CULTURA E SCIENZA NON SI BOICOTTANO "LA RICERCA NON È IN VENDITA" SECONDO EUROSTAT: IN ITALIA MOLTI INSEGNANTI E PIÙ ANZIANI RIFORMA: NO ALLE MEZZE MISURE RIFORMA DELL´UNIVERSITA´: SCEGLIERE TROPPO PRESTO LA RICERCA AI RICERCATORI. E I POLITICI? MORATTI E LA RIFORMA DI ATENEI E CNR TRA FAVOREVOLI E CONTRARI UN AIUTO ALLA "RICERCA SOCIALE" LA SAPIENZA: I RICERCATORI PROTESTANO PER LE ASSUNZIONI BLOCCATE SUL DNA UNA SCOMMESSA MILIARDARIA ARRIVA L' ULTIMA UTOPIA: LA REPUBBLICA DEL SAPERE LA SCUOLA CHE MANCA UNIVERSITÀ: LE CASSE PIANGONO, SPEGNETE LE LAMPADINE CAMPUS UNIVERSITARIO, C'È L'ACCORDO CONSIP: SE UN RICERCATORE HA BISOGNO DI UN COMPUTER ================================================================== CALA IL BISTURI SU MEDICINA: A RISCHIO LE LAUREE TRIENNALI SANITÀ, PUGNO DI FERRO CONTRO LE TRUFFE GUERRA ALLE TRUFFE SUI FARMACI "DISDETTO UN CONGRESSO SU DUE" USA TRA DIVIETI DI CONVEGNI GRATIS, POLICLINICO: I POSTI LETTO? AUMENTANO (A ROMA) CLINICA NEUROLOGICA: PAZIENTI ESASPERATI MASSAGGIATORI: VOGLIAMO ESSERE EQUIPARATI AI FISIOTERAPISTI" NEUROSCIENZE: LA GRANDE SCUOLA DI GESSA FARMACI CONTRO IL DOLORE. POCHE RICETTE IN FARMACIA FALLIMENTARI I RISULTATI DEL PRIMO VACCINO CONTRO L'AIDS GIANNI LOY, UN VACCINO RAZZISTA TUTTO IL DNA IN UN CHIP L'ORMONE DEL COMPORTAMENTO PATERNO AUTO CON FARI ACCESI DI GIORNO? IRRAZIONALE DIAGNOSI TEMPESTIVA CONTRO LA MENINGITE ANSIA E DEPRESSIONE, COMPAGNI PER UN ITALIANO SU TRE ================================================================== ____________________________________________________________ La Stampa 24 Feb.03 CULTURA E SCIENZA NON SI BOICOTTANO Da qualche tempo sta circolando anche in Italia una petizione, promossa da alcuni docenti universitari e sostenuta dal Consiglio di facoltà di Parigi VII, che invita al blocco di tutti gli accordi di collaborazione fra le università europee e quelle israeliane. Pur avendo opinioni diverse sul conflitto israeliano-palestinese, riteniamo questa iniziativa abnorme e dannosa. Il boicottaggio degli scambi culturali contrasta con la vocazione storica dell'università, che è creare rapporti liberi fra persone e fra gruppi, non quella di erigere barriere aggiuntive o usare la cultura come strumento di pressione impropria.. Il boicottaggio addita come implicitamente responsabili della situazione attuale docenti e ricercatori israeliani, colpendo la comunità intellettuale di Israele con una ritorsione, l'isolamento culturale, mai applicata in altre realtà. Indebolisce le già vulnerabili componenti moderate dei due schieramenti, in particolare rende ancora più difficile il lavoro di quei docenti e studenti israeliani e palestinesi che si stanno sforzando di costruire insieme una storia e un sapere svincolati dalle ideologie nazionaliste e militariste. Sono spesso loro che si giovano di triangolazioni con università di paesi europei. Svaluta agli occhi degli stessi studenti europei la strategia del dialogo e della "diplomazia dal basso", embrione fragile e prezioso di una convivenza fra popoli. Non possiamo che concordare con quanto scritto dall´intellettuale arabo Khaled Fouad Allam sulla Stampa giovedì scorso: "Io, che sono arabo e musulmano, dissento totalmente da una strategia politica di questo tipo: non perché difendo Sharon e il suo governo, la sua politica che conduce alla catastrofe; ma perché considero estremamente pericoloso un tale uso della cultura a fini politici". Chiediamo, pertanto, che gli accordi fra università israeliane e europee siano onorati e intensificati, e che sui nostri media si dia più spazio alle iniziative di collaborazione israeliano-palestinese in atto e in progetto. Anna Bravo, Gian Enrico Rusconi, Fabio Levi, Chiara Saraceno Università di Torino Adesioni all´appello possono essere inviate al forum aperto da oggi sul sito Internet del nostro giornale ____________________________________________________________ L'Unione Sarda 25 Feb.03 "LA RICERCA NON È IN VENDITA" tagli alla cultura. Dai docenti durissime accuse alle scelte del governo Berlusconi Penalizzate più delle altre le facoltà umanistiche "Non si può ingabbiare lo studio in precise gabbie economiche" Antonella Loi CAGLIARI. La cultura e la ricerca in Italia stanno subendo gli effetti negativi del nuovo modo di interpretarne il ruolo: le stesse leggi di riforma e i tagli mirati vogliono imporre un modello di formazione culturale e professionale subordinato a precisi disegni economici. Il risultato è che "la ricerca è in gabbia", in Sardegna come in Italia. E' quanto emerso nel dibattito svoltosi ieri presso l'aula magna della facoltà di Lettere, dove docenti, ricercatori e studenti si sono confrontati per fare il punto sulla situazione di grave pericolo nella quale versa la ricerca di base dopo le ultime contestatissime iniziative di legge del governo Berlusconi, che hanno provocato un cataclisma negli ambienti scientifici. "La riforma dell'istruzione e i vergognosi tagli alla ricerca - ha detto Luca Fanfani, ordinario di Mineralogia e tra i promotori dell'iniziativa - stanno mettendo seriamente in pericolo la diffusione della cultura: da qui nasce la necessità di avviare un serio dibattito nazionale, creando movimenti interni che siano staccati dall'immobilismo dei sindacati o dei partiti politici". Un dibattito che deve nascere dalle cattedre e dai banchi degli atenei insomma, per evitare "che si crei un allontanamento dagli studenti e dalle vere esigenze dell'Università". Un ritratto, quello della ricerca in Italia, che è ben lontano dai numeri del resto d'Europa. Basti pensare se da noi ci sono 3500 ricercatori, in Francia ce ne sono diecimila e addirittura ventiduemila in Germania: numeri che la dicono lunga sulla stato della ricerca: "Le giustificazioni per i tagli sono molte - ha detto Giorgio Piccaluga, ordinario di Chimica a Scienze - si dice che l'Università sprechi i finanziamenti a pioggia o che il settore non renda perché i docenti non lavorano bene, ma noi soldi così non ne abbiamo mai visto". E sì che l'Università ne avrebbe bisogno, ha detto ancora, citando tra le peggiori conseguenze, oltre all'invecchiamento del corpo docente (età media superiore ai cinquanta) l'incertezza che ricade sui giovani ricercatori proprio nel momento di loro maggiore produttività: quasi tutti i concorsi offrono borse per un massimo di due o tre anni. "Senza contare che per le nuove norme è necessario presentare dei progetti precisi dai quali è difficile discostarsi - ha detto Francesco Raga, docente di Fisica - la ricerca non può avere vincoli perché la penicillina è stata scoperta da Fleming nel corso di ricerche che miravano ad altri obiettivi". Insomma lo studio non può essere subordinato a interessi economici, perché per ricerca non si intende solo l'attività che si svolge in certe facoltà scientifiche, ma tutta la produzione culturale, anche quella che non ha un immediato ritorno economico: "Cosa possono vendere le facoltà umanistiche - si è chiesta infatti Cristina Lavinio docente a Lettere - ciò che vendono è cultura e la cultura non si può quantificare perché è l'indice della democrazia di una nazione". ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 Feb.03 SECONDO EUROSTAT: IN ITALIA MOLTI INSEGNANTI E PIÙ ANZIANI Quello che si affaccia alla fase operativa della riforma Moratti è un corpo insegnante numeroso e contraddistinto da un'età media avanzata. Il confronto con i dati europei, reso possibile dall'edizione 2002 dello studio "Le cifre chiave dell'educazione in Europa" prodotto da Eurostat ed Eurydice per la Commissione europea, parla chiaro. Nelle scuole italiane, elementari, medie e superiori, insegnano più di 680mila persone (il 2,9% della popolazione attiva), e ci sono 10,5 studenti per insegnante, un tasso superato dalla sola Danimarca (dove il rapporto è di 9,6 a 1) e lontano da quello degli altri grandi Paesi europei; in Spagna gli studenti per insegnante sono 13,1, in Francia 14,6 e in Germania 16,1. Nelle scuole del nostro Paese il rapporto più basso si registra alle superiori, dove ci sono 10,2 ragazzi per ogni docente, mentre sale a 11,1 alle elementari. Una larghissima parte di questo esercito di insegnanti è composto da veterani. Se nelle scuole europee la quota di docenti con più di 40 anni oscilla, a seconda del grado di istruzione, fra il 63 e il 69%, negli istituti italiani gli ultraquarantenni si aggiudicano quasi tutte le cattedre: sono il 70% dei maestri elementari, e addirittura l'88,1% nelle scuole secondarie. In questa situazione, lo spazio riservato alle nuove leve è davvero esiguo: alle elementari solo il 4% dei maestri ha meno di 30 anni, e nelle scuole medie e superiori i giovani sono mosche bianche, rappresentando solo lo 0,1% della popolazione insegnante. Solo la Germania presenta dati simili a quelli italiani mentre la media dell'Unione europea, dove gli insegnanti under 30 sono il 12,8% nelle primarie e il 9% nelle secondarie, è molto lontana. L'età media più bassa si registra in Belgio, unico Paese dell'Ue in cui la maggioranza degli insegnanti ha meno di 40 anni, e molti giovani si trovano anche dietro alle cattedre inglesi, dove il 21,8% del personale nelle scuole primarie ed il 18% nelle secondarie non ha ancora compiuto 30 anni. Una leva importante per il ricambio generazionale e per l'assetto futuro della classe insegnante è rappresentato dalla formazione, settore su cui i piani elaborati dal ministro Moratti introducono forti elementi di novità. Fino ad oggi per insegnare alle elementari era necessaria la laurea abilitante mentre per accedere alle secondarie la riforma di Berlinguer aveva generato le Ssis, Scuole di specializzazione per l'insegnamento secondario, un biennio formativo successivo alla vecchia laurea e strutturato sull'approfondimento delle materie d'insegnamento, corsi di ambito pedagogico e tirocini gratuiti presso le scuole (il tutto, al lordo delle migliaia di precari comunque in lista d'attesa). La riforma Moratti cancella questa struttura e prevede per tutti gli aspiranti insegnanti la laurea specialistica quinquennale: si arriverà alla cattedra dopo tre anni di corso di laurea, due di specializzazione all'insegnamento ed un tirocinio formativo con contratto di formazione lavoro. Il nuovo percorso ideato dalla riforma sposa le tendenze più diffuse a livello continentale, dove l'iter formativo più frequente è rappresentato dal cosiddetto "modello consecutivo": l'apprendistato teorico, basato sulle diverse materie d'insegnamento e sullo studio pedagogico, precede il momento pratico, che si svolge negli istituti scolastici, è remunerato e viene considerato un aspetto qualificante in vista dell'impiego. Anche per quel che riguarda la durata prevista, cinque anni dopo il diploma, il nuovo assetto appare più omogeneo al quadro continentale. Con l'eccezione dei tedeschi, che dedicano alla formazione dei futuri insegnanti di scuola secondaria sei anni e mezzo, negli altri Paesi Ue non si superano mai i cinque anni, e in molti casi è previsto un iter quadriennale. Alessia Tripodi Gianni Trovati ____________________________________________________________ La stampa 24 Feb.03 RIFORMA: NO ALLE MEZZE MISURE LA RIFORMA MORATTI DELLA SCUOLA LA riforma della scuola, voluta dal ministro della Pubblica istruzione Letizia Moratti, è in dirittura d'arrivo. "Riforma" è una delle parole più logorate dall'uso e dall'abuso: oggi un politico che non si dica riformista viene guardato come un alieno. La riforma Moratti, di cui si discute dal giorno in cui la tenace signora prese le redini del ministero, non è la "grande riforma" delle promesse elettorali (e quando mai!), ma merita un'attenzione non ideologizzata. In concreto essa contiene molti elementi di continuità con l'impianto scolastico attuale (tutt'altro che disprezzabile, soprattutto a livello elementare) e alcune novità significative. Conferma, ad esempio, la durata di 13 anni per la scuola dell'obbligo, anziché i 12 della riforma Berlinguer; ribadisce il concetto che la scuola non deve solo istruire, ma anche educare e orientare alla vita, senza trascurare "una formazione spirituale e morale ispirata ai principi della Costituzione"; ridà lustro e forza al "voto di condotta", ingiustamente accantonato negli ultimi tempi, e cioè a una valutazione che non badi solo al profitto ma anche ai comportamenti; si prefigge di graduare i tempi dell'apprendimento collegando i cicli con le possibili scelte che via via maturano nell'alunno e nella sua famiglia: tra scuola e università, tra scuola e lavoro innanzitutto. Altre innovazioni, come l'anticipo a due anni e mezzo per l'iscrizione alla materna e a cinque e mezzo per l'elementare, e l'introduzione precoce dell'insegnamento di lingue straniere, hanno fatto forse più rumore del dovuto, dovendosene verificare sul campo validità e risultati. Il giudizio degli ambienti cattolici è sostanzialmente positivo, di là dalle diverse sottolineature relative alla reale libertà di scelta tra scuola pubblica e privata e allo status e finanziamento di quest'ultima. Qui gioca ancora pesantemente l'ideologia e il pregiudizio laicista che trova adepti irriducibili sia a destra che a sinistra. In questo ambito la gradualità e il compromesso non sono però una resa, ma la presa d'atto di una realtà difficilmente modificabile: in Italia l'insegnamento obbligatorio è coperto per il 90% - punto più punto meno - dalla scuola pubblica e non si intravedono all'orizzonte scostamenti significativi a breve termine. Non è neppure questo il cruccio più lancinante degli italiani. Oggi l'auspicio della stragrande maggioranza dei cittadini è che finalmente cessi il via vai delle riforme, annunciate o abbozzate; che alla precarietà succeda la regolarità; che la riforma approvata abbia le risorse necessarie per esprimere il meglio di sé; che le controversie sindacali trovino un'onesta composizione all'insegna del bene dei ragazzi e non solo dei legittimi interessi di parte. Il timore, anch'esso largamente diffuso, è che, dopo tante diatribe, anche sulla scuola - come su altri servizi essenziali, quali la sanità, la qualità della vita, la tutela dell'ambiente - cadano il silenzio e il disinteresse dei politici e della pubblica opinione. Come si dice: passata la festa, gabbato lo santo. leonardo.zega@stpauls.it Leonardo Zega ____________________________________________________________ La Stampa 23 Feb. 03 LA RIFORMA DELL´UNIVERSITA´: SCEGLIERE TROPPO PRESTO MENTRE si riformano i cicli scolastici, sono al vaglio del governo proposte per completare il riassetto dell´università. L´impegno del ministro Moratti è lodevole. Ma c´è un aspetto di fondo del progetto che merita ulteriore riflessione: si anticipano troppo le scelte dei giovani. Nei cicli scolastici si propone presto la scelta fra avviamento al lavoro e studi superiori. Nell´università si chiede di scegliere fra molte lauree triennali già specialistiche e di decidere quasi subito se far seguire al triennio un biennio di approfondimento. Le riforme dovrebbero servire a far affacciare alcuni anni prima i giovani al mercato del lavoro, con una buona preparazione di base, flessibile e adattabile ad un mondo che cambia sempre più svelto, anche nelle storie personali e famigliari. Invece si ingabbiano i giovani troppo presto in percorsi illusoriamente specialistici e troppo rigidi per le esigenze di sviluppo della personalità e le dinamiche del mercato del lavoro. Temo che le gabbie siano più nell´interesse dei professori che degli studenti. Consideriamo in particolare l'università. Il passaggio dai quadrienni al modello 3+2 è stato interpretato diversamente da come era stato concepito anni fa. Invece di pochi trienni generali e flessibili, con opzionalità progressive e guidate, si è fatta una selva di trienni specialistici che disorientano chi deve scegliere e indeboliscono la formazione culturale. Servirebbero molti più laureati che per le imprese siano buona "materia prima" per una professionalizzazione che avverrà sempre più nel corso del lavoro. Così rischiamo invece di lasciare nei giovani vistose lacune nella formazione personale complessiva (e magari anche in italiano, inglese e aritmetica), dando in cambio l´illusione di potersi assicurare il posto con una specializzazione che rischia di risultare sfasata rispetto a un mercato che evolve più rapidamente dei professori. Il governo ha ora all'esame una nuova proposta degli "esperti": la cosiddetta Y, cioè la scelta che chi frequenta un triennio dovrebbe fare, dopo un anno, fra sbocco professionale e proseguimento verso il "+2". I professori, in contrasto col fatto di aver "venduto" i trienni per la pretesa specializzazione che li caratterizza, sono preoccupati di non aver abbastanza clienti per il "+2" e non vogliono lasciare l´intero triennio agli studenti per scegliere. Si giustificano dicendo che chi studia per cinque anni va subito istruito in modo diverso da chi si ferma dopo tre. In verità molti di loro temono di misurarsi con una didattica più moderna e meno paludata, capace di creare cittadini maturi e, come tali, in grado di cominciare a lavorare misurandosi con la realtà. Si diffonde l´idea che chi va a lavorare dopo tre anni è di serie B e si incentivano le matricole a puntare subito sulla serie A. Botte piena: specializzazione subito; e moglie ubriaca: studenti che rimangono tali fino a dopo i 25 anni. Sa molto d´imbroglio. Si avvicina la primavera e i liceali cercano consigli per l´università. Paiono sfoggiare vocazioni precise e determinazione, in omaggio alla moda di esser consapevoli degli sbocchi professionali. In realtà mostrano ansia e disorientamento. L´università dovrebbe accoglierli con un´offerta didattica che li riporti alla realtà di un mondo del lavoro che recluterà privilegiando le personalità sulle competenze tecniche e che insegnerà loro per gradi, con la pratica e l´esperienza, e con successivi ritorni ad un´università che dovrebbe attrezzarsi per la formazione permanente invece che per la specializzazione prematura. Franco Bruni ____________________________________________________________ L'Unione Sarda 23 Feb.03 LA RICERCA AI RICERCATORI. E I POLITICI? Il parco di Pula "È una realtà che ha bisogno di un rapporto strettissimo con gli atenei" Il patologo e cattedratico cagliaritano Paolo Pani è uno dei promotori del convegno di domani. "Fondamentali. La ricerca senza i finanziamenti dello Stato è impossibile. Da dove crede venga l'high tech? Dal lavoro che ha fatto il Pentagono e che poi Bill Gates ha sfruttato. Certo è stato bravo, ha dipinto di colori vivaci i suoi computer e li ha resi appetibili. Ma tutto è iniziato con le ricerche militari finanziate dagli Usa. Oggi non è possibile fare ricerca senza soldi. Occorre essere rigorosi, s'è visto che i quattrini dati a pioggia servono poco. Ma il mercato non può sostenere la ricerca. L'utilizzazione delle scoperte (pensiamo a quelle dei Nobel) avviene dieci, vent'anni dopo. Così vanno bene tutte le riforme del mondo ma occorre intendersi: quanto per il mercato e quanto per la ricerca?". In Sardegna c'è più di un esempio di legami tra ricerca universitaria e impresa. "Dai migliori ai peggiori. Importante è stata la sinergia tra miniere e ingegneria mineraria. Abbiamo prodotto docenti bravi e nei pozzi c'erano dirigenti capaci. Fu invece una catastrofe il rapporto con l'industria chimica. Perché é stata una politica di rapina, spoliazione ambientale, speculazione. E si è prodotto poco e niente. Anche da parte della chimica universitaria che nell'isola non è mai riuscita ad instaurare rapporti tra la sua ricerca e quel tipo d'industria. Oggi c'è il Parco tecnologico a Pula (nella foto). Ha bisogno di formazione e di un rapporto continuo con l'università. Puntiamo molto su questa struttura. Ma è chiaro che non sarà il mercato a poterla tenere in piedi. Lo Stato può". Perché l'università italiana è agli ultimi posti della graduatoria europea, pur producendo cervelli che ottengono risultati invidiati nel mondo? "Le intelligenze ci sono dappertutto. Ricordo la nostra esperienza negli Usa. Nella scuola degli Stati Uniti c'è una cesura. La prima parte è mediocre, neppure confrontabile con quella italiana. All'università le cose cambiano radicalmente, sono molto meglio organizzati. Ed è lo Stato che finanzia i loro atenei, è un mito stupido quello per cui in America lo Stato è avaro di risorse. Certo, non le spreca". "I ricercatori italiani arrivano in America con un'apertura mentale che si integra molto bene con la loro struttura universitaria. E però in Italia la storia dell'università è la storia del Paese. Nel dopoguerra la Dc garantì la ricostruzione ma fu poco attenta ai bisogni delle facoltà. Anche se c'erano grandi docenti. Poi l'assopimento delle energie. Il colpo definitivo, alla fine dei Sessanta lo ha dato un certo modello di organizzazione sindacale. L'egualitarismo, l'accesso indiscriminato alle facoltà, la scomparsa del merito. Tutto questo ha svilito e azzoppato gli atenei. E ha creato ritardi spesso incolmabili. Si dice ad esempio che l'impreparazione degli studenti sardi (sovrana o quasi nel resto d'Italia) derivi dai loro alti tassi di di disoccupazione. Al contrario, dipende dall'assistenzialismo che li ha viziati. Il posto di lavoro lo acquisisci spesso per raccomandazione, non attraverso la cultura del fare". E il Parco geominerario del Sulcis? Nonostante le promesse è un bisonte che stenta a decollare. "Anche perché la ricerca universitaria sulle miniere è stata ormai smantellata, parallelamente all'attività estrattiva. Negli anni Sessanta, in Sardegna esisteva una sinergia completa tra facoltà di medicina e ospedale. Poi ognuno è andato per i fatti suoi e a trarne svantaggio è stata la sanità. Che invece ha bisogno assoluto di coesione tra università e ospedale. Altrimenti muoiono entrambi. Come per le miniere". Mc. M. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Mar. 03 UN AIUTO ALLA "RICERCA SOCIALE" ROMA - Una mano alla ricerca di interesse sociale. Il Consiglio dei ministri svoltosi ieri ha approvato, su proposta del ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti, un regolamento sull'attuazione del decreto legislativo 460/97. Il provvedimento definisce gli ambiti e le modalità di svolgimento dell'attività di ricerca scientifica di particolare rilevo sociale da parte delle fondazioni. Solo per quegli interventi sarà possibile l'accesso al regime di favore fiscale introdotto dal decreto del 1997, che riformulò tutta la normativa fiscale degli enti non commerciali. La disciplina di sei anni istituì le Onlus (Organizzazioni non lucrative di utilità sociale) e stabilì che solo per loro potesse essere ritagliato il regime agevolato. L'articolo 10 del decreto 460 individua gli enti ammessi a godere della denominazione di Onlus e dei relativi benefici fiscali. In particolare il comma 1 inserisce tra le Onlus tutti quei soggetti, e in particolare le fondazioni, che svolgono attività di ricerca scientifica di notevole rilevo collettivo. Per quanto riguarda le modalità di svolgimento, queste potevano essere dirette dagli stessi enti oppure affidate a università, istituti di ricerca oppure fondazioni "in ambiti e secondo modalità da definire con apposito regolamento governativo". Un regolamento che però sinora era mancato. E all'assenza ha posto rimedio la decisione del Governo di ieri, preceduta da una serie di pareri espressi dai ministeri interessati e dalle indicazioni dell'Agenzia del terzo settore che, come previsto dalle norme istitutive, è stata consultata sul punto. Il provvedimento dispone così che le attività di ricerca agevolabili e, in particolare, a potere godere dei benefici saranno: la prevenzione, diagnosi e cura di patologie; la prevenzione e limitazione dei danni derivanti da droghe; lo studio delle malattie procurate da cause ambientali; la produzione di nuovi farmaci e vaccini per uso umano e veterinario; i metodi e i sistemi per aumentare la sicurezza nella categoria agroalimentare e nell'ambiente a tutela della salute pubblica; la riduzione dei consumi energetici; lo smaltimento dei rifiuti; le simulazioni, diagnosi e previsione del cambiamento climatico; la prevenzione, diagnosi e cura delle patologie sociali e delle forme di emarginazione sociale; il miglioramento dei servizi e degli interventi sociali, sociosanitari e sanitari. Il regolamento precisa inoltre che le fondazioni, come peraltro già previsto dal decreto legislativo del 1997, potranno svolgere la loro attività anche in via mediata, utilizzando università, enti di ricerca e altre fondazioni. A stabilirlo dovrà però essere lo statuto e a disciplinare i rapporti tra le fondazioni e gli enti cui potrà essere affidata l'attività dovranno essere convenzioni, con il compito di disciplinare: le linee guida dell'attività da svolgersi presso gli enti ai quali viene affidata la ricerca; i rapporti tra la fondazione e l'ente per la prestazione di collaborazione, consulenza, assistenza, servizio, supporto, e promozione delle attività; le modalità di impiego del personale di ricerca e tecnico amministrativo e del conferimento di beni, strutture e impianti necessari allo svolgimento delle attività di ricerca; le forme di finanziamento anche attraverso il concorso di altre istituzioni pubbliche e private. Con l'arrivo del regolamento viene poi messa la parola fine alle preoccupazioni che avevano cominciato a serpeggiare in questa lunga fase transitoria di avvicinamento alle disposizioni finali. Perplessità che avevano preso tanto più sostanza dopo la risoluzione dell'agenzia delle Entrate, la n. 294/E del settembre scorso, che aveva sottolineato come, nelle more del regolamento, tutte le fondazioni che, svolgendo attività di ricerca, avessero assunto la denominazione di Onlus, non avessero in realtà diritto al titolo. Con conseguenze facilmente immangiabili in termini di trattamento fiscale: si poneva infatti il dubbio sulla legittimità o meno delle agevolazioni fiscali e sull'eventuale possibilità di una richiesta da parte del Fisco di restituzione dell'indebito. Adesso, per le Onlus che svolgano attività negli ambiti individuati non dovrebbero esserci più incertezze. GIOVANNI NEGRI ____________________________________________________________ La Stampa 27 Feb.03 LA SAPIENZA: I RICERCATORI PROTESTANO PER LE ASSUNZIONI BLOCCATE Sono 60 i giovani ricercatori che, pur avendo vinto il concorso nel 2002, sono tuttora "sono formalmente e materialmente disoccupati" perché la Sapienza non procede alle assunzioni. La protesta dei ricercatori sps (senza presa di servizio), come si definiscono, è cominciata ieri a Roma, in coincidenza della riunione del Consiglio di amministrazione dell´università "La Sapienza". Il rischio, affermano, è che molti ricercatori abbandonino la carriera universitaria o che decidano di andare all'estero, aumentando così le fughe dei cervelli. Quella che si è venuta a creare, affermano i giovani ricercatori, è una "situazione insostenibile", "drammatica e gravissima. Numerosi consiglieri hanno ascoltato le nostra ragioni dei ricercatori mentre il Rettore non si è assolutamente reso disponibile". "La Sapienza- dicono i ricercatori- non procede alle assunzioni come stabilito dai bandi di concorso che attestano la copertura finanziaria, rinunciando a qualsiasi politica a favore della ricerca e soprattutto del ricambio e del ringiovanimento che l'Ateneo proclama come obiettivo prioritario". Questo, osservano, è accaduto "anche a causa di una gestione "allegra" del bilancio di Ateneo che si è avuta negli ultimi anni". Il Consiglio di amministrazione, aggiungono, non ha approvato il bilancio di Ateneo entro la scadenza del 2002 e si è dovuti ricorrere all´esercizio provvisorio. Da allora il CdA non ha più affrontato l´argomento fino all'incontro di ieri. A preoccupare i ricercatori è anche l'avvicinarsi della scadenza del 31 marzo, data ultima ai fini dell'approvazione del bilancio preventivo del 2003, oltre la quale si potrebbe rischiare il commissariamento dell'Ateneo. "Questa situazione - osservano - testimonia chiaramente lo stato di incertezza e di precarietà in cui si muove La Sapienza nonostante il fatto di essere il più grande Ateneo europeo e si sbandierino le elevate possibilità di didattica e opportunità di ricerca". ____________________________________________________________ L'Unione Sarda 23 Feb.03 MORATTI E LA RIFORMA DI ATENEI E CNR TRA FAVOREVOLI E CONTRARI Parlano docenti e ricercatori. Che in maggioranza hanno paura dell'impresa privata Ricerca universitaria, siamo al finale di partita Il ministro Letizia. E il voto in Parlamento si avvicina Sapete quanto guadagna un ricercatore appena assunto in una qualsiasi università italiana? Tra i quattordicimila e i dodicimila euro all'anno. Lordi. Obbligatoria naturalmente una laurea specialistica e buona conoscenza dell'inglese. Molti non ci stanno o, appena possibile, emigrano. Non è un caso che in Italia ci siano due ricercatori ogni mille abitanti. In Francia e Germania sono 6, in America 8, in Scandinavia undici. L'anno scorso nei concorsi universitari l'89,3 dei nuovi professori assunti erano candidati interni. Promossi di grado per anzianità. Età media 55 anni. Il fenomeno riguarda quasi equamente gli atenei del sud e quelli del nord. E riguarda il Cnr, la più grande e disorganizzata fabbrica della ricerca in Italia. L'83 per cento dei quattrini stanziati in suo favore dallo Stato, viene speso per pagare gli stipendi dei quasi ottomila dipendenti. Nessuna generalizzazione ma la meritocrazia in Italia è ancora parola proibita. Ed è uno dei motivi che ostacolano i progetti di riforma di Letizia Moratti. Il ministro dell'Istruzione ha contro parte dei docenti, molti vip della ricerca scientifica, il settanta per cento dei sindacati. La cui ostilità non riguarda solo il mondo dell'università. "Penso che il sindacato - scrive l'economista Mario Deaglio - sia consapevole dei problemi ma anche di dover compiere una grandiosa battaglia di retroguardia. Sostanzialmente deve onorare le promesse fatte a milioni di lavoratori che stanno invecchiando, di portarli decentemente a fine carriera". Domani a Cagliari - ore 17, corpo aggiunto della facoltà di Lettere - si tiene uno dei molti convegni sul destino della ricerca scientifica e contro le riforme della Moratti che ormai da un anno occupano le facoltà. L'ennesimo girotondo? "Non lo definirei un girotondo, - dice Luca Fanfani, uno dei promotori, geologo, università di Cagliari - anche se è vero che il convegno chiama a raccolta persone di un certo orientamento politico. L'università italiana soffre da anni di poche risorse e di gestione corporativa di queste risorse da parte del corpo accademico. Si bloccano i ricercatori e intanto i docenti invecchiano. Bisogna discuterne. Ma oggi sta emergendo la possibilità che la ricerca di base non sia più necessaria e si debba puntare tutto sulla ricerca applicata". "Dicono che questo governo - sostiene Giulio Angioni, antropologo, università di Cagliari, anche lui tra i promotori del convegno - abbia intenzione di fare un Cnr e un'università con obiettivi proiettati soprattutto in campo economico. Forse e vero. A me sembra che la Moratti non abbia né intenzioni né progetti". L'assioma è che mettere insieme ricerca scientifica e mercato sia come dare un'acquasantiera al diavolo. Perché le due cose non potrebbero convivere? Al di là dei giudizi ideologici - e del fatto che la ricerca di base ha bisogno di tempo per sedimentare risultati che potrebbero venir distorti dalla fretta del mercato - è pur vero che l'Italia oggi non è più competitiva nei settori ad alta innovazione. Pullula di piccole e medie imprese ma sono pochissime quelle di dimensioni europee. Non esiste più un'industria farmaceutica, quella chimica per buona parte rantola, l'aeronautica è in posizione secondaria, come pure l'elettronica. E solo al Nord le imprese investono in ricerca e sviluppo. "Ma anche in quel caso - dice Maria Del Zompo, neurofarmacologa, università di Cagliari - il privato ha bisogno di un ritorno immediato. La ricerca di base è soprattutto un ampliamento della conoscenza, chi non la finanzia sarà sempre più povero. Deve essere pagata con fondi pubblici. Non ha una ricaduta immediata di tipo clinico, applicativo, brevettabile. Ma è fondamentale. Cerca magari di capire la funzione di una cellula o di un enzima che potrebbe aprire tra cinque anni strade importantissime". "Anche per questo la riforma del Cnr e quella dell'università sono necessarie", precisa Sandro Maxia, italianista, università di Cagliari. "Soprattutto per rendere entrambi meno corporativi e autoreferenziali. Il Cnr, e non da oggi, ha smobilitato i suoi centri di ricerca letterario umanistici. Ma non ha mai accettato giudizi esterni sulle ricerche promosse e sulla sua produttività. Cambiare è difficile, c'è molto conservatorismo. E temo che anche le riforme della Moratti restino un cantiere sempre aperto. Finora ogni ministro ha pensato di metter mano cambiando tutto e niente. E gli studenti son sempre in mezzo al guado". Venti tentativi di riforma abortiti negli ultimi trentacinque anni stanno lì a dimostrarlo. "E quello che c'è oggi non mi sembra funzioni benissimo - azzarda Alessandro Maida, rettore dell'università di Sassari - ristrutturazione di Cnr e atenei mi paiono indispensabili. Non ha senso fare processi sommari alla Moratti". "Fatto è che i giovani - spiega Giovanni Maciocco, architetto, università di Sassari - sono profondamente differenti dalle nostre generazioni. La didattica deve seguire i loro ritmi di apprendimento. Viviamo in un mondo di nuove tecnologie da molto tempo e questo ha cambiato le modalità di costruzione della conoscenza. Non è più necessario che esista un grande piano teorico e poi una didattica delle pratiche. Imparare dal fare consente di costruire impianti teorici più solidi. In aree disciplinari come ingegneria e architettura ma anche umanistiche. Il problema è il passaggio dalla conoscenza di un mondo dato alle modifiche del mondo". Marco Manca ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Feb.03 SUL DNA UNA SCOMMESSA MILIARDARIA DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK - Il giorno di cinquant'anni fa in cui Francis Crick e James Watson annunciarono al mondo di aver scoperto "il segreto della vita" - la doppia elica del Dna - erano ospiti dell'Eagle Pub di Cambridge, in Inghilterra. Qualche mese più tardi, il Times sbrigò l'incerta notizia in una ventina di righe. Il giorno del 2000 in cui lo scienziato-businessman Craig Venter e il presidente del Progetto genoma umano hanno annunciato di aver decodificato quel segreto della vita - mettendo in sequenza i miliardi di lettere A, C, G e T che compongono l'enciclopedia cromosomica - erano ospiti della Casa Bianca. Qualche minuto più tardi tutte le tv del pianeta hanno annunciato la notizia. Inutile dire che i posteri daranno ai due eventi un peso inversamente proporzionale all'attenzione dei media. Ma i due eventi hanno una cosa in comune: non sono che un passo verso la definitiva scoperta di quel segreto. Una scoperta che spalancherà, di fronte al genere umano, possibilità meravigliose e terribili: dall'estirpazione della malattia, a una possibile (ma solitamente inevitabile) nuova categoria di armamenti. I protagonisti dell'industria farmaceutica e biotecnologica lo sanno benissimo e stanno riversando miliardi di dollari nella ricerca. Ma sanno anche che l'entusiasmo suscitato dall'annuncio della Casa Bianca era spropositato (anche in Borsa, ma correvano i tempi della bolla speculativa). La verità è che resta ancora da capire come funziona quel codice di quattro lettere che insegna alle proteine come comportarsi, come fare a costruire un essere vivente e come tenerlo in vita. Ma è un'impresa colossale: soli 20 aminoacidi si uniscono a comporre 250mila proteine, che hanno a che fare con i circa 100mila miliardi di cellule che compogono un corpo umano. E gli scienziati sono abbastanza concordi nel ritenere che il lavoro dei 30mila geni umani (la maggior parte dei quali sono il cosiddetto junk Dna, perché non servono a nulla) non è sempre predeterminato ma è largamente influenzato dall'ambiente. La strada è ancora lunga. E il cammino è destinato ad essere costellato di insuccessi, ma anche di successi: per la cura delle malattie, per la scienza e anche per il mondo degli affari. Da quando, nel 1975, la californiana Genentech ha inaugurato il business biotecnologico con il Dna ricombinante, nuovi farmaci sono arrivati sul mercato: prima insuline e ormoni della crescita ingegnerizzati geneticamente, e poi prodotti più complessi e mirati come l'anti-artritico Enbrel (brevettato da Amgen) o come il Glivec della Novartis, efficace contro una particolare forma di leucemia. Molti altri arriveranno, ma con l'andamento lento tipico dell'industria farmaceutica che - fra ricerca di base e i lunghi esami clinici necessari a ottenere l'autorizzazione della Fda americana e dell'Emea europea - ha mediamente bisogno di una ventina d'anni. Quindi, nulla di strano se finora i benefici della genomica non si sono ancora fatti sentire. Anzi, c'è di più: del business della genomica, diventato di moda subito dopo il traguardo raggiunto dalla Celera di Craig Venter, è già stato messo nel cassetto. Adesso tutti parlano di post-genomica. L'idea della Celera, ma anche di numerosi concorrenti come Incyte Genomics, Double Twist o Hgs, era quella di vendere alle case farmaceutiche l'accesso alle proprie banche dati, per alimentare la ricerca. Oggi hanno quasi tutte fatto dietrofront: Venter ha lasciato la Celera e si è tuffato in quello che doveva essere il business dei suoi clienti: la ricerca di nuovi farmaci. Incyte ha addirittura tolto la parola Genomics dalla propria ragione sociale e ha fatto altrettanto. Semmai, si è aperto il business della proteomica. "Per comprendere i meccanismi delle malattie e per scoprire nuove terapie - dice Charles Chang, coautore di un rapporto pubblicato una settimana fa - non si può prescindere dall'identificazione delle proteine e del loro funzionamento, visto che sono esse stesse la causa primaria delle patologie". Secondo la Front Line Consulting, la società di Chang, il mercato della proteomica al servizio dell'industria farmaceutica crescerà del 12% all'anno, fino a superare i 2,6 miliardi di dollari nel 2008. Al contrario di quanto avvenne 50 anni fa, molti miliardi di dollari verranno riversati su tutti i possibili fronti della genetica, tanto dal capitale privato che dai fondi pubblici. Il fronte della bioinformatica ad esempio, nel quale la Ibm e la DeCode (azienda quotata al Nasdaq che studia le variazioni nel genoma degli islandesi) hanno appena firmato un'intesa per velocizzare, grazie alle capacità di calcolo dei nuovi superchip, lo screening delle variazioni genetiche. Oppure il controverso fronte della ricerca sulle cellule staminali, una specie di passepartout per la creazione della vita secondo i canoni della biologia molecolare inaugurata - un po' inconsapevolmente - da Watson e Crick nella penombra di quel pub inglese. Centinaia di future scoperte, c'è da scommetterlo, avranno il beneficio della diretta via satellite. E il dibattito etico su quel che è lecito o no, quando si tratta di mettere mano al segreto della vita, infiammerà molti talk show televisivi. Ma solo poche, o pochissime, riusciranno ad eguagliare quell'intuizione di due cervelli che ha cambiato il modo di guardare ai destini dell'umanità, al suo lontanissimo passato e al suo futuro più prossimo. MARCO MAGRINI ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Feb.03 ARRIVA L' ULTIMA UTOPIA: LA REPUBBLICA DEL SAPERE NUOVO WELFARE "Economia della conoscenza, dalla culla alla tomba" Zoli Serena Per tornare al potere, e tenerselo, la sinistra deve lanciare una bomba. La stessa "che da almeno cinquant' anni" costituisce "la vera arma strategica degli Stati Uniti" e che fa morti (politicamente, socialmente ed economicamente parlando) soltanto a non lanciarla. Si tratta della "bomba sapere": accesso equo e universale alla conoscenza e alla sua diffusione. Questa la nuova frontiera di una sinistra davvero riformista e forte, capace di prendere in mano il futuro e l' egemonia. Questa la nuova rivoluzione (stavolta di sicuro vincente: vedi il caso Usa) che viaggia sulla punta del mouse e di floppy disk in floppy disk. Tant' è che: chi ha davvero buttato giù il Muro di Berlino? È stato Steve Jobs, l' inventore di Macintosh, del computer friendly, ovvero di facile approccio per chiunque. Di affermazioni ad effetto e di frasi-manifesto è ricchissimo questo libro, elemento non secondario per una lettura gradevole e accattivante, come pure è ricco di utopie, almeno stando all' affermazione programmatica dei due autori: un politico e uno scienziato, Pietro Folena, onorevole, del Correntone Ds, e Umberto Sulpasso, a lungo docente all' Ucla, la prestigiosa Università della California e fondatore, quattro anni fa, in Italia, in un castello dell' Umbria, dell' Imu, International Multimedia University (modello di università agganciata al futuro prossimo venturo, di cui gli americani nel frattempo - ci informa - hanno tirato su ben 400 esemplari e altri 200 sono in vista). Per il programma, ci sono già anche gli slogan. Uno, furbo e felice nell' assonanza con No Global, fa da titolo: Know Global, l' altro, più esplicativo, da sottotitolo: Più sapere per tutti. Lo scenario delineato nell' appassionata discussione tra Pietro Folena e Umberto Sulpasso è amplissimo, e prefigura un radicale cambiamento di civiltà. Sta per nascere la knowledge economy, addirittura certi Paesi del Terzo Mondo hanno capito che lo sviluppo passa di lì e hanno impostato, come la Malesia, una knowledge e conomy based, un' economia basata sulla conoscenza. Il nuovo capitale è il sapere e proprio ai "cultori di Marx", dice Sulpasso, è sfuggita "l' accumulazione del capitale cognitivo". Per far girare l' economia, occorre mettere non il mercato nel sape re, come sta facendo la ministra Moratti con la sua riforma della scuola, bensì, dice Folena, il sapere nel mercato. Occorre un nuovo keynesismo digitale, un poderoso intervento pubblico strategico e, insieme, che un' imprenditoria "aggressiva e determinata" sposi questo nuovo settore come a inizio Novecento fece con l' auto. La mano pubblica è di sinistra, troppo di sinistra? No, ribadiscono i due, quando entra in gioco il sapere gli iperliberisti Reagan e Bush sostengono il mercato. In Usa l' industria del sapere gareggia, come prodotto globale, con l' industria bellica, e prima di Bush l' aveva addirittura superata. Ormai "non c' è più lavoro senza sapere", dunque non esiste diritto al lavoro senza diritto al sapere. Questo, a sinistra, Cofferati l' ha ben capito, riconoscono i due dialoganti. E riprendono una proposta di Sulpasso che D' Alema presidente del Consiglio fece sua senza riuscire a vararla: dare a ogni giovane che arriva a 18 anni una digital (o educational) credit card del valore di 5.000 euro da spendere solo per acquisti informatici e formativi. Col tempo occorrerebbe poi dotare ogni cittadino di una Carta del sapere, equivalente alla tessera sanitaria: perché la formazione professionale sarà per forza continua, "dalla culla alla tomba", se si vorrà restare nel mercato del lavoro. Occorrerà reintrodurre, ripensate, le 150 ore, considerare i diritti culturali anche dei pensionati. Infine, obiettivo della prossima legislatura, dice Folena, dovrebbe essere di g arantire un computer a testa. In questo sogno, o prospetto, di fin qui inedite industrie di una merce immateriale ma potentissima come la conoscenza, Folena osserva: quale posto più adatto dell' Italia che possiede la gran parte del patrimonio cultur ale dell' umanità? Ecco il nuovo made in Italy da cavalcare, ecco l' occasione storica, da non perdere, per fare del nostro Paese la prima Repubblica del sapere. Serena Zoli Il libro: "Know Global. Più sapere per tutti" di Pietro Folena e Umberto Sul passo, Baldini & Castoldi, pagine 210, euro 12,40 ____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Feb.03 LA SCUOLA CHE MANCA Bossi Fedrigotti Isabella Le notizie che giungono dalla scuola milanese, secondo le quali uno studente su tre (34 per cento) non arriva al diploma e solo uno su quattro (23 per cento) si iscrive all' università, sono agghiaccianti. Se questi sono i risultati raggiunti dall' i struzione nella nostra città, tradizionalmente considerata la migliore del Paese, c' è poco da stare allegri. E forse più ancora della bassa affluenza universitaria - ben nota anche in altre regioni, come il prospero Veneto, dove i giovani preferisco no andare a guadagnare subito piuttosto che impegnarsi in anni di studi accademici - colpisce il dato sulla diserzione scolastica che porta un terzo dei ragazzi milanesi tra i 14 e i 18 anni a perdersi tra casa e strada e, nel migliore dei casi, tra lavori e sottolavori di livello molto modesto. Pur tenendo conto, in primo luogo, delle responsabilità degli alunni spesso assai poco disposti all' impegno, nonché, subito dopo, di quelle delle famiglie che, non raramente, nonostante il suggerimento contrario degli insegnanti, si ostinano a iscrivere i figli nei licei o nei più impegnativi tra gli istituti tecnici e commerciali, non si possono dimenticare le colpe della scuola che è diventata una rete a maglie così larghe da lasciarsi scappare u n numero impressionante di ragazzi. C' è chi si aspetta molto dalla riforma Moratti ma, incominciando questa dal basso, ci vorranno comunque anni finché toccherà le classi superiori: anni nei quali altri alunni si perderanno per strada. Nel frattempo , forti della famosa devolution, a Milano si potrebbe far qualcosa per integrare i programmi scolastici, per affiancarli con materie facoltative in grado di coinvolgere gli allievi, legandoli maggiormente alla scuola, ma tali anche da pesare favorevo lmente in un eventuale futuro curriculum. Cento anni fa i liceali viennesi, accanto al greco e al latino, avevano l' obbligo di imparare, a scelta, il mestiere di fabbro, falegname o elettricista. E' soltanto un bell' esempio, naturalmente, né si può pretendere che Milano munisca le sue scuole, spesso cadenti e con palestre inagibili, di efficienti laboratori artigianali. Tuttavia non sarebbe forse sbagliato proporre a chi per tredici anni studia teorie e solo teorie, qualche ora un poco più pra tica, dove si faccia qualcosa concretamente: musica o teatro o cinema o fotografia o restauro o scrittura creativa; oppure dove si parli finalmente la famosa lingua straniera, il tanto sbandierato (e ignorato) inglese, senza eternamente soffermarsi s u infinite regole e regolette che forse nemmeno i veri inglesi conoscono. Se, tuttavia, come annuncia l' assessore regionale alla cultura, la grande proposta innovativa per gli studenti milanesi consisterà in lezioni di grammatica padana, di storia c eltica e di cucina locale, molto probabilmente l' emorragia scolastica continuerà come prima. E forse non solo quella scolastica: senza interventi davvero seri continueranno ad andarsene i milanesi dalla loro città, perché non basterà un buon risotto cucinato alla maniera dei nonni per trattenerli nella metropoli che perfino i dizionari scolastici definiscono, come si riferiva due giorni fa in queste pagine, "assai poco vivibile a causa del traffico caotico e del forte inquinamento". ibossi@corr iere.it ____________________________________________________________ L'Unione Sarda 26 Feb.03 UNIVERSITÀ: LE CASSE PIANGONO, SPEGNETE LE LAMPADINE Nel mirino anche riscaldamento e telefoni Le casse piangono, spegnete le lampadine Primo: spegni la luce. A vederla così sembra una normalissima circolare, ma è solo la prima impressione. Quella arrivata in tutti gli uffici universitari della città, invece, è una tavola dei comandamenti scacciacrisi finanziaria. All'Ateneo si è disposti a dare qualche "mancia" al personale, a patto che spenga la luce quando non serve più. Oltretutto, camminare tra aule, uffici e corridoi servirà anche per scaldarsi un po', considerato che di pomeriggio il riscaldamento deve restare spento: il gasolio costa. L'unico sbarramento al Generale Inverno resterà in biblioteca e "strutture didattiche": lì gli impianti resteranno accesi anche dopo l'ora di pranzo. Al risparmio Mai visto prima un giro di vite sulle spese, come quello contenuto nella circolare 1/03 (cioè, la prima di quest'anno), firmata il 17 febbraio scorso dal direttore amministrativo Fabrizio Cherchi. Dentro quel documento non ci sono soltanto i tagli alle spese per gasolio ed energia elettrica, ma anche a quelle telefoniche Bilancio in rosso Persa, anche se solo in parte, la guerra per l'aumento delle tasse universitarie, per far quadrare i conti il rettore ha aperto un altro fronte: quello del taglio delle "spese per l'acquisto di beni e servizi". Nel documento firmato dal direttore amministrativo dell'Ateneo, si legge che "alcune circolari ministeriali e il collegio dei revisori dei conti hanno imposto di contenere gli stanziamenti per i consumi intermedi, per una somma non inferiore al dieci per cento rispetto al consuntivo del 2002". In parole povere significa che, per ogni banconota da dieci euro spesa l'anno scorso, si dovrà risparmiare una moneta da un euro. I tagli"Si impone", scrive ancora il direttore amministrativo, "la riduzione dei consumi rispetto ad alcune spese comuni a tutte le strutture dell'Università". Da qui nasce il prontuario del buon massaio d'Ateneo, che - è precisato nella stessa circolare - ha valore sperimentale. Tre i punti principali. Riscaldamento Si mantiene l'orario attuale di accensione per la biblioteca e le strutture didattiche, ma si riduce in tutte le altre nei pomeriggi "di rientro". Il personale universitario che fa i cosiddetti "rientri pomeridiani" si arrangi con cappotti e coperte. Elettricità Incentivo al personale incaricato dello spegnimento delle luci, commisurato al risparmio sulle bollette. È da concordare con i sindacati e sarà valido fino a quando non saranno installati i timer. Telefono D'ora in poi soltanto le presidenze, i dipartimenti e le strutture centrali potranno effettuare chiamate interurbane e verso i cellulari. I dipendenti dell'Ateneo che invece avranno bisogno di utilizzare il telefono per ragioni personali, dovranno digitare un codice e pagare di tasca la chiamata. È la solita vecchia storia: o aumenti le tasse, o diminuisci i servizi. Al rettorato, hanno scelto una via intermedia e stanno per creare una nuova figura professionale: lo "spegnitore di luci". Con lauta mancia. Luigi Almiento Sindacati Le bollette dell'Enel sarebbero più snelle se si usassero i timer "Ma servono ben altri tagli" La Cisl: ogni dipartimento spende per conto suo "Quella di istituire lo "spegnitore di luci" è una buona idea: non tanto per il risparmio, ma perché regala un po' d'ilarità ai dipendenti". Bocciatura, senza neanche il rimando a settembre: a Tommaso Demontis, funzionario contabile e segretario Cisl dell'Università, l'ipotesi di dare incentivi al personale perché spenga la luce, proprio non piace. "Non perché sia contrario all'ipotesi di risparmiare, tutt'altro: lo spreco di energia elettrica è da condannare. Mi chiedo soltanto perché non abbiano installato i timer già anni fa: ci pensano loro, a spegnere le luci, e non chiedono nemmeno l'incentivo". Che sia arrivato il momento di risparmiare, nessuno lo mette in dubbio: nemmeno il sindacato. "Visto che siamo tutti d'accordo", commenta Demontis, "allora facciamolo sul serio, partendo dagli acquisti". Il segretario della Cisl fa un esempio: "Se l'Università ha bisogno di un fotocopiatore che costa cinquemila euro, e tramite una gara riesce a pagarlo quattromila, anche i dipartimenti dovrebbero acquistare i loro fotocopiatori nello stesso posto e al medesimo prezzo". Ovvio, eppure le cose, assicura Demontis, non vanno così. "Altro che risparmiare sulle lampadine spente". Anche sul giro di vite per le bollette telefoniche (solo dalle strutture centrali si potranno chiamare cellulari e numeri interurbani), la Cisl Università non ha da ridire. C'è però una parola magica: Consip. "Se si concorda con una compagnia telefonica, tramite una gara, un canone fisso per navigare su Internet", chiarisce il segretario, "per collegarsi in cento o in duecento la spesa è la stessa". Sì al risparmio, dunque, purché sia risparmio vero. L. A. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 23 Feb.03 CAMPUS UNIVERSITARIO, C'È L'ACCORDO MONSERRATO, SVINCOLO SULLA 554: LA PREFETTURA ACCELERA I TEMPI Stefano Ambu MONSERRATO. L'Università salta la 554 e sbarca nel centro storico: in via Cortis, nel quartiere di Paluna, aprirà la clinica odontoiatrica, il centro per le lauree brevi e la biblioteca. Per Monserrato, dietro l'angolo c'è un futuro da Cambridge del Campidano: dopo il via libera del Consiglio, il sindaco Antonio Vacca si incontrerà con il rettore Pasquale Mistretta per firmare l'accordo di programma sul progetto di ristrutturazione dell'ex scuola Cries. L'investimento: due milioni di euro. I primi contatti tra Vacca e Mistretta risalgono a novembre. Un faccia a faccia inevitabile visto che gli interessi di Università e Monserrato sono nella stessa direzione. L'ateneo ha urgente bisogno di nuovi spazi vicino alla Cittadella, mentre da tempo Monserrato ha deciso di puntare anche sull'università per lo sviluppo del territorio. Da lì è nata l'idea che fa comodo a tutti: un progetto da presentare in tandem alla regione per recuperare un vecchio stabile, una scuola lasciata a metà dal consorzio Cries negli anni ottanta. Ci voleva, però, l'okay del consiglio. E mercoledì sera è arrivato: pochi voti, dieci, ma sono quelli che servono par andare alla seconda tappa, quella dell'accordo di programma con l'Università. Ateneo e Comune ci stanno già lavorando sopra e la firma di Mistretta e Vacca è prevista per le prossime settimane. Nell'edificio ci sarà spazio per la clinica odontoiatrica, il centro lauree brevi, la biblioteca scientifica, questo per quanto riguarda l'Università. Al comune andranno invece una palestra e altri spazi per ospitare attività culturali riservate alla scuola. Intanto si fanno più veloci i tempi per avvicinare Monserrato alla Cittadella universitaria: ieri in prefettura la conferenza di servizio sullo svincolo della 554. Un progetto già finanziato dalla Regione, ma fermo da tre anni negli uffici della provincia di Cagliari. Qualcosa, però, ora si muove: la Provincia si è impegnata a consegnare entro un mese il progetto preliminare al comune di Monserrato. "Sappiamo che - ha detto il vicesindaco Marco Ghinolfi all'uscita dall'incontro a palazzo regio - rispetto al progetto che noi conosciamo ci sono state delle varianti: ora bisogna vedere di che cosa si tratta. Solo da quel momento in poi saremo in grado di decidere il da farsi". Le indiscrezioni che circolano da un paio di mesi, però, non dicono niente di buono: "Non sappiamo niente di ufficiale- aveva detto alcune settimane fa l'assessore all'Urbanistica Andrea Angioni - ma ci sarebbero delle modifiche di cui Monserrato è all'oscuro: un cavalcavia è molto diverso da quello per cui avevamo dato l'okay". Monserrato e cittadella universitaria saranno uniti, oltre che da uno svincolo più veloce di quello che oggi fre na al semaforo centinaia di automobilisti, anche da un altro ponte: per vedere il progetto, però, bisognerà aspettare l'approvazione del Piano urbanisto comunale. ____________________________________________________________ La Stampa 26 Feb. 03 CONSIP: SE UN RICERCATORE HA BISOGNO DI UN COMPUTER CENTRALIZZATI GLI ACQUISTI PER GLI ENTI PUBBLICI, INCLUSI QUELLI DI RICERCA: IMPOSTI I FORNITORI NON molti sanno che il governo ha introdotto finalmente, con l´ultima legge finanziaria, un articolo che consentirà risparmi molto significativi. Per capirne la portata occorre fare un passo indietro e ricostruire le puntate precedenti di questa storia. Il passato governo aveva costituito presso il ministero del Tesoro una società, chiamata Consip. Il suo compito era quello di razionalizzare le spese della pubblica amministrazione, stipulando convenzioni (si spera vantaggiose) con ditte specializzate nel fornire beni e servizi (computer, cancelleria, pulizie...). Tutti gli enti pubblici potevano rivolgersi alla Consip per comprare, o almeno per confrontarne i prezzi con quelli di altri fornitori. Quindi anche gli enti e le istituzioni che fanno ricerca scientifica. Ma nella legge finanziaria 2003 la Consip diventa fornitore obbligatorio di tutti gli enti pubblici: non si può comprare al libero mercato una gomma, un foglio di carta, un servizio di pulizie o un computer se è presente fra le sue offerte. Solo quando si è certi che qualcosa non compare fra i prodotti venduti dalla Consip si ha il diritto di rivolgersi al libero mercato. Naturalmente c'è un catalogo consultabile in Internet, ma qui sorgono i primi problemi. Non è consentito a chiunque di esaminarlo, occorre un'apposita autorizzazione e una password, che si ottiene solo dopo molte telefonate a un call center e l'invio (faticosissimo) di un fax a un indirizzo intasato da molti altri fax con lo stesso obbiettivo, scoprire che cosa vendono. A una prima occhiata il catalogo sembra un po' deludente, perché molte cose di uso comune non ci sono. Ma poi subentra un senso di sollievo, perché questi prodotti si possono in tal caso comprare liberamente nel negozio di fronte. Bisogna però fare attenzione: vari prodotti non sono chiaramente visibili e occorre quindi chiedere (meglio se per iscritto) notizie più precise (che talvolta non si ottengono, talaltra si ottengono con fatica e ritardo). Se alla fine si decide di comprare qualcosa, occorre aspettare un bel pezzo: prima la conferma d'ordine, poi la consegna da Milano o Bologna (Torino sembra tagliata fuori dalle convenzioni). Talvolta i prezzi sono più alti di quelli praticati dai fornitori abituali, ovvero le merci fornite non sono esattamente quelle che si richiedono, ma l'obbligo di comprare in Consip è tassativo: chi si sottrae deve pagare personalmente (qualcuno, avendo urgenza, lo sta già facendo). Torniamo agli annunciati risparmi. Nella mente di chi ha imposto l'obbligo Consip forse si tratta di risparmi prodotti da prezzi più bassi (il che non sembra corrispondere sempre al vero). Ma nella realtà i risparmi si realizzano soprattutto per stanchezza degli acquirenti, che, non riuscendo a capire che cosa si vende in Consip, o a trovare ciò che vogliono, o a ottenere un preventivo, rinunciano all'acquisto. Anche quando in Consip il prodotto non c'è, e si ha il diritto (teorico) di acquistare altrove. In tal caso in effetti incombe il rischio che il prodotto mancante venga inserito in Consip poco prima della decisione finale di un acquisto altrove: anche se un acquisto sul libero mercato è già in fase avanzata, se si sono già richiesti gli obbligatori cinque preventivi o è stata bandita una pubblica gara europea con avviso stampato sui principali quotidiani dell'Unione, anche in questo caso si blocca tutto e si deve comprare dalla Consip. Dalle nostre (non approfondite) ricerche risulta che qualcosa di simile fosse in funzione nell´ex Unione sovietica (mentre ci mancano informazioni sulla Corea del Nord; e anche su come siano stati scelti i fornitori del Consip). Paolo Valabrega Centro linguistico del Politecnico di Torino ============================================================== ____________________________________________________________ L'Unione Sarda 25 Feb.03 CALA IL BISTURI SU MEDICINA: A RISCHIO LE LAUREE TRIENNALI La salvezza è ormai rappresentata dall'intervento della Regione Il preside Gavino Faa: "La situazione finanziaria non consente la formazione di infermieri, tecnici, fisioterapisti e ostetriche" O una trasfusione (di soldi) o il bisturi, ma per tagliare i corsi di laurea. Non sono rimaste altre alternative, alla facoltà di Medicina: la crisi finanziaria dell'Ateneo investe, oltre che il Policlinico, anche l'attività didattica. Gavino Faa, preside dal primo novembre scorso, è sconsolato: "Per l'anno prossimo, stiamo pensando di non bandire le lauree brevi". Stiamo, chi? "Io e il mio collega Giulio Rosati, preside di Medicina a Sassari. L'attività del corso di studio principale, quello di sei anni che forma i medici e gli odontoiatri, proseguirà invece regolarmente. Quest'anno, per la prima volta, nella sessione di aprile avremo più laureati che matricole: 190 contro 170. È un segno importante, i nostri studenti arrivano sempre più spesso a destinazione". Quali sono le lauree triennali a rischio? "Quelle per il personale sanitario, come gli infermieri professionali, i tecnici, i fisioterapisti e le ostetriche. Sono questi i corsi che potrebbero non essere banditi nel nuovo anno accademico". Dove sono finiti i soldi per finanziarli? "Fino a dieci anni fa si utilizzavano i fondi della Cee, e a formare quelle figure professionali provvedevano soprattutto enti privati. Ora, invece, la formazione è compito dell'Università, che sta trasformando i diplomi universitari in lauree brevi. La Regione, però, non può pretendere che ci accolliamo questo compito senza una contropartita". Il solito problema dei protocolli d'intesa tra Ateneo e Regione, insomma. "Esattamente: se, per esempio, la Regione ha bisogno di cento infermieri ogni anno, dovrà finanziare la loro formazione. La Regione Friuli Venezia Giulia trasferisce ogni anno, all'Università di Udine, 150 mila euro per ogni corso triennale. La nostra, nulla. Quest'anno, per trovare 50 mila euro per retribuire chi insegna, il rettore ha dovuto fare i salti mortali". La facoltà di Medicina rischia la chiusura? "No, questo no". Però al ministero dell'Istruzione diventano sempre più esigenti: il Nucleo di valutazione sta per introdurre i requisiti minimi per l'accreditamento delle singole facoltà. Chi non l'otterrà, non potrà far laureare i propri studenti. "Vero, ma ogni corso di laurea in Medicina avrà cinque anni di tempo per mettersi in regola, e questo renderà possibile una programmazione. La nostra, sia detto chiaramente, è un'ottima facoltà". Mai sentito un preside affermare il contrario. "Ma non lo dico io, lo dice la classifica Censis-La Repubblica: fino a qualche anno fa eravamo all'ultimo posto, nel 2002 eravamo quart'ultimi, ed è già un miglioramento. Il dato più importante, però, è quello della ricerca: siamo in pieno centro classifica, assieme a corazzate come la Cattolica di Roma o Medicina di Bologna. Abbiamo ottime professionalità e un buon livello di ricerca: siamo una Ferrari, insomma, ma ci manca la benzina". Nel senso dei soldi? "Nel senso dei soldi". La Regione, a partire dal 1996, vi deve quasi otto milioni di euro, anticipati dall'Ateneo per l'assistenza sanitaria alla popolazione: si è rasentata la chiusura del Policlinico. "Nota dolente, che mi ha tolto il sonno durante le festività natalizie. Mancavano, e mancano, i quattro soldi per rinnovare i contratti ai giovani medici che tengono in piedi la struttura di Monserrato, e che ancora oggi si vedono prorogare il contratto mese dopo mese. Sono medici specializzati di 35 anni, che dopo aver studiato per undici anni guadagnano mille euro al mese e non sono sicuri di riceverli il successivo. Una follia". Però l'orizzonte sembra essere sereno. "Sì, fortunatamente sì. Devo dare atto a Giorgio Oppi, l'assessore regionale alla Sanità, che il suo intervento perché l'Università recuperi i crediti si preannuncia decisivo. Ha dato ordine di verificare conteggi e convenzioni, così il problema sta per essere risolto. Con il recupero di quei soldi, il Policlinico potrà finalmente decollare". Anche in questo caso, però, manca il solito protocollo d'intesa. "Ahimè, è proprio così, ma arriverà. Università e Regione dovranno dare vita all'azienda sanitaria mista, che riguarderà il San Giovanni di Dio e il Policlinico di Monserrato". C'è qualche problema, legato a retribuzioni e privilegi che i medici ospedalieri da una parte, e quelli universitari dall'altra, non vogliono perdere. "Le soluzioni non mancano: si può ad esempio formare un terzo comparto riservato ai medici delle aziende miste. Intanto, pur di partire, possiamo stabilire che nella prima fase sperimentale gli ospedalieri e gli universitari mantengano il proprio status giuridico. In Toscana l'hanno fatto". L'azienda sanitaria Regione-Università è prevista dalla legge. "Sì, la numero 517 del 1999: prevedeva quattro anni di sperimentazione, ora siamo nell'ultimo e in Sardegna non abbiamo neanche firmato il protocollo d'intesa. Alla conferenza dei presidi di Medicina, io e il mio collega di Sassari eravamo tra i pochissimi a non aver fatto nulla: è stato imbarazzante". S'iscriverebbe alla facoltà di Medicina di Cagliari? "Certamente: è qui che mi sono laureato e quando lavoravo in Belgio la mia preparazione non era certo inferiore a quella degli altri miei colleghi. Stiamo introducendo anche corsi di alto livello professionale, per esempio quello di primo soccorso, e non sfiguriamo davanti a nessuno. Mi farò sempre curare da medici laureati a Cagliari". Luigi Almiento ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Mar. 03 SANITÀ, PUGNO DI FERRO CONTRO LE TRUFFE R.TU. ROMA - Il Governo sferra l'attacco contro le truffe in sanità. E lo fa addirittura imbracciando l'arma del decreto legge. Con sanzioni pesantissime a carico di medici dipendenti o convenzionati e degli amministratori corrotti: una multa minima di 50mila € che potrà arrivare fino a 20 volte il valore del prodotto, dell'illecito o del prezzo della violazione compiuta ai danni del Ssn. L'80% del ricavato servirà a finanziare i servizi per ridurre le liste d'attesa. E ancora: mano pesante contro le violazioni sull'informazione scientifica, obbligo per gli Ordini di definire entro 60 giorni i procedimenti disciplinari, creazione di una task force di medici specialisti da affiancare a Nas e Guardia di Finanza per contrastare sul nascere comportamenti illeciti. Ma non basta: le infrazioni al divieto di fumo costeranno sempre di più ai trasgressori. Ottenuto il viatico del Quirinale, dopo tre rinvii, il Consiglio dei ministri ha rotto gli indugi e ha approvato ieri con "urgenza" le nuove norme proposte dal ministro della Salute, Girolamo Sirchia, per contrastare gli illeciti nel settore sanitario. Il provvedimento non a caso nasce dopo le denunce sul comparaggio e le altre inchieste in corso in tutta Italia. Dove spiccano non solo il comparaggio medici-industrie, ma anche altri episodi di malaffare. Un capitolo, quello del rapporto tra medici e produttori, sul quale proprio ieri è arrivato un colpo di scena: il passo indietro sostanzialmente annunciato da Farmindustria rispetto alla decisione di blocco "temporaneo" dei congressi e dei convegni per i medici (ma anche di gadget e altro) presa dieci giorni fa per spingere il Governo a fare definitivamente chiarezza sul terreno minato dell'informazione scientifica. Una Giunta straordinaria dell'associazione è stata infatti convocata "allo scopo di rivalutare la sua posizione" dopo le critiche (si veda anche l'intervista a fianco) del ministro Sirchia. Supermulte ai truffatori. Costerà caro prescrivere farmaci o analisi "non pertinenti" alla malattia, sia "per tipologia" che per quantità. O richiedere rimborsi "inappropriati", abusare nei ricoveri (per gonfiare i rimborsi), prendere impegni che provochino danni alle aziende sanitarie e ospedaliere. La sanzione minima sarà di 50 mila €, ma potrà moltiplicare per venti il valore della violazione commessa. E non sarà ammesso "il pagamento in misura ridotta", con tanto di confisca di beni e cose. Le somme verranno riassegnate per l'80% alle Regioni: serviranno "alla riduzione delle liste d'attesa". Ordini: decisioni sprint. A Ordini e Collegi professionali dovrà essere comunicata immediatamente la conclusione dei procedimenti per poter valutare, caso per caso, la sospensione dall'esercizio della professione o la radiazione dall'Albo. Ed entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto legge, dovranno mettere mano ai propri regolamenti, con un obbligo perentorio: fissare in non più di 60 giorni la durata del procedimento disciplinare. Stretta per la pubblicità sanitaria. Altro capitolo caldissimo. Che prevede l'inasprimento delle sanzioni per la violazione delle attuali regole: multa tra 5mila-30mila € per violazioni di case di cura, ambulatori, terme, apparecchiature medicali, e per i farmaci. Sanzione analoga per chi "eccede" nella pubblicità (scientifica) nei confronti degli operatori sanitari. Aggravanti al Codice penale. Prevista una circostanza aggravante all'articolo 640 del Codice penale, quando un medico ricava profitto con l'inganno, o inducendo altri in errore: le multe sono decuplicate, da un minimo di 300 a un massimo di 1.500 €. Con obbligo di confisca dei beni e deferimento agli Ordini per la radiazione. Task force. Un corpo di specialisti della salute affiancherà Nas e Guardia di Finanza, anche per monitorare l'applicazione dei livelli essenziali di assistenza e delle tariffe ospedaliere. Fumo, giro di vite. Raddoppiano, in un range tra 25-500 €, le sanzioni sul divieto di fumo, e da 300 a 3mila € per chi non fa rispettare il divieto. ____________________________________________________________ L'Unione Sarda 1 mar. 03 GUERRA ALLE TRUFFE SUI FARMACI Approvata la legge: i soldi delle multe per finanziare servizi migliori Previste sanzioni più pesanti e controlli più frequenti Roma Mano pesante del Ministero della Salute per fronteggiare il fenomeno delle truffe a carico del servizio sanitario nazionale. Con il decreto legge approvato ieri dal Consiglio di ministri, arrivano sanzioni più severe e una task force che lavorerà con i carabinieri dei Nas e la Guardia di Finanza per i controlli. Il provvedimento d'urgenza anti-truffa del ministro Girolamo Sirchia ottiene il via libera di Palazzo Chigi per perseguire gli illeciti nel settore sanitario. SANZIONI PIù pesantiSono previste sanzioni minime di 50 mila euro, che possono arrivare fino a venti volte il prodotto o il prezzo della violazione, per quei professionisti del Servizio sanitario nazionale, dipendenti e convenzionati, "che effettuano prescrizioni farmaceutiche o diagnostiche non pertinenti con la malattia del paziente ovvero richiedono in violazione di legge o di regolamento rimborsi inappropriati, determinano ingiustificati ricoveri ospedalieri". SOLDI PER lE LISTE ATTESALe somme incassate con le multe saranno utilizzate per la riduzione delle liste di attesa principalmente nella Regione dove è avvenuto l'illecito. MEDICI SOSPEsi dall'ordineA conclusione del procedimento, sarà effettuata comunicazione ai competenti ordini e collegi professionali affinché valutino l'ipotesi di sospensione dell'esercizio della professione o la radiazione dall'albo del professionista. INFORMATORI SCIENTIFICIIl decreto legge inasprisce anche le sanzioni per gli abusi della pubblicità in materia sanitaria e, in particolare, di quella relativa agli informatori scientifici, prevedendo multe da 5 a 30 mila euro. CODICE PENALENel Codice penale è inserita una specifica circostanza aggravante nell'articolo 640: è notevolmente aumentata la pena pecuniaria ed è resa obbligatoria la confisca dei beni connessi con il reato. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 27 Feb.03 "DISDETTO UN CONGRESSO SU DUE" Alberghi in crisi per il blocco dei convegni deciso da Farmindustria Sirchia: una misura eccessiva Le associazioni: "A rischio 15 mila posti di lavoro" Mangiarotti Alessandra MILANO - Il ministro della Sanità, Girolamo Sirchia, l' ha definita "eccessiva e senza senso": "Dimostra la volontà di non collaborare". Gli operatori del turismo congressuale l' hanno già ribattezzata una "vera serrata". Con effetti paragonabili a q uelli dell' 11 settembre: "La decisione di Farmindustria di sospendere tutti congressi medici in attesa di ricevere dal Ministero della Sanità norme chiare e definitive ci sta mettendo in ginocchio più dei venti di guerra: un congresso medico su due in programma per aprile è stato disdetto". E' l' effetto diretto degli scandali sul "parentaggio": i viaggi-premio che - secondo le accuse della Finanza - le multinazionali avrebbero concesso ai medici in cambio di prescrizioni compiacenti. Tanto da spingere i colossi farmaceutici a bloccare immediatamente ogni sponsorizzazione. "Molti posti di lavoro sono a rischio - spiega Anita Aquilino, presidente dell' associazione italiana Incentive & Convention -, le aziende più piccole potrebbero essere costrette a chiudere. E non per colpa della guerra". Ma da Rimini a Taormina, da Firenze a Capri il ritornello è lo stesso: "Il 19 febbraio l' associazione delle aziende farmaceutiche ha deciso la sospensione, il giorno dopo hanno iniziato ad arrivar e le disdette". Oltre mille le imprese congressuali coinvolte direttamente o indirettamente (più di 15mila i lavoratori interessati): agenzie, centri congressuali, alberghi, interpreti, addetti video-audio e compagnie aeree. Secondo Incentive & Conve ntion, Alitalia avrebbe già ricevuto 11 mila disdette proprio a causa della cancellazione di congressi medici in Italia e all' estero. "Le telefonate di allarme dei nostri associati si moltiplicano: in particolare dagli operatori delle grandi città, della riviera romagnola e dell' arcipelago partenopeo", dice il presidente Federalberghi, Bernabò Bocca. E il responsabile dell' associazione per l' Emilia Romagna, Alessandro Giorgetti: "La situazione per tutta l' area di Rimini è difficile, i contr atti sono bloccati. E pensare che tutti gli investimenti sono stati fatti proprio nel settore congressuale". Gli addetti ai lavori si interrogano sulla "legittimità delle decisioni prese da Farmindustria anche alla luce delle normative antitrust". "L a decisione di Farmindustria sembra ignorare che cospicui impegni finanziari e contrattuali sono già stati presi per tutto l' anno - sottolinea il presidente Aquilino -. Accordi e contratti firmati tra aziende farmaceutiche e agenzie dovranno comunque essere rispettati". Dubbi e richieste che però non sorprendono il vicepresidente di Farmindustria, Emilio Stefanelli: "Anche noi abbiamo inviato la nostra delibera all' Antitrust. Abbiamo messo in conto di perdere i soldi impegnati. Ma quell o a cui non vogliamo rinunciare è il riconoscimento della validità dei nostri congressi: abbiamo solo voglia di chiarezza e non di scontrarci". Alessandra Mangiarotti ____________________________________________________________ Repubblica 27 Feb.03 USA TRA DIVIETI DI CONVEGNI GRATIS, voglia di informazione e medicisponsor DI FRANCO NAVAZIO * Avendo praticato per 40 anni medicina nello Stato del Massachusetts, debbo premettere che ogni Stato ha le sue leggi particolari ed a volte molto diverse dagli altri Stati dell'Unione. Il medico sia generico, come nelle rispettive specialità, ha l'obbligo di un minimo di ore di aggiornamenti clinici all'anno. Ogni due anni le certificazioni di tali corsi vengono inviate alle rispettive Società mediche e la licenza a continuare nella pratica attiva verrà o meno rinnovata. Esistono poi esami di ricertificazione varianti (ogni 710 anni) fra specialità. L'appartenenza ad una compagine medica ospedaliera, cosa pressochè obbligatoria per i medici pratici, comporta l'obbligatorietà ad essere presenti a molteplici conferenze o presentazioni medicoscientifiche per un totale di almeno 50 ore annuali. Così l'informazione farmaceutica assume un valore abbastanza secondario nel quadro dell'informazione scientifica. I rappresentanti visitano i medici su appuntamento e rilasciano campioni medicinali. Minime regalie sono altresì rilasciate ogni volta (penne stilografiche, quaderni di appunti o ricettari). Fino al 1980 era possibile fare spesso parte di un gruppo invitato a corsi di aggiornamento, con viaggio ed albergo pagati dalla ditta farmaceutica. Da quel periodo la cosa si è ristretta ed in alcuni Stati è divenuta illegale (come nel Massachusetts). Le novità farmaceutiche vengono propagandate in varie maniere, anche tramite conferenze date da medici sponsorizzati dall'Industria (ma quando la sponsorizzazione è sfacciata o eccessiva è raro che il presentatore venga richiamato). In molti stati (come il Massachusetts) il medico deve scrivere sempre la ricetta col nominativo generico del farmaco, in modo che il farmacista possa fornire il prodotto più economico. Tv e stampa sono naturalmente grandi agenti propagandistici di farmaci nuovi ovvero di nuovi effetti positivi o negativi di farmaci già in commercio. Un tempo io stesso ero ossessionato da pazienti che avevano letto sul New York Times o sul Boston Globe delle notizie su farmaci da me prescritti, fatti che io non avevo ancora letto. Dato il grande interesse, non c'è da meravigliarsi se, in Usa, i quotidiani e i siti Web, snocciolano articoli in questo campo. Il problema riguarda la qualità di tale informazione (e la differenza tra giornali scientifici e informazione per il pubblico), che è variabilissima, sì che in certi casi può tradursi in disinformazione (come ha dimostrato la ricerca della dottoressa Lisa Bero dell'Istituto di Farmacologia dell'Università di San Francisco analizzando 180 articoli giornalistici relativi a tre diversi medicamenti per il colesterolo). * Dep.to of Integrative Biology University California Berkeley ____________________________________________________________ Corriere della Sera 24 Feb.03 POLICLINICO: I POSTI LETTO? AUMENTANO (A ROMA) Il Policlinico li doveva chiudere, il Sant' Andrea aprire: e ora sono troppi Presto un vertice fra Regione, università La Sapienza e i responsabili dei due ospedali Di Frischia Francesco Personale che non vuole trasferirsi, milioni di debiti e mancanza di programmazione. Non finiscono mai i problemi per il decentramento di letti e personale dal Policlinico Umberto I al Sant' Andrea: i dipendenti del primo ospedale non hanno alcuna intenzione di andare a lavorare nel secondo. E i posti letto, che nel Lazio sono troppi, rischiano di aumentare. All' apertura dei primi 150 letti il 1 dicembre 2002 nell' ospedale in via di Grottarossa, è corrisposta una chiusura di soli 107 posti nel Policlinico. E la situazione potrebbe peggiorare tra un mese: nel cronoprogramma preparato dalla Regione è prevista alla fine di marzo l' apertura nel Sant' Andrea di altri 192 letti. La direzione sanitaria dell' Umberto I ha fatto sapere di avere i n programma solamente la chiusura di 24 posti letto di chirurgia, che fanno parte del reparto diretto da Elio Ziparo. Quest' ultimo è uno dei 259 docenti della prima facoltà di Medicina della Sapienza, che ha scelto di spostarsi nel gioiello in cemento armato tra la Cassia e la Flaminia, sede delle seconda facoltà di Medicina dello stesso ateneo. Attualmente dal Policlinico si sono già trasferiti 192 dipendenti, dei quali 17 primari e 107 medici. E altri 40 camici bianchi lavorano per qualche gi orno al mese nel Sant' Andrea e poi tornano all' Umberto I in attesa che vengano attrezzati spazi e servizi. Per stimolare il personale, la direzione del Policlinico, dove rimangono ancora 1.580 letti e circa 6.600 dipendenti, ha promosso senza successo un bando di mobilità interna. Sono, invece, decine le domande piovute nel Sant' Andrea di medici, infermieri, tecnici e amministrativi che lavorano in Asl e ospedali pubblici desiderosi di spostarsi in via di Grottarossa. Nell' agosto del 2002 il presidente della Regione, Francesco Storace, e il rettore della Sapienza, Giuseppe D' Ascenzo, hanno firmato un protocollo d' intesa per decentrare una parte dei servizi e del personale in tre ospedali: 450 letti nel Sant' Andrea, 150 a Bracciano e 250 a Latina. Questo progetto avrebbe permesso di razionalizzare l' attività, rilanciare e ridurre il deficit nell' Umberto I, che è sceso del 20 per cento negli ultimi 2 anni (attestandosi a 85 milioni di euro nel 2002). I vertici di Regione e Università "La Sapienza" tra qualche giorno dovrebbero incontrarsi con i responsabili delle due strutture per discutere la cronica carenza di personale infermieristico, indispensabile per aprire entro marzo 192 letti. Francesco Rocca, commissario straordinario del Sant' Andrea, ammette: "I problemi di personale ci sono: i medici non mancano, ma per attivare quei posti servono almeno 200 infermieri, oltre agli amministrativi e ai tecnici che sono anche loro necessari per il corretto funzionamento di tutto l' ospedale". Incertezze e dubbi abbondano sul futuro del Sant' Andrea: "Sono in attesa di conoscere quanto personale arriverà dal Policlinico - precisa Rocca - Forse per sbloccare la situazione occorre promuovere la mobilità che coinvolga tutte le Asl e gli ospedali pubblici. Potrebbe essere un metodo utile per ripianare le carenze di personale di molte strutture del Lazio". Di certo il cordone ombelicale con l' Umberto I va reciso al più presto: "Io e il Policlinico abbiamo un imperativo - conclude Rocca - Io devo aprire letti, loro li devono chiudere. Il vero problema è tutto qui...". Francesco Di Frischia LA CGIL "Serve un commissario straordinario" Nigro: bisogna vigilare affinché non avvenga la moltiplicazione di in carichi dirigenziali "C' è il rischio concreto di duplicare nel Sant' Andrea vizi e disastri del Policlinico: il decentramento sta andando a rotoli per colpa dei soliti poteri forti, i professori universitari, che non si fanno trattare come gli opera i della Fiat". L' allarme lo lancia Gianni Nigro, segretario regionale della Cgil Funzione pubblica del Lazio, che accusa la giunta regionale e i vertici dell' università "La Sapienza", responsabili "di non essere stati capaci di governare questa situazione". Secondo il sindacalista "il Policlinico non si può rilanciare se non si ristruttura eliminando i rami secchi, cioè in particolare le decine di servizi di laboratorio e di radiologia, cresciuti negli anni come funghi, che sono una delle cause del pesante deficit dell' Umberto I". Nella Finanziaria del 1999 il Parlamento aveva stanziato 200 miliardi di lire (100 milioni di euro) "per avviare la ristrutturazione - ricorda - Molti reparti cadono a pezzi, ma quei soldi non sono mai stati sp esi. Perché?". La Cgil Funzione pubblica non critica l' operato dell' attuale direttore generale del Policlinico, Tommaso Longhi, ma propone "la nomina di un commissario straordinario, dotato di pieni poteri per decidere la riorganizzazione interna dell' ospedale". Questo passaggio, fa notare il sindacato, sarebbe utile anche per il Sant' Andrea "dove adesso le poltrone vacanti sono molte - precisa Nigro - e prima o poi verranno occupate da nuovi primari. Nel Lazio la Regione vuole tagliare i letti, ma adesso i posti stanno solo aumentando in modo incontrollato". Il trasferimento di personale dal Policlinico alla struttura in via di Grottarossa nasconde anche un' altra incognita: "Bisogna assolutamente vigilare affinché non avvenga la moltiplicazione scriteriata di incarichi dirigenziali - osserva il sindacalista - Altrimenti si ricostruirebbe un esercito pieno di generali e con pochi soldati, problema che ha causato e continuerà a causare infiniti disastri nell' Umberto I". Il fallimento del decentramento "è esattamente quello che vogliono i potenti professori universitari - aggiunge - che continuano a gestire il Policlinico a loro uso e consumo, come se fosse il loro orticello, e non un centro a disposizione di malati e studenti che vogliono diventare i medici di domani". La Cgil critica il lavoro svolto da Regione e università "La Sapienza": "Non hanno ancora presentato ai sindacati un piano di effettivo decentramento del personale - conclude Nigro - Stanno portando il Policlinico allo sfascio, per renderlo irrecuperabile. Visto che lo Stato non ripianerà più i debiti della sanità, nel giro di qualche anno, il deficit dell' Umberto I rischiano di doverlo pagare i cittadini con le tasse". F. D. F. ____________________________________________________________ L'Unione Sarda 26 Feb.03 CLINICA NEUROLOGICA: PAZIENTI ESASPERATI Il campanello suona senza sosta. Nella sala d'attesa ci sono una cinquantina di persone: alcune aspettano rassegnate, altre si attaccano al citofono sperando che qualcuno li lasci entrare. Sono le 13,30, l'orario delle visite è cominciato da mezz'ora, ma nella clinica neurologica del San Giovanni di Dio, i parenti dei ricoverati sono ancora in anticamera. Si affaccia un medico: "Prima di farvi entrare dobbiamo distribuire il pranzo". La scena si ripete da giorni e la dice lunga sulla situazione del reparto. "Facciamo il possibile, ma siamo pochi, dobbiamo far fronte alle emergenze e i tempi si allungano", si giustifica la caposala, Greca Floris. "Senza contare che molti pazienti sono in terapia intensiva o semi intensiva e, dunque, non sono minimamente autosufficienti", continua la caposala. Da giorni i rappresentanti dei sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno denunciato le condizioni in cui gli infermieri sono costretti a lavorare: "In media ci sono 40 ricoverati, mentre la norma prevede 28 pazienti", spiega Giuseppe Orrù (Cgil). Fino a alcuni giorni fa nei corridoi c'erano nove brande in cui sono stati sistemati i malati che non hanno trovato un letto nelle camere. Ieri la branda era solo una, ma non è stato piacevole per i parenti dello sfortunato ultimo arrivato, riabbracciare il loro caro nell'andito, tra l'andirivieni di visitatori e dottori. "Non c'è rispetto per la dignità e l'intimità dei malati e non c'è rispetto per il nostro lavoro", si rammarica Franco Planu (Cisl). In una nota, i lavoratori hanno chiesto che sia aumentato il numero di infermieri, o diminuito quello dei ricoverati: "Chiediamo di lavorare nelle giuste condizioni per esprimere la nostra professionalità e seguire al meglio i malati", dice Pietro Luzzi (Uil). Il primario della clinica, Marcello Giagheddu, di fronte alla situazione in cui grava il suo reparto e ai problemi che assillano gli infermieri, non ritiene sia il caso di rilasciare dichiarazioni, "per non fare polemiche". Gli infermieri chiederanno un incontro con il primario, per esporgli i loro problemi. "Quando arriverà la domanda la prenderò in seria considerazione", ha detto lapidario. Intanto la maggior parte degli infermieri del reparto ha chiesto il trasferimento. Ovviamente negato, per carenza di personale e perché nessuno vuol entrare in una clinica diventata famigerata. Alice Guerrini ____________________________________________________________ L'Unione Sarda 25 Feb.03 MASSAGGIATORI: VOGLIAMO ESSERE EQUIPARATI AI FISIOTERAPISTI" I massaggiatori chiedono concorsi e titoli per circolare in Europa CAGLIARI. "Il nostro titolo di studio deve essere reso equipollente al diploma universitario di fisioterapista, in base a quanto contemplato dalla legge 42/99". È questa la principale rivendicazione dei massofisioterapisti che chiedono anche di poter accedere a concorsi pubblici, di poter fare carriera nel pubblico impiego e di poter acquisire i necessari crediti per circolare liberamente in Europa. "In caso contrario - spiegano i rappresentanti regionali della Fnmc - ci vedremo costretti a indire clamorose manifestazioni di protesta". Protesta che, ormai, si è estesa dalla Sardegna a tutte le altre regioni. Ma perchè i massofisioterapisti stanno ancora aspettando l'equipollenza? Secondo il sindacato perchè il ministero della Salute non ha ancora emanato un provvedimento normativo di soppressione dei corsi. E non è ancora stato pubblicato un decreto che riconosca equipollenti anche i titoli conseguiti con corsi di durata biennale o con corsi attivati dopo l'anno scolastico 1995/96. Ma non solo. La modifica costituzionale del titolo che ha privato lo Stato della potestà in materia di professioni sanitarie, facendo ricadere la stessa materia fra i casi di legislazione concorrente, ha rallentato ulteriormente la risoluzione del problema. "Dopo la pubblicazione della legge 403/71 che ha istituito la figura del massofisioterapista - ricordano i responsabili della Fncm - non è mai stato emanato un successivo decreto che stabilisse il titolo di accesso, il programma e la durata del corso. Alcune regioni, quindi, hanno organizzato corsi per massofisioterapisti della durata biennale. Altre, invece, della durata triennale. Si sono venuti così a creare due operatori con lo stesso titolo ma con scolarità differente". I corsi per massofisioterapisti come tutti i corsi di formazione per le professioni sanitarie, inoltre, avrebbero dovuto essere soppresso a partire dal 1º gennaio 1996. Da tale data per le professioni sanitarie, infatti, era previsto un solo canale formativo: quello universitario. Per l'area riabilitativa il diploma universitario di riferimento era quello di fisioterapista ora trasformato in laurea di primo e secondo livello. E ancora. Nel 1998 il ministero della Salute ha prorogato con decreto i corsi di formazione per massofisioterapisti presso gli istituti per non vedenti. In base a un regio decreto del 1941, però, ai corsi di massofisioterapista presso gli istituti per non vedenti possono iscriversi anche alunni vedenti. In poche parole per le professioni riabilitative al posto di un solo canale formativo ve ne sono tre: scuole regionali, istituti per non vedenti e laurea di primo e secondo livello. ____________________________________________________________ L'Unione Sarda 27 Feb.03 NEUROSCIENZE: LA GRANDE SCUOLA DI GESSA Intervista sulle neuroscienze è un libro che lo scienziato cagliaritano Gian Luigi Gessa ha appena scritto (con il giornalista Francesco Luigi Sotgiu) e che la Cuec ha subito distribuito alle librerie dopo averlo stampato per la collana "Prospettive". "È un libro straordinario per quello che dice e per quello che invece tace almeno a parole" ha scritto Vittorino Andreoli nella prefazione: "Un esempio formidabile di comunicazione scientifica e della capacità di Gessa di parlare con la gente (...). Ha il pregio di chiarire aspetti che si dibattono ancora e si tratta di temi sul rapporto tra mente e cervello, sulle droghe di abuso, lecite e illecite. Ma questo libro è soprattutto la storia di un gruppo di cui Gessa è stato il direttore d'orchestra. Un'orchestra che ha ora cento maestri e che produce una sinfonia unica nel panorama della ricerca scientifica in Italia". Venerdì sera, nella sala verde della Cittadella dei musei (ore 18), il volumetto verrà presentato al pubblico di Cagliari: ne parleranno - alla presenza degli autori - Pasquale Mistretta rettore dell'Università, Antonio Sassu presidente del Banco di Sardegna, Armando Pietrella direttore dell'Ufficio scolastico regionale e Gavino Faa preside della facoltà di Medicina, coordinati dal giornalista Giacomo Mameli. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Feb.03 FARMACI CONTRO IL DOLORE. POCHE RICETTE IN FARMACIA I nuovi moduli per gli oppiacei sono arrivati in ritardo ma le prescrizioni sono comunque scarse Cremonese Antonella Sono passati più di due anni dall' entrata in vigore della legge n.12 dell' 8 febbraio 2001. Una legge fortemente voluta dall' allora ministro della Sanità Umberto Veronesi, per rendere più semplice, da parte dei medici, la prescrizione dei farmaci oppiacei contro il dolore. Il dolore da cancro, ma anche da gravi malattie degenerative. Il "dolore inutile", come Sergio Zavoli ha titolato il suo ultimo libro. Ma i ricettari semplificati (non più da compilare in triplice copia, e sufficienti al fabbisogno di un mese) sono arrivati a Milano solo a luglio 2002. La dottoressa Nicoletta Luminati, responsabile della farmaceutica per la Asl, ricorda che si è fatto una specie di miracolo: "Siamo riusciti a metterli in distribuzione già da agosto. Era no attesissimi. Abbiamo avuto, nei primi giorni, il corridoio pieno di medici. Finora li hanno ritirati, in città, 659 medici di famiglia, 2 pediatri, 123 medici ospedalieri, 94 medici liberi professionisti" Sono pochi? Sono tanti? Sono più del previsto. "I vecchi ricettari, che venivano distribuiti dagli Ordini, non venivano ritirati da più del 30 per cento dei medici" dice Giuseppe Palumbo, direttore generale dell' Ordine dei Medici di Milano, ma sono ancora troppo pochi. Lo sanno bene alla Vi das, l' associazione (diretta da Giovanna Cavazzoni), che in 21 anni ha assistito a casa, 24 ore su 24, in modo completo e gratuito, 11mila malati terminali di cancro. Dice la coordinatrice, dottoressa Daniela Cattaneo: "Non è tanto la burocrazia, a frenare la prescrizione di questi farmaci, quanto il problema della "cultura" medica. I medici hanno timori ingiustificati. Noi organizziamo corsi per formare i medici e fugare i preconcetti. Per esempio, un recente studio Usa ha dimostrato che gli oppiacei, anche in dosi elevate, non abbreviano la vita del malato". Dello stesso parere è il professor Furio Zucco primario di anestesia e rianimazione dell' ospedale di Garbagnate e presidente della federazione italiana di cure palliative, che terrà un congresso a Milano dal 5 all' 8 marzo: "L' università non prepara, e negli ultimi anni Milano ha perso la cattedra di terapia del dolore. Il preside Guido Coggi ha istituito un master post-laurea. Ma non basta". Fiorenzo Corti, presidente regionale della Fimmg-Simed (medici di famiglia) ha l' ambulatorio a Trezzo: "Qui i nuovi ricettari sono disponibili da poche settimane. Il ritardo è enorme, ma quello che va colmato è soprattutto il gap tra i medici e il concetto di dolore". E infine il dottor Paolo Notaro, responsabile della terapia del dolore all' ospedale di Niguarda: "I cittadini devono imparare a pretendere di essere liberati dal dolore. E' un diritto assoluto. Purtroppo gli oppiacei sono poco usati perfino negli ospedali. Tanto che migliaia e migliaia di ricoverati soffrono di dolore post-operatorio". Antonella Cremonese ____________________________________________________________ L'Unione Sarda 25 Feb.03 FALLIMENTARI I RISULTATI DEL PRIMO VACCINO CONTRO L'AIDS È stato sperimentato a partire dal 1988 su 5400 persone negli Stati Uniti e in Olanda Il farmaco riduce il tasso di contagio solo per afro-americani e asiatici Washington Il primo vaccino sperimentale ad essere giunto in fase clinica tre, ossia ad essere usato su di un vasto gruppo di persone, ha dato risultati fallimentari per quanto riguarda la riduzione delle infezioni sul totale dei volontari sui quali è stato usato. Ma apre qualche speranza per specifiche minoranze etniche e per ulteriori ricerche sull'efficacia del composto: il vaccino Aidsvax, prodotto dall'azienda californiana VaxGen, ha mostrato infatti di ridurre significativamente il tasso di contagio tra gli afro- americani e gli asiatici. Ma gli stessi ricercatori che hanno illustrato ieri gli attesi dati emersi dai tre anni di test, non sanno ancora spiegarsi il perché. Il composto - che utilizza due proteine basate sulla Gp120, una proteina presente sulla superficie del virus Hiv - è stato sperimentato a partire dal 1988, negli Stati Uniti e in Olanda, su 5.400 persone considerate ad alto rischio di contrarre l'Aids. Durante il periodo dei test, per motivi etici, ai volontari è stato consigliato di praticare rapporti sessuali protetti. La riduzione delle infezioni, al termine della sperimentazione, su tutti i gruppi etnici coinvolti nello studio è risultata pari al 3,8 per cento. Una soglia troppo bassa per la Food and drug administration: l'agenzia Usa responsabile del mercato dei farmaci che si è già impegnata ad approvare un vaccino contro l'Aids che raggiunga la soglia minima del 30 per cento di efficacia. Un'eccezione considerato che i vaccini, per ottenere il disco verde, devono provare un'efficacia almeno dell'80. "I dati non mostrano una riduzione statisticamente significativa delle infezioni sulla popolazione generale, ma indicano una significativa riduzione delle infezioni in due gruppi specifici", ha detto l'autore principale della ricerca, Michael Para. Sugli afro-americani la riduzione delle infezioni è risultata pari al 78,3 per cento nel confronto con i volontari della stessa razza che avevano assunto un semplice placebo, è sugli asiatici la diminuzione è risultata del 68. "Inoltre - ha spiegato Para - analizzando il sangue dei volontari abbiamo scoperto che i rappresentanti di questi due gruppi etnici sottoposti al vaccino hanno prodotto livelli di anticorpi al virus più alti degli altri. Invece bianchi ed ispanici hanno sviluppato più bassi livelli di anticorpi in seguito alle vaccinazioni". I ricercatori della VaxGen ammettono però di non capire le ragioni dell'apparente successo del composto su neri ed asiatici: "Non sappiamo perché questi due gruppi hanno evidenziato una risposta immunitaria migliore - ha osservato il vicepresidente dell'azienda, Phillip Berman - ma questa è la prima volta che un vaccino mostra, sia pure parzialmente, di poter prevenire l'infezione Hiv in essere umani". Gli esperti ipotizzano fattori genetici come causa dei diversi risultati, ma non escludono che dipendano dallo scarso campione di volontari esaminati: i neri sottoposti a test sono stati 314 e gli asiatici solo 77. VaxGen pianifica comunque di continuare il suo lavoro per la messa a punto del vaccino. A mesi dovrebbero arrivare i risultati della seconda sperimentazione in corso in Tailandia su 2.500 persone ad alto rischio di un vaccino contro i ceppi B ed E del virus Hiv. Il composto usato negli Stati Uniti ed in Olanda era diretto contro il ceppo B del virus. A. N. 25/02/2003 Gianni Loy, Consigliere comunale, Cagliari Storie di ordinario razzismo. (Commemorazione di un attore) Oggi, un quotidiano (Unione Sarda, 25 febbraio, pag. 6), ha riportato in grande evidenza i risultati della sperimentazione di un vaccino contro l'AIDS che ha avuto avvio nel 1998. Il risultato della sperimentazione compare in maniera inequivocabile sul titolo a caratteri cubitali. FALLIMENTARI I RISULTATI DEL PRIMO VACCINO CONTRO L'AIDS. Nell'occhiello si legge che tuttavia "il farmaco riduce il tasso di contagio solo per afro-americani ed asiatici". Il messaggio è chiaro, si ha una riduzione del tasso di contagio "solo" per afro-americani ed asiatici. Se oggi Alberto Sordi avesse potuto leggere i quotidiani, avrebbe detto, con aria sarcastica: "E che ce 'mporta? E che ce frega? Mica parleno de noi" La notizia risulta ancora più inquietante se si osservano i dati: L'efficacia del vaccino sui bianchi è risultato inferiore al 3%, cioè assolutamente niente, si è portati a pensare che per gli altri gruppi etnici il risultato sia appena superiore. Ed invece ecco la sorpresa: Per afro-americani ed asiatici l'efficacia sfiora l'80% (78,3% per i primi e 68% per i secondi) Se si pensa che un vaccino viene comunemente riconosciuto quando la sua efficacia raggiunge l'80%, avremmo dovuto dire che siamo in presenza di un successo enorme, che è stato finalmente scoperto il vaccino contro l'AIDS. Peccato che faccia effetto soltanto per nero-americani ed asiatici, cioè solamente per i due terzi della popolazione mondiale. Peccato che non siano compresi i bianchi! La notizia è tanto più sorprendente se si considera che data la gravità dell'AIDS, La Food and drug administration l'Agenzia responsabile del mercato dei farmaci americano, si è impegnata a riconoscere un vaccino la cui efficacia raggiunga almeno il 30%. Il risultato, quindi, è addirittura più di due volte superiore a quanto richiesto per un successo accettabile. Peccato che non faccia nessun effetto per i bianchi. Non è la prima volta che osserviamo la politica e la conseguente informazione dei due pesi e delle due misure a seconda della razza o della religione. Ma colpisce sempre la ferocia di queste manifestazioni di ordinario razzismo. Se le percentuali fossero state esattamente al contrario (risultati positivi per oltre il 70% per i bianchi e meno del 3% per nero-americani ed asiatici), la notizia sarebbe stata in prima pagina, e il titolo, probabilmente sarebbe stato diverso. O no? Gianni Loy (25 febbraio 2003) ____________________________________________________________ Repubblica 27 Feb.03 TUTTO IL DNA IN UN CHIP Possibili test simultanei per migliaia di geni Si sperimenta il "Microarray". Prevenire malattie sarà più facile ed economico. Parla Giuseppe Novelli DI ROSSELLA CASTELNUOVO La prossima rivoluzione in medicina poggia su un oggetto grande come la metà di un biglietto da visita. Si chiama "microchip a Dna" o "microarray" e permette di eseguire analisi di centinaia o migliaia di geni contemporaneamente, mentre oggi si riesce a farle con poco più di una decina per volta. Siamo al passaggio fra le promesse della genomica e la loro realizzazione. L'informazione che potremo avere sarà cruciale per prevenzione, diagnosi, prognosi e scelte terapeutiche. Non solo perché le renderà molto più precise, ma anche perché riguarderanno ogni singola persona sottoposta al test. Non un rischio generico di avere un infarto, per esempio, ma una valutazione specifica di questo rischio e delle eventuali misure di precauzione. Non un decorso incerto dopo il trattamento con un farmaco, ma un controllo sulla sua efficacia. Non l'incertezza della causa scatenante di una malattia infettiva, ma un metodo veloce per scoprirla e neutralizzarla. L'entusiasmo, come spiega il genetista Giuseppe Novelli dell'università di Tor Vergata, a Roma, è più che giustificato. Salvo fare i conti, per ora, con costi altissimi, tecnica difficile, ancora in fase di sperimentazione, e necessità di personale con competenze di bioinformatica. Per questo in Italia i laboratori che ne dispongono sono forse meno di dieci. "I campi di applicazione sono infiniti" spiega Novelli. "Quasi tutte le malattie dipendono dal Dna personale, ma solo pochissime dipendono da un solo gene. La maggior parte (dal diabete, all'aterosclerosi, alle allergie) dipende da serie di geni più o meno correlati tra loro: con i microchip a Dna possiamo analizzare, volta per volta, quali di questi geni stanno funzionando in modo anomalo mettendoli a confronto con la stessa sequenza di una persona sana". L'attrezzatura essenziale per fare tutto questo assomiglia a una piccola fotocopiatrice da tavolo, collegata a un computer che sforna immagini simili a un cielo stellato. E al punto dove la "luce degli astri" sembra più intensa, corrisponde un gene in attività. Strumenti semplici e anonimi, apparentemente, con un costo base di 250 mila euro, che Novelli mette a frutto sia fornendo supporto tecnico per altri colleghi, sia creando egli stesso i microrray. Come l'"androchip", costruito con i 150 geni che regolano il metabolismo degli ormoni androgeni, con cui si sta sperimentando l'uso per il cancro della prostata e per patologie minori, come l'irsutismo e la calvizie. Ma è il cancro la malattia che più si spera di combattere con i microchip a Dna. A Candiolo (To) l'Istituto di ricerca, ricovero e cura dei tumori è tra quelli che più stanno puntando sulla genomica e, come spiega il direttore scientifico Paolo Comoglio, ha due divisioni dedicate a queste indagini: la cancer family clinic e la divisione di oncogenomica funzionale. "Nella prima" dice Comoglio, "esaminiamo persone sane a rischio e studiamo la presenza di mutazioni nelle due categorie di geni che regolano l'eventuale comparsa della malattia: quelli che mantengono "in ordine" il Dna (caretakers) e quelli che ne sorvegliano e riparano eventuali danni (gatekeepers o oncosoppressori). La malattia, infatti, si manifesta solo se c'è un accumulo di errori e mutazioni a questi geni. Nella seconda divisione studiamo invece le persone già malate e, in particolare, le metastasi per prevedere il decorso della malattia. Queste analisi ci permettono di intervenire in modo più preciso, evitando di sbagliare con terapie eccessive o per troppa pietà". A testimoniare l'importanza di queste ricerche l'istituto di Candiolo è attualmente capofila di Eurofog, progetto europeo di oncogenomica funzionale cui partecipano 12 paesi, previsto nel VIº programma quadro di ricerca della Ue. ____________________________________________________________ Le Scienze 26 Feb.03 L'ORMONE DEL COMPORTAMENTO PATERNO Lo stesso meccanismo neuroendocrino osservato nei topi potrebbe essere importante in altri mammiferi, compresi gli esseri umani Un team di ricercatori della Northwestern University ha scoperto che il progesterone, un ormone associato di solito alla riproduzione femminile e al comportamento materno, svolge un ruolo fondamentale nei topi nel regolare l'aggressività maschile contro i neonati. Finora si riteneva che il responsabile di questo comportamento fosse il testosterone. Gli scienziati hanno osservato che l'assenza di azione del progesterone riduce l'aggressività e al tempo stesso promuove un comportamento paterno positivo. La scoperta, che sarà pubblicata sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences" (PNAS), suggerisce un nuovo approccio allo studio di un'area della biologia ancora poco compresa. "Abbiamo scoperto - commenta Jon E. Levine, docente di neurobiologia e fisiologia e autore dello studio - che il progesterone e i suoi recettori sono importanti anche nei maschi, non solo nelle femmine. Il comportamento paterno potrebbe basarsi sulla stessa biologia di quello materno." Come i maschi adulti di molte altre specie, i topi raramente contribuiscono ad allevare i piccoli e spesso li attaccano o li uccidono poco dopo la nascita. Una correlazione fra questo comportamento e il testosterone, pur ipotizzata, non è mai stata dimostrata. Alla ricerca di una spiegazione alternativa, il gruppo di Levine ha studiato topi in cui mancava il gene che codifica per i recettori del progesterone, notando subito che in essi mancava completamente l'aggressività verso i topi appena nati, anzi emergeva un'attenzione e una cura di tipo paterno. (c) 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A ____________________________________________________________ La Stampa 26 Feb. 03 AUTO CON FARI ACCESI DI GIORNO? IRRAZIONALE FACCIAMO I CALCOLI RICORDANDO CHE LA RESA DEI MOTORI E´ BASSA E CI SONO MOLTE PERDITE DI ENERGIA IN un momento in cui è prioritaria l'esigenza di utilizzare con la massima efficienza le risorse energetiche, e mentre l´impatto ambientale degli autoveicoli costringe sempre più spesso a limitare la circolazione almeno nel centro delle città, merita una riflessione la norma del nuovo codice della strada che obbliga a tenere i fari sempre accesi su autostrade e strade principali: si può infatti calcolare che ciò comporta un incremento dei consumi fino al 2 per cento, con annessa produzione di smog. La motivazione alla base del provvedimento legislativo è la necessità di rendere i veicoli più visibili, riducendo il rischio di incidenti. Questo principio, valido quando la visibilità è bassa per nebbia e foschia o nel caso di giornate poco luminose, e quindi generalizzabile in quei paesi dove le condizioni atmosferiche sono generalmente negative, come avviene nel Nord d´Europa, non trova fondamento quando i veicoli viaggino in condizioni di buona luminosità. Come si può dimostrare facendo ricorso alle teorie dell'illuminotecnica, il grado di visibilità di un oggetto è correlato al rapporto tra la luminanza dell'oggetto e quella del fondo, risultando quindi che la capacità di percezione degli oggetti è fortemente condizionata, oltre che dalla distribuzione delle luminanze nel campo visivo, anche dal livello di illuminamento ambientale. Dal punto di vista energetico occorre invece tenere presente che l'energia spesa per tener accese le luci è frutto della trasformazione dell'energia chimica del carburante dapprima in energia meccanica e quindi in energia elettrica. Di tutta l'energia termica disponibile durante la combustione, in un motore a quattro tempi solo il 40 per cento si trasforma in energia meccanica, mentre la restante quota viene persa in calore e dissipata tramite il sistema di raffreddamento e il sistema di scarico, dal quale i gas combusti, ancora molto attivi dal punto di vista energetico, vengono immessi nell'ambiente. Dell'energia meccanica disponibile dopo la combustione, significative quote energetiche vengono a loro volta dissipate per le perdite meccaniche nel propulsore, negli organi di trasmissione e nel generatore elettrico, anch'esso caratterizzato da un rendimento legato alle perdite meccaniche ed elettriche. Ne deriva in definitiva che il rendimento globale di tutto il sistema è orientativamente valutabile intorno al 24 per cento: il che si traduce, in pratica, nella necessità di spendere oltre 4 volte l'energia netta necessaria per accendere le lampade dell'autoveicolo. Il modesto consumo di carburante che si registra su un singolo autoveicolo per tenere le luci accese, il cui incremento è valutabile tra l'uno e il due per cento, analizzato su grandi numeri si traduce in consumi tutt'altro che trascurabili. Per una concreta percezione del fenomeno, pensiamo alle giornate di punta del periodo estivo, caratterizzate da un esodo di massa di autoveicoli: ogni giornata comporta un maggior consumo stimabile in 6 milioni di litri di carburante per 10 milioni di veicoli mediamente in marcia per 10 ore. Va poi ricordato che la marcia dei veicoli con le luci accese nelle ore diurne presenta una serie di ulteriori aspetti negativi, che, benché secondari, non vanno trascurati. Tra questi, la minore percepibilità delle luci di stop nel veicolo che precede e la maggior usura delle lampade che, in prima approssimazione può ritenersi quadruplicata. Quand'anche si ritenesse insufficiente affidare la gestione delle luci del veicolo alla discrezionalità del guidatore, tutti gli aspetti negativi connessi alla indiscriminata marcia con le luci accese potrebbero essere efficacemente ridotti se solo si munisse ciascun veicolo di un economico dispositivo automatico in grado di accendere le luci nella circostanza in cui l'illuminamento esterno si abbassa al di sotto di una soglia prefissata. [TSCOPY]pietro.tripodi@tin.it ____________________________________________________________ La Stampa 26 Feb. 03 DIAGNOSI TEMPESTIVA CONTRO LA MENINGITE MA OGGI I FARMACI ASSICURANO GUARIGIONI RAPIDE ALCUNE segnalazioni, anche in questi ultimi giorni, di casi di meningite in varie regioni, e tra queste Lombardia e Piemonte, hanno provocato un comprensibile allarme. Tuttavia, secondo i dati dell'Istituto Superiore di Sanità, che coordina il sistema di sorveglianza nazionale delle meningiti batteriche, le notifiche dei casi rientrano nella media statistica. Apprensioni e timori dell'opinione pubblica trovano la loro radice nella memoria storica collettiva perché prima dell'era antibiotica le meningiti erano caratterizzate da alti tassi di mortalità e le guarigioni lasciavano spesso gravi postumi, come vistosi deficit cognitivi. La situazione attuale è diversa: oggi abbiamo farmaci antibatterici (rifampicina, cefalosporine) e antinfiammatori molto efficaci che, se la diagnosi è tempestiva, permettono guarigioni rapide, senza danni residui. Rimangono invece assai pericolose le meningiti a decorso fulminante, legate a forme setticemiche acute che, in persone immunodepresse, possono tuttora avere esito letale. Diverso è il caso dei paesi poveri, dove la debolezza dell'organizzazione sanitaria, precarie condizioni igieniche e le carenze di acqua e alimenti concorrono a scatenare gravi epidemie. L'area più colpita è l'Africa sub-sahariana tra Etiopia e Senegal detta "cintura della meningite", dove si verificano punte di 1000 infetti ogni 100.000 abitanti. I colpiti, per il 60%, sono bambini tra i 2 e i 5 anni, pochi dei quali sopravvivono. I sintomi della meningite sono facilmente riconoscibili: febbre alta, vomito, cefalea violenta, torcicollo, rigidità della nuca, sonnolenza e torpore alternati a convulsioni. Concomitante è talora la presenza di vescicole da Herpes simplex sulle labbra. La denuncia obbligatoria della malattia deve essere tempestiva e fa scattare le misure di profilassi individuale e collettiva. Quando si individua un caso isolato è prevista la somministrazione di antibiotico a tutti coloro che hanno avuto contatti stretti con il malato nei sette giorni antecedenti l'insorgenza della malattia. Sono inclusi in questo gruppo ad alto rischio gli eventuali contaminati dal respiro del malato, attraverso baci o uso comune di posate e spazzolini da denti. Di norma viene trattato anche il personale sanitario che abbia eseguito sul paziente particolari manovre, come intubazioni tracheali o tentativi di rianimazione. Più dibattuta è l'opportunità di trattare i contatti scolastici perché l'indicazione della profilassi antibiotica non è sostenuta da prove di efficacia ma solo da osservazioni di presunta riduzione del rischio di contaminazione. Per questo la precauzione scatta per personale e bambini delle scuole materne mentre per le superiori prevalgono le valutazioni sul tipo di contatto intercorso. I vaccini anti- meningococco attualmente disponibili danno una copertura protettiva parziale in quanto contengono solo il sierotipo C, responsabile di episodi epidemici. In Italia, dove si registrano prevalentemente casi sporadici, con isolamento del sierotipo B non presente nel vaccino, non esistono a tutt'oggi giustificazioni scientifiche valide per avviare campagne vaccinali di massa. Ovviamente diverso è il caso di coloro che si recano in paesi dove la malattia meningococcica è largamente diffusa o di persone che sono state a stretto contatto con malati nel corso di epidemie dovute a sierogruppi di meningococco, presenti nel vaccino (O,C,Y,W 135). Mario Valpreda ____________________________________________________________ La Stampa 26 Feb. 03 ANSIA E DEPRESSIONE, COMPAGNI PER UN ITALIANO SU TRE RICERCA AL CONGRESSO DELLA SOCIETA´ DI PSICOPATOLOGIA: SPESSO QUESTI DISTURBI NON RICEVONO TRATTAMENTI ADEGUATI ROMA Ansia e depressione, un problema in crescita: almeno un italiano su tre (pari al 33,8 per cento) ne soffre. Il dato sale al 44,9 per cento, se si prendono in cosiderazione anche coloro che in passato hanno accusato questi disturbi almeno una volta nella vita. È quanto è emerso dall'indagine epidemiologica condotta su oltre 2 mila pazienti, di età compresa tra i 30 e i 40 anni, esaminati da 143 medici di base in tutta Italia. I dati preliminari della ricerca sono presentati nel convegno della Società italiana di Psicopatologia che si è aperto ieri a Roma con l´intervento del professor Paolo Pancheri sul tema "Dal disturbo alla malattia", e con la segreteria scientifica di Amalia Marchini, psicoanalista freudiana. Lo studio sulle depressioni, coordinato dallo psichiatra Marcello Nardini, dell'università di Bari, è stato condotto dal Gruppo collaborativo italiano per la ricerca interdisciplinare nella medicina generale (Epimed) e dall'Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa. I dati completi, ha spiegato Nardini, saranno disponibili soltanto a fine anno, ma sono già sufficienti per dimostrare che "la diffusione della depressione tra gli italiani è molto più ampia di quanto si creda". Così come, a quanto pare, sono più comuni di quanto emerga i disturbi legati all'ansia e al comportamento alimentare. I primi sono senz´altro i più diffusi tra gli italiani: secondo l'indagine, infatti, ne soffre o ne ha sofferto in passato almeno una persona su quattro (25,9%); molto comuni anche quelli che vengono definiti disturbi dell'umore (23,1%). Seguono a grande distanza i disordini del comportamento alimentare (4,1%) e l´alcolismo (2,5%). Depressione e ansia, inoltre, colpiscono con maggiore frequenza le donne rispetto agli uomini: sono depresse oltre il 28 per cento contro il 16,7 per cento degli uomini, e manifesta disturbi di ansia fra il 30 e il 40 per cento della popolazione femminile contro il 26-27 per cento di quella maschile, secondo quanto è emerso mettendo a confronto la diagnosi fatta spontaneamente dai medici di base con quella eseguita grazie all´aiuto di un'intervista strutturata. Soprattutto nelle donne le spie di questi disturbi psichici sono molto spesso malesseri che si materializzano nel corpo, come la difficoltà di digestione, un senso di costrizione al torace, malattie cardiocircolatorie e ipertensione. Tra coloro che hanno avuto la diagnosi del disturbo psichico, il 15 per cento assume almeno uno psicofarmaco. E tra questi pazienti uno su due (53 per cento) fa uso di benzodiazepine, che da anni sono i farmaci più diffusi per trattare chimicamente i sintomi di ansia e insonnia; gli antidepressivi sono, invece, utilizzati complessivamente dal 38 per cento dei pazienti (i più diffusi sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina-Ssri, ne fa uso il 22 per cento, mentre il 16 per cento utilizza altri antidepressivi). Il 4 per cento utilizza stabilizzanti dell'umore e il 4 per cento, infine, antipsicotici. Secondo Nardini, questi disturbi "non ricevono un trattamento adeguato, non solo farmacologico". Il problema, ha osservato, è "la necessità di mettere a punto linee guida per il trattamento della depressione e dell'ansia nella medicina generale". L'altro grande problema è la diagnosi, ha aggiunto lo psichiatra. La depressione maggiore, ad esempio, è sottostimata. "Spesso - ha riferito - è già presente in alcuni pazienti che si rivolgono al medico di medicina generale, ma non viene riconosciuta, oppure il medico non ritiene necessario ricorrere all'intervento dello specialista". Accade allora che vengano consigliati interventi non adeguati, come la prescrizione di farmaci a dose inferiori a quelle che sarebbero necessarie, la prescrizione di farmaci non opportuni, fino alla prescrizione di ricostituenti, oppure semplicemente riposo o vacanze. Con il solo risultato di rimandare un intervento mirato e, quindi, la guarigione. r.r.