sostegno di Telethon, Antonio Brunetti e il suo team hanno scoperto la «firma genetica», presente in un dia-betico su 10, che aumenta di 16 volte il rischio di sviluppare questa malattia. I risultati sono stati pubblicati sul «Journal of Ameri-can Medical Association» a pochi giorni dall'apertura dei lavori della 162 edizione della convention scientifica di Telethon, iniziata ieri a Riva del Garda, che vede coinvolti in una tre giorni 670 scienziati da tutta Italia e 87 associazioni. E' da molti anni che gli scienziati calabresi sono impegnati nello studio della resistenza all'insulina, ovvero della ridotta risposta dei tessuti all'azione dell'ormone che controlla i livelli di zucchero nel sangue. Questo fenomeno, tipico delle persone affette da diabete di tipo 2, si riscontra in modo ancora più accentuato in alcuni individui affetti da rare malattie genetiche, come la sindrome di insulino-resistenza e l'acanthosis nigricans di tipo A, il leprecaunismo e la sindrome di Rabson-Mendenhall. Dallo studio di queste patologie rare i ricercatori hanno individuato un'alterazione nel gene HMGA1, che contiene le informazioni per una proteina che «accende» il gene per il recettore dell'insulina, la molecola che si affaccia fuori dalla cellula, cattura l'ormone, traduce il suo messaggio e lo trasmette nella cellula. Da qui l'idea che il difetto potesse essere riscontrato anche nella forma più comune della malattia, per la quale ancora oggi la causa non è ben nota. Per cercare una correlazione i ricerca-tori hanno raccolto una casistica molto ampia di pazienti dia-betici: 3278 pazienti italiani, 970 americani e 354 francesi, e oltre 4 mila individui sani. Studiandone il patrimonio genetico, si è scoperto come il 10% delle persone affette da diabete di tipo 2 presenti varianti funzionali del gene HMGAl. Le ricadute della scoperta sono molteplici: dalla diagnosi e prevenzione fino al trattamento di una delle patologie più diffuse. Al momento le prime ricerche «in vitro» promettono bene e fanno ben sperare per la successiva sperimentazione sui pazienti. Proprio nello spirito di Telethon: portare una cura dai laboratori alle cliniche in tempi rapidi. Lo stesso presidente della Fondazione, Luca di Montezemolo, ieri ha definito Telethon «una squadra formidabile, che con i suoi risultati tiene alto il nome dell'Italia nel mondo». Molte le linee di ricerca seguite dalla fondazione: dalle cellule staminali e dalla terapia genica fino alle tecniche di analisi genomica. «Temi caldi per l'intera comunità internazionale», dice il direttore scientifico Lucia Monaco. Un plauso alla ricerca Telethon arriva anche dal presi-dente della Repubblica Giorgio Napolitano, che invita le istituzioni a sostenere la scienza: «Il concreto sviluppo della ricerca rappresenta una priorità assoluta sulla quale investire con coraggio». __________________________________________________ La Stampa 7 mar. ’11 IL RISCALDAMENTO GLOBALE ACCELERA PRESBIOPIA E CATARATTA Secondo uno studio dell'Università di Copenhagen appena pubblicato su Investigative Ophthalmology & Visual Science, l'occhio risente di un aumento della temperatura corporea e atmosferica. «1 ricercatori affermano nello studio che c'è una correlazione tra aumento del riscaldamento globale e incidenza di malattie degli occhi. Ciò accade perché la temperatura elevata incide sull'elasticità e sulla trasparenza del cristallino, provocando l'invecchiamento precoce dell'occhio», spiega il professor Aldo Fronterrè, specialista in Chirurgia Corneale, già primario dell'Unità Operativa di Chirurgia Oculistica Riabilitativa presso la Fondazione "Salvatore Maugeri" di Pavia (www.aldofronterre. it). Un rimedio semplice contro la presbiopia, che normalmente colpisce dopo i quarantacinque anni può essere, però, la tecnica della "Monovisione": un occhio viene corretto per la visione da lontano e l'altro per quella da vicino. È il cervello poi a decidere istantaneamente quale occhio utilizzare, in base alle necessità. Dopo una serie di esami non invasivi, si utilizzano lenti a contatto morbide per simulare il post intervento, quindi si passa al laser. «La chirurgia dura pochi minuti, senza alcun dolore, grazie a un collirio anestetico - conclude Fronterrè -. In seguito gli occhi non vengono bendati ma è applicata una lente a contatto morbida di protezione, che sarà tolta dopo cinque giorni». AC __________________________________________________ L’Unità 7 mar. ’11 LA SPORCIZIA FA BENE AI BIMBI EVITA LO SVILUPPO DELL'ASMA Uno studio tedesco Nello sporco il sistema immunitario diventa più resistente I bambini che vivono nelle fattorie crescono più sani. Ovvio, si dirà: aria buona, esercizio fisico, esposizione alla luce del sole. Insomma un ambiente più «pulito». Ma non bisogna guardare alle apparenze: secondo un nuovo studio, infatti, i bambini che crescono nelle case di campagna sono più sani perché vivono in un ambiente meno pulito. Alcuni studi condotti qualche anno fa in Europa, Nord America e Australia avevano già dimostrato che questi bambini sono meno soggetti alle allergie e all'asma rispetto ai bambini di città. Ora una nuova ricerca pubblicata sul New England Journal of Medicine ci spiega anche che questo avviene perché vivono in luoghi pieni di batteri e funghi. I ricercatori tedeschi, guidati da Markus Ege dell'università di Monaco, hanno analizzato i microbi contenuti nella polvere raccolta nelle case di campagna per due grandi studi europei sull'asma infantile. Gli studi hanno confermato che il rischio di asma nei bambini che vivono nelle fattorie è dal 30 al 50% più basso rispetto ai bambini che non vivono nelle fattorie. Inoltre, hanno visto che la polvere delle case di campagna contiene un numero di batteri e funghi più alto di quello delle case di città. E il bello è che più ce ne sono, meno i bambini si ammalano di allergie e di asma. Perché avviene? I ricercatori propongono due spiegazioni. La prima deriva dall'osservazione che i neonati iniziano ad essere colonizzati dai microbi al momento della nascita che coincide anche con lo sviluppo del sistema immunitario e dei polmoni. Questi organismi possono essere benefici o non avere alcun effetto sull'ospite. I ricercatori pensano che i microbi trovati nelle fattorie stimolino i recettori immunitari e così facendo favoriscano la nascita di cellule T che promuovono la tolleranza immunologica e quindi riducono la probabilità di sviluppare reazioni allergiche. In secondo luogo, la colonizzazione delle vie aree da parte di questi batteri «buoni» può ridurre il tasso di colonizzazione con batteri «cattivi» che favoriscono l'asma. CRISTIANA PULCINELLI __________________________________________________ Il Sole24Ore 10 mar. ’11 NELLA MENTE DEL NATIVO (DIGITALE) DI LUCA TREMOLADA Non sono barbari. Sono nostri figli e sono semplicemente diversi. Un libro dal titolo Nativi digitali si concentra sulla generazione nata dopo la rivoluzione di internet. L'autore è Paolo Ferri, insegnante di teoria e tecniche dei nuovi media e tecnologie didattiche all'Università Bicocca di Milano- «Troppo spesso si cade nell'errore di volere a tutti i costi schierarsi pro o contro i nuovi media, internet e le tecnologia. Il mio intento invece è stato quello di incrociare gli studi di neuroscienze come le ricerche che fotografano il loro comportamento per capire cosa distingue questa generazione dalle precedenti», spiega Ferri. I nativi digitali, si legge nel libro, sono nati in una società multi- schermo e interagiscono con molti di questi monitor interattivi fin dalla tenera età. Sono "diversi" perché a scuola, a casa, e con gli amici sono sono sempre accompagnati dalle loro protesi comunicative ed espressive digitali. Perché "si espongono" su Facebook, «sui blog o su Youtube, vivono nelle e sullo schermo allo stesso modo in cui abitano il mondo reale». Ascoltano musica e nello stesso tempo si tengono in contatto con gli amici via sms o messenger. Non usano manuali e non sentono il bisogno di avere strumenti per inquadrare un oggetto di studio prima di affrontarlo. Questo insieme di comportamenti rivela uno straordinario adattamento ai nuovi media e naturalmente ha conseguenze sul processo di apprendimento. «Vedono e costruiscono il mondo in modo differente da noi» si legge nel libro. Sviluppano modelli di apprendimento non lineare e non alfabetici. Fortemente orientati all'espressione di sé, alla personalizzazione e alla condivisione delle informazioni. Risolvono il problema del sovraccarico cognitivo navigando da un media all'altro ma mostrano anche «una grande attitudine al lavoro in team, un forte senso di autonomia e di indipendenza». Sono specialisti dei loro interesse e delle loro passioni e la loro creatività li rende spesso anarchici e piuttosto insofferenti all'autorità. Questo è quello che neuroscienziati, sociologi e pedagoghi stanno osservando. «Ci sono facoltà che obbiettivamente traggono vantaggi da queste nuove tecnologie come ad esempio la scrittura e la concettualizzazione. La memoria e l'apprendimento riflessivo sono invece sotto stress - sottolinea -. Ma il punto è un'altro». Quello che abbiamo di fronte non è un normale passaggio generazione. ma l'oppurtunità di uno scambio. «Dobbiamo perciò insegnare loro la pazienza e la fatica delle cose del mondo e sopratutto dobbiamo insegnare loro a reggere la frustrazione dell'errore e dell'attesa». E magari imparare da loro la cultura partecipativa __________________________________________________ Il Sole24Ore 10 mar. ’11 E L'ALBA DELLA GENOMICA PERSONA Il Dna non è nostro destino. Anche misurare la pressione può darci notizie negative sulla nostra salute, questo non è un buon motivo per astenerci dal fare queste analisi Thermos Ceche Wired Il pioniere George Church: «Nel 2012 un milione di persone analizzerà il Dna: è alla portata di tutti» DI MARCO MAGRINI Pubblichereste sul web il vostro genoma? Rendereste pubbliche le istruzioni, scritte nell'alfabeto ACGT del Dna, per fabbricare voi stessi? George Church non ha avuto dubbi. Anzi, è stato il primo a farlo. Il 56enne, altissimo e barbuto professore di genetica a Harvard, è il donatore N.1 del Personal Genome Project da lui cofondato: una banca di dati genetici open source che punta a rendere noti i genomi di 100mila volontari (al momento soli cittadini americani) con le informazioni sanitarie annesse. «Per raccogliere le enormi promesse della genomica, c'è bisogno di un'elevata qualità nell'interpretazione delle sequenze. Dunque, cosa c'è di meglio che condividerle su scala mondiale, via internet?», dice Church, famoso per i suoi numerosi contributi allo storico Human Genome Project. A quei tempi, per il primo sequenziamento di un genoma umano, ci vollero 14 anni. Oggi, è questione di ore. Appena cinque anni fa, si favoleggiava dell'analisi genomica da mille dollari. A detta di Church, ce l'avremo fra due anni: «il nuovo obiettivo è 100 dollari». Siamo alla vigilia di una nuova era. L'era della genomica personale. «Negli ultimi sei anni - spiega Church, raggiunto per telefono nel suo ufficio - i costi del sequenziamento sono scesi di un milione di volte. Oggi i costi nudi si aggirano sui 2 o 3mila dollari, anche se i prezzi sul mercato vanno dai 9mila in su. Ma saremo a mille dollari entro un anno. E poi a 200 nel 2012». Per uno scienziato che si occupa di genetica da 35 anni e che, già da teenager, sognava di decodificare la struttura atomica degli esseri viventi, è qualcosa di più di un momento magico. «A questi prezzi, tutte le strutture sanitarie si doteranno presto degli Strumenti per l'analisi genomica. Anche perché, viceversa, mi attendo lunghe file di gente davanti agli ospedali che ce l'hanno». Ma non è finita qui. «Le macchine stanno andando sempre più veloci L'anno scorso, sono stati sequenziati i genomi di 3mila persone. Quest'anno, mi aspetto che saranno dieci volte di più. Poi un milione nel 2012 e, da li in poi, quasi tutti quanti». Tutti quanti? Professore, non sta esagerando? «Non c'è bisogno di molte storie di successo, per convincere la gente. Pensi al recente caso di quel bambino del Wisconsin che, per problemi all'apparato digerente, era stato operato cento volte nei primi quattro anni di vita. L'analisi genomica ha rivelato che aveva in realtà un deficit immunitario: ora sta benissimo. Non sto parlando di trovare nuovi farmaci che richiedono anni e • anni per arrivare sul mercato. Sto parlando di risolvere problemi clinici in una settimana». Secondo Church, il celebre dilemma dei genitori che vorranno figli con gli occhi blu, è risibile. «I genitori desiderano per i figli una vita migliore. Siccome i test scolastici in genere determinano gli studi e quindi che lavoro farai, chi sposerai, dove vivrai, se potranno usare i geni a questo fine, non per il colore degli occhi, lo faranno». Ma non è questo, quel che appassiona Church da quand'era ragazzino. «Seminai, tutti vorranno un'analisi del proprio genoma, quasi una polizza antincendio. Nessuno pensa: i miei genitori non hanno mai avuto un incendio, quindi posso fare a meno dell'assicurazione. Se è alla portata, tutti vogliono sapere i rischi che corrono, e prevenirli». li professar Church, ad esempio, sa di essere incline alla dislessia, agli attacchi cardiaci, al carcinoma e alla narcolessia. Per chi sa leggerlo, c'è scritto anche nel suo genoma pubblico. Ma qui sta il problema: come interpretare bene quei 2imila geni nascosti fra miliardi di basi azotate ACGT. Ecco perché Church ha dato il via al Personal Genome Project, noto anche come Pgp. Ed ecco perché ha cofondato la Knome, società di servizi genomici che offre - giustappunto - interpretazioni del Dna di alta qualità grazie a software e tecnologie di proprietà. «Come professore, partecipo a una ricerca di base che può anche non avere applicazioni pratiche», dice Church nello spiegare le sue tre vite dedicate alla genomica. «Con il Pgp possiamo incrociare i dati genetici e personali di volontari, che non farebbero mai lo stesso con una società commerciale. E con la Knome non ci concentriamo sulla ricerca, ma sulla qualità imita alla velocità». Tre mestieri diversi, con un minimo comune denominatore: conoscere, innovare. Quindi curare. Ai suoi occhi, c'è una prateria di possibilità: controllare il sangue per monitorare i fattori ambientali di rischio per il proprio profilo genetico; sequenziare il genoma di un tumore per formulare la terapia su misura del paziente. «Ma in generale - dice - sarà straordinario usare la genomica non per le diagnosi, ma per le cure». Domani. Non dopodomani __________________________________________________ Il Sole24Ore 10 mar. ’11 TEMPI E COSTI IN CADUTA LIBERA DI MARCO PASSARELLO Quando, nel 1953, Watson e Crick individua rono la struttura a doppia elica del Dna, il ruolo di questa molecola nella trasmissione dei caratteri ereditari era già noto. I risultati di Avery, Leod e McCarthy nel 1944, confermati da quelli di Hershey e Chase nel 1952, avevano già chiaramente dimostrato che svolgeva un ruolo chiave nel trasportare informazioni dai genitori ai discendenti. Tuttavia lo scoprire che la molecola è un nastro sul quale le informazioni sono scritte in un alfabeto di soli quattro caratteri (le lettere A, C, G e T; cioè le basi azotate adenosina, citosina, guanina e timina) ha fatto subito sognare una tecnologia in grado di leggerle. Impresa difficile, dato che una base misura circa 0,33 nanometri, e in un singolo cromosoma umano possono essercene quasi 250 milioni I primi tentativi furono penosamente lenti. Tuttavia col tempo sono state sviluppate tecniche affidabili. Una delle più efficaci è quella dei terminatori di catena sviluppata da Frederick Sanger all'inizio degli anni 70. In questo caso il Dna viene sottoposto a reagenti che si sostituiscono alle basi, spezzando la molecola e marcandone i frammenti con elementi fluorescenti o radioattivi, diversi a seconda della base contenuta. Successive tecniche di analisi riescono a ricostruire con precisione l'ordine delle basi all'interno della molecola. Le tecniche usate oggi sono dette "a elevato parallelismo", perché consentono di analizzare in parallelo molti spezzoni di Dna, operando in modo automatizzato e rapido. Per esempio, la tecnologia detta "ion semiconductor' utilizza un sensore in grado di percepire gli ioni idrogeno prodotti in occasione della polimerizzazione di un filamento di Dna. Sottoponendolo a rea-genti diversi che producono ciascuno la polimerizzazione di una singola base, si può identificare la posizione di ogni base. Un'altra tecnica è quella delle nanosfere, che fa sì che la molecola di Dna si suddivida in una serie di agglomerati sferici, che possono essere disposti in una griglia e analizzati in parallelo. Il vertiginoso calo dei tempi e dei costi necessari per sequenziare una molecola di Dna fa pensare che valga una regola empirica simile alla cosiddetta "legge di Moore" per la potenza di calcolo dei microchip. Solo che la rapidità di analisi del Dna cresce ancora più rapidamente. Il National Human Genome Research Institute di Bethesda ha calcolato i costi per sequenziare un intero genoma dal 2000 a oggi, evidenziandone la vertiginosa caduta. Di recente un'equipe di scienziati dell'Imperia) College di Londra ha annunciato sulla rivista «Nano Letters» di aver realizzato un chip in grado di analizzare interi filamenti di Dna. E dotato di un nanoporo del diametro di 50 nanometri, al cui interno c'è una coppia di elettrodi di platino. Il flusso di corrente viene modificato in modo diverso dal passaggio di ciascuna base. Il chip è così in grado di leggere in sequenza il contenuto di informazione di un filamento di Dna che lo attraversi. La tecnologia ancora non è stata provata su interi genomi, tuttavia gli autori ritengono che abbia la potenzialità di leggere milioni di basi al secondo. Essendo basata su chip il cui costo decresce enormemente con la produzione su grande scala, potrebbe portare in breve tempo l'analisi del Dna alla portata di chiunque. Chi immagina un'epoca in cui manipolare il Dna sarà facilissimo deve però tenere conto che, se presto saremo in grado di leggere il linguaggio dei geni in modo rapido ed economico, ancora sappiamo ben poco su come interpretarlo. P ancora da vedere se, all'enorme massa di dati grezzi presto disponibili, corrisponderà un miglioramento altrettanto massiccio della nostra comprensione sul modo in cui dai geni può svilupparsi la complessità di un essere vivente. __________________________________________________ Il Giorno 11 mar. ’11 UNA RICERCA SUL DNA L'UOMO HA PERDUTO LE SPINE DEL PENE NEW YORK — Nel corso dell'evoluzione l'uomo ha perso le spine del pene assieme a un pacchetto di geni apparentemente inutili perché non controllavano la produzione di nessuna proteina. La scoperta, pubblicata su Nature, è il risultato di un confronto degli studiosi dell'università californiana di Stanford fra il Dna dell'uomo e quello degli scimpanzè, possibile solo con l'aiuto di potenti computer. Grazie a un altro gene perduto, l'uomo ha guadagnato un cervello più grande. __________________________________________________ La Stampa 12 mar. ’11 IL CANCRO È SEMPRE PIÙ CURABILE Ricerca Usa sui progressi della prevenzione e delle terapie: aumenta il numero di chi riesce a batterlo GLAUCO MAGGI NEW YORK Il successo nell'individuazione precoce dei tumori e i miglioramenti nel loro trattamento stanno rendendo il cancro una malattia curabile o cronica per un numero crescente di americani, allungando i tempi di sopravvivenza. Secondo la più recente ricerca dell'Istituto Nazionale del cancro (Nei) e del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc), i sopravvissuti negli Usa sono passati da 3 milioni (115% della popolazione) nel 1971 a 9,8 milioni nel 2001 (il 3,5%) e a 11,7 milioni nel 2007 (il 3,9%): in poche parole, un americano malato su 25. All'ultima data rilevata tra i malati in vita, i tumori al seno (22,1%), alla prostata (19,4%) e all'intestino retto (9,5%) sono risultati quelli più diagnosticati, pesando per il 51% del totale. Le donne, con il 54,3% dei casi, si sono dimostrate più resistenti degli uomini (45,7%). La spiegazione del vantaggio statistico femminile, spiegano gli studiosi, è nel fatto che i tumori frequenti tra le donne, al seno e all'utero, di solito si manifestano in età più giovane, vengono diagnosticati presto e possono essere curati con maggiore successo: inoltre, le aspettative di vita tra le femmine sono più alte. Assieme ai progressi specifici della scienza medica contro i tumori, la longevità è quindi un fattore rilevante del costante incremento dei tassi di sopravvivenza. «Poiché molti superstiti vivono più a lungo dopo la diagnosi e la popolazione americana sta invecchiando, il numero di persone con il cancro che si mantengono in vita continuerà ad aumentare», hanno scritto i ricercatori nello studio, che è apparso nel rapporto settimanale dell'Il marzo sulle «Malattie e la mortalità». Per la ricerca sono stati utilizzati i dati clinici sulle persone diagnosticate con un tumore tra il 1975 e il 2006, ricavati da nove registri sul cancro che sono parte del programma «Seer» (Surveillance, Epidemiology, End Results, sorveglianza, epidemiologia e risultati finali), che copre il 10% della popolazione degli Usa e ha iniziato a raccogliere le informazioni sui tumori dal 1973. Lo scopo della banca dati è di monitorare il trend della malattia nel tempo e ciò ha permesso di verificare quanti pazienti diagnosticati con il cancro nei tre decenni precedenti erano ancora in vita il 1° gennaio 2007. In quel-la data, il 64,8% dei superstiti era in vita da almeno cinque anni dopo la scoperta della malattia, e tra costoro il 57,2% erano femmine La percentuale di donne aumenta al 67,5% tra chi è sopravvissuto per oltre 15 anni al cancro. Oltre un milione (1,1) ha convissuto con il tumore per 25 anni o più, e tra costoro le donne sono state tre su quattro (il 75,4%). Tra tutti -i sopravvissuti il 59,5% aveva già compiuto i 65 anni, il 35,2% aveva tra 40 e 64 anni, il 4.5% tra i 20 e i 39 anni, e meno dell'i% era minore di 19 anni. Il numero più elevato di viventi con il cancro alla prostata, 1,5 milioni di uomini, è risultato quello nella fascia di età tra il 65 e gli 84 anni, mentre la percentuale maggiore dei superstiti con i tumori al seno, alla tiroide, all'utero e alla pelle (melanoma) è stato evidenziato nel gruppo di età tra i 40 e i 64 anni. Tra i più giovani superstiti al cancro, quelli minori di 19 anni, il 31% era malato di leucemia. Per gli autori del rapporto il numero in aumento dei sopravvissuti sottolinea l'esigenza che il personale medico «si dedichi ad affrontare gli effetti potenziali di lungo termine sul benessere fisico e psicologico dei superstiti», fornendo loro cure e attenzioni coordinate e promuovendo comportamenti sani, come smettere di fumare e fare esercizio fisico, per ridurre il rischio di ricadute o di nuovi tumori. __________________________________________________ La Stampa 12 mar. ’11 IN ITALIA GRANDI PASSI AVANTI NELLE DIAGNOSI MIRATE» Francesco Cognetti, lei è direttore di Oncologia Medica dell'Istituto Nazionale Tumori «Regina Elena» di Roma. Anche in Italia si muore di meno di cancro? «È più corretto dire che si sopravvive di più. Negli ultimi de-cenni si è registrato un sensibile aumento della sopravvivenza al tumore, seguendo un trend simile a quello degli altri Paesi occidentali. Non significa che abbiamo sconfitto il cancro o che i tassi di mortalità siano più bassi. Piuttosto la sopravvivenza a 5 anni è passata dal 40 al 55/60%». Cosa è cambiato rispetto a 20 anni fa? «Abbiamo fatto passi in avanti sul fronte della diagnosi precoce. Ci sono tumori come quello all'utero, alla mammella e all'intestino che, se presi in tempo, possono essere curati. Se da un lato è migliorata la diagnosi, dall'altro sono migliorati i trattamenti. Con la chirurgia si riesce a estirpare molti più tumori e le cure radioterapiche e chemioterapiche permettono di avere più possibilità di sconfiggere il cancro. Certo, rimane ancora tanto da fare: bisogna assicurare ai pazienti trattamenti di qualità su tutto il territorio». Quali sono oggi i tumori che ancora non perdonano? «Quello al polmone, la cui incidenza negli ultimi anni è aumentata per via del fatto che ci sono sempre più donne che fumano. Poi ci sono i tumori al pancreas e al fegato. Su questi pesa tanto il ritardo con cui vengono effettuate le diagnosi. Quando il cancro raggiunge una fase troppo avanzata le possibilità di sopravvivenza crollano». __________________________________________________ La Stampa 12 mar. ’11 LA MALATA, CHE DIVENTÒ IMMORTALE Le cellule di Henrietta continuano a essere studiate da 50 anni e hanno salvato tante vite ALBERTO MAMOLI Ha fatto la storia dopo la morte. Ma un libro, finalmente, ne racconta la vita. Un terzo delle colture cellulari utilizzate per la ricerca scientifica in tutto il mondo proviene dalle sue cellule: quasi tutti i medici la conoscono come «HeLa», quasi nessuno sa che si chiamava Henrietta Lacks e che con la sua morte ha salvato innumerevoli vite. Esce in Francia «La vita immortale di Henrietta Lacks», il libro della giornalista americana Rebecca Skloot, che ha lavorato dieci anni per ricostruire la vicenda di questa afroamericana nata ne11921 e morta trentenne nel '51, di un cancro all'utero, nel reparto riservato ai poveri e ai neri dell'ospedale Hopkins di Baltimora. La sua fu una vita dura, nell'America segregazionista degli Anni 40: di famiglia così modesta che perfino l'ortografia del nome varia a seconda delle fonti (Henrietta Lacks, Helen Lane, Helen Larson), illetterata, Henrietta lavorava nei campi di tabacco e lasciò un marito e cinque figli. Prima che si spegnesse, un ricercatore prelevò un campione cellulare, già rassegnato a vederlo morire in fretta com'era sempre successo. E invece le cellule di Henrietta si moltiplicarono: «Crescevano come la gramigna», racconterà poi una dottoressa dell'Hopkins. E non hanno mai smesso. Secondo la stima di un ricercatore, tutte le cellule «HeLa» prodotte in questi sessant'anni peserebbero 50 milioni di tonnellate. Si è sempre pensato che Henrietta sia morta senza sapere tutto ciò. Però Skloot ha ritrovato una microbiologa che nel `51 lavorava all'Hopkins nel laboratorio del dottor George Gey. Si chiama Laure Aurelian: «Gey mi ha raccontato di essersi chinato sul letto di Henrietta e di averle mormorato: le vostre cellule vi renderanno immortale. Gli ha spiegato che le sue cellule avrebbero aiutato a salvare innumerevoli vite e lei ha sorriso. E gli ha detto che era felice che il suo dolore potesse essere utile ad altri». Ma forse è una storia troppo bella (e troppo americana) per essere vera. La realtà è meno deamicisiana: se le case farmaceutiche hanno prosperato sulle cellule di «HeLa» e dei ricercatori hanno vinto il Nobel grazie a loro, non un dollaro è finito ai suoi discendenti, tuttora poveri. Per questo Skloot ha creato la Fondazione Henrietta Lacks, che ha l'obbiettivo di provvedere alle spese scolastiche e mediche dei nipoti della donna più famosa della storia della medicina. __________________________________________________ MF 8 mar. ’11 COLON, TEST DNA PIÙ VICINO Un'équipe di Cambridge ha identificato segnali tumorali presenti a livello molecolare L'obiettivo è individuare alterazioni precoci identificabili con un prelievo di Cristina Cimato Dalla Gran Bretagna arrivano i primi segnali concreti per l'identificazione dei primi segnali di presenza tumorale nell'intestino. Un'équipe del cancer center dell'Università di Cambridge ha studiato campioni di tessuto tumorale e non, identificando segni dei processi biologici di evoluzione della malattia. Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Gut, ha preso in esame 261 campioni di pazienti sia con adenomi sia con tessuti già tumorali, di cui è stata osservata in particolare la metilazione genetica, ossia una modifica chimica che svolge un processo chiave nell'evoluzione cellulare. In pratica nei soggetti sani si attua, a carico dei cosiddetti gruppi metilici, radicali deputati alla trasmissione di specifici segnali intracellulari, un processo che previene l'attivazione di geni che potrebbero indurre un'aberrante crescita della cellula. Questo processo può funzionare però in modo errato nelle cellule tumorali e la metilazione del Dna può dunque contribuire allo sviluppo del tumore. «L'obiettivo di questa ricerca, così come di altre in atto, è quello di individuare un'alterazione molto remota che in un certo senso preceda l'accumulo di altre modificazioni e fornisca un'indicazione su quali casi svilupperanno il cancro e quali no», ha commentato Lucio Bertario, responsabile dell'Unità tumori ereditari dell'apparato digerente e membro del dipartimento di medicina preventiva e predittiva dell'Istituto nazionale dei tumori di Milano, «il cancro al colon ha come precursori gli adenomi, ma il rischio che questi, presenti nel 10-15% delle persone in Italia, evolvano in tumore è basso. Solo un quarto ha un esito in tale direzione, dunque si sta cercando di trovare metodi di indagine che identifichino modificazioni presenti nel sangue o nelle feci con un'alta sensibilità e buona specificità. Attualmente le indagini con colonscopia e metodiche simili virtuali, con conseguente indagine istologica, vanno a verificare la presenza o meno di una lesione, mentre l'obiettivo è quello di ridurre proprio questi esami invasivi attraverso diagnosi precoci affidabili». Nello studio britannico sono stati identificati diversi siti in cui il segnale di protezione era errato e questi primi passi verso l'identificazione di segni di presenza tumorale potranno un giorno confluire in un test diagnostico per nulla o minimamente invasivo capace di escludere la possibilità che quel so 9:etto sviluppi il tumore «C'è un problema di costi ancora determinante, perché in Usa esistono test predittivi già presenti sul mercato che superano pero i costi di un esame specifico e accurato come la colonscopia e non sopravanzano per sensibilità, quello sul sangue occulto nelle feci, che indica un livello di emoglobina superiore al normale e funge da marcatore-spia di un'alterazione». Il fine di queste nuove ricerche molecolari è semmai di ridurre le indagini inutili. «Se su mille persone il test sulle feci risulta positivo in 50 persone, l'incidenza di cancro è di una su mille», ha concluso Bertario, «dunque bisogna cercare di identificare i casi a rischio reale. Inoltre se si individua il luogo dove si accumula il difetto, si può anche cercare di modificare la strada metabolica per tempo». La ricerca di una diagnostica sempre più accurata e meno invasiva può avere anche risvolti inattesi. Sulla stessa rivista inglese è pubblicato uno studio giapponese su l'olfatto dei cani Labrador come arma per identificare il cancro del colon-retto meglio di un test del sangue occulto e con la stessa efficacia di una colonscopia, semplicemente odorando alito e feci del paziente. __________________________________________________ La Stampa 7 mar. ’11 TUMORE AL SENO: INTERROMPENDO I SEGNALI C'È MENO PROGRESSIONE Il tumore alla mammella è una patologia che presenta diverse varianti a livello molecolare che guidano l'oncologo nella scelta terapeutica. Il team di ricercatori coordinati da Paola Nisticò del Laboratorio di Immunologia dell'Istituto Nazionale Tumori Regina Elena in collaborazione con l'Università Sapienza di Roma e con l'Istituto San Raffaele di Milano, ha dimostrato che i tumori al seno contemporaneamente positivi per l'espressione dell'oncogene Her2 e della proteina hMena, sono particolarmente aggressivi. Esperimenti condotti in vitro su cellule di carcinoma della mammella mostrano, inoltre, come inibendo hMena si abbia un rallentamento della proliferazione tumorale indotta da Her2. Lo studio, in parte finanziato dall'AIRC, è stato recentemente pubblicato dalla rivista PLos-One. I dati ottenuti non solo evidenziano il ruolo fondamentale di hMena nello sviluppo delle neoplasie mammarie ma suggeriscono anche che interrompendo i segnali di comunicazione molecolari che intercorrono tra hMena e Her2 si possa arrestare la progressione tumorale. CC __________________________________________________ Libero 10 mar. ’11 ARTRITE REUMATOIDE QUANDO DOLORE E RIGIDITÀ MATTUTINA COMPROMETTONO LA QUALITÀ DI VITA Intervista con il professor Carlo Maurizio Montecucco Una nuova speranza per questi pazienti arriva dal prednisone a rilascio programmato, oggi disponibile anche nel nostro Paese di CAMILLA CACCIAMANI III e il buon giorno si vede dal mattino, la quotidianità può essere molto dura per chi soffre di artrite reumatoide, una patologia dall'impatto sintomatico "ingombrante", capace di influenzare ogni singola attività della giornata. È stato infatti dimostrato che molto spesso l'artrite reumatoide si associa a dolore e rigidità delle articolazioni al momento del risveglio, riducendo la funzionalità e ostacolando la mobilità degli arti. Una recente ricerca effettuata in diversi Paesi europei ha evidenziato l'impatto determinante che l'artrite reumatoide e la concomitante rigidità mattutina possono avere sulla qualità di vita dei pazienti; una nuova soluzione per contrastare questi sintomi è stata identificata nel prednisone a rilascio programmato, da poco disponibile anche in Italia. Per fornire ulteriori chiarimenti sulla questione, abbiamo rivolto alcune domande al Professor Carlomaurizio Montecucco, Ordinario di Reumatologia dell'Università degli Studi di Pavia ed ex Presidente della Società Italiana di Reumatologia (SIR). Come si manifesta l'artrite reumatoide e quali sono i danni che scaturiscono nel tempo? L'artrite reumatoide è una patologia che colpisce circa 300mila pazienti, soprattutto donne, e si presenta come una infiammazione cronica progressiva, in grado, nel tempo, di causare gravi danni alla cartilagine delle articolazioni e alle ossa, accompagnata da un dolore costante fino ad arrivare ad una disabilità severa. Come la patologia influenza la vita del paziente? È proprio al mattino che i sintomi si acutizzano, compromettendo l'efficienza dell'intera giornata. Tutto ciò va anche a ricadere sulla sfera psicologica dei pazienti: il 53°A di questi, seppur in grado di continuare la propria attività, dichiara di svolgerla con frustrazione, mentre il 93°A dimostra di non riuscire più a raggiungere risultati adeguati sul lavoro. Un fenomeno che non può essere ignorato a livello sociale. La recente indagine effettuata da Ipsos MORI e commissionata da Mundipharma mette in luce il modo in cui la patologia impatta sulla qualità di vita dei pazienti. In seguito a ciò si può affermare che sia mutata la considerazione riguardo la gravità dei sintomi dell'artrite reumatoide? Oggi la terapia dell'artrite reumatoide deve avere come obiettivi sia la prevenzione delle deformità e delle invalidità sia il mantenimento di una qualità di vita complessiva il più possibile vicino alla normalità. Fortunatamente, anche se con lentezza, sta crescendo la consapevolezza non solo della gravità della malattia ma anche delle attuali possibilità di cura. Il nuovo trattamento a base di prednisone a rilascio programmato per quali caratteristiche si differenzia e si propone vincente rispetto alle terapie precedenti? Il prednisone a rilascio programmato si basa su un meccanismo innovativo di somministrazione. L'assunzione del farmaco è prevista per le ore 22, con un rilascio programmato che consente di erogare basse dosi dopo 4/6 ore dall'ingestione, proprio durante la notte, momento in cui si sviluppa l'infiammazione e si verifica il danno dei tessuti. La terapia tradizionale consisteva in un'unica somministrazione al mattino, senza permettere un controllo adeguato sui sintomi. Le compresse sono dotate di una specifica formulazione, dove il principio attivo rimane all'interno di un guscio di silice anidra, che funge da barriera tra i succhi gastrointestinali nel tratto digerente e il nucleo attivo del farmaco. Il principio attivo dunque è lo stesso: l'innovazione sta nella scelta del momento di assunzione. Grazie quindi ad un escamotage di tecnica farmaceutica che rallenta lo scioglimento della capsula, il paziente può assumere il nuovo farmaco alle ore 22, prima di andare a dormire, ed il farmaco libererà il cortisone nel cuore della notte, ottimizzandone l'efficacia. Tutto questo avviene senza costringere il paziente a mettere sveglie ad orari improponibili, senza turbare il suo ritmo ormonale e nel pieno rispetto del suo ciclo fisiologico, in modo tale da sfruttare in pieno la funzionalità del prednisone e riducendo il più possibile gli effetti collaterali. _________________________________________ La Nuova Sardegna 09 Mar.’11 IL FEGATO? SI “PRODUCE” DALLA PLACENTA Un giovane cagliaritano scopre come isolare cellule epatiche La ricerca del biologo Fabio Marongiu pubblicata a marzo su una rivista internazionale Cagliaritano di 31 anni, ricercatore con esperienza negli Usa, Fabio Marongiu ha scoperto che dalla placenta si possono estrarre cellule epatiche. Chi soffre di malattie al fegato pone la propria fiducia in ragazzi come Fabio Marongiu, biologo trentunenne specializzato in chemioterapia delle infezioni da virus, che è riuscito a ottenere cellule epatiche dalla placenta. Il rilievo del suo studio è confermato dalla pubblicazione sul numero di marzo della rivista internazionale “Hepatology”. Per i pazienti affetti da insufficienza epatica acuta o cronica, e per chi soffre di difetti ereditari del metabolismo, questa scoperta rappresenta la speranza di non dover subire un trapianto d'organo. LA RICERCA Ottenere cellule epatiche non è semplice. Allo stato attuale l'unico modo è il trapianto di un fegato sano. Marongiu invece ha avuto l'idea di utilizzare la placenta, e in particolare la membrana amniotica, per isolare le cellule epatiche. Due anni e mezzo di ricerche negli Stati Uniti e uno a Cagliari per scoprire che cellule del fegato possono essere ricavate dalla membrana che avvolge il feto e che, dopo il parto, viene buttata. «Si tratta di cellule con caratteristiche staminali, cioè che hanno ancora la capacità di differenziarsi in tipi diversi», spiega Marongiu. «La ricerca dimostra che sia attraverso trattamenti in vitro - in provetta - sia attraverso il trapianto in animali da laboratorio, queste cellule possono diventare epatiche». LE RICADUTE «È stato dimostrato», continua il ricercatore, «che anche il trapianto di cellule isolate ottenute dalla placenta può essere una valida alternativa a quello d'organo». Questo perché «le cellule sane in un fegato malato si integrano e si espandono e suppliscono laddove l'organo non lavora bene». GLI SVILUPPI Ma per arrivare a questo stadio c'è bisogno ancora di tempo e di sperimentare. «Prima bisogna testare le cellule su modelli animali e poi sull'uomo», ricorda lo scienziato. Per arrivare a stadi avanzati della sperimentazione, Marongiu, che all'Università lavora con l'équipe del professor Ezio Laconi, ha chiesto finanziamenti sia al ministero dell'Università, a quello della Salute e alla Comunità europea. IL RICERCATORE Nato a Cagliari nel 1979, dove si laurea in Scienze biologiche e prende il dottorato di ricerca in Chemioterapia delle infezioni da virus nel 2006, Marongiu l'anno successivo parte per l'Università di Pittsburgh, in Pennsylvania, per un progetto di ricerca finanziato dal programma Master and back della Regione. «Mi hanno offerto di rimanere negli States, ma ho preferito partecipare al percorso di rientro del programma». Che ha finanziato un assegno di ricerca per 2 anni di 1500 euro mensili, che scade proprio oggi. «Ma mi hanno rinnovato l'assegno con i fondi del laboratorio del professor Laconi». Poco meno della borsa regionale, mentre negli Usa un collega con lo stesso grado intasca circa 2800 dollari. MARIO GOTTARDI _________________________________________ La Nuova Sardegna 09 Mar.’11 PRIMO PASSO VERSO STRATEGIE ALTERNATIVE AL TRAPIANTO Ricercatore sardo ottiene dalla placenta cellule del fegato ROBERTO PARACCHINI CAGLIARI. Il primo ad accorgersene è stato Prometeo, legato a una roccia e vittima delle tortura inflittagli da Zeus: un’aquila gli dilaniava il fegato che, durante la notte, gli ricresceva. Per il mito greco, immortalato da Eschilo, si trattava di una punizione. Per la scienza invece di una possibilità: le cellule di questo organo possono rigenerarsi, ma a patto che si sappia innescare questo meccanismo.  Un passo avanti in questa direzione l’ha fatto Fabio Marongiu, giovane ricercatore (ha 31 anni) dell’istituto di Patologia generale della facoltà di Medicina di Cagliari: è riuscito a ottenere epatociti, cellule del fegato, partendo da quelle isolate dalla placenta. Si tratta - si legge nella letteratura scientifica - di un importante passo avanti verso l’individuazione di una o più strategie, sicure e riproducibili e alternative al trapianto di fegato, ad oggi l’unica terapia possibile per la cura delle patologie epatiche. Il rilievo del risultato è comprovato dalla pubblicazione su «Hepatology», una delle più autorevoli riviste del settore.  Il quadro della ricerca parte da una difficoltà diffusa: in generale non è facile trovare cellule epatiche in quanto l’unica fonte sicura sono gli stessi fegati che, però, sono gelosamente (e giustamente) custoditi per i trapianti, per cui ne è preclusa la loro utilizzazione a scopo sperimentale. Da qui la necessità di «inventare» altre metodologie. «L’idea di utilizzare cellule della placenta e in particolare della membrana amniotica - spiega Marongiu - nasce dal fatto che questo tessuto, essendo anch’esso di origine embrionale, è costituito da cellule di notevole plasticità: in grado di differenziarsi in cellule di altro tipo».  Uno dei settori più promettenti e gettonati della ricerca punta sullo studio della rigenerazione dei tessuti: in questo modo potrebbero curarsi gravi patologie e sostituire parti del corpo più o meno amputate. Tutto prende avvio dallo studio delle cellule staminali: che ancora non si sono sviluppate e che è possibile far diventare grandi in un modo (come cellule di un occhio, ad esempio) o in un altro (come componenti della pelle) ecc. «In questo settore - continua Marongiu - lo studio si è sviluppato soprattutto in due direzioni: nella sperimentazione delle cellule embrionali, da un lato, e in quello delle pluripotenti indotte. In quest’ultimo caso si utilizzano cellule adulte che si cerca di far tornare allo stato staminale. Nel primo, invece, si tenta di capire i meccanismi che spingono una cellula embrionale (ancora in fase staminale) a crescere in un modo o in un altro».  Ma in entrambi i casi vi sono delle difficoltà: nelle pluripotenti il percorso da fare è ancora molto lungo e diversi problemi da risolvere; per le embrionali vi sono in Italia alcune limitazioni legislative e, in più, «anche scientifiche - precisa Marongiu - nel senso che queste cellule si riproducono di continuo e non è ancora chiaro il meccanismo che permette di frenare questo processo. Da qui l’individuazione, come abbiamo fatto noi, di strade alternative».  Fabio Marongiu, che lavora assieme all’equipe di Ezio Laconi (docente di Patologia generale), ha svolto ricerca per due anni anche alla University of Pittsburgh, negli Usa, assieme a un numero uno del settore: Stephen Strom. In America è atterrato nel 2007, poco dopo la laurea e grazie al programma Master and back, le borse di studio regionali che permettono ai laureati di fare esperienza di studio all’estero. Ma il futuro di Marongiu non è detto che sia in Sardegna: ora è «assegnista di ricerca», ovvero ha una «borsa» che gli viene dall’università, ma è un precario. «Io preferirei poter restare nell’isola - spiega - ma con questa riforma non sono in grado di dire come potrà andare a finire». La ricerca, però, prosegue: «A Cagliari ho continuato le linee di progettazione iniziate a Pittsburgh - precisa - ma il lavoro da fare è ancora molto. Il nostro obiettivo è rendere ripetibile per tutti la nostra metodologia. In secondo luogo, arrivare a creare un numero elevato di epatociti in modo che possano essere introdotti nel fegato malato per riprodurre le cellule sane. Ma prima di arrivare all’uomo sarà necessario continuare la sperimentazione negli animali, attualmente fatta in topi e ratti. Dovremo passare a specie animali più grandi». _________________________________________ L’Unione Sarda 3 Mar.’11 MAMME LAVORATRICI, C'È IL TELELAVORO Welfare. Presentato il pacchetto del ministro Sacconi Il telelavoro in alternativa ai congedi parentali o facoltativi; una banca ore; orari flessibili in entrata e in uscita entro i primi 3 anni di vita del bambino; la trasformazione temporanea del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale per i primi 5 anni del bambino o per assistere genitori e familiari; giornate “lunghe” con orari concentrati dei propri turni. Queste alcune novità contenute nella bozza delle linee guida sulla conciliazione dei tempi di lavoro e di famiglia presentata dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, alle parti sociali. Le misure avrebbero una detassazione al 10%. Misure di aiuto per le lavoratrici madri ma anche per i padri. La rimodulazione degli orari e dei tempi di lavoro e le politiche aziendali di conciliazione possono beneficiare di misure fiscali di detassazione del salario nell'ambito di accordi di secondo livello che aumentano produttività ed efficienza. Si prevede la costituzione di asili nido aziendali e interaziendali, accompagnati anche dalla possibilità di usufruire di due settimane per l'inserimento dei bimbi alle scuole materne e al primo anno di elementari. Oltre all'erogazione da parte del datore di lavoro di buoni lavoro per lo svolgimento da parte di terzi di prestazioni di lavoro occasionale accessorio per attività domestiche e di cura. Al rientro dalla maternità, inoltre, alla mamma dovranno essere garantite le stesse mansioni. _________________________________________ Il Corriere della Sera 5 Mar.’11 GLI OSPEDALI FERMINO LE DIMISSIONI AFFRETTATE PER TAGLIARE I COSTI LA SENTENZA CONDANNA PER UN MALATO MORTO: ANDAVA CURATO La Cassazione: la vita viene prima dei bilanci ROMA - Non devono cedere a «logiche mercantili» i medici ospedalieri nel dimettere un paziente, affrettando la sua uscita per risparmiare sui costi quando sarebbe meglio qualche giorno di ricovero in più pur di salvargli la vita. Con queste motivazioni la Cassazione ha praticamente ribaltato la sentenza di assoluzione in Appello per un medico dell' ospedale di Busto Arsizio, Roberto G., che secondo la Suprema corte avrebbe dimesso troppo presto un paziente cardiopatico. Romildo B., questo il nome del paziente, si era sentito male poche ore dopo essere tornato a casa: trasportato d' urgenza di nuovo in ospedale era però morto. «Ho rispettato le linee guida e gli standard statistici di degenza», si era difeso Roberto G., che in primo grado era stato condannato a otto anni con la condizionale e ad anticipare 50 mila euro ai familiari di Romildo B. In Appello invece, aveva ottenuto l' assoluzione. La Suprema corte non ha condiviso le preoccupazioni manageriali del medico. Secondo i giudici Romildo B. non doveva essere dimesso: era un fumatore incallito, obeso, con problemi di glicemia e trigliceridi alti. Appena nove giorni prima era stato portato d' urgenza in ospedale e sottoposto a un' angioplastica coronarica. Aveva anche avuto un infarto miocardico auto con grave insufficienza respiratoria. La Cassazione se la prende soprattutto con le «linee guida» degli ospedali, di cui non si sa nulla, né dei contenuti né del livello di scientificità. Ma soprattutto, non è dato «conoscere se rappresentino un' ulteriore garanzia per il paziente». E siccome a nessuno «è consentito di anteporre la logica economica alla tutela della salute», i medici non sono tenuti «al rispetto di quelle direttive in contrasto con le esigenze di cura del paziente». Ora per il medico di Busto Arsizio si riapre il processo mentre per la Sanità pubblica, in particolare quella ospedaliera, esplode il dibattito su responsabilità medica e linee guida. I pareri già sono contrastanti. A Giuseppe Monchiero, presidente della Fiaso, che rappresenta il 60 per cento delle aziende sanitarie e ospedaliere, la sentenza non è piaciuta. «Stupiscono le motivazioni - dice -; le linee guida vengono considerate insignificanti dai giudici della Cassazione quando invece sono definite a livello mondiale e sono frutto di società scientifiche che le aggiornano continuamente. Inoltre è paradossale che anche la variabile economia sia considerata insignificante». «Giusto il principio enunciato dalla Cassazione - commenta il chirurgo e senatore del Pd Ignazio Marino -. È importante tutelare prima il diritto alla salute. Tuttavia sono convinto che le linee guida abbiano rappresentato un significativo progresso per la qualità della Sanità pubblica, in tutti i Paesi occidentali dove sono state introdotte». D' accordo anche il segretario dell' Anaao Assomed, associazione medici dirigenti, Costantino Troise, secondo cui azzerando le linee guida si farebbe «piazza pulita dei recenti progressi della medicina e si tornerebbe indietro a un' epoca pre moderna». «Il medico esprime sempre la sua valutazione, le linee guida sono solo indicazioni - conferma il presidente della Federazione degli ordini dei medici, Amedeo Bianco -. Così è accaduto pure stavolta». È vero tuttavia che a livello amministrativo «ci sia una spinta a contenere i costi e quindi la durata dei ricoveri». Esulta il Tribunale dei malati. La sua coordinatrice nazionale Francesca Moccia parla di un «freno messo alle dimissioni forzate. Da anni riceviamo denunce di questo tipo: malati che vengono rimandati a casa in tutta fretta. Giusto che il tema sia ritornato nell' alveo delle responsabilità dei medici». Mariolina Iossa RIPRODUZIONE RISERVATA Iossa Mariolina _________________________________________ Il Corriere della Sera 10 Mar.’11 DIMISSIONI DEL MALATO .REGOLE TROPPO RIGIDE Leggendo le cronache di questi giorni sembrerebbe che il medico sia tornato ad avere quel ruolo centrale nella sanità che, negli ultimi anni, sembrava aver perso, schiacciato tra linee guida, rispetto delle altrui indicazioni e pressioni delle amministrazioni. La sentenza con la quale la corte di Cassazione penale annulla l' assoluzione di un medico dell' ospedale di Busto Arsizio dall' accusa di omicidio colposo di un paziente dimesso troppo precocemente dall' ospedale, in ottemperanza alle linee guida in uso nella struttura sanitaria ma non al buon senso clinico, ne è il primo segnale; il secondo è come, nel dibattito alla Camera sul disegno di legge sul fine vita, venga affidata al medico l' ultima parola. Senza entrare nello specifico dei due esempi e, in particolare, delle discussioni che hanno caratterizzato il dibattito sul biotestamento, vale la pena fare alcune riflessioni più generali. È chiaro che il medico è l' ultimo responsabile della dimissione di un malato, è lui che valuta la situazione clinica e decide se può tornare o meno a casa. Bisogna chiarire però che esistono precisi criteri per valutare l' appropriatezza di un ricovero e la permanenza di un paziente in ospedale, e in Lombardia, come in altre Regioni, questi criteri si chiamano Pruo. In pratica, per evitare abusi ed eccessi, Regione Lombardia anni or sono ha dettato una serie di regole che dovrebbero essere sempre soddisfatte per giustificare il ricovero e la degenza di un ammalato. Regole un po' rigide, sebbene si debba riconoscere che, per fortuna, sono spesso applicate con intelligente flessibilità, che hanno il meritorio compito di garantire un ricovero «appropriato» ma non pochi svantaggi. Uno tra i tanti è quello di sottrarre al medico la discrezionalità propria di quello che un tempo veniva chiamato «occhio clinico» e che ancor oggi, a dispetto di linee guida e regolamenti, ha un valore fondamentale in questo lavoro. Se le linee guida hanno molti difetti, non si può però dimenticare che forniscono indicazioni basate sull' evidenza e che hanno aiutato molto i medici a utilizzare criteri più scientifici e oggettivi nell' operare le loro scelte professionali. Insomma, se la palla torna davvero ai medici, molte cose andranno ridiscusse, evitando accuratamente rigidi preconcetti. medico sharari@hotmail.it Harari Sergio _________________________________________ Il Corriere della Sera 4 Mar.’11 I MILLE INGEGNERI CLINICI CHE MANCANO SUL MERCATO FORMAZIONE LO STUDIO LE STIME DEL POLITECNICO DI MILANO PER I PROSSIMI ANNI Professionisti tra tecnica e medicina A Trieste L' Università prepara ingegneri clinici dal 1991. Oggi una laurea magistrale e due master annuali Si pensi a un elettrobisturi, o a un apparecchio per la risonanza magnetica o anche solo a un monitor per sala di rianimazione. Sono strumenti che rendono la medicina più efficace, nelle diagnosi e nelle cure. Ciò a cui normalmente non si pensa è chi sta dietro alla tecnologia ospedaliera. Chi decide gli acquisti dei dispositivi più adeguati alle esigenze cliniche? Chi cura la manutenzione e la sicurezza per i pazienti? Chi rinnova e modernizza il parco macchinari? Nei migliori dei casi, ma sono solo un centinaio gli ospedali che hanno un servizio interno dedicato, chi tiene in piedi tutto ciò è una figura professionale sempre più richiesta e ancora ufficialmente misconosciuta: l' ingegnere clinico. In realtà un' associazione che raggruppa questi professionisti, l' Aiic, esiste ormai da 18 anni, ma sono pochi, anche tra i giovani che si iscrivono alle università, a conoscere l' esistenza di un' attività che oggi è assolutamente sottodimensionata rispetto alle esigenze della sanità italiana. «Attualmente gli ingegneri clinici sono circa un migliaio - conferma la presidente di Aiic Paola Freda - ma in uno studio realizzato dal politecnico di Milano si prevede che il fabbisogno per i prossimi anni sia di almeno il doppio solo per gestire in sicurezza e con elevate prestazioni il parco tecnologico esistente». Se si dovesse però dar seguito alle direttive europee che richiedono una convalida per tutti i «Medical device software» - cioè quei programmi che, dovendo gestire tutto ciò che è utilizzato per la diagnosi e la cura di un paziente, diventano essi stessi dei dispositivi medici - allora il fabbisogno futuro di ingegneri clinici raddoppierebbe ulteriormente, superando le 4 mila unità. «Per ora però - aggiunge Freda - mancando un riconoscimento ufficiale della professione, l' Italia resta molto indietro rispetto ad altri paesi d' Europa». Un distacco che ci penalizza non solo in qualità ma anche economicamente, tenendo conto che gli ospedali che si sono affidati a un Sic (Servizio ingegneri clinica) hanno risparmiato tra il 20 e il 30% sulle spese tecnologiche. Ma come si diventa oggi ingegneri clinici? Pioniere nella formazione di questi professionisti destinati agli ospedali pubblici ma anche alle società private che offrono Sic in outsourcing (tra le maggiori, per esempio, Tbs Group, Ingegneria biomedica Santa Lucia o Poliedra) è l' Università di Trieste che prepara ingegneri clinici dal 1991. «Attualmente abbiamo in funzione una laurea magistrale e due master annuali, uno di primo e uno di secondo livello. - spiega il coordinatore dei master Agostino Accardo - E l' adesione dei giovani è andata crescendo: da una decina di iscritti all' anno dell' inizio, ora siamo a quota 130. L' ingegneria clinica è una specialità nata nell' ambito dell' ingegneria biomedica, un indirizzo presente in 16 università italiane». All' Università La Sapienza di Roma, invece, esiste l' unica laurea triennale in ingegneria clinica, mentre gli altri master di secondo livello in funzione sono a Pavia, Firenze e Bologna, quest' ultima con contenuti paragonabili a quelli di Trieste. «In Italia manca ancora un decreto attuativo che riconosca un albo per gli ingegneri clinici, un fatto che penalizza questa professione emergente», commenta infine Alessandra Barulli, responsabile alta formazione di Cofimp, la società di Unindustria che realizza il master in collaborazione con l' Università di Bologna. Enzo Riboni RIPRODUZIONE RISERVATA **** 16 null Gli indirizzi in ateneo Alla Sapienza di Roma esiste l' unica laurea triennale in ingegneria clinica, mentre master di secondo livello sono in funzione per esempio a Pavia, Firenze e Bologna Riboni Enzo _________________________________________ Il Corriere della Sera 6 Mar.’11 TUBERCOLOSI: UNA PAURA ANTICA In Italia per ora la situazione epidemiologica è sufficientemente tranquilla La tubercolosi fa paura perché evoca paure lontane nel tempo ma ancora vive nei nostri ricordi: la contagiosità, i sanatori, la povertà che spesso si associa alla malattia. Una paura che dal punto di vista medico non è completamente irragionevole: spesso la diagnosi è difficile, oggi non sempre ci si pensa, i sintomi sono comuni a tante altre malattie. La tubercolosi è però ormai una malattia completamente guaribile, le terapie e le profilassi sono molto efficaci, anche se vanno proseguite per mesi sotto stretto controllo clinico. La situazione epidemiologica italiana al momento è abbastanza tranquilla, non abbiamo molto da temere: i sistemi di sorveglianza funzionano e il numero di casi è relativamente limitato. È bene però mettere le mani avanti per il futuro. Nel mondo globale i contagi sono molto più facili e meno controllabili; il nostro Paese, poi, nei prossimi anni vedrà aumentare il numero di immigranti provenienti da Paesi dove la tubercolosi è molto diffusa. In questi ultimi anni vanno inoltre diffondendosi ceppi di bacilli tubercolari resistenti alle comuni terapie antibiotiche, i cosiddetti MDR-TB (multi-drug resistant tubercolosis) e gli XDR-TB (extensively drug-resistant, ancor più pericolosi), che sono vere e proprie bombe biologiche e sono già un concreto problema sanitario: l' OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) calcola che ogni anno nel mondo si registrino oltre 440 mila casi di MDR-TB. Per fortuna nel nostro Paese i casi di queste forme resistenti sono pochissimi, ma bisogna stare in allerta; e come? Potenziando la rete territoriale di sorveglianza pneumologica, ormai smantellata dopo la chiusura dei dispensari, e rivisitandola in chiave moderna. E soprattutto continuando a garantire a tutti accesso libero e gratuito alle cure e condizioni di vita igienico-sanitarie decenti. *direttore U. O. di Pneumologia Ospedale San Giuseppe Milan _________________________________________ Il Corriere della Sera 6 Mar.’11 PERCHÉ E COME LA TUBERCOLOSI SI È RIAFFACCIATA IN ITALIA MALATTIE INFETTIVE DOPO CHE DIVERSI BAMBINI SONO STATI CONTAGIATI A MILANO SONO RIAFFIORATE PREOCCUPAZIONI CHE APPARTENEVANO AL PASSATO Quali timori possono essere davvero giustificati È arrivato in queste settimane da Milano l' ultimo allarme: nella scuola elementare Leonardo Da Vinci, una delle più grandi della città, è scoppiata una piccola epidemia di tubercolosi. Su circa 900 bambini che frequentano l' istituto, 12 hanno sviluppato la malattia e 155 sono risultati positivi al test di Mantoux, che indica la presenza del batterio, che può tuttavia restare in forma latente per molti anni e persino non manifestarsi mai. La fonte iniziale del contagio si è appurato essere un clochard che per qualche tempo ha frequentato i giardini dell' ampia piazza Leonardo, antistante la scuola. Ma i medici che seguono la vicenda hanno ancora molti interrogativi su come il batterio abbia potuto raggiungere l' interno dell' istituto e diffondersi, dato che il contagio non è poi così facile. Di certo c' è invece che, prima di questo episodio, ai genitori della Leonardo termini come "tisi" o "mal sottile" potevano richiamare al più suggestioni letterarie d' altri tempi. Ora, invece, la tubercolosi è lì, e per le strade di Città Studi, il quartiere della scuola, non si parla d' altro. Ma la vicenda milanese non è unica. Ogni anno in Italia sono notificati al Ministero della Salute circa 4.500 nuovi casi di tubercolosi, per lo più nel Centro Nord, con Milano e Roma a guidare la classifica delle città più colpite. «Si tratta però di una sottostima, perché non tutti i malati ricevono una diagnosi - fa notare Giorgio Besozzi, direttore del Centro per la tubercolosi Villa Marelli, che fa capo all' Ospedale Niguarda di Milano -. Più realisticamente, i casi potrebbero essere sette-ottomila all' anno, con un' incidenza che comunque è bassa rispetto a quella che si registra in altri Paesi». Secondo l' Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ogni anno la tubercolosi uccide nel mondo due milioni di persone, mentre i nuovi casi sono nove milioni e mezzo. Con il 55 per cento dei malati, l' Asia è il continente più colpito; ma il Paese con l' incidenza più elevata è il Sudafrica, dove si contano 700 casi ogni 100 mila abitanti. Con un' incidenza che non raggiunge i dieci casi per 100 mila residenti, la tubercolosi resta in Italia una malattia piuttosto rara. Che però desta preoccupazione, soprattutto perché il nostro Paese, dopo averla apparentemente sconfitta con gli antibiotici e la prevenzione, ha ormai dimenticato come gestirla. Per predisporre un piano idoneo a fronteggiarla, il 23 marzo prossimo, a Roma, si incontreranno medici, politici e rappresentanti delle istituzioni. Il giorno successivo sarà la Giornata mondiale della tubercolosi, un evento organizzato ogni anno dalla partnership internazionale Stop Tb, sotto l' egida dell' Organizzazione mondiale della sanità. «L' Oms mette la disponibilità politica al primo posto dell' agenda per combattere efficacemente questa malattia - riprende Besozzi -. E in Italia, i nodi da affrontare sono diversi». Li elenca Luigi Codecasa, responsabile del Centro regionale di riferimento per il controllo della tubercolosi in Lombardia: «Ci sono pochi medici capaci di riconoscere la tubercolosi, che può essere confusa con altre malattie e viene spesso identificata tardi. L' argomento, infatti, era quasi uscito dalle facoltà di medicina e al personale sanitario oggi manca l' esperienza necessaria. Inoltre, i vecchi strumenti di sorveglianza epidemiologica, come gli screening con il test di Mantoux nelle scuole o fra i militari di leva, sono stati abbandonati e non si sono messi a punto metodi alternativi». «Sulla tubercolosi, insomma, - prosegue Codecasa - non c' è un' attenzione sufficiente neppure da parte dei medici. È significativo, in questo senso, notare che il test per verificare la presenza del batterio andrebbe sempre eseguito prima di intraprendere cure con farmaci che interferiscono con il sistema immunitario, perché questi medicinali potrebbero far uscire la malattia dalla latenza. In molti casi però il passaggio sfugge, anche se l' esecuzione del test costa pochissimo». Una lotta più efficace contro la tubercolosi nel nostro Paese è necessaria anche perché, sebbene da una decina di anni il numero di casi sia stazionario, in futuro la situazione potrebbe cambiare, anche per via dell' incremento dei flussi migratori. «Già oggi la metà dei casi è diagnosticata in persone immigrate, che provengono soprattutto dai Paesi dell' Est e dal Nord Africa - riprende Luigi Codecasa -. Occorre sorvegliare i luoghi in cui la trasmissione è più facile, come i dormitori per i senzatetto, le carceri e gli ospedali, dove possono essere ricoverati malati che non hanno ancora una diagnosi. Ma va comunque ricordato che i casi di trasmissione da immigrati a italiani non sono frequentissimi e talora, anzi, abbiamo verificato il contrario. A questo proposito è importante notare che la malattia non ha relazioni tanto con la clandestinità quanto con il disagio e la povertà». Una volta identificata, la tubercolosi si cura con gli antibiotici e la terapia è poco costosa. Ma la presenza di ceppi batterici che non rispondono ai farmaci è in aumento e rappresenta un ulteriore motivo di preoccupazione. Nel mondo, il 12 per cento dei malati non può essere trattato con i farmaci più efficaci. In Italia, secondo l' ultimo rapporto del Ministero della Salute, i ceppi batterici resistenti sono circa il tre per cento. Ma sono in crescita costante. Margherita Fronte RIPRODUZIONE RISERVATA **** Il 24 marzo sarà la Giornata mondiale contro la Tbc L' appuntamento null Fronte Margherita _________________________________________ Il Corriere della Sera 6 Mar.’11 QUANTE MEDICINE COMPRIAMO? MILIONI DI SCATOLE Questi sono, secondo il rapporto «L' uso dei farmaci in Italia», elaborato dall' Aifa e dall' Istituto superiore di Sanità, i milioni di confezioni di farmaci (da quelli dispensati dal Servizio Sanitario a quelli comprati di tasca nostra) che noi Italiani abbiamo acquistato nei soli primi 9 mesi del 2010 (ultimi dati complessivi disponibili). Nello stesso periodo la spesa farmaceutica del Servizio sanitario (solo farmaci di Fascia A) è stata di circa 9.732 milioni di euro, con un aumento dello 0,8% rispetto allo stesso periodo del 2009. La regione dove, da gennaio a settembre 2010, la spesa farmaceutica pubblica è stata maggiore è la Calabria: 201,8 euro per assistito. La spesa più bassa, nella Provincia autonoma di Bolzano: 113,5 euro pro capite. _________________________________________ Il Corriere della Sera 13 Mar.’11 SENZA ETÀ LA GIOVINEZZA DILATATA: NON CONTA PIÙ L’ANAGRAFE di DANIELA MONTI L’ età anagrafica come la temperatura atmosferica: c’è quella reale, il conto crudo degli anni, e quella percepita da noi stessi e dagli altri, il segreto ben celato dietro l’abbaglio di un corpo giovane. E come i bollettini meteorologici, da qualche tempo, insistono sempre più sulla seconda— a chi importa quanto segna il termometro? Ciò che conta è il caldo e il freddo che avvertiamo— così per l’anagrafe è scattato un identico meccanismo: l’età non ha più nulla di oggettivo, non si invecchia più. La data di nascita evapora di fronte a un viso che la smentisce, «camuffamento» (che il patrimonio genetico può facilitare o ostacolare) non inteso come tradimento, ma piuttosto fedeltà estrema a se stessi, a ciò che si è stati e che si vuole continuare a essere, nonostante il tempo che passa. Il risultato è una «confusione delle età» , lo schiacciamento di una generazione sull’altra. Per la prima volta nella nostra storia non siamo più in grado di mettere in fila— suddividendole anche grossolanamente in gruppi: i ventenni, i quarantenni, i cinquantenni, i settantenni— le persone che incontriamo e con le quali intratteniamo un rapporto. La chirurgia plastica ha fatto esplodere il fenomeno, rendendo possibile su larga scala questa sorta di mimetismo anagrafico, ma le origini sono altrove. «I codici tradizionali, che assegnavano a ogni fase dell’esistenza un comportamento congruo, sono andati in frantumi, oggi l’età matura contiene spezzoni delle età precedenti: emozioni, aspirazioni, desideri di felicità a cui non si è più disposti a rinunciare» dice lo psichiatra Claudio Mencacci. Siamo alla frontiera, si procede a tentoni, si sperimenta: «Le mutate condizioni di vita impongono una rilettura dei rapporti generazionali, aprendoci a comportamenti nuovi e a stati mentali che non abbiamo mai conosciuto» . Aldo Schiavone, da storico, allarga lo sguardo ed esaspera la metafora della frontiera fino a leggervi la fine di un’epoca: «L’uomo, grazie alla potenza della tecnica di cui dispone, sta prendendo il controllo della sua forma biologica — scrive —. Quello che è stato fino a oggi un presupposto immutabile della storia umana (le sue basi "naturali") si sta sempre più trasformando in un risultato delle nostre azioni e delle nostre scelte. Noi saremo, biologicamente, sempre più "come vorremo essere": sta finendo la nostra preistoria» . Le tappe che scandiscono il passaggio da una fase all’altra dell’esistenza— dalla giovinezza all’età adulta, dall’età adulta alla vecchiaia— progressivamente si sono indebolite, rarefatte, quando non scomparse del tutto, lasciandosi dietro quella che l’americano Robert Bly, con una felice intuizione, già nel 2000 chiamò la «società orizzontale» : senza un prima e un dopo, senza padri e figli, senza nonni e nipoti, ma composta da fratelli e sorelle tutti ugualmente obbligati a essere giovani. Eppure da sempre la differenza generazionale è uno dei capisaldi della nostra «cognizione sociale» : il mutamento non può restare senza conseguenze. «Qual è la madre e qual è la figlia?» si chiede allora «Le Nouvel Observateur» in un articolo che mette a confronto foto di donne indistinguibili. Stessa silhouette, stesso look, stessi tratti giovanili. Stessi interessi e hobby. Madri che litigano con le figlie per un capo di abbigliamento del guardaroba comune, a cui fanno da contraltare padri che si spartiscono con i ragazzi gli stessi fumetti e videogame. «Stiamo entrando in una società in cui le differenze individuali di valore e stile di vita sono nettamente più importanti dell’età» scrive il settimanale. Nel rapporto dell’Ipsos, redatto nell’ottobre scorso, il 69%dei giovani francesi dichiara di avere un rapporto di «forte complicità» con i genitori. Sempre meno ragazzi, invece, ammettono di avvertire un fossato, una cesura fra i propri valori e quelli delle generazioni precedenti. Una «pacificazione» che ha poco di rassicurante. Lo psicanalista Massimo Recalcati prende di petto la stessa criticità osservandola dal punto di vista dei genitori, «più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli, più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale» . Chi ci perde e chi ci guadagna in questa sovrapposizione? È la prima domanda. Ne segue un’altra: la frequenza con cui si ricorre a espedienti di «ringiovanimento estetico» non rivela forse, in modo quasi drammatico, l’urgenza di ripensare il nostro rapporto con il tempo? «In Italia nell’ultimo secolo la lunghezza della vita è raddoppiata — scrive Edoardo Boncinelli —. Negli ultimi quarant’anni si è allungata di dieci anni e negli ultimi dieci di due anni e mezzo, con il risultato che ogni anno che passa ci porta almeno un trimestre in più» . È un salto prospettico che obbliga a immaginare per noi stessi una diversa collocazione all’interno di questa esistenza allungata: se fra 30 o 40 anni vivremo in media 120 anni— come sempre più spesso la medicina si spinge a ipotizzare — significa che a 60 saremo a metà della vita; un traguardo che i nostri genitori tagliavano a 35. Tutto da ripensare, dunque. «Io chiamo le badanti "moderne neonatologhe"— provoca Mencacci — perché in realtà molti novantenni e centenari di oggi vengono trattati come neonati» . Viene da chiedersi fino a quando ciò potrà essere tollerato e cosa accadrà quando la prospettiva d’oltrepassare il secolo non sarà più un’eccezione ma (quasi) la regola. Mantenere il più a lungo possibile il cervello in salute è la vera partita del futuro. Il successo dei giochi di brain training dimostra come la sfida sia già stata raccolta e portata fin dentro le piccole cose della quotidianità (con l’avvertenza di non eccedere in ottimismo, «mentre abbiamo avuto un notevole successo nel rimandare la morte, abbiamo significativamente fallito nel rimandare l’invecchiamento» ricorda severo il ricercatore di Cambridge Guy Brown). Torniamo alla prima domanda. «I ragazzi ci perdono di sicuro: hanno bisogno di differenze, di autorità, di regole e non di genitori che gli rassomiglino— dice lo psicologo Raffaele Morelli —. Sfatiamo il mito che genitori e figli debbano parlare molto fra loro: i ragazzi devono parlare con gli amici, i genitori devono essere fonte di autorità, non complici. E l’autorità funziona se non siamo amici, se io do le regole e tu le rispetti» . Madre di due figlie adolescenti, la scrittrice Nathalie Azoulai, autrice di Les filles ont grandi, un testo che sta facendo molto discutere in Francia, nutre la stessa preoccupazione: «Queste madri che si impossessano di tutto ciò che le figlie hanno — stile, audacia, disinvoltura — si trasformano in genitrici che non possono più essere detronizzate. È una carneficina» . Del senso di fastidio e di minaccia con cui le giovani reagiscono di fronte a madri che vivono in perenne rincorsa verso di loro parla anche la psicoterapeuta Anna Salvo: «L’adolescenza della figlia corrisponde al suo trionfo, come le fiabe ci insegnano. Ora questo trionfo viene offuscato dallo charme e dalla seduttività materni, che non sono più quelli della donna matura, come avveniva in passato, ma di chi vuole apparire in tutto uguale alla figlia» . Ci guadagnano gli adulti, allora? Morelli è categorico: «Ci perdono perché non c’è niente di peggio che essere fuori tempo. Essere bambini è sano, essere infantili è malato» . Anna Salvo cita Oscar Wilde: «Se in Dorian Gray invecchiava il ritratto, qui chi invecchia? Questa disperata, voluttuosa lotta contro il tempo è un nodo critico. Il trascorrere degli anni magari non incide sul nostro mondo interno, dove manteniamo un’anima bambina, ma sul nostro fisico sì. Come diceva un paziente di Lacan, il tempo è "più potente di Dio"e nonostante la palestra e le creme antiaging prima o poi si farà sentire. La cura di noi stessi, che si esprime attraverso strategie differenti, anche estetiche, è un valore. Ma una cosa è lo sforzo di volersi bene, altro è la pretesa di calare una saracinesca. La rigidità, in campo psichiatrico, genera sempre sospetto» . Luisa Muraro, la filosofa della differenza, sposta il tiro su un altro elemento che schiaccia le generazioni una addosso all’altra: l’abdicazione degli adulti al compito educativo. «Le persone adulte che s’impegnano a educare le nuove generazioni nei contesti in cui quelle e queste coesistono — a tavola, a scuola, per strada — diventano positivamente vecchie, cioè si differenziano e, se fanno bene il loro lavoro, guadagnano autorità. La fedeltà a un impegno politico preso molti anni fa — racconta parlando di sé — mi obbliga a confrontarmi non superficialmente con donne più giovani che chiedono di sapere, di capire e di essere ascoltate. Mi piacerebbe abbreviare i tempi ma non sempre si può e allora scopro che le differenze generazionali ci sono e bisogna attraversarle, ora baruffando ora producendo insieme nuovi pensieri» . La «fine dell’età» trova così il suo punto di forza e fondamento nella crisi dell’età adulta. Il paradosso è quello di una società che invecchia, ma che appare sempre più giovane. Come scrive Alessandro Agostinelli ne La società del giovanimento (Castelvecchi) — un neologismo costruito sul calco della parola invecchiamento, per indicare come anche il diventare giovani sia oggi da intendersi come percorso — «mentre in passato la crescita e la maturazione accompagnavano l’individuo in un processo di invecchiamento, nel presente più si diventa grandi e maturi più si mettono in atto processi di giovanimento, a livello fisico, psichico e, soprattutto, cognitivo e culturale» . Beppe Severgnini ha chiamato Yom — Young Old Man, giovane vecchio uomo— quella categoria di persone che trattengono se stesse in un campo emotivo e cognitivo post adolescenziale. «Molti uomini negano l’angoscia della morte cercandosi, in età matura, una compagna giovane — riprende Mencacci— e fin qui niente di nuovo. Tutto è cambiato invece sul fronte femminile: le donne esprimono nuovi desideri, nuove inquietudini, si rimettono in gioco anche nella piena maturità, anelano a vivere quelle emozioni che non hanno età e alle quali una volta si rinunciava, conferendo un valore diverso al tempo che resta da vivere» . Il «modello giovane» , da ricalcare a tutti i costi, non è comunque perfetto come appare. «L’Economist» riporta uno studio secondo il quale la felicità aumenta con l’età seguendo un andamento a «U» (diminuisce fino alla mezza età, con il piccolo più basso a 46 anni, per poi tornare a crescere). «Se studiamo fino a 30-35 anni e raggiungiamo la piena indipendenza economica verso i 40, come possiamo non pensare di essere ancora delle ragazze a quarant’anni?— si chiede Carola Barbero, autrice di Sex and the City e la filosofia, il melangolo—. Siamo "giovani stagionati". Ci offendiamo se le commesse nei negozi ci danno del lei e ci mettiamo gli stessi jeans delle quindicenni. Ma un’adolescenza che dura vent’anni non è una passeggiata. Quando l’età adulta arriva— e arriva sempre— c’è poco tempo per mettersi al passo e il rischio è ritrovarsi come Peter Pan anziani che hanno giocato troppo a lungo, si sono rovinati il costume e alla fine si scoprono soli, tristi e imbronciati» . L’aforisma di Camus, «dopo una certa età ognuno è responsabile della propria faccia» , non è mai stato così vero. Mentre il numero degli interventi estetici rimane più alto fra le persone di mezza età, impennate si registrano fra le nuove generazioni. Il «New York Times» scrive di oltre 12 mila ragazze, fra i 13 e i 19 anni, che hanno fatto uso di tossina botulinica. Siamo alla fobia collettiva per la ruga. L’ «Express» prova a raccontare la generazione di impiegate, segretarie, parrucchiere sulla quarantina che vanno dal chirurgo per prendersi una «rivincita» . «È stupefacente vedere ex militanti della liberazione della donna che si offrono al bisturi. Dopo aver preteso un lavoro e una stanza tutta per sé, ora chiedono un viso che le rappresenti» . Il lifting dunque come strumento che riconcilia, se è vero che l’invecchiare, come scriveva Améry, corrisponde a un divenire «estranei a se stessi» , espropriazione a cui la chirurgia cerca di porre rimedio. Morelli: «Nessuna riconciliazione, la corsa al lifting è pericolosa perché disturba la nostra immagine interna. L’estraneo nello specchio? È solo una corsa all’omologazione. E infatti, dopo l’intervento, tutti interpretano lo stesso ruolo: quello dei giovanilisti» . Anna Salvo introduce un altro elemento. Sconcertata, racconta, dall’immagine di Patty Pravo a Sanremo, sessantaduenne dalla pelle liscia e perfetta, avvicina questa sorta di «ibernazione» che immobilizza e fissa i tratti al «tutto presente» dell’inconscio «che non ha tempo, non ha passato o futuro, è fermo nel presente. Proprio per questo il riverbero della vita infantile ha una grande forza d’urto anche in età adulta. Se ora corpo e inconscio condividono la stessa legge del tempo che non passa, a cosa andremo incontro? Ce lo diranno le prossime generazioni» . Boncinelli, 70 anni a maggio, le regole per vivere e invecchiare bene le riassume così: «Mangiare di tutto con moderazione, fare esercizio fisico senza esagerare, usare il cervello senza paura di esagerare» . _________________________________________ La Nuova Sardegna 12 Mar.’11 SCOPERTO A SASSARI COME SI TRASMETTONO LE INFEZIONI VAGINALI Tre studiosi della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università di Sassari hanno contribuito a svelare alcune caratteristiche e funzioni di una molecola chiave nel metabolismo del Trichomonas vaginalis, un microorganismo che causa una delle malattie a trasmissione sessuale più diffuse, la tricomoniasi, che ogni anno colpisce più di 170 milioni di persone in tutto il mondo. Si tratta di un’infezione che nella donna provoca vaginite e cistite e nell’uomo invece è causa di prostatite.  Il gruppo di ricerca guidato dal professore di Microbiologia, afferente al dipartimento di Scienze biomediche, Pier Luigi Fiori e costituito dal professor Paola Rappelli e dal ricercatore Daniele Dessì, dopo aver raggiunto quattro anni fa la copertina del prestigioso Science, si è meritato la copertina del numero di marzo della rivista di riferimento della parassitologia molecolare Molecular and Biochemical Parasitology, con un lavoro svolto all’interno di un network di collaborazione internazionale. Lo studio è nato dalla sinergia tra il gruppo del professor Fiori e quelli del professor Nigel Yarlett della Pace University di New York e del professor Jan Tachezy della Charles University di Praga.  «Abbiamo studiato e osservato diverse caratteristiche dell’arginina deiminasi (questo il nome della molecola, ndr) - spiegano Paola Rappelli e Daniele Dessì - un enzima che riveste un ruolo fondamentale nella produzione di energia nel Trichomonas. Ciò che la rende peculiare e interessante è il fatto che questa molecola, al contrario di ciò che accade per molti altri enzimi coinvolti nella produzione di energia, che sono molto simili sia nei microorganismi patogeni che nel loro ospite umano, è tipica del Trichomonas e di pochi altri parassiti e manca del tutto nell’uomo».  «Questo- dicono gli studiosi sassaresi- la rende un oggetto di studio interessante e promettente per lo sviluppo di nuovi farmaci contro questo patogeno. Andare a colpire l’arginina deiminasi del parassita è come andare a tagliare le sue fonti di approvvigionamento energetico».  Nonostante esista un farmaco efficace per la terapia della tricomoniasi, stanno aumentando i casi di resistenza, fatto che rende importante l’individuazione di nuove strategie di intervento per il controllo della tricomoniasi: «Controllare l’infezione dal Trichomonas - aggiunge Pier Luigi Fiori - significa anche controllare altre infezioni sessualmente trasmesse, come ad esempio le infezioni da Hiv. Il Trichomonas, infatti, crea una sorta di terreno fertile, un ambiente immunologico favorevole che aumenta il rischio di acquisizione del virus HIV di 2-3 volte, come dimostrano diversi studi condotti su popolazioni ad alto rischio». L’articolo sull’arginina deaminasi segue di pochi mesi un’altra pubblicazione effettuata dallo stesso network di ricercatori, e riguardante un aspetto collegato. Fiori e i suoi collaboratori hanno dimostrato come il Trichomonas condivida il meccanismo di produzione di energia dell’arginina deaminasi con un batterio, Mycoplasma hominis, che causa una comune infezione del tratto genitale e con cui il parassita instaura una simbiosi quando i due si incontrano nel tratto genitale umano. «Quando il Trichomonas e il Mycoplasma si trovano insieme - spiega Fiori - l’attività dell’arginina deaminasi risulta aumentata di sei volte. Queste analogie metaboliche, insieme a questo stretto rapporto fisico fra i due microorganismi, ci ha fatto ipotizzare che il Mycoplasma possa fungere come una sorta di primitiva “centrale energetica” per il Trichomonas. Si tratta per ora di speculazioni, ma l’interesse da un punto di vista evolutivo è grande: potrebbe aiutarci a capire come si sono formate le vie di produzione dell’energia negli organismi più evoluti».(red.att.) _________________________________________ Sanità News 11 Mar.’11 IL DDL FAZIO "SPERIMENTAZIONE CLINICA E ALTRE DISPOSIZIONI IN MATERIA SANITARIA" Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge delega proposto dal ministro della Salute Ferruccio Fazio ''Sperimentazione clinica e altre disposizioni in materia sanitaria''. Dalla sperimentazione alla riforma degli ordini per arrivare alla sanita' elettronica, ecco cosa prevede. - Sperimentazione clinica e innovazione. Viene delegato al Governo il riassetto e la semplificazione della normativa in materia di sperimentazione clinica dei medicinali per uso umano da attuarsi entro nove mesi dall'entrata in vigore della legge delega attraverso l'emanazione di uno o piu' Decreti legislativi, acquisito il parere della Conferenza delle Regioni. I Decreti dovranno prevedere il riordino, l'individuazione, nonche' la riduzione, del numero degli attuali 269 ''Comitati etici'' con predisposizione di criteri di certificazione, prevedendo in ogni caso almeno un Comitato etico per ogni Regione e tenendo in considerazione il numero di Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico presenti; l'individuazione dei requisiti dei centri autorizzati alla conduzione delle sperimentazioni cliniche dalla fase 0 alla fase IV; meccanismi di valutazione delle performance delle aziende sanitarie pubbliche nell'ambito delle sperimentazioni cliniche; l'istituzione di un portale di consultazione per il cittadino. - Professioni sanitarie. Si prevede con una delega al Governo il riordino della disciplina degli Albi, degli Ordini, e delle relative Federazioni nazionali, dei medici chirurghi, degli odontoiatri, dei farmacisti e dei medici veterinari che saranno soggette alla vigilanza del Ministero della Salute. Saranno rafforzati i codici deontologici, la formazione e l'aggiornamento professionale. Si prevede infine il riordino delle attivita' idrotermali e la promozione del turismo termale. Sanità elettronica. Verra' istituito per ogni cittadino il Fascicolo sanitario elettronico (FSE), fino ad oggi non disciplinato a livello nazionale da norme di carattere primario o secondario. Il Fascicolo, definito come l'insieme dei dati e documenti digitali di tipo sanitario e socio-sanitario generati da eventi clinici presenti e trascorsi, riguardanti l'assistito, verra' istituito dalle Regioni nel rispetto della normativa vigente in materia di protezione dei dati personali a fini non solo di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione; ma anche di studio e ricerca scientifica in campo medico, biomedico ed epidemiologico; programmazione, gestione, controllo e valutazione dell'assistenza sanitaria.